Letture del tempo presente (VII)

«Ecco, secondo un regolamento della fine del secolo Diciassettesimo, le precauzioni da prendere quando la peste si manifestava in una città.
Prima di tutto una rigorosa divisione spaziale in settori: chiusura, beninteso, della città e del «territorio agricolo» circostante, interdizione di uscirne sotto pena della vita, uccisione di tutti gli animali randagi; suddivisione della città in quartieri separati, dove viene istituito il potere di un intendente. Ogni strada è posta sotto l’autorità di un sindaco, che ne ha la sorveglianza; se la lasciasse, sarebbe punito con la morte. Il giorno designato, si ordina che ciascuno si chiuda nella propria casa: proibizione di uscirne sotto pena della vita. Il sindaco va di persona a chiudere, dall’esterno, la porta di ogni casa; porta con sé la chiave, che rimette all’intendente di quartiere; questi la conserva fino alla fine della quarantena. Ogni famiglia avrà fatto le sue provviste, ma per il vino e il pane saranno state preparate, tra la strada e l’interno delle case, delle piccole condutture in legno, che permetteranno di fornire a ciascuno la sua razione, senza che vi sia comunicazione tra fornitori e abitanti; per la carne, il pesce, le verdure, saranno utilizzate delle carrucole e delle ceste. Se sarà assolutamente necessario uscire di casa, lo si farà uno alla volta, ed evitando ogni incontro. Non circolano che gli intendenti, i sindaci, i soldati della guardia e, anche tra le cose infette, da un cadavere all’altro, i “corvi” che è indifferente abbandonare alla morte: sono “persone da poco che trasportano i malati, interrano i morti, puliscono e fanno molti servizi vili e abbietti”. Spazio tagliato con esattezza, immobile, coagulato. Ciascuno è stivato al suo posto. E se si muove, ne va della vita, contagio o punizione.
L’ispezione funziona senza posa. Il controllo è ovunque all’erta: “Un considerevole corpo di milizia, comandato da buoni ufficiali e gente per bene”, corpi di guardia alle porte, al palazzo comunale ed in ogni quartiere, per rendere l’obbedienza della popolazione più pronta e l’autorità dei magistrati più assoluta, “come anche per sorvegliare tutti i disordini, ruberie, saccheggi”. Alle porte, posti di sorveglianza; a capo delle strade sentinelle.
Ogni giorno, l’intendente visita il quartiere di cui è responsabile, si informa se i sindaci adempiono ai loro compiti, se gli abitanti hanno da lamentarsene; sorvegliano “le loro azioni”. Ogni giorno, anche il sindaco passa per la strada di cui è responsabile; si ferma davanti ad ogni casa; fa mettere tutti gli abitanti alle finestre (quelli che abitassero nella corte si vedranno assegnare una finestra sulla strada dove nessun altro all’infuori di loro potrà mostrarsi); chiama ciascuno per nome; si informa dello stato di tutti, uno per uno – “nel caso che gli abitanti saranno obbligati a dire la verità, sotto pena della vita”; se qualcuno non si presenterà alla finestra, il sindaco ne chiederà le ragioni: “In questo modo scoprirà facilmente se si dia ricetto a morti o ad ammalati”.
Ciascuno chiuso nella sua gabbia, ciascuno alla sua finestra, rispondendo al proprio nome, mostrandosi quando glielo si chiede: è la grande rivista dei vivi e dei morti.
Questa sorveglianza si basa su un sistema di registrazione permanente: rapporti dei sindaci agli intendenti, degli intendenti agli scabini o al sindaco della città. All’inizio della “serrata”, viene stabilito il ruolo di tutti gli abitanti presenti nella città, uno per uno; vi si riporta “il nome, l’età, il sesso, senza eccezione di condizione”: un esemplare per l’intendente del quartiere, un secondo nell’ufficio comunale, un altro per il sindaco della strada, perché possa fare l’appello giornaliero. Tutto ciò che viene osservato nel corso delle visite – morti, malattie, reclami, irregolarità – viene annotato, trasmesso agli intendenti e ai magistrati. Questi sovrintendono alle cure mediche; da loro viene designato un medico responsabile; nessun altro sanitario può curare, nessun farmacista preparare i medicamenti, nessun confessore visitare un malato, senza aver ricevuto da lui una autorizzazione scritta “per evitare che si dia ricetto e si curino, all’insaputa del magistrato dei malati contagiosi”. Il rapporto di ciascun individuo con la propria malattia e con la propria morte, passa per le istanze del potere, la registrazione che esse ne fanno, le decisioni che esse prendono.
Cinque o sei giorni dopo l’inizio della quarantena, si procede alla disinfezione delle case, una per una. Si fanno uscire tutti gli abitanti; in ogni stanza si sollevano o si sospendono «i mobili e le merci»; si spargono delle essenze; si fanno bruciare dopo aver chiuso con cura le finestre, le porte e perfino i buchi delle serrature, che vengono riempiti di cera. Infine, si chiude la casa intera, mentre si consumano le essenze; come all’ingresso, si perquisiscono i profumatori «in presenza degli abitanti della casa, per vedere se essi non abbiano, uscendo, qualcosa che non avessero entrando». Quattro ore dopo, gli abitanti possono rientrare in casa.
Questo spazio chiuso, tagliato con esattezza, sorvegliato in ogni suo punto, in cui gli individui sono inseriti in un posto fisso, in cui i minimi movimenti sono controllati e tutti gli avvenimenti registrati, in cui un ininterrotto lavoro di scritturazione collega il centro alla periferia, in cui il potere si esercita senza interruzioni, secondo una figura gerarchica continua, in cui ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito tra i vivi, gli ammalati, i morti – tutto ciò costituisce un modello compatto di dispositivo disciplinare. Alla peste risponde l’ordine: la sua funzione è di risolvere tutte le confusioni: quella della malattia, che si trasmette quando i corpi si mescolano; quella del male che si moltiplica quando la paura e la morte cancellano gli interdetti. Esso prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte, a ciascuno il suo bene per effetto di un potere onnipresente e onniscente che si suddivide, lui stesso, in modo regolare e ininterrotto fino alla determinazione finale dell’individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade. Contro la peste che è miscuglio, la disciplina fa valere il suo potere che è di analisi. Ci fu intorno alla peste, tutta una finzione letteraria di festa: le leggi sospese, gli interdetti tolti, la frenesia del tempo che passa, i corpi che si allacciano irrispettosamente, gli individui che si smascherano, che abbandonano la loro identità statutaria e l’aspetto sotto cui li si riconosceva, lasciando apparire una tutt’altra verità. Ma ci fu anche un sogno politico della peste, che era esattamente l’inverso: non la festa collettiva, ma le divisioni rigorose; non le leggi trasgredite, ma la penetrazione, fin dentro ai più sottili dettagli della esistenza, del regolamento – e intermediario era una gerarchia completa garante del funzionamento capillare del potere; non le maschere messe e tolte, ma l’assegnazione a ciascuno del suo «vero» nome, del suo «vero» posto, del suo «vero» corpo, della sua «vera» malattia. La peste come forma, insieme reale e immaginaria, del disordine ha come correlativo medico e politico la disciplina. Dietro i dispositivi disciplinari si legge l’ossessione dei «contagi», della peste, delle rivolte, dei crimini, del vagabondaggio, delle diserzioni, delle persone che appaiono e scompaiono, vivono e muoiono nel disordine.
Se è vero che la lebbra ha suscitato i rituali di esclusione, che hanno fornito fino ad un certo punto il modello e quasi la forma generale della grande Carcerazione, la peste ha suscitato gli schemi disciplinari. Piuttosto che la divisione massiccia e binaria tra gli uni e gli altri, essa richiama separazioni multiple, distribuzioni individualizzanti, una organizzazione in profondità di sorveglianze e di controlli, una intensificazione ed una ramificazione del potere.  

[…]  La città appestata, tutta percorsa da gerarchie, sorveglianze, controlli, scritturazioni, la città immobilizzata nel funzionamento di un potere estensivo che preme in modo distinto su tutti i corpi individuali – è l’utopia della città perfettamente governata.
La peste (almeno quella che resta allo stato di previsione) è la prova nel corso della quale si può definire idealmente l’esercizio del potere disciplinare. Per far funzionare secondo la teoria pura i diritti e le leggi, i giuristi si ponevano immaginariamente allo stato di natura; per veder funzionare le discipline perfette, i governanti postulavano lo stato di peste.
[…]
Il “Panopticon” funziona come una sorta di laboratorio del potere. Grazie ai suoi meccanismi di osservazione, guadagna in efficacia e in capacità di penetrazione nel comportamento degli uomini; un accrescimento di sapere viene a istituirsi su tutte le avanzate del potere, e scopre oggetti da conoscere su tutte le superfici dove questo si esercita.
Città appestata, stabilimento panoptico; le differenze sono importanti. Esse segnano, a un secolo e mezzo di distanza, le trasformazioni del programma disciplinare. Nel primo caso, una situazione d’eccezione: contro un male straordinario, si erge il potere; esso si rende ovunque presente e visibile; inventa nuovi ingranaggi; ripartisce, immobilizza, incasella; costruisce per un certo tempo ciò che è contemporaneamente la controcittà e la società perfetta; impone un funzionamento ideale, ma che si riconduce in fin dei conti, come il male che combatte, al semplice dualismo vita-morte: ciò che si muove porta la morte, si uccide ciò che si muove. Il “Panopticon”, al contrario, deve essere inteso come un modello generalizzabile di funzionamento; un modo per definire i rapporti del potere con la vita quotidiana degli uomini.
[…]
Ogni volta che si avrà a che fare con una molteplicità di individui cui si dovrà imporre un compito o una condotta, lo schema panoptico potrà essere utilizzato.
[…]
Il “Panopticon” perspicacemente predisposto in modo che un sorvegliante possa, d’un colpo d’occhio, osservare tanti diversi individui, permette anche a tutti di venire a sorvegliare il meno importante tra i sorveglianti. La macchina per vedere è una sorta di camera oscura da cui spiare gli individui; essa diviene un edificio trasparente dove l’esercizio del potere è controllabile dall’intera società.
Lo schema panoptico, senza attenuarsi né perdere alcuna delle sue proprietà, è destinato a diffondersi nel corpo sociale; la sua vocazione è divenirvi funzione generalizzata. La città appestata forniva un modello disciplinare eccezionale: perfetto, ma assolutamente violento; alla malattia apportatrice di morte, il potere opponeva la sua perpetua minaccia di morte; la vita vi era ridotta all’espressione più semplice; era, contro il potere della morte,l’esercizio minuzioso del diritto di spada. Il “Panopticon” al contrario gioca un ruolo di amplificazione: se organizza il potere, se vuole renderlo più economico e più efficace, non è per il potere stesso, né per la salvezza immediata di una società minacciata: si tratta di rendere più forti le forze sociali – aumentare la produzione, sviluppare l’economia, diffondere l’istruzione, elevare il livello della moralità pubblica; far crescere e moltiplicare.»

Michel Foucault
“Il Panoptismo”
(da “Sorvegliare e Punire”; Cap.III)
Einaudi, 1976

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4 Risposte a “Letture del tempo presente (VII)”

  1. E’ la famosa denuncia di Foucault sul bio-potere. Strano però negli altri articoli non ne prendi atto, anzi sembri giustificare la sospensione all’infinito dei diritti civili, e in sostanza l’autodistruzione economica e psicologica del paese. Misure che con l’epidemiologia moderna c’entrano poco, ma sono utilissime per chi vuole un’involuzione autoritaria. Misure che ovviamente danneggiano di più le classi più deboli, i precari, chi non gode di uno stipendio fisso ecc. Leggere solo i giornali mainstream (cioè tutti) fornisce una visione molto ristretta e mono-dimensionale della vicenda pandemica. Consiglio es. questo sito per farsi un’idea diversa: https://ilsimplicissimus2.com/

    • Sostanzialmente, ci sono due modi di approcciarsi ad una epidemia:
      O si sceglie l’aspetto meramente economico, salvaguardando il tessuto produttivo, evitando ogni procedura restrittiva che limiti la libertà generale delle persone di fare cose (fondamentalmente ‘consumare’), e di fatto fingere che tutto continui come prima aspettando che il virus si estingua da sé, per fatalismo indotto.
      E’ l’approccio che utilizzavano le società dell’antichità. Nonché Bolsonaro e Trump in Brasile ed USA.
      Oppure si sceglie l’aspetto ‘umano’, cercando di salvaguare più vite possibili nella limitazione delle occasioni di contagio, ponendo una serie di misure di contenimento, più o meno stringenti, fondate sul ricorso massiccio alla quarantena, la messa in isolamento, l’inasprimento dei controlli, lo strapotere dei “Comissari di Sanità”.
      E’ l’approccio ‘italiano’ che storicamente affonda le sue radici tra il XVII ed il XVIII secolo, nei “comitati di salute pubblica” e “Consigli di Sanità”, passando per l’opera di Ludovico Settala e Gianfilippo Ingrassia, su tutti, e di Antonio Angelo Frari in tempi più recenti, rivelandosi a suo modo il più efficace.
      Tertium non datur!
      Anche perché l’ultima vera pandemia globale risale ad un secolo fa. E da allora non eravamo attrezzati psicologicamente, né a livello gestionale in termini di “prontezza operativa”, per affrontarne una. Quindi l’improvvisazione generata dall’inattesa “emergenza” ha preso il sopravvento.
      Perciò, una volta scelto l’approccio tra i due disponibili in linea di massima si può essere elastici nella gestione, introducendo criteri di “flessibilità” e valutazione variabile. Non avendo riscontri immediati, sono tutti validi e tutti legittimi, ma nessuno può considerarsi efficace a prescindere.
      Personalmente, sono per l’approccio che predilige la tutela di vite umane, limitando le perdite. E soprattutto gli effetti collaterali dell’infezione anche quando non mortale, con invalidità permanenti che hanno un costo sociale ed economico (soprattutto per chi si infetta), inferenze statistiche a parte.
      Si poteva gestire meglio? Sicuro!
      Si poteva avere più attenzione e tutele giuridiche, contro la legittimazione di uno stato d’eccezione permanente, peraltro già in fieri da almeno un decennio senza bisogno di pandemie? Certo che sì!
      Si doveva vigilare di più sulla potenziale instaurazione di un regime di polizia, in un Paese che già difetta di suo in sensibilità democratica? Assolutamente sì!
      Si poteva avere un rapporto sinergico meno invasivo e meno “pre-moderno” nell’approccio all’epidemia, senza isterismi e (all’opposto) negazionismi di rigetto, su rimozione per negazione? Probabilmente, sì!
      Ma insomma, col senno di poi è facile trarre conclusioni. Il fatto è che noi un paio di anni fa questi elementi di valutazione non li avevamo.

      Invece, sulle “misure che ovviamente danneggiano di più le classi più deboli, i precari, chi non gode di uno stipendio fisso”… Per quello che ho potuto notare nella mia limitatissima esperienza personale e nel “privilegio” di essermi potuto muovere in totale liberà duranta la pandemia (la “fortuna” di scoprirsi improvvisamente indispensabile sul lavoro), avrei ben più di qualche perplessità e qualcosina da dire per molto dello schifo che ho visto, che era evidente, e che in più alta sede di governo si è preferito ignorare, per una distorta concezione della “concordia ordinum”… Ma questo richiederebbe una trattazione a parte. E pur ringraziandoti della tua attenzione, non voglio per questo abusare della tua pazienza e del tuo tempo.

  2. Ancora più semplice, qui un buon riassunto, seppur lungo:

    https://www.lafionda.org/2021/06/22/paradigma-covid-collasso-sistemico-e-fantasma-pandemico/

    Di fronte a questa involuzione neo-feudale, le uscite più o meno folcloristiche di certi personaggi della destra populista, appaiono irrilevanti

    Un saluto

    • Disamina un po’ troppo prolissa con alcuni spunti interessanti ed altre considerazioni un po’ più discutibili… Decisamente troppe per essere confutate, hic et nunc, tutte insieme.
      Si tratta di una costruzione ben articolata, ma con un vulnus originario: premesso che la BRI, la Federal Reserve, la Black Rock (e praticamente tutta la galassia del private equity e degli hedge funds del capitale finanziario) sono istituzioni che operano ed hanno come riferimento il paradigma americano, per quale motivo gli USA sono stati il paese che più di tutti ha disatteso le raccomandazioni OMS e mai ha applicato un vero lockdown, refrattario ad ogni misura propriamente restrittiva o di contenimento? In virtù della grande cospirazione in essere, uno si sarebbe aspettato la massima adesione alle misure appositamente approntate per la riuscita di una strategia su scala mondiale…
      Spero perdonerai l’autocitazionismo (non piace neanche a me); di solito i complotti pur nella loro diversità, tendono a riproporre sempre lo stesso costrutto logico, nella sua immanenza metastorica… prediligono le grandi narrazioni in espansione continua e sono prevedibili nella loro fallacia semantica…
      Questo lo scrivevo 10 anni fa, in risposta ad un altro quesito sul tema, ma penso conservi la sua attualità:

      “…Le teorie del complotto sono il prodotto di una lunga genesi storica e culturale, aperta ad influssi ed apporti sempre nuovi: sostanzialmente costituiscono l’incontro e la sintesi (in divenire) di più paranoie e di ossessioni collettive che si incontrano, si auto-alimentano e si strutturano con l’aggiunta di elementi sempre nuovi e dinamici. E in tal modo originano una mitopoiesi, tanto complessa quanto poliedrica, che raccoglie alcuni elementi storici e informazioni vere. Tuttavia, i cosiddetti “cospirazionisti” reinterpretano i dati, generando dei falsi metastorici che, per sembrare credibili, attingono costantemente a contenuti reali, plagiati però secondo le esigenze di un immaginario fantastico.
      Mi spiego meglio: il “complottista” non confuta un fatto secondo una interpretazione soggettiva (e dunque fallace). Piuttosto, porta avanti una tesi, o meglio una teoria (quasi sempre falsa), che non ha valore relativo ma assoluto. E viene presentata come si trattasse di una verità incontrovertibile, esponendola con i toni della rivelazione. Solitamente, nei casi più raffinati e culturalmente più preparati, la tesi in questione viene suffragata da una massa eccezionale di dati reali e verificabili, che non dimostrano la validità del complotto, ma ‘sembrano’ provarla.
      Intendiamoci! I complotti nella storia sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Tuttavia, come sintetizza bene la semiotica di Umberto Eco, i complotti reali hanno una peculiarità: prima o poi si scoprono. Sempre. E ciò avviene in tempi piuttosto ragionevoli. Questo perché, se il complotto riesce, i cospiratori solitamente si vantano del loro successo; se il complotto fallisce, coloro che hanno sventato la cospirazione hanno tutto l’interesse a farlo sapere.
      I complotti, anche i più complessi non avvengono mai così come sono stati pianificati. L’imprevisto, come le variabili del caso, sono sempre in agguato. Ma nella mente del complottista le cospirazioni racchiudono sempre una perfezione quasi divina (o meglio, luciferina) che rasenta l’infallibilità. Solitamente hanno una dimensione ‘globale’, e sono capaci di determinare il corso della storia attraverso il controllo di ogni singolo evento…”

      «Naturalmente il potere decide, ma al complottista non basta credere che i vertici siano responsabili di guerre, speculazioni, leggi e percorsi economici. Esaspera, estende e totalizza. Chi ci governa è tanto infallibile da programmare a tavolino ogni casistica e minuzia.
      […] Karl Popper descrisse il fenomeno con un paragone calzante. Il complottismo sarebbe una forma di teismo (e aggiungeva “primitivo”) e chi si abbandona alla “teoria sociale della cospirazione” non farebbe altro che assumere l’ottica dell’Iliade: “secondo la concezione omerica del potere divino, qualunque cosa accadesse sulla piana di Troia, era solo un riflesso dei vari complotti in atto sull’Olimpo”. Insomma “una fede in divinità, i cui capricci e desideri governano ogni cosa” e il cui posto oggi è occupato da vari uomini e gruppi di potere, sinistri individui sui quali deve ricadere la colpa di aver progettato la Grande Depressione e tutti i mali di cui oggi soffriamo”. Popper puntava sull’idiozia di un’ottica simile applicata alle scienze sociali, ma era un discorso molto più ampio…»

      Errico Buonanno
      “Sarà vero. La menzogna al potere”
      Einaudi, 2009

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