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Il Paradiso del Diavolo

Posted in Business is Business, Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 10 novembre 2012 by Sendivogius

“Certe cose sono sconvolgenti e inaccettabili alla comune coscienza. La comune coscienza è inadattabile alle atrocità. E ci sarà pure qualche ragione. Forse perché essa, in realtà, le vuole.
[…] Certe cose atroci architettate o comunque volute dal Potere (quello reale non quello sia pur fittiziamente democratico) sono comunissime nella storia: dico ‘comunissime’: eppure alla comune coscienza paiono sempre eccezionali e incredibili.”

  Pier Paolo Pasolini
  (20/12/1969)

Giocando con la sua pessima fama (costruita ad arte), Aleister Crowley, che dell’argomento se ne intendeva, riteneva che il Male fosse qualcosa di immanente nell’indole umana e che in quanto tale andasse accettato come una componente essenziale della nostra realtà. Negarne l’esistenza ci renderebbe completamente impreparati ad affrontare le sue manifestazioni, conferendo al Male una natura del tutto eccezionale e dunque non gestibile. In definitiva, se ne decreterebbe il trionfo come si trattasse di un fenomeno casuale e del tutto imprevedibile.
La vera essenza del male risiede innanzitutto nell’inconsapevolezza di chi lo compie, nella sostanziale incapacità di comprendere la gravità delle proprie azioni. Il male può essere banale nella mediocrità personale di coloro che se ne fanno promotori, nella meccanica omicida dei suoi volenterosi carnefici. E Hannah Arendt, proprio in riferimento all’insignificante ordinarietà di Adolf Eichmann, sconvolta dalla ‘normalità’ di un uomo qualunque, parlò di assoluta banalità del male. Tuttavia, le forme attraverso le quali il male si esplica e si incarna nella realtà trascendono sempre la banalità dei suoi meri esecutori, giacché la vastità dell’orrore può essere abnorme nell’apparente semplicità della sua riproposizione, seppur realizzata in modalità differenti.
Ovunque vi sia sfruttamento, miseria, ignoranza, lì germoglia il seme del male, che prospera nella disuguaglianza attraverso le discriminazioni e cresce in parallelo all’avidità dei singoli. Sulla questione, le atrocità dell’imperialismo ed i genocidi del XX secolo non ci hanno risparmiato nulla. Eppure, vi sono casi che a volte sembrano sfuggire ad una catalogazione sistemica…

I Giardini del Male
 Ad un osservatore esterno, le vicende dell’America Latina risultano come pervase da una vena di follia irrazionale, impastata di violenza primordiale e incanalata nelle forme di una colonizzazione feroce, di sfruttamento selvaggio, nell’ambito di una sorta di brutale neo-feudalesimo su base agraria e capitalismo primitivo. Poco investigato e quasi misconosciuto nell’ambito della storiografia europea, lo sterminio delle popolazioni indigene agli inizi del ‘900 costituisce uno di quegli esempi estremi, talmente oltre i canoni consolidati, che resta a tutt’oggi difficile da comprendere appieno nella sua portata, in certo qual modo ‘anomala’.
Nello specifico, a circa 100 anni dalla sua pubblicazione, vale la pena di (ri)scoprire il rapporto (conosciuto come “Blue Book”) che sir Roger Casement, console generale britannico a Rio de Janeiro, presentò al Parlamento inglese, denunciando lo sfruttamento indiscriminato e la riduzione in schiavitù degli indios del bacino amazzonico, per l’estrazione del caucciù nel distretto del Putumayo: un vasto territorio al confine meridionale della Colombia, tra Equador, Perù, e Brasile.
Nello specifico, gli orrori del Putumayo sono difficili da spiegare e ‘giustificare’, secondo le componenti classiche di un’analisi di genere: razzismo, sfruttamento e capitalismo selvaggio, alienazione sociale e abbrutimento individuale, arretratezza culturale, autoritarismo statale…
Le violenze venivano compiute per conto e nell’interesse della Compagnia privata che deteneva il monopolio dell’estrazione del caucciù nella regione. Si trattava di una società per azioni a partecipazione anglo-peruviana e quotata nella borsa londinese. Ma fu una commissione d’inchiesta britannica, composta da fieri esponenti della borghesia liberale e di saldi principi conservatori, con l’appoggio del governo peruviano e del più grande impero coloniale del pianeta, a circostanziare i crimini con una serie di indagini dettagliate.
Si poteva parlare sicuramente di pregiudizio razziale da parte degli agenti bianchi della compagnia, ma era spesso l’esercito privato della multinazionale a praticare materialmente gli orrori denunciati. Si trattava di una milizia indigena, reclutata tra le stesse popolazioni asservite in stato di schiavitù. Provenivano dagli stessi villaggi, parlavano la stessa lingua, avevano relazioni parentali comuni e dunque lo zelo persecutorio non poteva essere il frutto di odi tribali o divisioni etniche.
Alcuni capi-posto, incriminati per i delitti, sono meticci di sangue misto e si avvalgono di aiutanti da campo reclutati tra gli abitanti delle Isole Barbados, ovvero discendenti dagli schiavi negri delle piantagioni da zucchero, che si rendono complici di violenze inaudite.
Tra i funzionari in loco della compagnia ci sono peruviani, boliviani, barbadoregni, ma anche irlandesi e statunitensi… È il caso di tal John Brown, che porta il nome del famosissimo attivista anti-schiavista; proviene da Chicago e lascia gli USA, per cercare fortuna in America Latina e sfuggire alle discriminazioni razziali. Si guadagnerà il soprannome di “capataz de los verdugos” (il capo dei boia).
Si può parlare di ignoranza e analfabetismo, ma le atrocità peggiori vengono compiute da uno degli agenti più colti e istruiti, presente nel Putumayo.
Nessuna variabile è prevalente e tutte sembrano decadere in una bolgia infernale, dove il male non ha colore né appartenenze particolari.

L’Inferno verde
 Costituito in massima parte da selve tropicali, il Putumayo è una giungla apparentemente inestricabile e semi-sconosciuta fin quasi la fine del XIX secolo, quando il francese Jules Crevaux esplorò la regione, attraversando in barca l’omonimo fiume e finire trucidato nelle terre estreme del Chaco bolivano.
Secondo un clichè assai diffuso, gli indios sono considerati dei selvaggi amorali. Pigri e bugiardi, sono per natura inclini al tradimento. E dunque di loro non c’è assolutamente da fidarsi. Non per niente, avventurieri ed esploratori si fanno largo a colpi di machete, dispensando fucilate.
Soprattutto, come gli indigeni di ogni latitudine, siano essi africani o aborigeni australiani, che non abbiano la fortuna di essere bianchi e cristiani, sono tutti e indistintamente dediti al cannibalismo per antonomasia. Dalle Americhe al Borneo, passando per la Cina. E questo li pone all’apice della barbarie, escludendoli dallo stesso genere umano. Dinanzi a tanta belluina ferocia, nessuna violenza potrebbe mai essere peggiore. E dunque ogni atto contro i popoli nativi è lecito e funzionale alla loro ‘civilizzazione’. Pertanto, le brutalità e la schiavizzazione non si configurano mai come violenze, bensì come una forma di ‘avviamento al lavoro’…

La Case commerciali
 Sul finire del XIX secolo, c’è un nuovo business che sembra garantire guadagni immediati e illimitati per pionieri dai pochi scrupoli e volontà di ferro, che abbiano il coraggio di avventurarsi nel cuore delle foreste vergini, con l’intenzione di stabilirvi imprese commerciali.
È il commercio del caucciù; o meglio, della gomma grezza di origine vegetale, ricavata dal lattice naturale della pianta, che serve per la realizzazione di pneumatici, su richiesta della nascente industria automobilista, e soprattutto per le ruote delle biciclette. Tra le infinite peculiarità della gomma, vi sono le sue proprietà elastiche, la resistenza, e l’assoluta impermeabilità all’aria e all’acqua. Caratteristiche che rendevano la gomma di gran lunga preferibile al cuoio.
Con milioni di alberi per la gomma, distribuiti su un territorio che sembra immenso, la foresta amazzonica è il nuovo Eldorado per i conquistadores del lattice prodigioso.
Nelle selve dell’Alta Amazzonia, e quindi del Putumayo, si riversa una massa di avventurieri, e di disperati, attratti dal miraggio di una ricchezza più presunta che facile. Sono uomini che si trovano ad operare in condizioni proibitive per un occidentale, immersi in una natura incontaminata ed ostile, per territori semisconosciuti e al di fuori da ogni legge e organizzazione civile, su confini spesso incerti e contesi dai nascenti stati sudamericani, per fondare le loro “case commerciali”.
Li chiamano caucheros. Le regole si dettano con la canna dei fucili e l’arbitrio è la regola.
Tristemente famoso diventerà un certo Hernandez: un gigantesco mulatto colombiano che, insieme ad un pugno di tagliagole evasi di galera come lui, si crea un suo feudo nel cuore della giungla con un migliaio di schiavi indigeni ed un harem di indie, prima di essere ucciso a pistolettate per una disputa di potere all’interno della banda.
I colonizzatori più intraprendenti costituiscono veri e propri regni personali, difesi da eserciti privati con migliaia di armati. A loro i deboli governi centrali, demandano praticamente tutto, considerando i loro avamposti commerciali alla stregua di presidi nazionali e militari. Si tratta di una sorta di feudalesimo baronale di Stato, legittimato da concessioni esclusive da parte di compagini statali che hanno solo un controllo nominale del territorio.
Centri periferici come Manaus in Brasile ed Iquitos in Perù si trasformano nelle capitali effimere di giganteschi imperi commerciali (come la Casa Suarez o la Vaca Diez), che hanno nel commercio del caucciù la loro ragione di esistere.
 Tra il 1890 ed il 1897 (anno della sua morte), diventa leggendario il potere del peruviano Carlos Fermín Fitzcarrald López, soprannominato “il Re del caucciù”. Nella sua opera instancabile, Fitzcarrald colonizza territori selvaggi, crea porti fluviali, fonda centri abitati, organizza le comunicazioni costruendo strade nella giungla (pianificherà persino una ferrovia) e realizza dal nulla una fitta rette di scambi commerciali. Per la bisogna impiega migliaia di indios alle sue dipendenze e molti lo venerano come una sorta di dio vivente. Ma non esita a scatenare le famigerate correrias (scorriere armate e spedizioni punitive) contro le tribù ostili alla sua espansione, o ai danni degli insediamenti dei coloni colombiani e brasiliani. All’apice del proprio potere personale, Fitzcarraldo pensa addirittura di organizzare i suoi domini in una sorta di repubblica indipendente, federata col Perù, e fondata su una sorta di regime assoluto ma paternalistico. Muore ad appena 35 anni, affogando durante una delle sue missioni esplorative. A modo suo, Fitzcarrald è un idealista, ammantato dall’alone del patriottismo, e anche un’eccezione in un mondo di pescecani che non guarda oltre il proprio profitto ed il mero arricchimento personale.
Le dispute territoriali tra colombiani e peruviani per il controllo del Putumayo sfociano spesso in azioni di guerra aperta, dove ad avere la peggio sono spesso i coloni provenienti dalla Colombia, alla quale formalmente la regione appartiene. Nel primo decennio del ‘900, da tali rivalità saprà trarre vantaggio Julio César Arana del Aguila, che si presenterà come tutore degli interessi nazionali del Perù e approfitterà degli appoggi politici, per costruire la sua personale impresa estrattiva e commerciale, realizzando una sorta di regno del terrore basato sulla tortura.

Julio César Arana del Aguila
 A suo modo, J.C.Arana è sicuramente un self-made-man e come tale non manca di ambizioni politiche, coerentemente col suo nome roboante (Giulio Cesare). Come ogni gangster che si rispetti, non avrebbe esitato a definirsi un “uomo d’affari”; uno di quelli che mentre ti punta la pistola alla tempia, accingendosi a premere il grilletto, ti sussurra serafico: “Senza rancori, sono soltanto affari”. Probabilmente, come un boss mafioso o un narcotrafficante delle Zetas messicane, si riteneva un imprenditore di successo.
Dalle ambizioni smisurate e perfidamente furbo, non era però un genio del male e di sicuro fu un uomo tutt’altro che banale. Se gli difettarono gli studi, non gli mancò certo l’intelligenza.
Originario di Rioja, un sobborgo fluviale nella selva di Moyabamba, dove nasce nel 1864, il giovane Arana si dedica all’onesto commercio di famiglia, fabbricando e vendendo cappelli (i famosi “panama”). Non privo di una notevole dose di intraprendenza, a soli 16 anni si trasferisce nella città cauchera di Iquitos e da lì si spinge nelle profondità del Putumayo, risalendo i fiumi dell’Alta Amazzonia, per rifornire i raccoglitori di caucciù con mercanzie e generi di prima necessità che Arana baratta in cambio di partite di gomma, da rivendere ovviamente a prezzi maggiorati ad Iquitos.
Nel 1888 mette su famiglia con Eleonora Zumaeta e costituisce il fulcro della sua impresa familiare, interamente fondata su vincoli di sangue, associando i suoi fratelli ed il cognato Pablo. Ma l’instancabile Arana non è semplicemente un grossista. Accumula sufficiente denaro per mettere su un piccolo emporio nel pieno della giungla che funziona come centro di scambio, sulle rive del fiume Yurimaguas per ottimizzare gli approvvigionamenti per via fluviale. Costituita la sua ‘casa commerciale’, Arana & family fanno giungere dal vicino Brasile gruppi di miserabili, facendo balenare loro la prospettiva di lauti guadagni. I coloni, prima di essere spediti nella giungla a raccogliere caucciù, vengono riforniti di provviste per tre mesi e di tutto il materiale indispensabile per la raccolta. Naturalmente a prezzi ipermaggiorati. Le partite di caucciù avrebbero dovuto estinguere il debito dei raccoglitori. Peccato che Arana corrisponda per ogni kg di gomma grezza un prezzo di gran lunga inferiore al valore di mercato, per un corrispettivo quasi mai sufficiente a saldare il debito iniziale, che viene dunque ricaricato con interessi usurai e con una nuova dotazione trimestrale che si somma al debito originario. In questo modo, il colono si trova indebitato a vita con gli Arana, in una situazione di semischiavitù. Il sistema messo in piedi da Arana è un classico dello sfruttamento amazzonico e si basa sull’accumulo di debiti perenni, impossibili da estinguere. La pratica è universalmente diffusa tra tutti i grandi ‘imprenditori’ della gomma.
Con scarso senso del ridicolo, Julio C. Arana si fa chiamare l’Abele dell’Amazzonia. Evidentemente si ritiene un benefattore.
Deciso ad estendere le sue attività, insieme al cognato Pablito si spinge oltre i confini della Colombia penetrando nel cuore del Putumayo.
Nel 1896, organizza una propria linea di trasporti a vapore per trasportare il caucciù nella città peruviana di Iquitos. Quindi, inizia ad acquisire con le buone, e più spesso con le cattive, nuove terre per la raccolta del caucciù. Soprattutto entra in contatto con le imprese commerciali dei colombiani, operanti nel Putumayo, dai quali apprende molti trucchi del mestiere…
Nel 1899 scopre che una delle più floride compagnie estrattive della regione, l’impresa colombiana dei fratelli Calderòn, ha avviato al lavoro coatto nelle sue piantagioni circa duemila indigeni, rastrellati durante le correrias tra le pacifiche tribù degli Huitoto, degli Andoque, dei Bora ed i Nonuya, e che ora detiene in condizione servile.
Deciso a migliorare l’estrazione e la lavorazione della materia, J.C.Arana ha un lampo di genio e scopre che può abbattere i costi di produzione… Perché impiegare gruppi di immigrati straccioni, scarsamente produttivi, non abituati al clima, che si ammalano facilmente e muoiono di malaria prima di saldare i debiti contratti con la Casa Arana? E che se non muoiono di malaria, si attaccano ad una bottiglia di acquavite diventando totalmente inutili al lavoro? Perché confidare in gente totalmente inaffidabile, che per disperazione può tirarti addosso una fucilata nel cuore della notte, quando si può disporre di un potenziale bacino di schiavi a costo zero?
Considerati meno che animali, gli indios del Putumayo costituiscono infatti una fonte di manodopera illimitata; possono diventare all’occorrenza oggetti di consumo sessuale e giocattoli di carne per i sadici passatempi dei guardiani delle piantagioni.
Al principio del nuovo secolo, nel 1900, entra in società col colombiano Benjamin Larrañaga e suo fratello Rafael, tra i maggiori possidenti della zona. I fratelli Larrañaga hanno incrementato le loro proprietà eliminando, fisicamente, la concorrenza e convincendo i più ragionevoli tra i loro connazionali a cedergli la terra a titolo gratuito. Naturalmente, la nuova Compagnia Larrañaga & Arana non perde occasione per incrementare i ranghi della propria manodopera indigena, ricorrendo all’ottimizzazione già praticata con successo dalla Casa rivale dei Calderòn.

Ora che Julio C. Arana è diventato uno stimato imprenditore, può finalmente fare ritorno ad Iquitos dove diventa subito un membro onorato dell’alta società. Julio Cesar è un uomo innamorato di sua moglie. Si distingue per i suoi costumi morigerati ed il tenore di vita austero, a tratti perfino ascetico. Si tiene lontano dai bordelli dei quali Iquitos abbonda; non apprezza la vita mondana e la sera va a letto presto. È un uomo colto, rispettabile, amante della lettura e delle buone maniere. Soprattutto, è generoso… l’Abele dell’Amazzonia supplisce infatti a tutte le carenze del governo di Lima: anticipa gli stipendi ai funzionari pubblici della città; paga i magistrati… paga gli ufficiali della polizia giudiziaria… provvede alle forniture delle guarnigione militare di Tarapaca e garantisce la regolarità delle paghe per la truppa.
Diventa presidente della locale Camera di Commercio e della giunta dipartimentale. È il Re Sole del Putumayo. A chi gli chiede ragione della sua intraprendenza risponde: “Qui lo Stato sono io”. Difficile dargli torto.
E infatti la guarnigione militare più che al governo peruviano risponde direttamente agli ordini di Julio Cesar Arana. Peraltro il governo centrale lo considera in tutto e per tutto il proprio emissario nella regione. Con l’inasprirsi dei rapporti tra Lima e Bogotà, insieme ai continui sconfinamenti delle truppe peruviane ed il blocco della navigazione fluviale ai danni dei colombiani, Arana approfitta subito dell’occasione per monopolizzare il commercio del caucciù ed eliminare tutti i suoi principali rivali. Fa assaltare i ranch dei colombiani con raid notturni. Taglieggia indiscriminatamente i piccoli raccoglitori. Chi non ‘collabora’ viene zavorrato e buttato nei fiumi. Requisisce proprietà, ricorrendo all’omicidio ed alla intimidazione sistematica, trovandosi a capo di possedimenti immensi.

Il Sistema perfetto
Nel 1904, Arana riorganizza gli asset proprietari della Compagnia. Il suo socio d’affari, Benjamin Larrañaga, muore stranamente avvelenato. Ed il figlio del defunto si affretta a cedere tutte le quote al solerte Julio Cesar che le acquista a prezzo stracciato.
Dal 1900 al 1906 la produzione di caucciù nelle terre degli Arana passa da circa 160 tonnellate a quasi 845.000 kg. La produzione è rimessa alla libera iniziativa degli agenti della compagnia, che dirigono sul posto le attività estrattive dei singoli distaccamenti: i capiposto ed i loro aiutanti vengono pagati a percentuale con una provvigione sulla quantità di gomma cumulata. Più lattice viene lavorato e spedito a Iquitos, più gli agenti di Arana guadagnano. Va da sé che i prezzi al kg continua a stabilirli Arana e le sue stime non sono sindacabili. Tutta l’attività di estrazione viene rimessa agli Indios, che non ricevono alcun compenso per il loro lavoro, se si eccettua qualche straccio per coprire le nudità e una ciotola di cereali ogni tanto.
In realtà si tratta di un gioco al ribasso dove, in proporzione, tutti ci rimettono e l’unico che guadagna è Arana che detiene saldamente il banco, senza rischiare nulla e con investimenti ridotti al minimo indispensabile.
La pressione costante sui raccoglitori è fondamentale per l’incremento della produttività, a tutto vantaggio degli sfruttatori. A dissuadere ogni tentativo di rivolta degli schiavi e vigilare sui possedimenti di Arana c’è un esercito privato di 1.500 mercenari armati di tutto punto.
Il sistema messo in piedi da Arana, con la sua efficienza criminale, è un franchising dell’orrore. L’organizzazione è in realtà semplice ed è già stata collaudato con successo da francesi e belgi nelle colonie africane del Congo.
La Compañia costruisce stazioni commerciali per lo stoccaggio della gomma grezza, provvedendo a tutte le fasi della produzione, dalla raccolta al trasporto.
Nella fattispecie, si tratta di una cinquantina di centri di raccolta, composti da poche baracche, totalmente autosufficienti ed a conduzione autonoma, con una rigida gerarchia di comando.
Ogni stazione ha il suo capoposto (jefe), con diritto di vita e di morte sui lavoranti; i suoi ‘caporali’ (capataz); la sua milizia etnica (muchachos); i suoi schiavi (flagelados).
I ‘capi’, provenienti un po’ dovunque, sembrano un battaglione di piccoli ‘Signor Kurtz’ già visti in “Cuore di tenebra” e spesso assomigliano ad un condensato di sadici psicopatici.
Sono affiancati da un piccolo esercito di aiutanti (capataz) tutto fare, che li coadiuvano come sorveglianti e capi-milizia. Sono in prevalenza dei miserabili reclutati per fame nelle Isole Barbados e scelti per la loro resistenza a condizioni climatiche estreme. Sono spesso gli esecutori materiali delle nefandezze peggiori. Chi non obbedisce ciecamente agli ordini dei capi, rischia di finire lui stesso al palo della tortura o di sparire nella foresta.
I muchachos sono giovani indios, inquadrati nell’esercito privato della Compagñia, Affiancano i capi ed i capataces nel controllo degli schiavi. Partecipano alle correrias per l’approvvigionamento di manodopera ed alla caccia dei fuggitivi.
Le punizioni corporali e la supervisione nei campi di lavoro viene poi affidata ai racionales: sono indios castiglianizzati, “civilizzati”, e fanno parte dei muchachos che affiancano i capataces.
È il sistema economico perfetto per rilanciare la crescita.

I Guardiani dell’Inferno
 Per incrementare la produzione e mantenere la disciplina, senza l’impaccio di inutili norme contrattuali o perniciose rivendicazioni sindacali, ogni responsabile della Casa Arana può decidere a proprio totale arbitrio, intraprendendo le azioni che ritiene più proficue all’incremento degli utili.
Tra i metodi (criminali), come documentato dalle successive inchieste e denunce, si distinguono in particolare una decina di centri di raccolta…
Il centro di La Chorrera (La Rapida) è il più grande e più produttivo dell’impero di Arana ed è anche soprannominata la “Colonia Indiana”, per l’enorme presenza di indios ridotti in schiavitù. A dirigere il centro, insieme al vice-amministratore Juan Tizon, c’è Victor Macedo: agente (e sicario) di assoluta fiducia di J.C.Arana.
La Chorrera gareggia in produzione con la stazione di El Encanto che prospera sotto l’illuminata amministrazione di Miguel Loaysa, a cui si deve l’invenzione del “Marchio di Arana”: 100 frustate per chi non raggiunge la quota prefissata di raccolto giornaliero, senza distinzione per uomini, donne e bambini. Se non si muore sotto le nerbate, si rimane marchiati a vita. E i sopravvissuti costituiscono un monito per tutti gli altri. Solitamente, i capataz ed i racionales impartiscono le scudisciate sulle natiche. Altre volte si prediligono braccia e schiena che nei casi più estremi vengono scarnificate dai colpi fino all’osso. Nel clima della giungla tropicale, le ferite spesso si infettano provocando la morte dei disgraziati.
In una bella giornata di Febbraio del 1903, Miguel Loaysa è ospite di Victor Macedo presso La Chorrera. È giorno di raccolta e circa 800 indios di etnia Ocaima sono giunti alla stazione per consegnare le balle di caucciù raccolto nella foresta. Le balle vengono quindi pesate e immagazzinate. E però c’è un problema: 25 indios non hanno raggiunto la quota obbligatoria di consegna. E dunque bisogna dare una lezione pubblica, per incentivare la produttività…
 I 25 disgraziati vengono avvolti con sacchi imbevuti di petrolio, dati alle fiamme, e lasciati correre per tutto il campo mentre bruciano vivi, tra le grandi risate dei manager in riunione che si divertono a finire i moribondi agonizzanti sul terreno a colpi di pistola.
Da notare che Macedo è un cholo, ovvero un meticcio di sangue indio.
L’abitudine di bruciare vivi gli indigeni è uno sport molto praticato e rientra tra i passatempi preferiti dei capi insediamento.
Nella stazione di Abisinia, condotta dal jefe Abelardo Aguero, gli indios Bora vengono solitamente appesi ai rami degli alberi con le braccia legate dietro la schiena ad ogni minima infrazione, controllati a vista dai capataz barbadoregni, che non avendo nient’altro da fare ogni tanto, poverini, si annoiano. Per ammazzare il tempo si divertono a tirare le gambe degli appesi, favorendo la disarticolazione degli arti superiori, mordendogli a sangue le cosce. Altre volte, Aguero ordina di accendere fuochi sotto gli appesi o cospargerli di benzina direttamente, divertendosi a guardarli mentre si contorcono in preda alla fiamme.
La pratica è molto apprezzata anche da Armando Normand, sovrintendente della stazione di Matanzas.
Per le punizioni più lievi si ricorre al ‘ceppo’: un cavalletto sul quale i rei venivano legati bocconi e lì lasciati immobilizzati per settimane, costretti a leccare il cibo da una ciotola.
Tanta severità da parte di Aguero è giustificata, giacché in passato c’era già stato un tentativo di rivolta che aveva creato parecchi problemi ai precedenti capiposto.
Ad Abisinia, uno dei luogotenenti di Arana, tal Bartolomé Zumaeta, aveva violentato la moglie di un capotribù Bora, il quale non aveva preso tanto bene l’affronto. Katenere, questo era il suo nome, di notte era penetrato nell’accampamento dei caucheros rubando loro i fucili e uccidendo lo stupratore. Avrebbe fatto meglio a sgozzarli tutti nel sonno… Infatti la Compagnia mette subito una taglia sul giovane capo indigeno, mentre si scatena una gigantesca caccia all’uomo che si protrasse per oltre due anni, finché una squadra di cacciatori non riuscì a catturare almeno la compagna di Katenere. Condotta al campo di Abisinia, la donna viene stuprata in pubblico da tutto il personale di guardia, compreso el jefe Vasquez, legata al ceppo della tortura, fustigata a sangue e lì lasciata senza acqua ne cibo per giorni. La donna non sarebbe infatti stata liberata, finché Katenere non si fosse consegnato alla ‘giustizia’. Cosa che regolarmente avvenne. Una volta costituitosi, Vasquez in persona cavò gli occhi a Katenere con un uncino di ferro, quindi lo legò al palo insieme alla moglie e diede fuoco ad entrambi.
In alternativa, secondo il capriccio del momento, gli indios potevano finire impiccati, impalati, crocifissi, affogati nei fiumi. Diversamente, gli indigeni vengono puniti col taglio delle orecchie, del naso, delle dita. Ma non era escluso il taglio delle mani o dei piedi; in tal caso i mutilati, ormai inutilizzabili, venivano cosparsi di kerosene e dati alle fiamme. Non era disdegnata l’evirazione…
A volte però si esagerava, come ebbe ad imparare a sue spese uno dei capi-posto, Miguel Flores, che nel 1907 ricevette una lettera di richiamo della Compagnia, per aver dilapidato con troppa facilità il capitale umano dell’impresa. Le uccisioni dovevano avvenire solo “in caso di necessità”. La risposta piccata di Flores non si era fatta attendere: «Protesto vivamente, perché in questi ultimi due mesi nel mio insediamento sono morti soltanto una quarantina di indios
 Abelardo Aguero ed il suo vice Augusto Jimenez ricevettero una multa per aver utilizzato i propri lavoranti come bersagli, in gare di tiro a segno per esercitare la mira. Non si poteva certo privare così l’impresa di preziosa manodopera schiava! E Julio C. Arana, l’Abele dell’Amazzonia, ci teneva a tutelare i suoi investimenti.
In virtù di tali precedenti, intorno al 1909 il 26enne Augusto Jimenez, un meticcio di sangue indio, verrà promosso a capo della stazione di Ultimo Retiro.
Jimenez ha preso il posto di Fidel Velarde e del suo vice Alfredo Mott, che nel frattempo hanno fatto carriera diventando responsabili rispettivamente delle stazioni di Occidente ed Atenas.
Durante la loro conduzione dell’insediamento di Ultimo Retiro, pare che una notte i due, completamente ubriachi, abbiano scommesso su chi avrebbe tagliato più in fretta un orecchio ad un indio huitoto legato al ceppo. Afferrati i machete, Velarde riesce a tagliare l’orecchio con un unico colpo. Alfredo Mott, che invece è ubriaco fradicio, manca il bersaglio ma in compenso centra in pieno il cranio dell’indio, aprendolo a metà.
Dalla sua stazione di Occidente, il buon Velarde (che già si era distinto al servizio di Macedo) si fa aiutare da un altro terzetto omicida: Manuel Torrio, Rodriguez e Acosta.
In fondo, non li si può troppo biasimare: si tratta di uomini abbrutiti dalla giungla, nati e cresciuti in contesti selvaggi…
Nella stazione di Matanzas si fa notare Armando Normand. Poco più che ventenne (è nato nel 1885), basso, minuto, brutto, è un boliviano di origini britanniche, che vanta un corso di studi a Londra, un diploma da contabile, e parla fluentemente l’inglese.
Sono pochi quelli che lavorano volentieri con Normand. Gli stessi capataces barbadoregni ne sono terrorizzati. L’intero insediamento è circondato da migliaia di ossa umane.
Una volta, il barbadoregno Augustus Walcott ebbe a sollevare alcune obiezioni, durante una delle punizioni pubbliche inferte da Normand: un indio che aveva tentato la fuga, era stato legato sospeso ad un palo, colpito a colpi di machete e quindi lasciato penzoloni a morire dissanguato. Walcott, commentò ad alta voce che non era quello il modo di ammazzare la gente (non è roba da cristiani questa!). In risposta, Armando Normand aveva fatto crocifiggere l’indisciplinato sottoposto, in ossequio alla devozione religiosa del nero capataz.
Se in seguito alle torture le ferite si infettano, rendendo gli indios inabili al lavoro, Normand li fa ammazzare a colpi di machete per risparmiare le pallottole.
Normand ha il discutibile pregio di riuscire a schifare perfino il resto della banda di allegri psicopatici al soldo della Casa Arana. Successivamente interrogati dalla Commissione Casament, i suoi assistenti lasceranno testimonianze allucinanti:

«Secondo il barbadiano Joshua Dyall, dalla sua personcina insignificante emanava una “forza maligna” che faceva tremare chi gli si accostasse e il suo sguardo, penetrante e glaciale, sembrava quello di una vipera. Dyall asseriva che non soltanto gli indios, ma anche i muchachos e persino gli stessi capataces si sentivano insicuri al suo fianco. Perché in qualunque momento Armando Normand poteva compiere o ordinare lui stesso un atto di ferocia raccapricciante, senza che si alterasse la sua indifferenza sdegnosa verso tutto ciò che lo circondava.
Normand gli aveva ordinato un giorno di assassinare cinque Andoques, puniti così per non aver consegnato le quote stabilite di caucciù. Dyall uccise i primi due a colpi di pistola, ma il capo ordinò che ai due successivi si schiacciasse prima i testicoli su una pietra usata per impastare manioca e li si finisse a bastonate. L’ultimo glielo fece strangolare con le sue mani. Durante tutta l’operazione rimase seduto su un tronco d’albero, fumando e osservando, senza che si alterasse l’espressione indolente della sua faccia rubiconda.
Un altro barbadiano, Seaford Greenwich, raccontò che lo spasso per i racionales dell’insediamento era l’abitudine del capo di mettere peperoncino tritato o intero nel sesso delle piccole concubine, per sentirle gridare dal bruciore.»

 “Il Sogno del Celta”
Mario Vargas Llosa
 Einaudi, 2011

Pare che questo fosse l’unico modo per eccitare il sadico Normand. Particolarmente temuti sono poi i suoi mastini, che non esita ad aizzare per un nonnulla contro i suoi lavoranti, facendoli sbranare vivi.
Nella stazione di Sur opera invece il buon Carlos Miranda, un allegro ciccione, molto spiritoso, di buone maniere e ottima educazione, purché non lo si faccia arrabbiare… Irritato da una vecchia indigena che incitava gli indios alla rivolta, Miranda la decapita con un solo colpo di machete; quindi se ne va in giro per l’accampamento mostrando il capo mozzo ai lavoranti terrorizzati, come una parodia di David e la testa di Golia.
Molto ambito era invece il servizio nell’insediamento di Entre Rìos, amministrato da Andrès O’Donnell, un irlandese che non lesinava la frusta ma che non amava le carneficine. O’Donnell si era creato un suo harem personale con una decina di concubine che lo seguivano ovunque. Ed era particolarmente apprezzato dai suoi subalterni.
Nell’insediamento di La Sabana, il capo José Inocente Fonseca ha adibito parte delle baracche in un serraglio di prostitute bambine dagli 8 ai 15 anni, per il suo uso e consumo personale.

Ovviamente, in tutti i casi, gli indigeni tenuti in cattività non sono considerati ‘schiavi’ ma “debitori” della Casa Arana. E pertanto non potranno essere liberati, finché non avranno saldato i debiti.
Per il lavoro svolto, la Compagnia non corrisponde salari. E del resto gli indios non attribuiscono alcun valore al denaro. Ad ogni lavorante indigeno, rastrellato nelle correrias, viene fornito il minimo indispensabile per la raccolta del caucciù. Le dotazioni vengono prese dai magazzini degli insediamenti e addebitati agli indigeni a valore decuplicato, che dovranno scontare alla consegna del prodotto. Quindi i raccoglitori vengono avviati al lavoro nella foresta, dove restano generalmente una quindicina di giorni prima di tornare con il lattice raccolto. Per evitare fughe, mogli e figli vengono trattenuti nel campo come ostaggi. I capi ed il personale della compagnia ne dispongono liberamente, utilizzandoli per servizi domestici o come schiave sessuali (dai 6 anni in su tutto va bene). Al ritorno dei raccoglitori, il caucciù veniva pesato, solitamente con bilance truccate. Se nell’arco di tre mesi non si raggiungevano i 30 kg, venivano inferte le punizioni già viste che andavano dalla fustigazione, alle mutilazioni, all’omicidio. I cadaveri non venivano mai sepolti, ma abbandonati nei dintorni a mo’ di monito.
Agli indios erano poi richieste tutta una serie di corvees supplementari che andavano dalla costruzioni delle baracche alla riparazione dei tetti, dalla pulizia dei sentieri al carico e scarico delle merci, fino all’affumicamento ed impasto del caucciù, nonché alla coltivazione degli orti per gli approvvigionamenti di cibo.
Quando non sono impegnati nelle loro scorrerie a caccia di nuovi schiavi, nelle torture, nelle punizioni, negli stupri o a litigarsi le concubine a colpi di coltello, i miliziani privati della Compagnia passano il tempo ad attaccare i trasporti dei colombiani o saccheggiare le loro proprietà, scambiandosi fucilate con l’esercito regolare di Bogotà. La cosa procura parecchi blasoni patriottici al bravo Julio Cesar Arana che nel frattempo è divenuto una delle persone più influenti del Perù.

Il Finanziere
 Diventato ormai affermato imprenditore di un così rispettabile commercio, Julio C. Arana, l’Abele dell’Amazzonia, amplia le sue vedute e decide di fare il grande salto in avanti, approdando in Borsa…
Nel 1903 apre una succursale della sua Casa commerciale a Manaus in Brasile. Quindi crea filiali a Londra e New York, per meglio accreditarsi sui mercati internazionali.
Nel 1907 istituisce la “Peruvian Amazon Rubber Company”, con capitali misti di investitori in prevalenza anglo-peruviani per un milione di sterline, e quotata alla City londinese.
Per la bisogna ha acceso un credito di 60.000 sterline inglesi con la filiale londinese della Banca del Messico, non prima di ipotecare tutte le proprietà immobiliari ed i suoi latifondi a nome della moglie Emanuelita. Né manca di far falsificare i bilianci societari da revisori contabili compiacenti. In questo modo, in caso di fallimento, eventuali azionisti e creditori non potranno rivalersi di un solo centesimo sulle immense ricchezze di Arana che però può ora drenare finanziamenti illimitati dal bel mondo della finanza anglosassone.
L’operazione di capitalizzazione è affidata ad Henry M. Read, gerente del ramo londinese della Banca del Messico. Ma nella nuova compagnia ci sono alcuni tra i più ricchi investitori dell’epoca: John Russell Gubbins, investitore particolarmente ammanigliato col governo peruviano; T.J.Medina, tra gli uomini più ricchi del Perù; il barone De Souza-Deiro; sir John Lister Kaye
Julio C. Arana non sa che in caso di insuccesso possono diventare nemici potenti.

Le prime denunce: Benjamin Saldaña Rocca
 Da che mondo è mondo, potenti e politicanti amano la stampa, fintanto che tesse le loro lodi e scodinzola ai loro piedi come un cagnolino addomesticati. In caso contrario, c’è sempre una legge bavaglio e un’intimidazione pronta, per azzittire giornalisti troppo impertinenti…
Nella città di Iquitos, che oramai è diventata un mandamento personale del boss Arana, c’è qualcuno che, nonostante tutto, non si lascia comprare né è disposto ai compromessi.
Benjamin Saldaña Rocca è un giornalista, che non ha bisogno di essere iscritto ad albi per scrivere, ed editore unico di due periodici locali: “La Felpa” e “La Sanciòn”. Sono poco più che giornalini, perennemente a corto di fondi, con tiratura settimanale e tutt’altro che regolare. Gli boicottano la distribuzione, gli sequestrano le copie dei giornali, gli bruciano la tipografia, lo minacciano di morte, gli sparano addosso e rimane zoppo, ma Rocca non molla. È una di quelle rare persone, per le quali i principi vengono assai prima del soldo. Rocca discende da una famiglia di ebrei sefarditi. Contro di lui, la Casa Arana organizza una infame campagna anti-semita.
Il 09/08/1907 Rocca presenta un esposto pubblico alla magistratura di Iquitos. È il suo coraggioso J’Accuse nel quale denuncia con dovizia di informazioni i crimini dei bravacci di Arana, facendo nomi e cognomi dei carnefici.
Su ‘La Felpa’ del 29/12/1907 descrive i sistemi truffaldini utilizzati dagli Arana. È il suo ultimo atto: in una notte al principio del 1908 Saldaña Rocca scompare da Iquitos. Alcuni testimoni vedono un uomo che gli assomiglia, col viso tumefatto che viene trascinato via da un gruppo di uomini, su una barca pronta a salpare sul fiume. Nessuno lo rivedrà più, né le sedicenti autorità si daranno mai la pena di appurarne la sorte.

El Gringo: Walter Hardenburg
 J.C.Arana sembra intoccabile e probabilmente si reputava tale… Ma in tutte le storie c’è sempre l’incognita non prevista che fa saltare i giochi, il granellino di sabbia che inceppa un ingranaggio che sembrava perfetto.
Il guastafeste si chiama Walter Ernest Hardenburg. È un ragazzone yankee venuto in Sud America a far fortuna. E come a volte capita di riscontrare in certi statunitensi, è anche un inguaribile idealista; una di quelle teste dure che fa delle questioni di principio una missione personale.
W.E.Hardenburg è un ingegnere ferroviario. O almeno così dice lui. Sicuramente è un operaio specializzato che ha fiutato l’occasione della vita… Per ottimizzare il trasporto del caucciù, come del caffè, e rendere più rapidi i collegamenti tra i centri amazzonici in espansione, il governo colombiano sta pianificando la costruzione di migliaia di chilometri di ferrovia. Pertanto, il personale esperto è richiestissimo e ottimamente pagato. Alla fine del 1907, dopo aver lavorato in Colombia, il 26enne Hardenburg, insieme ad un gruppo di avventurieri come lui, decide di inoltrarsi nelle profondità dell’Amazzonia, attraversare i territori della produzione gommifera nel Putumayo e raggiungere la città di Madeira in Brasile, per un nuovo ingaggio come tecnico ferroviario. Durante il suo viaggio nel Putumayo, Hardenburg viene ospitato in diverse tenute di caucheros colombiani, che lo informano con dovizie di particolari sui continui abusi e sulle violenze degli uomini della Peruvian Amazon Co. di Arana, che peraltro Hardenburg ha modo di sperimentare personalmente, con sequestri di persona e requisizioni forzose.
Lo stesso Hardenburg verrà sequestrato dagli uomini di Miguel Loayza e trattenuto come ‘ospite’ nella stazione di El Incanto. Durante il suo soggiorno coatto, avrà modo di vedere coi suoi occhi i metodi di lavoro utilizzati dalla Casa Arana, avendo occasione di visitare anche altre stazioni come la famigerata Chorrera. Ne rimarrà talmente sconvolto, da raccogliere le sue esperienze in un’opera dal titolo evocativo: “Putumayo, il Paradiso del Diavolo. Viaggi nella regione amazzonica del Perù e un resoconto sulle atrocità contro gli indigeni” (Boston, 1912).
Nel 1908, una volta libero, Hardenburg ci mette quasi un anno per mettere insieme i soldi, raccogliere ulteriori prove, riuscire a raggiungere Londra dove la Peruvian Amazon Co. ha la sua sede, e denunciare ciò che ha visto.
Nel 1909 il periodico londinese “Truth” pubblica un lungo articolo (“The Devil’s Paradise”) con le testimonianze di Hardenburg:

«Gli uomini della Compagñia tagliavano a pezzi gli indios coi machete e schiacciavano le cervella dei bambini piccoli lanciandoli contro gli alberi o i muri. I vecchi venivano ammazzati quando non potevano più lavorare, e per divertirsi, i funzionari della compagnia esercitavano la loro perizia di tiratori, utilizzando gli indios come bersaglio. In occasioni speciali, come il sabato di pasqua, sabato di gloria, li ammazzavano in gruppo oppure, di preferenza, davano loro fuoco col cherosene, per godere della loro agonia. […] Gli agenti della compagnia obbligano i pacifici indios del Putumayo a lavorare giorno e notte, senza il minimo riposo, salvo il cibo necessario per mantenerli in vita. Rubano i loro beni, le loro mogli, i loro figli.»

 Il reportage pubblicato dal “Truth”, fece inorridire il pubblico inglese, il quale trovò assolutamente scandaloso che simili fatti venissero compiuti da una società partecipata con capitali britannici e con una dirigenza quasi totalmente inglese. Le denunce di Hardenburg ebbero un incredibile eco nell’opinione pubblica della Gran Bretagna, approdando in Parlamento che pressato dalla blasonata “Società contro la schiavitù” decise di costituire una commissione d’inchiesta da avviare in Perù, in considerazione del fatto che si trattava pur sempre di una compagnia britannica con dirigenza e azionisti inglesi.
Per l’impero di Julio Cesar Arana si avvicinava il principio della fine….

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