Archivio per Roger Casement

Il fantasma di Livingstone

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 19 febbraio 2013 by Sendivogius

David Livingstone by Thomas Annan (1864)

Parecchi lustri addietro, Vladimir Pozner (1905-1992), ironizzando sulla passione che molti suoi contemporanei sembravano nutrire per le biografie di avventurieri, ebbe a dire con spirito tranchant:

«C’erano scrittori che passavano al setaccio i dizionari di personaggi illustri, nella speranza di scovare tra una pagina e l’altra un granello di gloria o un briciolo di immortalità. Per molti fu la scusa di sfuggire a un presente che giudicavano inconcepibile, perché non riuscivano a giudicarlo né a concepirlo

 “Le Mors aux dents”
(Il morso ai denti – 1937)

Barone Ungern SternbergA Pozner, scrittore militante, il genere biografico sembrava un ripiego nostalgico, salvo poi dedicarsi lui stesso all’argomento e quindi realizzare una meravigliosa digressione romanzata sulla storia del barone Roman Ungern-Sternberg, recentemente tradotta e pubblicata in italiano (Il Barone sanguinario, Adelphi 2012).

L'incontro

È curioso come certi personaggi, sfumati nelle pieghe della storia, siano spesso ricordati per un aneddoto di successo, o unicamente per un singolo episodio, capace di imprimersi nell’immaginario collettivo e caratterizzarne per sempre la biografia, senza che nessun altro evento abbia rilevanza. L’incontro tra David Livingstone ed Henry Morton Stanley, nel cuore dell’Africa nera, rientra sicuramente in questa tipologia. Dell’episodio si ricorda la famosa frase di Stanley (probabilmente mai pronunciata): Dr Livingstone, I presume. E nulla più!
Peraltro, si tratta di una delle prime grandi patacche (perfettamente riuscite) del giornalismo moderno, alla ricerca di esotici sensazionalismi per impressionare i propri lettori, tramite la costruzione tutta fittizia dell’intrepido eroe vittoriano: tutte buone maniere, indomito spirito d’avventura e volontà di ferro, al servizio della civilizzazione e votato al trionfo dell’uomo bianco gravato dal suo “fardello”.
Dr D.LivingstoneIn questo, Livingstone fu più di un mito. Divenne un’icona nazionale, nonché un simbolo per la costituzione del nascente Impero britannico, fino ad allora gestito come l’affare privato di una Società di capitali [QUI]. Col coinvolgimento diretto della Corona, l’espansionismo coloniale in Africa si ammanterà di un presupposto ‘morale’.
The Slave Gang (relates to David Livingstone) by The London Missionary SocietyA 200 anni dalla sua nascita (e 140 dalla sua dipartita) merita comunque di essere ricordato: avventuriero, esploratore, missionario, medico dilettante… uomo dal pessimo carattere, schivo e riservato, non fu mai un gaglioffo ambizioso e opportunista come il suo “salvatore” Henry Morton Stanley (a cui dovremo dedicarci in futuro).

David Livingstone (foto di P.E.Chappius)

David Linvigstone è uno di quegli uomini consumati da uno strano fuoco interiore, che sembra divorarli fino alla morte. Nelle sue contraddizioni, e nell’elusività di una personalità profondamente inquieta, pare celarsi una determinazione autodistruttiva, che sembra condividere Roger Casement in uniforme di funzionariocon altre personalità tormentate come per esempio Roger Casement. Quest’ultimo, circa mezzo secolo dopo l’esplorazione occidentale della regione dei grandi laghi, si trovò a visitare quei territori africani che proprio Livingstone e Stanley avevano aperto alla ‘civilizzazione’ dell’uomo bianco, rimanendo inorridito dalle atrocità dei colonizzatori.
David Livingstone (by Frederick Havill) David Livingstone nasce il 19 Marzo del 1813 a Blantyre, un misero villaggio scozzese nella contea di Lanark. Figlio di un pastore evangelico della Chiesa indipendente congregazionista, Neil Livingstone, che per guadagnarsi da vivere commercia nella vendita ambulante del tè, il giovane Livingstone riceve una rigida educazione religiosa di impronta calvinista, tra le ristrettezze economiche. I sei membri della famiglia Livingstone condividono infatti un’unica stanza, non potendo permettersi un alloggio più grande.

«A dieci anni è costretto ad andare a lavorare in un cotonificio, dove meno del 10% della forza lavoro minorile frequenta la scuola dell’azienda senza molto profitto. David non è intelligente né brillante, ma eccezionalmente resistente e determinato a non condividere il destino dei suoi coetanei. In questo senso è già un asociale, un outsider che si chiude alle relazioni umane e agli affetti.

La decisione di diventare, a prezzo di estenuanti sacrifici, missionario medico affidandosi alla “London Missionary Society”, la seconda società missionaria nel mondo con sedi in molti continenti, matura nel clima di fervore riformistico e di fanatica infatuazione negli anni trenta dell’800, che vedono le chiese riformate anglo-americane e le società filantropiche impegnate nella crociata per l’abolizione della schiavitù e del suo fiorente commercio tra Africa e America. Nella richiesta di Livingstone di essere destinato in Africa, un continente quasi sconosciuto alla penetrazione missionaria, si esprime già in quell’incessante desiderio di superare sé e gli altri, che farà la gloria di Livingstone, ma si tradurrà in un’ossessione fatale fino al suicidio.
D.Livingstone (…) Quando nel 1840 Livingstone s’imbarca per il Sud Africa è un uomo di 27 anni, con qualche conoscenza primitiva della medicina e una preparazione dottrinaria, rozzo, taciturno, i tratti del volto già irrigiditi dalla spietatezza di carattere, limitato, intollerante, portato a giudicare gli altri secondo il modello di se stesso, ma adattabile e coraggioso. Lo shock che lo attende in Africa è violento, anche se a deluderlo non è la natura aspra e selvaggia, ma gli uomini, gli altri missionari privi di carica idealistica, rassegnati e occupati a denigrarsi a vicenda.
La missione ideale di Kuruman [a nord-est del fiume Orange], fondata da Robert Moffat (…) si rivela un arido e povero villaggio, dove Moffat è riuscito con inflessibile pazienza a convertire una trentina di africani, più riconoscenti che convinti. Del resto, come Livingstone non tarda ad accorgersene, gli indigeni ed i loro capi accettano il missionario perché è utile: è il “gunmender” (il riparatore di fucili) che dà consigli pratici e aiuta a guarire

 Alberta Gnugnoli
In cerca di Mr Livingstone
(da “Storia e Dossier”; n.103 del 03/1996)

KurumanLa missione di Kuruman viene illustrata in Gran Bretagna con immagini bucoliche, che sembrano riprese da un paesaggio nord europeo. In realtà, l’avamposto missionario è stato fondato nel 1821 dall’infaticabile Moffat, quasi a ridosso del deserto del Kalahari, in un ambiente tutt’altro che facile e lontano dai presidi sulla costa. Ma a Livingstone sembra non bastare… Deciso a fondare una “sua” missione, si spinge ancora più a nord fino a Mobotsa. Inflessibile e dispostico, litiga praticamente con tutti gli altri missionari che lo trovano insopportabile. In compenso, si conquista la simpatia dei portatori indigeni che ammorba con interminabili sermoni, ma risparmia dai colpi di bastone e di frusta (pratica universalmente utilizzata dagli altri esploratori) che Livingstone non userà mai.

La Famiglia LivingstoneNonostante le liti e le ripicche continue con gli altri religiosi, Livingstone resiste a Kuruman per quasi un quinquennio. Nel 1844 si sposa alfine con Mary, la grassoccia e pazientissima figlia di Robert Moffat, che gli darà cinque figli nell’arco di sei anni.
Quindi carica la famiglia su di un carro e si inoltre nei territori inesplorati del Nord-Ovest, senza mappe né guide, sempre a corto di viveri e rifornimenti, intenzionato a fare il pastore itinerante e ottenendo lo straordinario risultato di una sola conversione in cinque anni.
Coloni boeri nel Transvaal -- Illustrazione di Thomas BainesIn questo periodo, e miracolato dalla sorte, Livingstone inizia a maturare l’idea di poter aprire l’Africa centrale al commercio europeo, attraverso una rete di scambi fluviali, insieme alla costituzione di stazioni commerciali e missioni religiose, in un connubio calvinista di imprenditoria e fede.

«In questa prospettiva gli indigeni avrebbero rinunciato a vendere la propria gente come schiavi, solo se si fossero persuasi a commerciare i propri manufatti e i prodotti della terra, fra di loro e con gli europei, tanto da creare una economia di mercato che avrebbe spezzato l’atavico vincolo di solidarietà tribale e fatto emergere il profitto individuale e la proprietà privata.
(…) Ma quando si rende conto che gli africani sono appagati da quel poco che scambiano (fucili, tessuti e collane) e della loro vita “animale”, Livingstone accetta la spietata e inevitabile “necessità” di una penetrazione coloniale sostenuta dal governo.»

  Alberta Gnugnoli

Soprattutto, Livingstone si convince che lo Zambesi sia un gigantesco fiume navigabile che attraversa tutto l’Africa centrale e possa rispondere al suo grande progetto di civilizzazione.
Come divorato da una febbre misteriosa, è convinto di aver avuto un’idea originalissima e che altri possano batterlo sul tempo.
Nel 1849 Livingstone aveva già raggiunto il Lago Ngami e nel 1851 le rive dello Zambesi. Intorno al 1856 scopre le Cascate Vittoria. Al colmo dell’entusiasmo, fa ritorno in Inghilterra, intenzionato a trovare finanziamenti per una grande spedizione di esplorazione.
Victoria Falls at Sunrise - T.BainesQuindi, si disfa in tutta fretta della famiglia, senza preoccuparsi minimamente della loro sussistenza. Per quattro anni, Mary ed i suoi figli vivranno come derelitti, confidando nella carità altrui. E, se la moglie diventa un’alcolizzata morendo di dissenteria nel 1863, il primogenito Robert emigrerà in America per arruolarsi volontario nell’esercito unionista e partecipare alla Guerra di Secessione. Morirà diciannovenne nello spaventoso campo confederato di prigionia ad Andersonville.
AndersonvillePer convincere il governo britannico a finanziare la sua spedizione sullo Zambesi, persuaso com’è che il fiume sia navigabile, Livingstone incentiva l’invio di missionari per la creazione di nuovi avamposti, descrivendo la giungla africana come un “paradiso della ricchezza” aperto a chiunque lo voglia. Ispirati dai suoi sermoni (e dalle sue panzane interessate), azzimati studenti di Oxford e Cambridge si lanciano nell’impresa, lasciandoci le ossa. Convinto dalle fanfaluche di Livingstone, parte anche il vescovo anglicano Mackenzie, il quale creperà divorato dalla malaria e dalla spossatezza, insieme alla vecchia sorella che, nonostante l’età e per di più paralitica, ha voluto raggiungerlo in siffatto paradiso africano.
John KirkNel 1858, ottenuti i fondi necessari per la sua spedizione scientifico-geografica, il dottor Livingstone può finalmente intraprendere l’esplorazione del corso dello Zambesi, con il sostegno ufficiale del governo britannico. Ad accompagnarlo ci sono il biologo, fotografo dilettante, e naturalista scozzese John Kirk, convinto anti-schiavista e residente britannico nel sultanato di Zanzibar, e Thomas Baines all'età di 38 annil’esploratore sudafricano di origini inglesi Thomas Baines che lavora per conto della Royal Geographical Society. Baines è anche e soprattutto un illustratore di notevole talento, che immortalerà in splendidi acquarelli le tappe salienti della spedizione e le sue successive esperienze di viaggio in Rhodesia ed in Australia.
La spedizione dello Zambesi, tra alterne vicende, si protrarrà fino al 1863 e si rivelerà un fiasco colossale. Le dettagliate relazioni di Livingstone, insieme ai primi rilievi etnografici di Kirk, non bastarono ad entusiasmare i ministri britannici che nel cuore del futuro Congo non riuscivano a scorgere l’abbondanza di materie prime alle quali anelavano, né un ritorno economico tale da giustificare un cospicuo impegno finanziario e militare da parte dell’amministrazione imperiale.
Nonostante gli insuccessi, Livingstone è ossessionato dal suo sogno che sarà anche la sua maledizione. Non lo fermano i lutti in famiglia né le difficoltà a reperire nuovi finanziamenti per le sue esplorazioni africane. Nella primavera del 1866 è di nuovo in Africa con pochissime risorse. Fermamente deciso a scoprire questa volta le mitiche sorgenti del Nilo, tra il 1866 ed il 1873, proseguendo quasi a casaccio verso ovest, esplora senza un piano preordinato la vasta zona compresa tra il Lago Nyassa ed il Lago Tanganika nell’entroterra del sultanato arabo di Zanzibar.
The Great Western Fall - T.BainesGià nel 1866 si ammala gravemente, ma non desiste dall’impresa. E gli indigeni devono portarselo a spalla, mentre Livingstone delira febbricitante. Per i successivi tre anni di lui non si ha più quasi alcuna notizia…
David Livingstone sick  Al contrario di quanto a Livingstone piaceva far credere nelle sue memorie di viaggio, dalla sua spedizione nella regione del Tanganica non sarebbe mai uscito vivo, senza un aiuto concreto e fondamentale. Per uno di quei curiosi paradossi della Storia, a cacciare fuori dai guai l’altezzoso esploratore bianco, missionario cristiano e convinto antischiavista, fu uno dei più importanti mercanti di schiavi del sultanato islamico di Zanzibar: Tippu Tipil nero e musulmano devoto, Hamed bin Mohammed, meglio conosciuto col nome di Tippu Tip. Il soprannome deriva dal suono onomatopeico ad imitazione del crepitare dei fucili a pietra focaia, che Tippu Tip non esitava a scaricare contro i propri rivali durante le sue rappresaglie.
Nel 1867 e per i successivi 15 anni intraprende una serie di spedizioni commerciali a caccia di avorio e di schiavi, tra il Lago Tanganika ed il Lago Mueru dove incontrerà Livingstone
È Tippu Tip infatti a rifornire l’esploratore di viveri e salvacondotti, per potere attraversare indenne i territori dei vari regoli locali. Ed è sempre lui a far pervenire i suoi dispacci e le sue relazioni a Zanzibar, inoltrandole al console britannico.
Mercanti 'arabi' di Zanzibar - East Cost Africa (1884) - Foto di J.Kirk Di padre arabo e madre swahili, Tippu Tip è imparentato per via materna coi sultani neri di Tabora. Abile diplomatico e buon stratega, riesce a ritagliarsi un vasto dominio personale nelle regioni dell’interno, stabilendo la base delle sue operazioni nella cittadella fortificata di Nyangwe e assumendo il titolo di Sultano di Utetera. Ma la sua autorità e prestigio si estende anche nella cittadina di Ujiji sulle rive settentrionali del Lago Tanganika. Ed è proprio ad Ujiji che Livingstone troverà rifugio e verrà in seguito “salvato” da Henry Stanley, che fingerà di non essere stato portato direttamente sul posto dalle guide di Tippu Tip, che per di più provvede sia ai portatori che ai vettovagliamenti, per acquistare crediti presso il governo inglese.
Stanley and Livingstone in Ujiji 1871 (The Illustrated London News, 1872)H.M.Stanley Stanley raggiunge Livingstone ad Ujiji il 10/11/1871. L’impresa è stata in realtà voluta e organizzata, senza badare a spese, da James Gordon Bennett, direttore del New York Herald a caccia di scoop. Henry Morton Stanley, che in realtà si chiama James Rowland, è un gallese di umili origini naturalizzato statunitense.
Nato nel 1841 a Denbigh nel Galles, viene presto abbandonato in orfanotrofio. Appena adolescente, si imbarca come mozzo su un mercantile e fugge a New Orleans in Louisiana, dove viene preso sotto la protezione di Henry Morton (da cui la scelta del nome).

Durante la guerra civile americana si arruola nell’esercito della Confederazione, salvo poi disertare dopo la cattura in battaglia a Shiloh (1862) e passare tra le fila degli unionisti. Finita la guerra, si farà un nome come giornalista e diverrà un apprezzato corrispondente, con esperienze in Asia Minore, Turchia e Abissinia, finché nel 1869 non viene incaricato da Bennett di ritrovare Livingstone.

Compiuta la missione, si unirà al cocciuto scozzese per continuare insieme la missione esplorativa, nonostante Livingstone sia divorato dalle febbre malariche e fatichi a stare in piedi, tanto da muoversi unicamente in una sorta di portantina portata a spalla dai fedelissimi Chuma e Susi che alla sua morte (il 01/05/1873 per emorragia interna, a seguito di occlusione intestinale) si trasferiranno in Inghilterra.

Agnes and Tom Livingstone, Abdullah Susi, James Chuma and Horace Waller at Newstead Abbey (1874)

«I pensieri di Livingstone sono ormai soltanto sogni a occhi aperti, per cui continua pateticamente a scrivere dispacci, mai spediti, in cui annuncia nuove scoperte omettendo date e luoghi. Livingstone muore nel 1873, nel villaggio del capo Chitambo, a sud-ovest del Lago Bangweolo. Nell’arco di un ventennio dalla sua morte la politica inglese in Africa passa dal più deciso non-intervento alle annessioni dirette.
David Livingstone Su questa svolta, più che la dedizione ed il sacrificio di Livingstone, hanno inciso la pressione e la mediazione di un complesso network di società – tra le quali se ne contano di scientifiche come la Royal Geographical Society, filantropiche, e ultime non meno importanti quelle religiose – i cui interessi trovano una naturale convergenza nella idea plastica di una missione morale che Livingstone assegna agli inglesi in quanto “razza superiore”, come missionari attivi di civiltà in Africa e nel mondo. Ma la penetrazione europea in Africa avrebbe avuto conseguenze tali da amareggiare Livingstone: il fervore morale diventava diritto al potere e la conversione al cristianesimo la copertura della “santa crociata”, che avrebbe permesso al Regno Unito di mantenere la supremazia nel mondo attraverso un impero centralmente controllato.»

Livingstone malatoStanley si specializzò invece in altre missioni di ‘recupero’. Costruì abilmente il proprio mito e diventò uno dei più importanti agenti del colonialismo in Africa centrale, ma questa è un’altra storia…

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L’inferno dentro: Putumayo Report

Posted in Business is Business, Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 13 novembre 2012 by Sendivogius

Pochi periodi storici hanno avuto l’intensità e le contraddizioni della Belle Époque, contraddistinta da uno sviluppo turbinoso nel pirotecnico susseguirsi di nuove scoperte in ogni ambito, di innovazioni tecnologiche e sperimentazioni culturali, a fronte di enormi miserie e grandi ingiustizie, mentre nelle cancellerie europee erano già in incubazione i germi che porteranno all’immane carneficina della prima guerra mondiale.
In tale contesto, gli orrori coloniali che si consumano nei dipartimenti d’oltremare delle potenze imperiali non susciteranno lo sdegno e le attenzioni indignate dell’opinione pubblica europea, come nel caso delle atrocità nel Putumayo. Ne abbiamo parlato in dettaglio QUI.
Nel corso del 1909, grazie ad una agguerrita compagna di stampa, il pubblico inglese apprende per la prima volta dei crimini perpetrati nella più assoluta impunità dalla Peruvian Amazon Company, specializzata nell’estrazione e nel commercio della gomma. Soprattutto, trova disdicevole che la dirigenza della multinazionale, artefice delle violenze denunciate, sia composta da illustri esponenti della buona società inglese.
Per sopire lo scandalo, e screditare i concorrenti sudamericani a favore del nascente mercato della gomma nell’India britannica, il governo decide di inviare una sua commissione d’inchiesta, col beneplacito delle autorità peruviane, che appuri i fatti e le eventuali responsabilità di cittadini britannici.
Sir Edward Grey, segretario del Foreign Office, affida la direzione della Commissione ad un funzionario di lungo corso, che si è già distinto in inchieste analoghe, rivelando al mondo le atrocità del Congo belga proprio nell’ambito della raccolta del caucciù, durante i suoi viaggi nel cuore più nero ed oscuro dell’Africa. A suo modo, è uno specialista della materia. Soprattutto è un diplomatico serio di comprovata esperienza, famoso (e contestato) per le sue campagne umanitarie. Si tratta di sir R.D.Casement.

Il sogno spezzato di Casement
 Roger David Casement (01/09/1864 – 03/08/1916), prima ancora che un idealista, fu un instancabile sognatore che nel corso della sua tormentata esistenza si trovò quasi sempre a declinare i suoi sogni negli incubi di realtà efferate.
Fu un uomo di grande sensibilità, di carattere mite ed estremamente riservato, che per una strana beffa delle circostanze di ritrovò per sua volontà ad operare spesso in contesti estremi, catapultato in situazioni ed in orrori che, probabilmente, ebbero conseguenze molto più dure e terribili sulla sua psiche di quanto egli non dette mai vedere. E che fecero di lui un uomo tormentato, desolatamente solo, alla disperata ricerca di radici che al volgere della sua vita credette di trovare in un nazionalismo esasperato, nell’alveo dell’irredentismo irlandese. Provato dalle sue esperienze, è possibile che ad un certo momento, nel 1912, abbia cominciato a perdere lucidità di analisi e senso della realtà.
Ovviamente, non fu esente da contraddizioni che, insieme ad una costante tendenza al sogno, ne determinarono anche la rovina. Roger Casement fu tutto ed il contrario di tutto…
Di origini irlandesi, era figlio di un ufficiale britannico di cavalleria, che aveva prestato servizio in India. Si trattava di un militare di carriera, fanaticamente devoto alla Corona inglese.
Fervente sostenitore della missione civilizzatrice dell’imperialismo europeo, divenne un irriducibile anti-colonialista.
Sebbene abbia vissuto in Irlanda non più di una manciata di anni, idealizzò a tal la sua terra natia da diventare un fanatico nazionalista. Fu un pacifista convinto, ma si mise organizzare sollevazioni armate.
Fu un poliglotta: parlava fluentemente il francese, conosceva il portoghese e ancor meglio lo spagnolo, comprendeva alcuni dialetti africani, ma nonostante tutti i suoi sforzi non riuscì mai ad imparare il gaelico che pure reputava la sua lingua madre.
Come diplomatico britannico, fece le sue fortune al servizio dell’Impero che lo colmò di riconoscimenti e di onori, ma non esitò a tradire l’Inghilterra nel momento più drammatico, organizzando un’insurrezione irlandese (Aprile 1916), reclutando volontari nel campo di prigionia tedesco di Limburg, con l’appoggio della Germania in guerra.
Gli inglesi non gli perdonarono mai un simile tradimento. Dalla Gran Bretagna, Roger Casement aveva avuto tutto: ammirazione, rispetto, riconoscimenti… Lo condannarono a morte, ma prima ne distrussero la reputazione pubblicando i famigerati Black Diaries, nei quali Casement aveva raccolto con rara ingenuità le sue fantasie omoerotiche.
Fu un cattolico praticante (convertito) e, a tutti gli effetti, un patriota irlandese. Come il più famoso Michael Collins, militava anche lui nella Irish Rupublican Brotherhood, ma nell’Irlanda indipendente e cattolicissima di Eamon De Valera finì quasi dimenticato o fu causa di imbarazzo per la sua omosessualità.

Casement dichiara guerra all’impero di Julio Cèsar Arana
 Nel 1910 Roger Casement è ancora uno stimato diplomatico al servizio di Sua Maestà Britannica.
Il 21/07/1910 riceve una lettera del Foreign Office, con l’incarico di istituire una commissione d’inchiesta, con pieni poteri, per appurare le eventuali responsabilità di agenti britannici nei presunti crimini perpetrati dalla Amazon Puruvian Co. (APC) nel Putumayo, con la raccomandazione che per nessun motivo le indagini “dovranno arrecare offesa o noie ai governi dei paesi visitati”.
La commissione, su indicazione ministeriale e sotto la direzione di Casement, sarà composta da:
 Louis Harding Barnes, agronomo con esperienze dirette in Mozambico;
 Walter Fox, botanico;
 Edward Seymour Bell, imprenditore;
 Henry L. Gielgud, che in passato ha lavorato come contabile per la APC;
 Henry Reginald Bertie, colonnello dei Fucilieri del Galles, che si ammala quasi subito e rientra in patria.
Nel settembre del 1910 la Commissione giunge nella città peruviana di Iquitos, dove prende contatto con le autorità locali. Il clima è di bonaria ostilità nei confronti di quegli stranieri giunti da lontano, animati da tanti buoni propositi e che nulla sanno delle difficoltà che loro, veri pionieri, devono affrontare per portare la ‘civiltà’ tra i selvaggi della giungla.
La Casa commerciale di Julio Cèsar Arana, che di fatto controlla la Amazon Puruvian Company, si dimostra assolutamente collaborativa, a tal punto da mettere a disposizione della Commissione l’ammiraglia della sua piccola flottiglia fluviale, ovvero il suo miglior battello a vapore: El Liberal, col quale poter spostarsi comodamente attraverso i fiumi che attraversano il Putumayo.
Evidentemente, Arana è convinto che l’ispezione della commissione inglese sia poco più di una formalità; una di quelle eccentriche iniziative prese per galvanizzare l’opinione pubblica britannica, ma dalla quale non c’è da temere alcun serio inconveniente. Prima finiranno i loro controlli e prima si leveranno dai piedi. Tanto vale assecondare le velleità di questi etranjeros, controllando discretamente i loro movimenti.
Julio C. Arana ed i suoi sodali sanno che la Commissione è priva di qualsiasi potere coercitivo, né può porre vincoli di alcun genere. Si tratta infatti di un’inchiesta meramente conoscitiva. E in virtù del principio di extraterritorialità non può emettere sanzioni né provvedimenti giudiziari. Evidentemente, i funzionari della APC sottovalutano la fredda determinazione di Casement ed il suo zelo investigativo.
Roger Casement sa che non può incriminare direttamente Arana ed i suoi sgherri, quindi si muove si tre diversi filoni di indagine: verifica diretta delle condizioni di lavoro e le procedute applicate dalla Compagnia nelle singole stazioni di produzione; raccolta capillare di documenti; reperimento e protezione di testimoni, con l’istruttoria degli eventuali capi di imputazione (sfruttamento, sequestro di persona, riduzione in schiavitù, omicidio..). Nella fattispecie, si avvale delle testimonianze di una trentina di impiegati della Compagnia provenienti dalle Isole Barbados. In quanto sudditi di Sua Maestà, i barbadoregni sono soggetti alla legge britannica: eventuali reati da loro commessi o l’induzione a compiere atti delittuosi, sono sottoponibili alla legge penale inglese e dunque passibili di processo con la chiamata in giudizio dei mandanti dei delitti, ovvero dei funzionari della APC, che a questo punto diventano imputabili secondo le leggi vigenti anche nei paesi di appartenenza.
Dal 22 Settembre al 22 Novembre del 1910, Casement visita di persona le principali stazioni della Compagnia, interrogando testimoni e raccogliendo prove. Il frutto della sua indagine è un dettagliato rapporto di 136 pagine, conosciuto come “Libro Azzurro” o “Blue Book”, basato su sette settimane di viaggio nelle zone gommifere del Putumayo, ricomprese tra gli affluenti dell’Igaraparanà e Caraparanà. I risultati vengono riferiti al Parlamento inglese e pubblicati a Londra il 13/07/1913.

C’è un giudice a Lima
 Nello stesso periodo, anche il governo peruviano sembra scuotersi dal suo torpore…
Nel 1907, ci aveva provato senza successo il giornalista ed editore Benjamin S. Rocca, desaparecido.
Nel 1908, lo scrittore Rafael Uribe pubblica un dettagliato resoconto (Por la América del Sur) sulle violenze, gli abusi ed i rapimenti, gli espropri, e gli assassini compiuti dalle milizie mercenarie della Casa Arana. Ma Uribe è colombiano, come colombiane sono la maggioranza delle vittime. E dunque ciò non giova allo spirito patriottico del Perù, né le accuse meritano di essere presa in considerazione.
Nel 1909 la campagna di stampa avviata dallo statunitense Walter E. Hardenburg è la mina che fa saltare un muro di gomma, finora creduto impenetrabile.
Nell’estate del 1910, il presidente Augusto B. Leguìa, su pressione di Stati Uniti e Gran Bretagna, invia nel Putumayo un magistrato con poteri speciali, per fare chiarezza sulle presunte atrocità commesse dagli impresari del caucciù ai danni delle popolazioni locali, avviando le eventuali azioni giudiziarie col supporto delle forze di polizia.
Con l’arrivo della commissione Casament, il governo peruviano si rende infatti conto che, per salvare la faccia, non può dilazionare oltre il suo intervento, nonostante la consolidata rete di protezioni della quali gode Julio C. Arana. Del resto, nella procura di Lima continuano ad accumularsi le denunce e le testimonianze. L’inchiesta viene affidata al giudice Carlos A. Valcàrcel, uno dei magistrati più stimati di tutto il Perù. Ha fama di persona integerrima ed è considerato un incorruttibile.
Il giudice Valcàrcel non è nuovo ai crimini del Putumayo. Completamente isolato, ma intenzionato ad appurare la verità, nel 1905 Valcàrcel si affida segretamente al fotografo e geografo francese Eugene Robuchon, che ha già visitato la regione del Putumayo tra il 1903 ed il 1904.
Nel 1906 Robuchon scompare misteriosamente senza lasciare traccia, mentre attraversa i territori amazzonici sotto il controllo della Casa Arana. Non verrà mai più ritrovato.
Pertanto, senza scorta né protezioni, il giudice Carlos Valcàrcel deve muoversi con circospezione, se non vuole essere vittima lui stesso di strani ‘incidenti’.
Minacciato di morte ed inseguito dai sicari di Arana, sarà costretto ad abbandonare precipitosamente il Perù per rifugiarsi a Panama, non prima di aver però consegnato gli atti della sua inchiesta contro gli uomini della Compagnia:

«Victor Macedo, il capo de La Chorrera, è uno di quei miserabili assassini, che solitamente danno libero sfogo ai propri istinti omicidi senza inibizioni: si diverte ad uccidere e bruciare vivi i pacifici abitanti della giungla. Uno degli atti di ferocia commessi da questi sciagurati nemici del genere umano fu commesso durante il carnevale del 1903 (nel mese di Febbraio), e si trattò di un crimine abominevole e orribile. Sfortunatamente, circa 800 indiani Ocaina giunsero a La Chorrera per consegnare il caucciù che essi avevano estratto… Dopo aver pesato il raccolto, l’uomo che li comandava, Fidel Velarde, afferrò 25 di loro e li accusò di lassismo. Questo fu il segnale per Macedo ed i suoi complici per ordinare che sacchi imbevuti di benzina fossero posti addosso agli indiani a mo’ di tunica e venissero dati alle fiamme. L’ordine venne prontamente eseguito

Valcàrcel certifica anche l’attività di stupratore seriale di Bartolomé Zumaeta, che era solito seviziare le indigene dopo averle violentate. Da notare che il figlio, Pablo Zumaeta, era uno dei maggiorenti di Iquitos e tra i principali soci di Julio C. Arana (nonché il cognato); mentre il sovrintendente de La Chorrera, in pratica svolgeva le funzioni di capo della polizia nella provincia di Iquitos. Quindi il giudice Valcarcel spiccò una serie di ordini di arresto contro 237 impiegati della Peruvian Amazon Co. con le accuse di stupro, tortura e omicidio.
Ad affiancare il magistrato, c’è il dottor Romulo Paredes, direttore del giornale El Oriente, che fa parte della commissione ispettiva inviata ad Iquitos e partecipa a tutti gli accertamenti.
C’è da dire che gran parte del futuro rapporto di Casement si basa in gran parte sul lavoro del giudice Valcarcel ed in particolar modo sulle evidenze di Romulo Paredes.
Ad ogni modo, gli ordini di arresto vennero bloccati dal tribunale di Iquitos, controllato dagli Arana, e il giudice Valcàrcel si ritrovò a sua volta sospeso e costretto ad espatriare in tutta fretta, per salvare la pelle.
Dal suo esilio panamense, nel 1913 pubblicò nel El proceso del Putumayo. Sus secretos inauditos. Nello stesso anno, vennero altresì pubblicati: Il Libro Rosso del Putumayo dell’inglese Norman Thomson ed il “Blue Book” di Roger Casement.


Tanto rumore per nulla?
 Naturalmente, il rapporto Casement non pose fine ai crimini nel Putumayo.
Julio Cesar Arana si presentò all’opinione pubblica peruviana come un benefattore ed un civilizzatore, che agiva nell’interesse nazionale e contro le prevaricazioni dei coloni colombiani. Il governo di Lima dichiarò che non poteva permettersi di sostenere i costi di una guarnigione militare aggiuntiva che presidiasse in pianta stabile gli immensi territori del Putumayo. Nonostante le pressioni del governo statunitense e britannico, degli oltre 200 ordini di arresto, solo nove vennero effettivamente eseguiti. Gli arrestati vennero immediatamente posti in libertà provvisoria e approfittarono per dileguarsi.
Ad ogni modo, la Peruvian Amazon Co. non si riprese mai del tutto dal colpo e finì più che altro danneggiata dalla nascente concorrenza del caucciù indiano. A rimetterci però furono soprattutto gli sventurati azionisti della compagnia, che videro crollare il valore delle proprie quote.
Julio C. Arana, i cui possedimenti fondiari avevano un’estensione grande quasi quanto la Francia, a parte qualche seccatura iniziale, non ebbe a subire grossi danni dall’inchiesta: pagò un indennizzo ai coloni colombiani, e risolse il tutto con una bella ristrutturazione aziendale che lasciò sostanzialmente intonso il suo gigantesco patrimonio. Certo dovette accettare il fatto che i suoi schiavi tornassero in libertà e che gran parte dei suoi possedimenti venissero ceduti alla Colombia.
Naturalmente, si riciclò presto in politica, facendosi eleggere senatore e promuovendo una serie di leggi (ad personam) per la tutela dei diritti di proprietà dei magnati amazzonici (cioè lui stesso). Nel decennio dal 1920 al 1930 venne ripetutamente rieletto e promosse una serie di iniziative legislative, con le quali si diminuiva le tasse e si attribuiva canoni agevolati e defiscalizzazioni per l’estrazione del petrolio nei territori di sua proprietà nel Putumayo, regalandosi pure una serie di concessioni esclusive. Ovviamente, tutto a norma di legge! Come ultima beffa, nel 1916 inviò una lettera a Roger Casement, detenuto in attesa di esecuzione, dicendogli che, nonostante tutto, “lo perdonava“. Da sempre, i malvagi la notte dormono bene.

 FINE (2/2)

> prima parte:  “IL PARADISO DEL DIAVOLO”

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Il Paradiso del Diavolo

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“Certe cose sono sconvolgenti e inaccettabili alla comune coscienza. La comune coscienza è inadattabile alle atrocità. E ci sarà pure qualche ragione. Forse perché essa, in realtà, le vuole.
[…] Certe cose atroci architettate o comunque volute dal Potere (quello reale non quello sia pur fittiziamente democratico) sono comunissime nella storia: dico ‘comunissime’: eppure alla comune coscienza paiono sempre eccezionali e incredibili.”

  Pier Paolo Pasolini
  (20/12/1969)

Giocando con la sua pessima fama (costruita ad arte), Aleister Crowley, che dell’argomento se ne intendeva, riteneva che il Male fosse qualcosa di immanente nell’indole umana e che in quanto tale andasse accettato come una componente essenziale della nostra realtà. Negarne l’esistenza ci renderebbe completamente impreparati ad affrontare le sue manifestazioni, conferendo al Male una natura del tutto eccezionale e dunque non gestibile. In definitiva, se ne decreterebbe il trionfo come si trattasse di un fenomeno casuale e del tutto imprevedibile.
La vera essenza del male risiede innanzitutto nell’inconsapevolezza di chi lo compie, nella sostanziale incapacità di comprendere la gravità delle proprie azioni. Il male può essere banale nella mediocrità personale di coloro che se ne fanno promotori, nella meccanica omicida dei suoi volenterosi carnefici. E Hannah Arendt, proprio in riferimento all’insignificante ordinarietà di Adolf Eichmann, sconvolta dalla ‘normalità’ di un uomo qualunque, parlò di assoluta banalità del male. Tuttavia, le forme attraverso le quali il male si esplica e si incarna nella realtà trascendono sempre la banalità dei suoi meri esecutori, giacché la vastità dell’orrore può essere abnorme nell’apparente semplicità della sua riproposizione, seppur realizzata in modalità differenti.
Ovunque vi sia sfruttamento, miseria, ignoranza, lì germoglia il seme del male, che prospera nella disuguaglianza attraverso le discriminazioni e cresce in parallelo all’avidità dei singoli. Sulla questione, le atrocità dell’imperialismo ed i genocidi del XX secolo non ci hanno risparmiato nulla. Eppure, vi sono casi che a volte sembrano sfuggire ad una catalogazione sistemica…

I Giardini del Male
 Ad un osservatore esterno, le vicende dell’America Latina risultano come pervase da una vena di follia irrazionale, impastata di violenza primordiale e incanalata nelle forme di una colonizzazione feroce, di sfruttamento selvaggio, nell’ambito di una sorta di brutale neo-feudalesimo su base agraria e capitalismo primitivo. Poco investigato e quasi misconosciuto nell’ambito della storiografia europea, lo sterminio delle popolazioni indigene agli inizi del ‘900 costituisce uno di quegli esempi estremi, talmente oltre i canoni consolidati, che resta a tutt’oggi difficile da comprendere appieno nella sua portata, in certo qual modo ‘anomala’.
Nello specifico, a circa 100 anni dalla sua pubblicazione, vale la pena di (ri)scoprire il rapporto (conosciuto come “Blue Book”) che sir Roger Casement, console generale britannico a Rio de Janeiro, presentò al Parlamento inglese, denunciando lo sfruttamento indiscriminato e la riduzione in schiavitù degli indios del bacino amazzonico, per l’estrazione del caucciù nel distretto del Putumayo: un vasto territorio al confine meridionale della Colombia, tra Equador, Perù, e Brasile.
Nello specifico, gli orrori del Putumayo sono difficili da spiegare e ‘giustificare’, secondo le componenti classiche di un’analisi di genere: razzismo, sfruttamento e capitalismo selvaggio, alienazione sociale e abbrutimento individuale, arretratezza culturale, autoritarismo statale…
Le violenze venivano compiute per conto e nell’interesse della Compagnia privata che deteneva il monopolio dell’estrazione del caucciù nella regione. Si trattava di una società per azioni a partecipazione anglo-peruviana e quotata nella borsa londinese. Ma fu una commissione d’inchiesta britannica, composta da fieri esponenti della borghesia liberale e di saldi principi conservatori, con l’appoggio del governo peruviano e del più grande impero coloniale del pianeta, a circostanziare i crimini con una serie di indagini dettagliate.
Si poteva parlare sicuramente di pregiudizio razziale da parte degli agenti bianchi della compagnia, ma era spesso l’esercito privato della multinazionale a praticare materialmente gli orrori denunciati. Si trattava di una milizia indigena, reclutata tra le stesse popolazioni asservite in stato di schiavitù. Provenivano dagli stessi villaggi, parlavano la stessa lingua, avevano relazioni parentali comuni e dunque lo zelo persecutorio non poteva essere il frutto di odi tribali o divisioni etniche.
Alcuni capi-posto, incriminati per i delitti, sono meticci di sangue misto e si avvalgono di aiutanti da campo reclutati tra gli abitanti delle Isole Barbados, ovvero discendenti dagli schiavi negri delle piantagioni da zucchero, che si rendono complici di violenze inaudite.
Tra i funzionari in loco della compagnia ci sono peruviani, boliviani, barbadoregni, ma anche irlandesi e statunitensi… È il caso di tal John Brown, che porta il nome del famosissimo attivista anti-schiavista; proviene da Chicago e lascia gli USA, per cercare fortuna in America Latina e sfuggire alle discriminazioni razziali. Si guadagnerà il soprannome di “capataz de los verdugos” (il capo dei boia).
Si può parlare di ignoranza e analfabetismo, ma le atrocità peggiori vengono compiute da uno degli agenti più colti e istruiti, presente nel Putumayo.
Nessuna variabile è prevalente e tutte sembrano decadere in una bolgia infernale, dove il male non ha colore né appartenenze particolari.

L’Inferno verde
 Costituito in massima parte da selve tropicali, il Putumayo è una giungla apparentemente inestricabile e semi-sconosciuta fin quasi la fine del XIX secolo, quando il francese Jules Crevaux esplorò la regione, attraversando in barca l’omonimo fiume e finire trucidato nelle terre estreme del Chaco bolivano.
Secondo un clichè assai diffuso, gli indios sono considerati dei selvaggi amorali. Pigri e bugiardi, sono per natura inclini al tradimento. E dunque di loro non c’è assolutamente da fidarsi. Non per niente, avventurieri ed esploratori si fanno largo a colpi di machete, dispensando fucilate.
Soprattutto, come gli indigeni di ogni latitudine, siano essi africani o aborigeni australiani, che non abbiano la fortuna di essere bianchi e cristiani, sono tutti e indistintamente dediti al cannibalismo per antonomasia. Dalle Americhe al Borneo, passando per la Cina. E questo li pone all’apice della barbarie, escludendoli dallo stesso genere umano. Dinanzi a tanta belluina ferocia, nessuna violenza potrebbe mai essere peggiore. E dunque ogni atto contro i popoli nativi è lecito e funzionale alla loro ‘civilizzazione’. Pertanto, le brutalità e la schiavizzazione non si configurano mai come violenze, bensì come una forma di ‘avviamento al lavoro’…

La Case commerciali
 Sul finire del XIX secolo, c’è un nuovo business che sembra garantire guadagni immediati e illimitati per pionieri dai pochi scrupoli e volontà di ferro, che abbiano il coraggio di avventurarsi nel cuore delle foreste vergini, con l’intenzione di stabilirvi imprese commerciali.
È il commercio del caucciù; o meglio, della gomma grezza di origine vegetale, ricavata dal lattice naturale della pianta, che serve per la realizzazione di pneumatici, su richiesta della nascente industria automobilista, e soprattutto per le ruote delle biciclette. Tra le infinite peculiarità della gomma, vi sono le sue proprietà elastiche, la resistenza, e l’assoluta impermeabilità all’aria e all’acqua. Caratteristiche che rendevano la gomma di gran lunga preferibile al cuoio.
Con milioni di alberi per la gomma, distribuiti su un territorio che sembra immenso, la foresta amazzonica è il nuovo Eldorado per i conquistadores del lattice prodigioso.
Nelle selve dell’Alta Amazzonia, e quindi del Putumayo, si riversa una massa di avventurieri, e di disperati, attratti dal miraggio di una ricchezza più presunta che facile. Sono uomini che si trovano ad operare in condizioni proibitive per un occidentale, immersi in una natura incontaminata ed ostile, per territori semisconosciuti e al di fuori da ogni legge e organizzazione civile, su confini spesso incerti e contesi dai nascenti stati sudamericani, per fondare le loro “case commerciali”.
Li chiamano caucheros. Le regole si dettano con la canna dei fucili e l’arbitrio è la regola.
Tristemente famoso diventerà un certo Hernandez: un gigantesco mulatto colombiano che, insieme ad un pugno di tagliagole evasi di galera come lui, si crea un suo feudo nel cuore della giungla con un migliaio di schiavi indigeni ed un harem di indie, prima di essere ucciso a pistolettate per una disputa di potere all’interno della banda.
I colonizzatori più intraprendenti costituiscono veri e propri regni personali, difesi da eserciti privati con migliaia di armati. A loro i deboli governi centrali, demandano praticamente tutto, considerando i loro avamposti commerciali alla stregua di presidi nazionali e militari. Si tratta di una sorta di feudalesimo baronale di Stato, legittimato da concessioni esclusive da parte di compagini statali che hanno solo un controllo nominale del territorio.
Centri periferici come Manaus in Brasile ed Iquitos in Perù si trasformano nelle capitali effimere di giganteschi imperi commerciali (come la Casa Suarez o la Vaca Diez), che hanno nel commercio del caucciù la loro ragione di esistere.
 Tra il 1890 ed il 1897 (anno della sua morte), diventa leggendario il potere del peruviano Carlos Fermín Fitzcarrald López, soprannominato “il Re del caucciù”. Nella sua opera instancabile, Fitzcarrald colonizza territori selvaggi, crea porti fluviali, fonda centri abitati, organizza le comunicazioni costruendo strade nella giungla (pianificherà persino una ferrovia) e realizza dal nulla una fitta rette di scambi commerciali. Per la bisogna impiega migliaia di indios alle sue dipendenze e molti lo venerano come una sorta di dio vivente. Ma non esita a scatenare le famigerate correrias (scorriere armate e spedizioni punitive) contro le tribù ostili alla sua espansione, o ai danni degli insediamenti dei coloni colombiani e brasiliani. All’apice del proprio potere personale, Fitzcarraldo pensa addirittura di organizzare i suoi domini in una sorta di repubblica indipendente, federata col Perù, e fondata su una sorta di regime assoluto ma paternalistico. Muore ad appena 35 anni, affogando durante una delle sue missioni esplorative. A modo suo, Fitzcarrald è un idealista, ammantato dall’alone del patriottismo, e anche un’eccezione in un mondo di pescecani che non guarda oltre il proprio profitto ed il mero arricchimento personale.
Le dispute territoriali tra colombiani e peruviani per il controllo del Putumayo sfociano spesso in azioni di guerra aperta, dove ad avere la peggio sono spesso i coloni provenienti dalla Colombia, alla quale formalmente la regione appartiene. Nel primo decennio del ‘900, da tali rivalità saprà trarre vantaggio Julio César Arana del Aguila, che si presenterà come tutore degli interessi nazionali del Perù e approfitterà degli appoggi politici, per costruire la sua personale impresa estrattiva e commerciale, realizzando una sorta di regno del terrore basato sulla tortura.

Julio César Arana del Aguila
 A suo modo, J.C.Arana è sicuramente un self-made-man e come tale non manca di ambizioni politiche, coerentemente col suo nome roboante (Giulio Cesare). Come ogni gangster che si rispetti, non avrebbe esitato a definirsi un “uomo d’affari”; uno di quelli che mentre ti punta la pistola alla tempia, accingendosi a premere il grilletto, ti sussurra serafico: “Senza rancori, sono soltanto affari”. Probabilmente, come un boss mafioso o un narcotrafficante delle Zetas messicane, si riteneva un imprenditore di successo.
Dalle ambizioni smisurate e perfidamente furbo, non era però un genio del male e di sicuro fu un uomo tutt’altro che banale. Se gli difettarono gli studi, non gli mancò certo l’intelligenza.
Originario di Rioja, un sobborgo fluviale nella selva di Moyabamba, dove nasce nel 1864, il giovane Arana si dedica all’onesto commercio di famiglia, fabbricando e vendendo cappelli (i famosi “panama”). Non privo di una notevole dose di intraprendenza, a soli 16 anni si trasferisce nella città cauchera di Iquitos e da lì si spinge nelle profondità del Putumayo, risalendo i fiumi dell’Alta Amazzonia, per rifornire i raccoglitori di caucciù con mercanzie e generi di prima necessità che Arana baratta in cambio di partite di gomma, da rivendere ovviamente a prezzi maggiorati ad Iquitos.
Nel 1888 mette su famiglia con Eleonora Zumaeta e costituisce il fulcro della sua impresa familiare, interamente fondata su vincoli di sangue, associando i suoi fratelli ed il cognato Pablo. Ma l’instancabile Arana non è semplicemente un grossista. Accumula sufficiente denaro per mettere su un piccolo emporio nel pieno della giungla che funziona come centro di scambio, sulle rive del fiume Yurimaguas per ottimizzare gli approvvigionamenti per via fluviale. Costituita la sua ‘casa commerciale’, Arana & family fanno giungere dal vicino Brasile gruppi di miserabili, facendo balenare loro la prospettiva di lauti guadagni. I coloni, prima di essere spediti nella giungla a raccogliere caucciù, vengono riforniti di provviste per tre mesi e di tutto il materiale indispensabile per la raccolta. Naturalmente a prezzi ipermaggiorati. Le partite di caucciù avrebbero dovuto estinguere il debito dei raccoglitori. Peccato che Arana corrisponda per ogni kg di gomma grezza un prezzo di gran lunga inferiore al valore di mercato, per un corrispettivo quasi mai sufficiente a saldare il debito iniziale, che viene dunque ricaricato con interessi usurai e con una nuova dotazione trimestrale che si somma al debito originario. In questo modo, il colono si trova indebitato a vita con gli Arana, in una situazione di semischiavitù. Il sistema messo in piedi da Arana è un classico dello sfruttamento amazzonico e si basa sull’accumulo di debiti perenni, impossibili da estinguere. La pratica è universalmente diffusa tra tutti i grandi ‘imprenditori’ della gomma.
Con scarso senso del ridicolo, Julio C. Arana si fa chiamare l’Abele dell’Amazzonia. Evidentemente si ritiene un benefattore.
Deciso ad estendere le sue attività, insieme al cognato Pablito si spinge oltre i confini della Colombia penetrando nel cuore del Putumayo.
Nel 1896, organizza una propria linea di trasporti a vapore per trasportare il caucciù nella città peruviana di Iquitos. Quindi, inizia ad acquisire con le buone, e più spesso con le cattive, nuove terre per la raccolta del caucciù. Soprattutto entra in contatto con le imprese commerciali dei colombiani, operanti nel Putumayo, dai quali apprende molti trucchi del mestiere…
Nel 1899 scopre che una delle più floride compagnie estrattive della regione, l’impresa colombiana dei fratelli Calderòn, ha avviato al lavoro coatto nelle sue piantagioni circa duemila indigeni, rastrellati durante le correrias tra le pacifiche tribù degli Huitoto, degli Andoque, dei Bora ed i Nonuya, e che ora detiene in condizione servile.
Deciso a migliorare l’estrazione e la lavorazione della materia, J.C.Arana ha un lampo di genio e scopre che può abbattere i costi di produzione… Perché impiegare gruppi di immigrati straccioni, scarsamente produttivi, non abituati al clima, che si ammalano facilmente e muoiono di malaria prima di saldare i debiti contratti con la Casa Arana? E che se non muoiono di malaria, si attaccano ad una bottiglia di acquavite diventando totalmente inutili al lavoro? Perché confidare in gente totalmente inaffidabile, che per disperazione può tirarti addosso una fucilata nel cuore della notte, quando si può disporre di un potenziale bacino di schiavi a costo zero?
Considerati meno che animali, gli indios del Putumayo costituiscono infatti una fonte di manodopera illimitata; possono diventare all’occorrenza oggetti di consumo sessuale e giocattoli di carne per i sadici passatempi dei guardiani delle piantagioni.
Al principio del nuovo secolo, nel 1900, entra in società col colombiano Benjamin Larrañaga e suo fratello Rafael, tra i maggiori possidenti della zona. I fratelli Larrañaga hanno incrementato le loro proprietà eliminando, fisicamente, la concorrenza e convincendo i più ragionevoli tra i loro connazionali a cedergli la terra a titolo gratuito. Naturalmente, la nuova Compagnia Larrañaga & Arana non perde occasione per incrementare i ranghi della propria manodopera indigena, ricorrendo all’ottimizzazione già praticata con successo dalla Casa rivale dei Calderòn.

Ora che Julio C. Arana è diventato uno stimato imprenditore, può finalmente fare ritorno ad Iquitos dove diventa subito un membro onorato dell’alta società. Julio Cesar è un uomo innamorato di sua moglie. Si distingue per i suoi costumi morigerati ed il tenore di vita austero, a tratti perfino ascetico. Si tiene lontano dai bordelli dei quali Iquitos abbonda; non apprezza la vita mondana e la sera va a letto presto. È un uomo colto, rispettabile, amante della lettura e delle buone maniere. Soprattutto, è generoso… l’Abele dell’Amazzonia supplisce infatti a tutte le carenze del governo di Lima: anticipa gli stipendi ai funzionari pubblici della città; paga i magistrati… paga gli ufficiali della polizia giudiziaria… provvede alle forniture delle guarnigione militare di Tarapaca e garantisce la regolarità delle paghe per la truppa.
Diventa presidente della locale Camera di Commercio e della giunta dipartimentale. È il Re Sole del Putumayo. A chi gli chiede ragione della sua intraprendenza risponde: “Qui lo Stato sono io”. Difficile dargli torto.
E infatti la guarnigione militare più che al governo peruviano risponde direttamente agli ordini di Julio Cesar Arana. Peraltro il governo centrale lo considera in tutto e per tutto il proprio emissario nella regione. Con l’inasprirsi dei rapporti tra Lima e Bogotà, insieme ai continui sconfinamenti delle truppe peruviane ed il blocco della navigazione fluviale ai danni dei colombiani, Arana approfitta subito dell’occasione per monopolizzare il commercio del caucciù ed eliminare tutti i suoi principali rivali. Fa assaltare i ranch dei colombiani con raid notturni. Taglieggia indiscriminatamente i piccoli raccoglitori. Chi non ‘collabora’ viene zavorrato e buttato nei fiumi. Requisisce proprietà, ricorrendo all’omicidio ed alla intimidazione sistematica, trovandosi a capo di possedimenti immensi.

Il Sistema perfetto
Nel 1904, Arana riorganizza gli asset proprietari della Compagnia. Il suo socio d’affari, Benjamin Larrañaga, muore stranamente avvelenato. Ed il figlio del defunto si affretta a cedere tutte le quote al solerte Julio Cesar che le acquista a prezzo stracciato.
Dal 1900 al 1906 la produzione di caucciù nelle terre degli Arana passa da circa 160 tonnellate a quasi 845.000 kg. La produzione è rimessa alla libera iniziativa degli agenti della compagnia, che dirigono sul posto le attività estrattive dei singoli distaccamenti: i capiposto ed i loro aiutanti vengono pagati a percentuale con una provvigione sulla quantità di gomma cumulata. Più lattice viene lavorato e spedito a Iquitos, più gli agenti di Arana guadagnano. Va da sé che i prezzi al kg continua a stabilirli Arana e le sue stime non sono sindacabili. Tutta l’attività di estrazione viene rimessa agli Indios, che non ricevono alcun compenso per il loro lavoro, se si eccettua qualche straccio per coprire le nudità e una ciotola di cereali ogni tanto.
In realtà si tratta di un gioco al ribasso dove, in proporzione, tutti ci rimettono e l’unico che guadagna è Arana che detiene saldamente il banco, senza rischiare nulla e con investimenti ridotti al minimo indispensabile.
La pressione costante sui raccoglitori è fondamentale per l’incremento della produttività, a tutto vantaggio degli sfruttatori. A dissuadere ogni tentativo di rivolta degli schiavi e vigilare sui possedimenti di Arana c’è un esercito privato di 1.500 mercenari armati di tutto punto.
Il sistema messo in piedi da Arana, con la sua efficienza criminale, è un franchising dell’orrore. L’organizzazione è in realtà semplice ed è già stata collaudato con successo da francesi e belgi nelle colonie africane del Congo.
La Compañia costruisce stazioni commerciali per lo stoccaggio della gomma grezza, provvedendo a tutte le fasi della produzione, dalla raccolta al trasporto.
Nella fattispecie, si tratta di una cinquantina di centri di raccolta, composti da poche baracche, totalmente autosufficienti ed a conduzione autonoma, con una rigida gerarchia di comando.
Ogni stazione ha il suo capoposto (jefe), con diritto di vita e di morte sui lavoranti; i suoi ‘caporali’ (capataz); la sua milizia etnica (muchachos); i suoi schiavi (flagelados).
I ‘capi’, provenienti un po’ dovunque, sembrano un battaglione di piccoli ‘Signor Kurtz’ già visti in “Cuore di tenebra” e spesso assomigliano ad un condensato di sadici psicopatici.
Sono affiancati da un piccolo esercito di aiutanti (capataz) tutto fare, che li coadiuvano come sorveglianti e capi-milizia. Sono in prevalenza dei miserabili reclutati per fame nelle Isole Barbados e scelti per la loro resistenza a condizioni climatiche estreme. Sono spesso gli esecutori materiali delle nefandezze peggiori. Chi non obbedisce ciecamente agli ordini dei capi, rischia di finire lui stesso al palo della tortura o di sparire nella foresta.
I muchachos sono giovani indios, inquadrati nell’esercito privato della Compagñia, Affiancano i capi ed i capataces nel controllo degli schiavi. Partecipano alle correrias per l’approvvigionamento di manodopera ed alla caccia dei fuggitivi.
Le punizioni corporali e la supervisione nei campi di lavoro viene poi affidata ai racionales: sono indios castiglianizzati, “civilizzati”, e fanno parte dei muchachos che affiancano i capataces.
È il sistema economico perfetto per rilanciare la crescita.

I Guardiani dell’Inferno
 Per incrementare la produzione e mantenere la disciplina, senza l’impaccio di inutili norme contrattuali o perniciose rivendicazioni sindacali, ogni responsabile della Casa Arana può decidere a proprio totale arbitrio, intraprendendo le azioni che ritiene più proficue all’incremento degli utili.
Tra i metodi (criminali), come documentato dalle successive inchieste e denunce, si distinguono in particolare una decina di centri di raccolta…
Il centro di La Chorrera (La Rapida) è il più grande e più produttivo dell’impero di Arana ed è anche soprannominata la “Colonia Indiana”, per l’enorme presenza di indios ridotti in schiavitù. A dirigere il centro, insieme al vice-amministratore Juan Tizon, c’è Victor Macedo: agente (e sicario) di assoluta fiducia di J.C.Arana.
La Chorrera gareggia in produzione con la stazione di El Encanto che prospera sotto l’illuminata amministrazione di Miguel Loaysa, a cui si deve l’invenzione del “Marchio di Arana”: 100 frustate per chi non raggiunge la quota prefissata di raccolto giornaliero, senza distinzione per uomini, donne e bambini. Se non si muore sotto le nerbate, si rimane marchiati a vita. E i sopravvissuti costituiscono un monito per tutti gli altri. Solitamente, i capataz ed i racionales impartiscono le scudisciate sulle natiche. Altre volte si prediligono braccia e schiena che nei casi più estremi vengono scarnificate dai colpi fino all’osso. Nel clima della giungla tropicale, le ferite spesso si infettano provocando la morte dei disgraziati.
In una bella giornata di Febbraio del 1903, Miguel Loaysa è ospite di Victor Macedo presso La Chorrera. È giorno di raccolta e circa 800 indios di etnia Ocaima sono giunti alla stazione per consegnare le balle di caucciù raccolto nella foresta. Le balle vengono quindi pesate e immagazzinate. E però c’è un problema: 25 indios non hanno raggiunto la quota obbligatoria di consegna. E dunque bisogna dare una lezione pubblica, per incentivare la produttività…
 I 25 disgraziati vengono avvolti con sacchi imbevuti di petrolio, dati alle fiamme, e lasciati correre per tutto il campo mentre bruciano vivi, tra le grandi risate dei manager in riunione che si divertono a finire i moribondi agonizzanti sul terreno a colpi di pistola.
Da notare che Macedo è un cholo, ovvero un meticcio di sangue indio.
L’abitudine di bruciare vivi gli indigeni è uno sport molto praticato e rientra tra i passatempi preferiti dei capi insediamento.
Nella stazione di Abisinia, condotta dal jefe Abelardo Aguero, gli indios Bora vengono solitamente appesi ai rami degli alberi con le braccia legate dietro la schiena ad ogni minima infrazione, controllati a vista dai capataz barbadoregni, che non avendo nient’altro da fare ogni tanto, poverini, si annoiano. Per ammazzare il tempo si divertono a tirare le gambe degli appesi, favorendo la disarticolazione degli arti superiori, mordendogli a sangue le cosce. Altre volte, Aguero ordina di accendere fuochi sotto gli appesi o cospargerli di benzina direttamente, divertendosi a guardarli mentre si contorcono in preda alla fiamme.
La pratica è molto apprezzata anche da Armando Normand, sovrintendente della stazione di Matanzas.
Per le punizioni più lievi si ricorre al ‘ceppo’: un cavalletto sul quale i rei venivano legati bocconi e lì lasciati immobilizzati per settimane, costretti a leccare il cibo da una ciotola.
Tanta severità da parte di Aguero è giustificata, giacché in passato c’era già stato un tentativo di rivolta che aveva creato parecchi problemi ai precedenti capiposto.
Ad Abisinia, uno dei luogotenenti di Arana, tal Bartolomé Zumaeta, aveva violentato la moglie di un capotribù Bora, il quale non aveva preso tanto bene l’affronto. Katenere, questo era il suo nome, di notte era penetrato nell’accampamento dei caucheros rubando loro i fucili e uccidendo lo stupratore. Avrebbe fatto meglio a sgozzarli tutti nel sonno… Infatti la Compagnia mette subito una taglia sul giovane capo indigeno, mentre si scatena una gigantesca caccia all’uomo che si protrasse per oltre due anni, finché una squadra di cacciatori non riuscì a catturare almeno la compagna di Katenere. Condotta al campo di Abisinia, la donna viene stuprata in pubblico da tutto il personale di guardia, compreso el jefe Vasquez, legata al ceppo della tortura, fustigata a sangue e lì lasciata senza acqua ne cibo per giorni. La donna non sarebbe infatti stata liberata, finché Katenere non si fosse consegnato alla ‘giustizia’. Cosa che regolarmente avvenne. Una volta costituitosi, Vasquez in persona cavò gli occhi a Katenere con un uncino di ferro, quindi lo legò al palo insieme alla moglie e diede fuoco ad entrambi.
In alternativa, secondo il capriccio del momento, gli indios potevano finire impiccati, impalati, crocifissi, affogati nei fiumi. Diversamente, gli indigeni vengono puniti col taglio delle orecchie, del naso, delle dita. Ma non era escluso il taglio delle mani o dei piedi; in tal caso i mutilati, ormai inutilizzabili, venivano cosparsi di kerosene e dati alle fiamme. Non era disdegnata l’evirazione…
A volte però si esagerava, come ebbe ad imparare a sue spese uno dei capi-posto, Miguel Flores, che nel 1907 ricevette una lettera di richiamo della Compagnia, per aver dilapidato con troppa facilità il capitale umano dell’impresa. Le uccisioni dovevano avvenire solo “in caso di necessità”. La risposta piccata di Flores non si era fatta attendere: «Protesto vivamente, perché in questi ultimi due mesi nel mio insediamento sono morti soltanto una quarantina di indios
 Abelardo Aguero ed il suo vice Augusto Jimenez ricevettero una multa per aver utilizzato i propri lavoranti come bersagli, in gare di tiro a segno per esercitare la mira. Non si poteva certo privare così l’impresa di preziosa manodopera schiava! E Julio C. Arana, l’Abele dell’Amazzonia, ci teneva a tutelare i suoi investimenti.
In virtù di tali precedenti, intorno al 1909 il 26enne Augusto Jimenez, un meticcio di sangue indio, verrà promosso a capo della stazione di Ultimo Retiro.
Jimenez ha preso il posto di Fidel Velarde e del suo vice Alfredo Mott, che nel frattempo hanno fatto carriera diventando responsabili rispettivamente delle stazioni di Occidente ed Atenas.
Durante la loro conduzione dell’insediamento di Ultimo Retiro, pare che una notte i due, completamente ubriachi, abbiano scommesso su chi avrebbe tagliato più in fretta un orecchio ad un indio huitoto legato al ceppo. Afferrati i machete, Velarde riesce a tagliare l’orecchio con un unico colpo. Alfredo Mott, che invece è ubriaco fradicio, manca il bersaglio ma in compenso centra in pieno il cranio dell’indio, aprendolo a metà.
Dalla sua stazione di Occidente, il buon Velarde (che già si era distinto al servizio di Macedo) si fa aiutare da un altro terzetto omicida: Manuel Torrio, Rodriguez e Acosta.
In fondo, non li si può troppo biasimare: si tratta di uomini abbrutiti dalla giungla, nati e cresciuti in contesti selvaggi…
Nella stazione di Matanzas si fa notare Armando Normand. Poco più che ventenne (è nato nel 1885), basso, minuto, brutto, è un boliviano di origini britanniche, che vanta un corso di studi a Londra, un diploma da contabile, e parla fluentemente l’inglese.
Sono pochi quelli che lavorano volentieri con Normand. Gli stessi capataces barbadoregni ne sono terrorizzati. L’intero insediamento è circondato da migliaia di ossa umane.
Una volta, il barbadoregno Augustus Walcott ebbe a sollevare alcune obiezioni, durante una delle punizioni pubbliche inferte da Normand: un indio che aveva tentato la fuga, era stato legato sospeso ad un palo, colpito a colpi di machete e quindi lasciato penzoloni a morire dissanguato. Walcott, commentò ad alta voce che non era quello il modo di ammazzare la gente (non è roba da cristiani questa!). In risposta, Armando Normand aveva fatto crocifiggere l’indisciplinato sottoposto, in ossequio alla devozione religiosa del nero capataz.
Se in seguito alle torture le ferite si infettano, rendendo gli indios inabili al lavoro, Normand li fa ammazzare a colpi di machete per risparmiare le pallottole.
Normand ha il discutibile pregio di riuscire a schifare perfino il resto della banda di allegri psicopatici al soldo della Casa Arana. Successivamente interrogati dalla Commissione Casament, i suoi assistenti lasceranno testimonianze allucinanti:

«Secondo il barbadiano Joshua Dyall, dalla sua personcina insignificante emanava una “forza maligna” che faceva tremare chi gli si accostasse e il suo sguardo, penetrante e glaciale, sembrava quello di una vipera. Dyall asseriva che non soltanto gli indios, ma anche i muchachos e persino gli stessi capataces si sentivano insicuri al suo fianco. Perché in qualunque momento Armando Normand poteva compiere o ordinare lui stesso un atto di ferocia raccapricciante, senza che si alterasse la sua indifferenza sdegnosa verso tutto ciò che lo circondava.
Normand gli aveva ordinato un giorno di assassinare cinque Andoques, puniti così per non aver consegnato le quote stabilite di caucciù. Dyall uccise i primi due a colpi di pistola, ma il capo ordinò che ai due successivi si schiacciasse prima i testicoli su una pietra usata per impastare manioca e li si finisse a bastonate. L’ultimo glielo fece strangolare con le sue mani. Durante tutta l’operazione rimase seduto su un tronco d’albero, fumando e osservando, senza che si alterasse l’espressione indolente della sua faccia rubiconda.
Un altro barbadiano, Seaford Greenwich, raccontò che lo spasso per i racionales dell’insediamento era l’abitudine del capo di mettere peperoncino tritato o intero nel sesso delle piccole concubine, per sentirle gridare dal bruciore.»

 “Il Sogno del Celta”
Mario Vargas Llosa
 Einaudi, 2011

Pare che questo fosse l’unico modo per eccitare il sadico Normand. Particolarmente temuti sono poi i suoi mastini, che non esita ad aizzare per un nonnulla contro i suoi lavoranti, facendoli sbranare vivi.
Nella stazione di Sur opera invece il buon Carlos Miranda, un allegro ciccione, molto spiritoso, di buone maniere e ottima educazione, purché non lo si faccia arrabbiare… Irritato da una vecchia indigena che incitava gli indios alla rivolta, Miranda la decapita con un solo colpo di machete; quindi se ne va in giro per l’accampamento mostrando il capo mozzo ai lavoranti terrorizzati, come una parodia di David e la testa di Golia.
Molto ambito era invece il servizio nell’insediamento di Entre Rìos, amministrato da Andrès O’Donnell, un irlandese che non lesinava la frusta ma che non amava le carneficine. O’Donnell si era creato un suo harem personale con una decina di concubine che lo seguivano ovunque. Ed era particolarmente apprezzato dai suoi subalterni.
Nell’insediamento di La Sabana, il capo José Inocente Fonseca ha adibito parte delle baracche in un serraglio di prostitute bambine dagli 8 ai 15 anni, per il suo uso e consumo personale.

Ovviamente, in tutti i casi, gli indigeni tenuti in cattività non sono considerati ‘schiavi’ ma “debitori” della Casa Arana. E pertanto non potranno essere liberati, finché non avranno saldato i debiti.
Per il lavoro svolto, la Compagnia non corrisponde salari. E del resto gli indios non attribuiscono alcun valore al denaro. Ad ogni lavorante indigeno, rastrellato nelle correrias, viene fornito il minimo indispensabile per la raccolta del caucciù. Le dotazioni vengono prese dai magazzini degli insediamenti e addebitati agli indigeni a valore decuplicato, che dovranno scontare alla consegna del prodotto. Quindi i raccoglitori vengono avviati al lavoro nella foresta, dove restano generalmente una quindicina di giorni prima di tornare con il lattice raccolto. Per evitare fughe, mogli e figli vengono trattenuti nel campo come ostaggi. I capi ed il personale della compagnia ne dispongono liberamente, utilizzandoli per servizi domestici o come schiave sessuali (dai 6 anni in su tutto va bene). Al ritorno dei raccoglitori, il caucciù veniva pesato, solitamente con bilance truccate. Se nell’arco di tre mesi non si raggiungevano i 30 kg, venivano inferte le punizioni già viste che andavano dalla fustigazione, alle mutilazioni, all’omicidio. I cadaveri non venivano mai sepolti, ma abbandonati nei dintorni a mo’ di monito.
Agli indios erano poi richieste tutta una serie di corvees supplementari che andavano dalla costruzioni delle baracche alla riparazione dei tetti, dalla pulizia dei sentieri al carico e scarico delle merci, fino all’affumicamento ed impasto del caucciù, nonché alla coltivazione degli orti per gli approvvigionamenti di cibo.
Quando non sono impegnati nelle loro scorrerie a caccia di nuovi schiavi, nelle torture, nelle punizioni, negli stupri o a litigarsi le concubine a colpi di coltello, i miliziani privati della Compagnia passano il tempo ad attaccare i trasporti dei colombiani o saccheggiare le loro proprietà, scambiandosi fucilate con l’esercito regolare di Bogotà. La cosa procura parecchi blasoni patriottici al bravo Julio Cesar Arana che nel frattempo è divenuto una delle persone più influenti del Perù.

Il Finanziere
 Diventato ormai affermato imprenditore di un così rispettabile commercio, Julio C. Arana, l’Abele dell’Amazzonia, amplia le sue vedute e decide di fare il grande salto in avanti, approdando in Borsa…
Nel 1903 apre una succursale della sua Casa commerciale a Manaus in Brasile. Quindi crea filiali a Londra e New York, per meglio accreditarsi sui mercati internazionali.
Nel 1907 istituisce la “Peruvian Amazon Rubber Company”, con capitali misti di investitori in prevalenza anglo-peruviani per un milione di sterline, e quotata alla City londinese.
Per la bisogna ha acceso un credito di 60.000 sterline inglesi con la filiale londinese della Banca del Messico, non prima di ipotecare tutte le proprietà immobiliari ed i suoi latifondi a nome della moglie Emanuelita. Né manca di far falsificare i bilianci societari da revisori contabili compiacenti. In questo modo, in caso di fallimento, eventuali azionisti e creditori non potranno rivalersi di un solo centesimo sulle immense ricchezze di Arana che però può ora drenare finanziamenti illimitati dal bel mondo della finanza anglosassone.
L’operazione di capitalizzazione è affidata ad Henry M. Read, gerente del ramo londinese della Banca del Messico. Ma nella nuova compagnia ci sono alcuni tra i più ricchi investitori dell’epoca: John Russell Gubbins, investitore particolarmente ammanigliato col governo peruviano; T.J.Medina, tra gli uomini più ricchi del Perù; il barone De Souza-Deiro; sir John Lister Kaye
Julio C. Arana non sa che in caso di insuccesso possono diventare nemici potenti.

Le prime denunce: Benjamin Saldaña Rocca
 Da che mondo è mondo, potenti e politicanti amano la stampa, fintanto che tesse le loro lodi e scodinzola ai loro piedi come un cagnolino addomesticati. In caso contrario, c’è sempre una legge bavaglio e un’intimidazione pronta, per azzittire giornalisti troppo impertinenti…
Nella città di Iquitos, che oramai è diventata un mandamento personale del boss Arana, c’è qualcuno che, nonostante tutto, non si lascia comprare né è disposto ai compromessi.
Benjamin Saldaña Rocca è un giornalista, che non ha bisogno di essere iscritto ad albi per scrivere, ed editore unico di due periodici locali: “La Felpa” e “La Sanciòn”. Sono poco più che giornalini, perennemente a corto di fondi, con tiratura settimanale e tutt’altro che regolare. Gli boicottano la distribuzione, gli sequestrano le copie dei giornali, gli bruciano la tipografia, lo minacciano di morte, gli sparano addosso e rimane zoppo, ma Rocca non molla. È una di quelle rare persone, per le quali i principi vengono assai prima del soldo. Rocca discende da una famiglia di ebrei sefarditi. Contro di lui, la Casa Arana organizza una infame campagna anti-semita.
Il 09/08/1907 Rocca presenta un esposto pubblico alla magistratura di Iquitos. È il suo coraggioso J’Accuse nel quale denuncia con dovizia di informazioni i crimini dei bravacci di Arana, facendo nomi e cognomi dei carnefici.
Su ‘La Felpa’ del 29/12/1907 descrive i sistemi truffaldini utilizzati dagli Arana. È il suo ultimo atto: in una notte al principio del 1908 Saldaña Rocca scompare da Iquitos. Alcuni testimoni vedono un uomo che gli assomiglia, col viso tumefatto che viene trascinato via da un gruppo di uomini, su una barca pronta a salpare sul fiume. Nessuno lo rivedrà più, né le sedicenti autorità si daranno mai la pena di appurarne la sorte.

El Gringo: Walter Hardenburg
 J.C.Arana sembra intoccabile e probabilmente si reputava tale… Ma in tutte le storie c’è sempre l’incognita non prevista che fa saltare i giochi, il granellino di sabbia che inceppa un ingranaggio che sembrava perfetto.
Il guastafeste si chiama Walter Ernest Hardenburg. È un ragazzone yankee venuto in Sud America a far fortuna. E come a volte capita di riscontrare in certi statunitensi, è anche un inguaribile idealista; una di quelle teste dure che fa delle questioni di principio una missione personale.
W.E.Hardenburg è un ingegnere ferroviario. O almeno così dice lui. Sicuramente è un operaio specializzato che ha fiutato l’occasione della vita… Per ottimizzare il trasporto del caucciù, come del caffè, e rendere più rapidi i collegamenti tra i centri amazzonici in espansione, il governo colombiano sta pianificando la costruzione di migliaia di chilometri di ferrovia. Pertanto, il personale esperto è richiestissimo e ottimamente pagato. Alla fine del 1907, dopo aver lavorato in Colombia, il 26enne Hardenburg, insieme ad un gruppo di avventurieri come lui, decide di inoltrarsi nelle profondità dell’Amazzonia, attraversare i territori della produzione gommifera nel Putumayo e raggiungere la città di Madeira in Brasile, per un nuovo ingaggio come tecnico ferroviario. Durante il suo viaggio nel Putumayo, Hardenburg viene ospitato in diverse tenute di caucheros colombiani, che lo informano con dovizie di particolari sui continui abusi e sulle violenze degli uomini della Peruvian Amazon Co. di Arana, che peraltro Hardenburg ha modo di sperimentare personalmente, con sequestri di persona e requisizioni forzose.
Lo stesso Hardenburg verrà sequestrato dagli uomini di Miguel Loayza e trattenuto come ‘ospite’ nella stazione di El Incanto. Durante il suo soggiorno coatto, avrà modo di vedere coi suoi occhi i metodi di lavoro utilizzati dalla Casa Arana, avendo occasione di visitare anche altre stazioni come la famigerata Chorrera. Ne rimarrà talmente sconvolto, da raccogliere le sue esperienze in un’opera dal titolo evocativo: “Putumayo, il Paradiso del Diavolo. Viaggi nella regione amazzonica del Perù e un resoconto sulle atrocità contro gli indigeni” (Boston, 1912).
Nel 1908, una volta libero, Hardenburg ci mette quasi un anno per mettere insieme i soldi, raccogliere ulteriori prove, riuscire a raggiungere Londra dove la Peruvian Amazon Co. ha la sua sede, e denunciare ciò che ha visto.
Nel 1909 il periodico londinese “Truth” pubblica un lungo articolo (“The Devil’s Paradise”) con le testimonianze di Hardenburg:

«Gli uomini della Compagñia tagliavano a pezzi gli indios coi machete e schiacciavano le cervella dei bambini piccoli lanciandoli contro gli alberi o i muri. I vecchi venivano ammazzati quando non potevano più lavorare, e per divertirsi, i funzionari della compagnia esercitavano la loro perizia di tiratori, utilizzando gli indios come bersaglio. In occasioni speciali, come il sabato di pasqua, sabato di gloria, li ammazzavano in gruppo oppure, di preferenza, davano loro fuoco col cherosene, per godere della loro agonia. […] Gli agenti della compagnia obbligano i pacifici indios del Putumayo a lavorare giorno e notte, senza il minimo riposo, salvo il cibo necessario per mantenerli in vita. Rubano i loro beni, le loro mogli, i loro figli.»

 Il reportage pubblicato dal “Truth”, fece inorridire il pubblico inglese, il quale trovò assolutamente scandaloso che simili fatti venissero compiuti da una società partecipata con capitali britannici e con una dirigenza quasi totalmente inglese. Le denunce di Hardenburg ebbero un incredibile eco nell’opinione pubblica della Gran Bretagna, approdando in Parlamento che pressato dalla blasonata “Società contro la schiavitù” decise di costituire una commissione d’inchiesta da avviare in Perù, in considerazione del fatto che si trattava pur sempre di una compagnia britannica con dirigenza e azionisti inglesi.
Per l’impero di Julio Cesar Arana si avvicinava il principio della fine….

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