La Città degli Specchi

Gabriel Garcia Marquez «Aureliano non era mai stato così lucido in nessun atto della sua vita come quando dimenticò i suoi morti e il dolore dei suoi morti, e tornò a sbarrare le porte e le finestre con le crociere di Fernanda per non lasciarsi turbare da alcuna tentazione del mondo, perché allora sapeva che nelle pergamene di Melquíades era scritto il suo destino. Le trovò intatte, tra le piante preistoriche e le pozze fumanti e gli insetti luminosi che avevano bandito dalla stanza ogni vestigio del passaggio degli uomini sulla terra, e non ebbe la serenità di portarle alla luce, ma in quel luogo stesso, in piedi, senza la minima difficoltà, come se fossero state scritte in spagnolo sotto lo splendore accecante del mezzogiorno, come a decifrarle a voce alta. Era la storia della famiglia, scritta da Melquiades perfino nei suoi particolari più triviali, con cent’anni di anticipo. L’aveva redatta in sanscrito, che era la sua lingua materna, e aveva cifrato i versi pari con la chiave privata dell’imperatore Augusto, e quelli dispari con chiavi militari lacedemoni. La protezione finale, che Aureliano cominciava a intravedere quando si era lasciato confondere dall’amore di Amaranta Ursula, si basava sul fatto che Melquíades non aveva ordinato i fatti nel tempo convenzionale degli uomini, ma che aveva concentrato un secolo di episodi quotidiani, di modo che tutti coesistessero in un istante. Affascinato dalla scoperta, Aureliano lesse ad alta voce, senza salti, le encicliche cantate che lo stesso Melquíades aveva fatto ascoltare ad Arcadio, e che erano in realtà le predizioni della sua esecuzione, e trovò annunziata la nascita della donna più bella del mondo che stava salendo al cielo in corpo e anima, e conobbe l’origine di due gemelli postumi che rinunciavano a decifrare le pergamene, non soltanto per incapacità e incostanza, ma perché i loro tentativi erano prematuri. A questo punto, impaziente di conoscere la propria origine, Aureliano passò oltre. Allora cominciò il vento, tiepido, incipiente, pieno di voci del passato, di mormorii di gerani antichi, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci. Non se ne accorse perché in quel momento stava scoprendo i primi indizi del suo essere, in un nonno concupiscente che si lasciava trascinare dalla frivolità attraverso un altipiano allucinato, in cerca di una donna bella che non lo avrebbe fatto felice. Aureliano lo riconobbe, incalzò i sentieri occulti della sua discendenza, e trovò l’istante del suo stesso concepimento tra gli scorpioni e le farfalle gialle di un bagno crepuscolare, dove un avventizio saziava la sua lussuria con una donna che gli si dava per ribellione.
Era cosí assorto, che non sentì nemmeno il secondo assalto del vento, la cui potenza ciclonica strappò dai cardini le porte e le finestre, svelse il tetto dell’ala orientale e sradicò le fondamenta.
Soltanto allora scoprì che Amaranta Ursula non era sua sorella, ma sua zia, e che Francis Drake aveva assaltato Riohacha soltanto perché loro potessero cercarsi per i labirinti più intricati del sangue, fino a generare l’animale mitologico che avrebbe posto termine alla stirpe. Macondo era già un pauroso vortice di polvere e macerie, centrifugato dalla collera dell’uragano biblico, quando Aureliano saltò undici pagine per non perder tempo con fatti fin troppo noti, e cominciò a decifrare l’istante che stava vivendo, e lo decifrava a mano a mano che lo viveva, profetizzando sé stesso nell’atto di decifrare l’ultima pagina delle pergamene, come se si stesse vedendo in uno specchio parlante. Allora saltò oltre per precorrere le predizioni e appurare la data e le circostanze della sua morte. Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.»

Gabriel Garcìa Màrquez
“Cent’anni di solitudine”
(Mondadori, 1982)

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6 Risposte a “La Città degli Specchi”

  1. grande scrittore… grande socialista… grande sudamericano… un Uomo che ha lasciato un segno nella storia.

  2. Oddìo che emozione! Pensavo mi postassi l’ennesimo papello, con eventuali ipotesi sulle origini semite di Màrquez!!

  3. …anche se fosse ebreo che cambierebbe??? io non sono antisemita, certo… non mi sono simpatici… ma non provo odio nei loro confronti…. anzi… a dirla tutta non capisco come si possa odiare gli ebrei, visto che mai potrei pensare oggi che gli ebrei siano un popolo detestabile (neanche una sua parte).
    Assolutamente no, lungi da me, nonostante il 90% dell’elettorato israeliano voti partiti che si abbandonano e auspicano il sadismo contro la popolazione palestinese… tranquillo non occorre che controlli i dati elettorali e i programmi dei partiti israeliani, fidati sulla parola 🙂
    Nonostante mi abbiano denunciato, perseguitato, minacciato, sputtanato su tutti i giornali di regime e mi abbiano tenuto in cella – grazie ai loro amici e confratelli con la toga – per 455 giorni per un “reato di opinione” che non dovrebbe esistere in Italia…. che motivi avrei per essere antisemita??? Nessuno!!!

  4. Ohh per carità! Pensa tu quanto uno possa essere maliziosamente prevenuto. Chissà mai come sia stato possibile ravvisare una ossessione giudeofobica (solo un pochino, eh?) nelle tue parole, a tal punto da poter pensare tu fossi addirittura antisemita?
    C’è veramente tanta cattiveria e malafede nel mondo dei perfidi shammashim, schiavi delle pluto-giudo-massoniche democrazie.

  5. Buona Pasqua, carissimo.

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