TEATRINI

Al principio degli anni ’90, lo scrittore Milan Kundera ebbe a dirne una buona quando, giocando sul significato di imagologia, strappò il neologismo alle fumose stanze della letteratura comparata, per applicare il termine nella definizione della nuova civiltà delle immagini, dominata dai sondaggi di opinione e dai meccanismi pubblicitari, segnando un punto di svolta:

«Le ideologie facevano parte della storia, mentre il domino della imagologia comincia là dove la storia finisce.
[…] Gli imagologhi creano sistemi di ideali e anti-ideali, sistemi che hanno breve durata e ognuno dei quali viene facilmente sostituito da un altro, ma che influenzano il nostro comportamento, le nostre opinioni politiche e il nostro gusto estetico
 (“L’Immortalità. Adelphi, 1990)

Secondo tale prospettiva, il sistema logico delle idee lascia il passo ad una “serie di immagini e di slogan suggestivi”, tramite la semplificazione estrema dei concetti.
Non per niente il termine, reinterpretato da Kundera, è strettamente connesso alla propaganda politica ed al mondo della pubblicità, influenzando convinzioni e tendenze:

«Usano non più di sessanta parole e si esprimono con frasi che non ne contengono mai più di quattro. I loro discorsi si basano su due o tre termini tecnici, ed esprimono uno al massimo due pensieri totalmente primitivi. Non provano la minima vergogna di se stessi e non hanno nessun complesso di inferiorità. Proprio in questo sta la prova del loro potere
 (“L’Immortalità”. Adelphi, 1990)

Il giudizio è interscambiabile e può essere applicato tanto ai pubblicitari, quanto ai politicanti di ogni colore. D’altronde, che la “politica” fosse sempre più simile ad una merce scadente da piazzare all’elettore-cliente da parte del politico-venditore, era una tendenza già evidente da tempo.
Smarrito ogni ideale insieme al crollo delle ideologie (tipico caso in cui il bambino viene buttato via insieme all’acqua sporca), la merce in offerta rischia di diventare avariata nella realtà sempre più rattrappita di un presente senza prospettive.

Svuotata di senso, nella perdita di sostanza, rimane dunque la ‘forma’ estemporaneizzata nella duttilità delle interpretazioni personali, sui palcoscenici variabili dell’interazione politica, intesa soprattutto come recita teatrale nella rotazione costante di siparietti a soggetto.
In assenza di specifiche competenze, nell’incapacità di programmare il futuro e di gestire il presente, non è un caso che il politico professionista, chiuso nella sua auto-referenzialità narcisistica, sia equiparabile ad un attore consumato che calca le scene, conquistando il pubblico con grandi rappresentazioni immaginifiche, suscitando e plasmando le emozioni degli spettatori, attraverso una finzione condivisa in sostituzione del reale. Ciò che conta è la realtà percepita e non quella effettiva, comunque reinterpretabile a seconda delle necessità cogenti nell’impellenza dell’immediato. Un professionista della politica, come il suo omologo teatrale, fonda il proprio successo sulla straordinarietà dell’interpretazione nell’eccezionalità del momento. Le situazioni ordinarie non sono infatti a loro congeniali. Senza effetti speciali, la recita sarebbe scadente in tutta la sua evidenza e il pubblico diserterebbe lo spettacolo, prendendo finalmente atto della mediocrità degli attori.
L’analogia delle due figure (attore e politico), insieme all’importanza della recita come prassi fondamentale dell’azione politica, costituiscono un tema ricorrente del pensiero critico…
Ben consapevole delle anomalie italiane, destinate a ripetersi nelle storia come in un ciclo vichiano, il grande filosofo libertario Camillo Berneri negli anni ’30 elaborò una descrizione calzante del fenomeno, destinata a sopravvivere al destinatario originario.
La lucidità analitica di Berneri è unica; l’eterodossia dei suoi scritti, nei quali si faceva beffe con estrema intelligenza di ogni dogmatismo ideologico, lo condusse ad una morte violenta ad opera di sicari stalinisti nella Barcellona del 1937.
Leggendo le opere di Berneri, è interessante constatare come certi personaggi della storia italiana siano destinati ad incarnare i requisiti fondamentali di un ideal-tipo dominante, in una imbarazzante similitudine comportamentale:

«Tutta la storia è là a dimostrare che gli uomini politici non fanno migliori previsioni – quando non ne fanno peggiori – degli uomini comuni. È assai raro che i fatti diano loro ragione. Avviene quasi sempre che essi si adattino, con molta abilità, a fatti mai immaginati, per dimostrare al pubblico d’essere stati i dominatori della situazione.
[…] L’immensa popolarità è il segno della grandezza politica: segno che avvicina l’uomo politico all’attore tragico e comico, alla danzatrice, al grande banchiere. L’uomo politico è un mostro che può riuscire ad imporsi grazie ad una sola qualità: la eloquenza o la verve giornalistica.
[…] Il “venditore ambulante” delle fiere non occupa un posto molto lontano da quello del grande parlamentare.
[…] L’uomo politico dunque è un virtuoso: è l’eroe del successo, “l’uomo del giorno”, “l’uomo pubblico”.
[…] Il libro tipico dell’uomo politico è l’autobiografia, il genere letterario dei grandi imbroglioni e delle ballerine. Si è detto che i grandi uomini sono “i sostantivi nella grammatica dell’umanità”: penso che si possa dire che gli uomini politici non ne siano che gli aggettivi. Dopo quanto ho detto, si vedrà che riconoscere in M. la… grandezza politica non è, da parte mia, un complimento

Naturalmente, la descrizione di Camillo Berneri non è rivolta all’attuale Papi della Nazione, ma si propone di delineare il ritratto di un altro di quegli uomini della Provvidenza, che ciclicamente fanno capolino nella storia italiana. Tali considerazioni sono raccolte in “Mussolini: psicologia di un dittatore”, successivamente rielaborata in “Mussolini grande attore” (1966). L’opera originale è del 1932, ma potrebbe benissimo essere dedicata al Pornocrate di Arcore, tanto forti sono le attinenze in una continuità ideale senza soluzione.
Mutato nomine, de te fabula narratur

«Non ha dato una sola linea personale alle direttive del proprio governo. Non ha fatto durante quasi dieci anni di potere che dei discorsi rimbombanti, al galoppo di sogni grandiosi. Ha inebriato la gioventù d’entusiasmo, senza nutrirla di idee. Ne ha lusingato l’orgoglio, senza dirle una parola di chiarezza e di orientamento.
[…] Arrivato al potere senza idee chiare, senza una solida cultura, con una preparazione politica essenzialmente giornalistica, Mussolini non era che un “personaggio”. Dovette cercare degli “autori” per recitare la commedia dell’uomo di Stato.»

Il nostro ‘eroe’ invece ha una cultura sostanzialmente “imprenditoriale”, con tutta l’amoralità primitiva di certo capitalismo cumulativo all’insegna della “roba”. Ma, tant’è, l’analisi calza… Nel corso degli anni il Signor B. ha avuto gli “autori” che di volta in volta hanno orientato la sua carriera di personaggio (attore e politico), suggerendogli in parte le battute del copione da recitare: Licio GelliBettino CraxiMarcello Dell’UtriGianni Letta… e da ultimo persino un Luigi Bisignani, tanto per citare alcuni dei nomi più importanti.

«Per il Presidente del Consiglio l’arte di governare era semplicemente un problema di polizia. Ripartì gli italiani in tre categorie: “Gli indifferenti che restano in casa loro ad attendere; coloro che simpatizzano con noi e che possono circolare; e gli italiani che sono nostri nemici e questi non circoleranno”.»

E, in tempi attuali, è dai pestaggi di massa del G-8 di Genova che la soluzione ottimale nella gestione del dissenso risiede nel controllo e, all’occorrenza, nella repressione poliziesca, attraverso l’ostracizzazione politica delle opposizioni sociali, alle quali è negato ogni diritto di rappresentanza in una finzione democratica speculare al mantenimento di nuovi interessi corporativi.

«Arrivato al potere, seppe assumere il suo ruolo apparente di deus ex machina. Lasciò alla alta burocrazia civile e militare il compito di studiare i problemi e di presentare le soluzioni che gli agenti degli industriali, dei banchieri e degli agrari modificavano a loro piacimento.
Si sa che una schiera di consiglieri lo rifornisce continuamente di progetti, informazioni, chiarimenti. Al momento utile, Mussolini non ha che da estrarre da una delle caselle della sua testa il progetto che occorre. La sua universalità tecnica non esiste. Egli ha solo una mentalità assimilatrice.»

 Rapportata alla situazione contemporanea, se i recenti accadimenti sfatano la mitologia decisionista che pervadeva la mistica di governo del grande statista brianzolo, è impressionante notare come la politica degli ultimi anni sia stata in buona parte eterodiretta (e con successo) dalle pressioni di gruppi di potere e camarille esterne ma collaterali, alle quali non è estranea l’azione sotterranea di faccendieri e network spionistico-militari… Ad esempio: Nicolò Pollari, Pio Pompa, la triade Mancini-Tavaroli-Cipriani. Poi c’è il sempiterno Luigi Bisignani: un millantatore ai limiti della mitomania, ascoltatissimo però nelle stanze governative, capace di direzionare le nomine nelle grandi partecipate di Stato, condizionare appalti, e fornire le linee guida nell’azione dei ministri.

Fanno sorridere inoltre le somiglianze, anche nella sfera caratteriale, che contraddistinguono i due personaggi (B. & M.):

«L’argomento su cui Mussolini non ha timore di ripetersi è quello del suo zelo come “servitore dello Stato”. Nella sua autobiografia si preoccupa di far rilevare che non va mai a teatro, per poter lavorare alla sera. Che abbia una grande resistenza al lavoro, non v’è dubbio, ma egli ha la mania di farsi passare per un lavoratore prodigioso. E ne racconta di grosse! […] Un’altra manìa di Mussolini è quella di stare sempre bene in salute …egli ha sempre simulato di crepare di salute. […] Una gran parte dei suoi sforzi è diretta a sostenere il mito della sua forza instancabile e della sua indipendenza creatrice.»

D’altra parte, l’attuale vuoto programmatico nella stagnazione dell’Esecutivo, che in Italia ha una solida tradizione radicata nella pratica tutta democristiana dei “governi balneari”, si nutre delle suggestioni pirotecniche dell’era berlusconiana, in straordinaria sinergia col suo precedente omologo littorio:

«È l’impotenza di un pensiero che si esalta nell’attualismo senza chiari orizzonti e senza bussola.
[…] Paganesimo e cattolicesimo, attaccamento al passato e futurismo, pacifismo e militarismo, sindacalismo e plutocrazia: tutto si mescola nella retorica di Mussolini. Egli non è che un genialoide. Il genio è la forza dell’atleta, l’ingegnosità del genialoide è la forza dell’epilettico. Il primo è lo splendore, la seconda soltanto il lampo di un breve momento di successo

Da questo punto di vista, è più calzante che mai la definizione che il repubblicano Giovanni Bovio formulò agli inizi del XX° secolo a proposito della figura del “genio”:

«È antico quanto la vanità; l’egoarchia gli è congenita, perchè non vede altro che sè; il paradosso gli è proprio, perchè non può produrre altro; ma si moltiplica ne’ tempi di più facile concorrenza agli onori e alla fama. Allora riesce più immediatamente funesto nella politica che nelle altre parti della vita. Non c’è altezza di ufficio e di potere a cui non si reputi pari; e non queta se nol tiene. Allora i popoli pagano.
Il genio nella direzione dello Stato muta i mezzi e resta saldo nel fine; il genialoide muta mezzi e fine, stimando accidentali tutte le forme di Stato, ed essenziale il suo dominio. Lo si vede quindi andar saltelloni dall’uno all’altro estremo, dalla licenza alla violenza, da Voltaire a Gesù, buttandovi in faccia tutti i paradossi politici, cioè: che la libertà costa ai popoli; che chi non muta si fossilizza; che l’espansione dello Stato è conquista; che una religione si rialza per decreto di Governo o iniziativa di classe; e via, alla svelta.»

Giovanni Bovio
Il genio. Un capitolo di psicologia
Edizioni Treves
Milano, 1900.

In tempi recenti, abbiamo parlato della funzione delle ‘masse’ nella strutturazione del potere, prendendo come spunto di riferimento gli studi di Gustave Le Bon sulla “Psicologia delle folle” [QUI]. A tal proposito, ci sembra giusto chiudere con una delle più amare osservazioni, poste in essere da Camillo Berneri, e destinata ad avverarsi in seguito con spirito profetico:

«Gustave Le Bon ha detto: “Conoscere l’arte d’impressionare la immaginazione delle folle, significa conoscere l’arte di governare”. Ciò è vero psicologicamente, ma è falso storicamente poichè i grandi tribuni han saputo portare le folle all’esaltazione, condurle ove essi volevano condurle, ma il potere conquistato con la sola parola è sempre stato un pallone presto sgonfiatosi sull’abisso.»

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5 Risposte a “TEATRINI”

  1. come sempre interessantissimo ed impeccabile. Speriamo che la previsione di Berneri, sul finale, si avveri anche stavolta.

    • Io mi auguro francamente di no…!
      L’ultima volta è andata a finire con una guerra mondiale, un genocidio, un continente in macerie….
      Decisamente, preferirei una transizione più ‘soft’.

      • occielo, non volevo invocare guerre mondiali e genocidi 🙂
        speravo solo che questo schifoso potere conquistato con la parola diventasse in poco tempo “un pallone presto sgonfiatosi sull’abisso”.

  2. annxgonz Says:

    Non avevo visto questo post, grande Kundera.
    Belle anche le riflessioni su M.

  3. @ Lady Lindy
    Non l’ho neanche minimamente sospettato..:)
    L’abisso evocato (ma non invocato) da Berneri è il pozzo nero e senza fondo in cui di solito collassano i regimi e le grandi sbornie populistiche; l’abisso citato da Berneri è il non luogo in cui scompaiono i grandi imbonitori e i demagoghi, trascinando nel gorgo i popoli che hanno partecipato alla farsa collettiva fintanto che non si è trasformata in tragedia.
    L’abisso che ha inghiottito il fascismo mussoliniano ci è noto.
    L’abisso nel quale si sgonfierà il pallone del fascismo berlusconiano lo possiamo solo immaginare…
    Un piccolo assaggio lo possiamo già avere dalla manovra economica tremontiana:

    «Una legge-truffa per galleggiare fino alla fine di questa legislatura. Poi l’abisso, a spese di quelli che verranno.
    (…) Il centrodestra, che ha inventato a suo tempo la “finanza creativa”, lancia adesso la “finanza tardiva”. La perfida ipocrisia del decreto è racchiusa non tanto nella sua nella sua dimensione economica, ma nella sua scansione temporale. Dei 47 miliardi di sacrifici totali che lo compongono, i pannicelli caldi saranno somministrati nel primo biennio (1,8 miliardi nel 2011 e 5,5 nel 2012). Le lacrime e il sangue, invece, saranno concentrate nel secondo biennio (20 miliardi nel 2013 e altri 20 nel 2014).
    (…) La responsabilità del doloroso ma doveroso rientro dal deficit e dal debito pubblico, in altri termini, sarà in carico al futuro governo, perché quello in carica non ne vuole sapere. E i costi più dolorosi del risanamento dei conti non lo sosterranno i contribuenti che hanno votato per l’alleanza forzaleghista il 13 aprile 2008. Li pagheranno invece le future generazioni, come da collaudata tradizione dei politicanti della Prima Repubblica, abbracciata senza riserve dai replicanti della Seconda.
    (…) Se poi sul Paese si scatena il diluvio, poco male. Saranno problemi del centrosinistra, se vincerà le elezioni. Perché devo fare qualcosa per i posteri? Cosa hanno fatto questi posteri per me? Un tempo era il motto di Groucho Marx. Oggi è la regola di Silvio Berlusconi.»

    Massimo Giannini (29/06/2011)

    @ Annxgonz
    Camillo Berneri è un autore straordinario dalla lucidità di analisi unica.
    Soprattutto è un autore scomodo, sotto ogni punto di vista; per questo si preferirebbe dimenticarlo.

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