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The Fine Art of Propaganda

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , on 14 marzo 2023 by Sendivogius

«La propaganda si basa sui simboli per raggiungere il suo fine: la manipolazione degli atteggiamenti collettivi.
Sono così grandi le resistenze psicologiche alla guerra nelle nazioni moderne, che ogni guerra deve apparire come una guerra di difesa contro un aggressore minaccioso e omicida. Non ci deve essere ambiguità su chi il pubblico debba odiare. La colpa e l’innocenza devono essere stabilite geograficamente. E tutte le colpe devono essere dall’altra parte della frontiera.
Una regola utile per suscitare odio è, se all’inizio non si adirano, usare un’atrocità. È stata impiegata con successo invariabile in ogni conflitto conosciuto dall’uomo. A differenza del pacifista, che sostiene che tutte le guerre sono brutali, la storia delle atrocità implica che la guerra è brutale solo se praticata dal nemico

Harold Dwight Lasswell
“Tecniche di Propaganda nella Prima Guerra Mondiale” (1927)

  La Propaganda, e massimamente la propaganda di guerra, è uno strumento di manipolazione psicologica a cui un potere organizzato e strutturato ricorre, per convincere le persone comuni a fare ciò che normalmente non farebbero mai.
Soprattutto, è uno strumento flessibile che si adatta alle circostanze per veicolare i suoi messaggi, adattandoli alla sensibilità del pubblico per meglio permearne la dimensione emotiva.
La Propaganda non interpreta la realtà, la destruttura per creare una narrazione parallela. E lo fa, tramite l’iniezione costante e crescente di stimoli primari, onde divellere le eventuali resistenze critiche, o inibire la confutazione empirica. Genera costrutti emozionali e non si preoccupa di doverli dimostrare: se funzionano si persiste nella riproposizione martellante degli stessi, altrimenti se ne inventano di nuovi. Nel suo complesso, la Propaganda pone in essere una serie di distorsioni cognitive eterodirette, volte a plasmare l’immaginario collettivo attraverso una rappresentazione caricaturale della realtà, senza mai entrare nella sostanza. Se sottoposta a revisione critica, non regge il confronto. Per questo aborre la complessità, pur essendo essa stessa un organismo complesso nella variabilità delle tecniche di condizionamento.
Per la Propaganda, nessuna falsità messa in circolazione sarà mai tanto grande da sembrare assurda, se funzionale allo scopo da raggiungere. Più è grande la bugia, più estesa sarà la rete di falsificazioni collaterali, per un’opera capillare di destrutturazione dell’elemento fattuale, reso irrilevante ai fini dell’efficacia del messaggio. Più ramificata sarà la menzogna e più risulterà convincente in assenza di contestazione. E proprio in questo si misura la sua efficacia: non quanto essa sia credibile, ma quanto pervasiva risulterà essere la sua diffusione, tanto da sembrare ‘vera’. La pubblica credulità è la dimensione del suo essere; l’auto-referenzialità è l’impalcatura sulla quale si regge; il ricorso alla mistificazione sistematica è la misura della sua amoralità.
Non è nemmeno un’invenzione recente. Forme di propaganda, o comunque riconoscibili come tale, sono sempre esistite fin dall’antichità, probabilmente ancor prima della Guerra del Peloponneso narrata nelle pagine magistrali di un Tucidide, rivelandosi spesso impresa retorica di raffinatissimo impatto intellettuale. Ma è essenzialmente con l’avvento dell’Età Contemporanea, che la propaganda assurge alle forme strutturali che le sono consone e con le quali viene di solito identificata, per metodologia e prassi, nelle sue espressioni più sguaiate e volgari, seguendo spesso un’iperbole parossistica volta ad alimentare una sorta di isteria diffusa su eccitazione di massa, per la propagazione del messaggio.

“Le guerre offrono un ambiente ideale per i media: gli istinti più bassi come l’odio e la violenza che sono normalmente repressi possono essere facilmente liberati e stimolati. Pertanto, la sete di sensazioni della stampa si unisce all’obiettivo del governo di mobilitare il fronte interno e influenzare i paesi neutrali. L’impatto della propaganda commerciale è alto poiché le storie di atrocità si vendono bene in tempo di guerra. Giornalisti e intellettuali spesso sostengono le istituzioni ufficiali di propaganda. Quindi la propaganda non funziona solo dall’alto verso il basso, ma viene anche potenziata dal basso verso l’alto.
[…] La propaganda alleata si è concentrata su questo diffondendo e illustrando “storie dell’orrore” di donne violentate e civili brutalmente assassinati che erano adatte a demonizzare i tedeschi. Così, i poster delle atrocità alleate ritraevano i tedeschi come bestie, mostravano scene estreme di violenza così come soldati tedeschi stupidi e maligni che si muovevano attraverso i paesi, saccheggiando, bruciando e uccidendo.
[…] I motivi di molti manifesti e caricature francesi erano assetati di sangue o avevano caratteristiche pornografiche. Le immagini di donne violentate e bambini mutilati sono il risultato di un’ossessione per la violenza e la sessualità diffusa dalla fine del XIX secolo. Tali rappresentazioni delle vittime, tuttavia, derivavano principalmente dalla fantasia dei contemporanei, poiché principalmente gli uomini erano le vittime.”

Steffen Bruendel

Se le sue espressioni ‘moderne’ iniziano a prendere corpo e sostanza secondo il tessuto attuale già durante la Guerra di Crimea (1853-1856), è con la Prima Guerra Mondiale che la propaganda raggiunge il suo apice nell’uso spregiudicato e più truculento della stessa, divenendo vera e propria “scienza” con tanto di tecniche specifiche ed uffici specializzati per la sua inoculazione velenosa, come esemplarmente illustrato dal barone Arthur Ponsonby nella sua opera più famosa, “Menzogne in tempo di guerra” (1928), dove viene riportata un’ampia casistica di falsità che furono messe in circolazione durante la prima guerra mondiale dagli organi di propaganda delle potenze alleate (Russia, Francia, Italia, Gran Bretagna ed USA) contro gli Imperi Centrali. Perché senza bugie e falsificazioni che esacerbino ad arte gli animi, non vi sarebbe alcuna ragione né volontà a proseguire il conflitto, alimentando l’odio.
Per infiammare le masse alla guerra ed al contempo negare ogni responsabilità nella stessa, è necessario “rappresentare il nemico come un pericoloso disturbatore della pace e il più terribile nemico dell’umanità”.

«Se riduci la menzogna a un sistema scientifico, mettila su spessa e pesante; con grande sforzo e finanze sufficienti…. puoi ingannare a lungo intere nazioni e spingerle al massacro per cause verso le quali on hanno il minimo interesse. Lo abbiamo visto a sufficienza durante l’ultima guerra, e lo vedremo nella prossima.
[…] In guerra, il ricorso alla menzogna viene riconosciuto come un’arma estremamente utile. Ed ogni paese la usa per ingannare piuttosto deliberatamente il proprio popolo, per attrarre quanti si professano neutrali, e per ingannare il nemico. Le masse ignoranti ed innocenti di ogni paese non hanno alcuna consapevolezza di come vengano ingannati sul momento. E solo quando sarà tutto finito, qua e là le menzogne verranno scoperte e denunciate. Come è sempre avvenuto in passato, una volta raggiunto l’effetto desiderato, non ci saranno problemi ad indagare sui fatti ed a ristabilire la verità.
[…] Le autorità di ogni paese fanno, e anzi devono, ricorrere a questa pratica per, in primo luogo, giustificarsi dipingendo il nemico come un criminale puro; e in secondo luogo, per infiammare la passione popolare, abbastanza da assicurarsi reclute per la continuazione della guerra.
Non possono permettersi di dire la verità. In alcuni casi, bisogna ammetterlo, nell’immediato non sanno nemmeno quale sia la verità

Arthur Ponsonby
Falsehood in War-Time: Propaganda Lies of the First World War

In prospettiva, la cosiddetta “propaganda delle atrocità” costituisce infatti un ottimo surrogato di sicura efficacia, nell’estetica necrofila dell’orrore, elevato a voyeurismo pornografico di guerra.

«La Press House era l’infaticabile geyser che sputava incessantemente falsi rapporti di guerra e notizie fittizie dalle retrovie e dal davanti, le calunnie più vili e brutali degli avversari, le stupefacenti finzioni di atti infami loro attribuiti. Il veleno insidioso ma efficace così diffuso ha ingannato e infettato una schiera di persone ben intenzionate ma non sofisticate… Durante la guerra la menzogna divenne una virtù patriottica. Ci è stato imposto dal governo e dal censore, e per il pericolo di perdere la guerra considerata una necessità; inoltre, mentire era redditizio e spesso pubblicamente onorato. Inutile negare il successo della menzogna, che utilizzò la Stampa come il miglior mezzo di una diffusione estesa e rapida. Gli sforzi maggiori sono stati fatti per bollare ogni parola dei nemici come menzogna e ogni nostra menzogna come verità assoluta


Ovviamente al Nemico, meglio se disumanizzato nella sua irriducibile alterità fuori dal consesso della Civiltà e del Diritto, non può essere riconosciuta alcuna attenuante né giustificazione, perché nulla deve incrinare la narrazione bellica nella sua manichea rappresentazione, altrimenti verrebbero meno le ragioni per poter proseguire il conflitto stesso. Ogni ragione concessa al “nemico” viene vissuta come un intollerabile cedimento del fronte interno. E dunque non è ammissibile, altrimenti si solleverebbero dubbi sull’azione stessa di quei governi che hanno perseguito l’opzione bellica, come se fosse l’unica possibile, sabotando ogni negoziazione per la sospensione del conflitto.

«Un governo che abbia deciso di intraprendere la via terribile e pericolosa della guerra…. non può permettersi di ammettere, e in nessun caso di riconoscere, neanche la minima ragione o diritto al popolo che ha deciso di combattere. I fatti devono essere distorti, le circostanze rilevanti nascoste, e la rappresentazione del nemico a tinte fosche persuaderà la gente che il proprio governo è senza colpe, la propria causa è giusta, e che l’indiscutibile malvagità del nemico è stata dimostrata oltre ogni dubbio. Un momento di riflessione direbbe a qualsiasi persona ragionevole, che un pregiudizio così evidente non può assolutamente rappresentare la verità. Ma nell’immediato la riflessione non è consentita; le bugie vengono diffuse con grande rapidità. La massa irriflessiva le accetta e con la sua eccitazione influenza gli altri. La quantità di sciocchezze che passano sotto il nome di patriottismo in tempo di guerra in tutti i paesi è sufficiente a far arrossire tutte le persone oneste

Per lo stesso motivo, onde non incrinare lo sforzo bellico e la volontà di proseguire la guerra (sia essa per procura o meno),

 «Non si deve mai permettere alle persone di perdersi d’animo; quindi le vittorie devono essere esagerate e le sconfitte, se proprio non possono essere non nascoste, almeno minimizzate, e lo stimolo dell’indignazione, dell’orrore e dell’odio deve essere assiduamente e continuamente pompato nell’animo pubblico mediante la “propaganda”.
[…] Qualsiasi tentativo di dubitare o negare anche la storia più fantastica deve essere condannato immediatamente come antipatriottico, se non traditore. Ciò consente campo libero per la rapida diffusione delle menzogne. Se fossero usate solo per ingannare il nemico nel gioco della guerra, non varrebbe la pena di preoccuparsene. Ma, poiché lo scopo della maggior parte di esse è quello di alimentare l’indignazione e indurre il fiore della giovinezza del paese a essere pronto al sacrificio supremo, diventa una cosa seria. Parlarne, dunque, può essere utile, anche se la guerra è terminata, a svelare l’inganno, l’ipocrisia e l’imbroglio da cui tutte le guerre traggono linfa vitale, e a rivelare gli espedienti esasperati e volgari che da tempo sono adoperati, per impedire che la povera gente ignorante sia consapevole del vero significato della guerra

Lord Ponsonby scriveva circa un secolo fa, ma le sue considerazioni possono essere benissimo valevoli per il presente, in tutta la loro sconcertante ancorché desolante attualità, nella reiterazione dei medesimi meccanismi di manipolazione e disinformazione, insieme alla compiacenza e soprattutto alla complicità interessata di un intero sistema mediatico, allineato a precise dinamiche di potere delle quali è parte integrante.
Riprendendo le tesi espresse da Arthur Ponsonby, in tempi assai più recenti (2001), Anne Morelli, storica e ricercatrice italo-belga, ne ha sintetizzato le osservazioni per ricavarne “dieci principi elementari”, analizzando e mettendo in luce i principi ricorrenti, alla base delle tecniche essenziali della propaganda di guerra.

1. Non vogliamo la guerra
(stiamo solo difendendo noi stessi!)

Arthur Ponsonby aveva già notato che gli statisti di tutti i paesi, prima di dichiarare la guerra o nel momento stesso di tale dichiarazione, assicuravano sempre solennemente in via preliminare che non volevano la guerra.
La guerra non è mai desiderata, raramente è vista come positiva dalla popolazione. Con l’avvento delle nostre democrazie, il consenso della popolazione diventa essenziale, quindi non bisogna volere la guerra ed essere pacifisti nel cuore. A differenza del Medioevo, quando l’opinione della popolazione aveva poca importanza e la questione sociale non era sostanziale.
[…] Se tutti i capi di stato e di governo sono animati da un simile desiderio di pace, ci si può naturalmente chiedere innocentemente perché, a volte (e anche spesso), le guerre scoppiano tutte uguali? Ma il secondo principio risponde a questa domanda.

2. La parte avversa è l’unica responsabile della guerra

Questo secondo principio deriva dal fatto che ogni parte sostiene di essere stata costretta a dichiarare guerra per evitare che l’altra distrugga i nostri valori, metta in pericolo le nostre libertà o addirittura ci distrugga completamente. È dunque l’aporia di una guerra per porre fine alle guerre. Ci porta quasi alla mitica frase di George Orwell: “La guerra è pace”.
Così, gli Stati Uniti sono stati “costretti” ad andare in guerra contro l’Iraq, il che non ha lasciato loro altra scelta. Stiamo quindi solo “reagendo”, difendendoci dalle provocazioni del nemico che è interamente responsabile della guerra che verrà.
Così, Daladier nel suo “appello alla nazione” – ignorando le responsabilità francesi nella situazione creata dal Trattato di Versailles – assicurava il 3 settembre 1939: la Germania aveva già rifiutato di rispondere a tutti gli uomini di cuore le cui voci si erano alzate negli ultimi tempi in favore della pace mondiale. Siamo in guerra perché ci è stata imposta.
Ribbentrop giustificò la guerra contro la Polonia in questi termini: “Il Führer non vuole la guerra. Lo farà solo a malincuore. Ma la decisione per la guerra o la pace non dipende da lui. Dipende dalla Polonia. Su alcune questioni di interesse vitale per il Reich, la Polonia deve cedere e soddisfare richieste alle quali non possiamo rinunciare. Se si rifiuta di farlo, la responsabilità di un conflitto ricadrà su di lei, non sulla Germania”.
Durante la guerra del Golfo, Le Soir del 9 gennaio 1991 affermava anche: “La pace che tutti vogliono più di ogni altra cosa non può essere costruita su semplici concessioni a un atto di pirateria. (…) La palla è essenzialmente, va detto, nel campo dell’Iraq. 
Lo stesso vale per la guerra in Iraq. Prima dell’inizio della guerra, Le Parisien ha pubblicato un titolo il 12 settembre 2002: “Come Saddam si prepara alla guerra”.

“Ci si dichiara costretti a fare la guerra a causa dell’avversario che non ha rispettato i trattati, o ha aggredito un paese. È il nemico che deve portare l’intera responsabilità del conflitto.”

3. Il leader del campo avversario ha il volto del diavolo (o “il brutto”)

“Non si può odiare un gruppo umano nel suo insieme, anche se viene presentato come un nemico. È quindi più efficace concentrare questo odio del nemico sul leader avversario. Il nemico avrà così un volto e questo volto sarà ovviamente odioso”.
“Il vincitore si presenterà sempre (vedi Bush o Blair recentemente) come un pacifista che ama la conciliazione ma è spinto alla guerra dal campo avverso. Questo campo avverso è naturalmente guidato da un pazzo, un mostro (Milosevic, Bin Laden, Saddam Hussein, …) che ci sfida e dal quale l’umanità deve essere liberata”.
La prima operazione di una campagna di demonizzazione è dunque quella di ridurre un paese a un solo uomo. Agire come se nessuno vivesse in Iraq, come se solo Saddam Hussein, la sua “temibile” Guardia Repubblicana e le sue “terribili” armi di distruzione di massa vivessero lì.
Personalizzare il conflitto in questo modo è molto tipico di una certa concezione della storia, che sarebbe fatta da “eroi”, opera di grandi personaggi.
[…] Così, l’avversario è qualificato da tutti i mali possibili. Dal suo aspetto fisico alle sue abitudini sessuali…. Questo tipo di demonizzazione non è usato solo per la propaganda di guerra (come tutti gli altri principi).
Per esempio, Pierre Bourdieu ha riferito che negli Stati Uniti, alcuni professori universitari, stufi della popolarità di Michel Foucault nei loro college, hanno scritto una serie di libri sulla vita intima dell’autore. Così, Michel Foucault, l’”omosessuale masochista e pazzo” aveva pratiche “innaturali”, “scandalose” e “inaccettabili”. In questo modo, non c’è bisogno di discutere il pensiero dell’autore o i discorsi di un politico, ma di confutarlo sui giudizi morali sulle cosiddette pratiche dell’individuo.

“Il nemico deve avere un volto e questo volto sarà quello del capo avversario chiaramente ributtante. La guerra sarà dunque contro il volto di Saddam, di Milosević, di Ahmadinejad, di Gheddafi … Occorre dimostrare che questo personaggio è immondo, un folle, un barbaro, un criminale, un macellaio, un perturbatore della pace, un nemico dell’umanità, da lui deriva tutto il male possibile.”

4. Stiamo difendendo una nobile causa, non interessi particolari
(la nostra causa è nobile e disinteressata)

Gli obiettivi economici e geopolitici della guerra devono essere mascherati da valori ideali, moralmente giusti e legittimi.
[…] Infatti, nelle nostre società moderne, a differenza di Luigi XIV, una guerra può essere condotta solo con un certo consenso della popolazione. Gramsci aveva già mostrato come l’egemonia culturale e il consenso siano indispensabili per il potere. Questo consenso sarà facilmente acquisito se la popolazione crede che la sua libertà, la sua vita, il suo onore dipendano da questa guerra.
Gli obiettivi della prima guerra mondiale, per esempio, possono essere riassunti in tre punti:

per schiacciare il militarismo
per difendere le piccole nazioni
per preparare il mondo alla democrazia.

Questi obiettivi molto onorevoli sono stati poi copiati quasi alla lettera alla vigilia di ogni conflitto, anche se hanno poco o niente a che fare con i suoi obiettivi reali.
“Dobbiamo convincere l’opinione pubblica che noi – a differenza dei nostri nemici – facciamo la guerra per motivi infinitamente onorevoli”.
“Nel caso della guerra della NATO contro la Jugoslavia, troviamo la stessa discrepanza tra gli obiettivi ufficiali e non dichiarati del conflitto. Ufficialmente, la NATO è intervenuta per preservare il carattere multietnico del Kosovo, per impedire il maltrattamento delle minoranze, per imporre la democrazia e per mettere fine al dittatore. È difendere la sacra causa dei diritti umani. Alla fine della guerra, non solo si vede che nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto, che siamo lontani da una società multietnica e che la violenza contro le minoranze – questa volta serbi e rom – è un fatto quotidiano, ma anche che gli obiettivi economici e geopolitici della guerra, che non erano mai stati menzionati, sono stati raggiunti”.
Questo principio implica il suo corollario, il nemico è un mostro assetato di sangue che rappresenta la società della barbarie.
Il nemico provoca consapevolmente atrocità, e se noi commettiamo errori è involontariamente
Le storie di atrocità del nemico sono una parte essenziale della propaganda di guerra. Questo non vuol dire, naturalmente, che le atrocità non avvengano durante le guerre. Al contrario, omicidio, rapina a mano armata, incendio doloso, saccheggio e stupro sembrano essere piuttosto – purtroppo – ricorrenti nella storia delle guerre. Ma far credere che solo il nemico commette tali atrocità, e che il nostro esercito è amato dalla popolazione, è un esercito “umanitario”.
Ma la propaganda di guerra raramente si ferma lì, non accontentandosi degli stupri e dei saccheggi esistenti, è più spesso necessario creare atrocità “inumane” per incarnare nel nemico l’alter-ego di Hitler (Hitlerosevic, …). Possiamo quindi affiancare diversi passaggi di guerre diverse senza trovare grandi differenze.
[…] Il quinto principio della propaganda di guerra è che solo il nemico commette atrocità, la nostra parte può solo commettere “errori”.
Durante la guerra contro la Jugoslavia, la propaganda della NATO ha reso popolare il termine “danni collaterali” e ha presentato come tali i bombardamenti sulle popolazioni civili e sugli ospedali, che, secondo le fonti, hanno causato tra 1.200 e 5.000 vittime. Il bombardamento dell’ambasciata cinese, di un convoglio di rifugiati albanesi, o di un treno che passa su un ponte è stato quindi un “errore”. Il nemico non sbaglia, ma commette consapevolmente il male.
Per concludere con una citazione di Jean-Claude Guillebaud: “Eravamo diventati, noi giornalisti, senza volerlo, una specie di mercanti dell’orrore e i nostri articoli dovevano commuovere, raramente spiegare.”

6. Il nemico usa armi non autorizzate

Questo principio è il corollario del precedente. “Non solo non commettiamo atrocità, ma facciamo la guerra in modo cavalleresco, rispettando – come se fosse un gioco, certamente duro ma virile! – le regole”.
Così, durante la prima guerra mondiale, la controversia infuriò sull’uso del gas asfissiante. Ogni parte ha accusato l’altra di aver iniziato ad usarli. Anche se entrambe le parti avevano usato il gas ed entrambe lo avevano studiato, era un riflesso simbolico della guerra “inumana”. È quindi opportuno dare la colpa al nemico. È in un certo senso l’arma “disonesta”, l’arma degli ingannatori.

7. Noi subiamo poche perdite, quelle del nemico sono enormi

Con rare eccezioni, gli esseri umani preferiscono generalmente unirsi alle cause vittoriose. In guerra, il sostegno pubblico dipende quindi dal risultato apparente del conflitto. Se i risultati non sono buoni, la propaganda dovrà nascondere le nostre perdite ed esagerare quelle del nemico”.
Già durante la prima guerra mondiale, dopo un mese dall’inizio delle operazioni, le perdite ammontavano a 313.000 morti. Ma lo stato maggiore francese non ammise mai la perdita di un cavallo e non pubblicò la lista dei nomi dei morti.
Ne è un esempio la recente guerra in Iraq, dove è stata vietata la pubblicazione di foto delle bare dei soldati americani sulla stampa. Le perdite del nemico, d’altra parte, sono enormi, il loro esercito non resiste. “Da entrambe le parti questa informazione ha sollevato il morale delle truppe e ha persuaso l’opinione pubblica dell’utilità del conflitto.

8. Artisti e intellettuali sostengono la nostra causa

Nella prima guerra mondiale, con poche eccezioni, gli intellettuali hanno sostenuto in modo schiacciante la propria parte. Ogni belligerante poteva in gran parte contare sull’appoggio di pittori, poeti e musicisti che sostenevano la causa del loro paese con iniziative nel loro campo.
[In Kosovo] I caricaturisti furono messi al lavoro per giustificare la guerra e ritrarre il “macellaio” e le sue atrocità, mentre altri artisti lavoravano, macchina fotografica alla mano, per produrre documenti edificanti sui rifugiati, sempre accuratamente presi dalle file albanesi, e scelti per assomigliare il più possibile al pubblico a cui si rivolgevano, come questo bel bambino biondo dallo sguardo nostalgico, che doveva evocare le vittime albanesi. Possiamo quindi vedere i “manifesti” svilupparsi ovunque. […] Questi “collettivi” di intellettuali, artisti e uomini di spicco cominciarono così a legittimare l’azione del potere politico in carica.

9. La nostra causa è sacra

Questo criterio può essere preso in due sensi, sia letteralmente che in senso generale. In senso letterale, la guerra è quindi una crociata, quindi la volontà è divina. Non si può sfuggire alla volontà di Dio, ma solo realizzarla. Questo discorso ha riacquistato grande importanza dall’arrivo al potere di George Bush Jr. e con lui tutta una serie di ultraconservatori fondamentalisti. Così la guerra in Iraq è stata vista come una crociata contro l’”Asse del Male”, una lotta del “bene” contro il “male”. Era nostro dovere “dare” la democrazia all’Iraq, essendo la democrazia un dono della volontà divina. Così fare la guerra è realizzare la volontà divina. Le scelte politiche assumono un carattere biblico che cancella ogni realtà sociale ed economica. I riferimenti a Dio sono sempre stati numerosi (In God We Trust, God Save the Queen, Gott mit Uns, …) e servono a legittimare senza appello le azioni del sovrano.

10. Chi mette in dubbio la nostra propaganda è un traditore

Quest’ultimo principio è il corollario di tutti i precedenti: chiunque metta in discussione uno qualsiasi dei principi di cui sopra è necessariamente un collaboratore del nemico. Così, la visione dei media è limitata ai due campi sopra menzionati. Il campo del bene, della volontà divina, e il campo del male, dei dittatori. Così, si è “per o contro” il male.
[…] Sta quindi diventando impossibile sollevare un’opinione dissidente senza essere linciati dai media. Il pluralismo d’opinione non esiste più, è ridotto a niente, ogni opposizione al governo è messa a tacere e screditata da argomenti fasulli. Questo stesso argomento è stato applicato di nuovo durante la guerra in Iraq, anche se l’opinione internazionale era più divisa, quindi era meno sentito. Ma essere contro la guerra è essere per Saddam Hussein… Lo stesso schema è stato applicato in un contesto completamente diverso, che era il referendum sulla costituzione europea: “essere contro la costituzione è essere contro l’Europa!

Ora, applicate i Dieci Principi alla situazione attuale… Non vi sarà affatto difficile notare come questi aderiscano alla perfezione all’attuale guerra in Ucraina, per un copione già visto, assolutamente replicabile e sovrapponibile nella sua inquietante complementarità. E quanto nefasta sia questa grottesca coazione a ripetere.

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FERIAE AUGUSTI

Posted in Kulturkampf with tags , , , , on 14 agosto 2022 by Sendivogius

Mes dames et messieurs, come potrete facilmente intuire, nei prossimi giorni metterò a profitto le Ferie Augustali e sarò amenamente impegnato in altro piacendo… Ma ci leggeremo comunque presto…
Buoni Nemoralia a tutti voi.

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MEDIACRAZIA (IV)

Posted in Kulturkampf, Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 21 Maggio 2022 by Sendivogius

“Come il giullare di corte della società moderna, tutti gli intellettuali hanno il dovere di dubitare di ciò che appare ovvio agli altri, di rendere relativa ogni autorità, di avanzare tutte quelle domande che nessun altro oserebbe rivolgere.”

Ralf Dahrendorf
“L’Intellettuale e la Società”
(20/03/1963)

Della “Russia di Putin” Sappiamo praticamente tutto. I nostri pennivendoli col cervello sottovuoto negli stahlhelm d’ordinanza ci hanno infatti spiegato ogni cosa, attraverso una rilettura fantastica dell’universo tolkeniano, per una versione moderna del Regno di Mordor, anche se modello narrativo insuperato restano i Cinegiornali Luce, integrati dalla lettura unificata delle veline di regime, e che in sintesi può essere riassunta così:
Geopolitica da fumetto (serie “SuperEroica”) sintetizzata in pillole su twitter.
Strategia militare improvvisata direttamente col lancio dei dadi sul tabellone del Risiko.
 Ennesima esibizione di servilismo cortigiano, convertito a propaganda di guerra per aderenza acritica su verità di fede, che nel frattempo si è evoluta in caccia al miscredente dopo la censura del divergente, nell’ansia di conformismo che contraddistingue i nostri tirapiedi di palazzo sempre alla ricerca di un protettore al quale raccomandarsi.
Per settimane, improvvisati esperti da salotto ci hanno spiegato come…
Il complesso militare ed industriale delle Federazione russa fosse assolutamente disfuzionale ed arretrato, prossimo al tracollo, e come l’esercito russo sarebbe collassato entro la prima metà di Aprile (siamo alla fine di Maggio e pare godano entrambi di ottima salute).
Con dovizia di particolare ci informavano come il rublo sarebbe diventato carta straccia, travolto dalla svalutazione e dall’iperinflazione. Al momento, il rublo risulta essere la valuta più performante del 2022, mentre l’Europa affonda sotto le sanzioni che avrebbero dovuto affossare la moneta russa.
A reti e giornali unificati, battaglioni mobili di ipereccitati mitomani ci hanno ripetuto come, in concomitanza dell8 Maggio (Giornata della Vittoria sovietica contro la Germania nazista), sarebbe stata annunciata la mobilitazione generale con la promulgazione dello stato di guerra, viste le enormi difficoltà e le “gigantesche perdite in termini di uomini e materiale” subite finora nella “disfatta in Ucraina”. Sull’entità delle stesse in realtà non esistono dati ufficiali, ma figuriamoci che importa! I più truculenti davano già per certo il lancio di bombe nucleari tattiche (prima avrebbero dovuto essere usate le armi chimiche) su mezza Ucraina, per compensare lo svantaggio sul campo, e sfilate di prigionieri ucraini in catene sulla Piazza Rossa, come nei “trionfi” degli antichi imperatori romani.
Altri ancora cianciavano su piani di invasione globale, con avanzate programmate fino a Lisbona, annessione di Romania e Moldavia e di tutti i Paesi baltici, attacco alla Germania, invasione della Polonia (mancava solo la Cavalcata delle Valchirie in sottofondo)… Praticamente un live-action di “Call of Duty 4 Modern Warfare” e nessun senso (seppur tragico) del ridicolo!
Poi ci sono quelli che pretendono di fare diagnosi cliniche sullo stato di salute del “dittatore russo”, in base alla foto osservandone il gonfiore: ha il cancro alla tiroide; no, ha un tumore del sangue; è stato operato; ha il diabete; è in dialisi; è malato terminale; è morto; si cura con estratti di corna di cervo; ha il Parkinson; è affetto da demenza senile; è schizofrenico… In proposito esiste un’altrettanto nutritissima collezione di perizie psichiatriche a distanza, con lo stesso valore di quelle ‘mediche’. Chissà?! Se scorreggiava in pubblico, magari lo invitavano a Buckingham Palace per il tè con la Regina.
I nostri preferiti tuttavia restano gli aspiranti strateghi da salotto, quelli con lo scolapasta in testa e la mano infilata nel panciotto che giocano a fare il Napoleone sulle mappe del Touring Club, tracciando linee immaginarie ed inventando direttive d’attacco. A proposito, togliete i soldatini a Gianluca De Feo, il Von Moltke delle fantabattaglie!
In tre mesi ininterrotti di dirette (in differita), ci hanno spiegato come i tank russi fossero rimasti coi cingoli impantanati nella mota delle campagne ucraine e impossibilitati a muoversi, vista la conformità del terreno e le incredibili asperità della geografia ucraina: praticamente un’unica immensa pianura. Il fatto che i cingolati vengano movimentati su trasporti ruotati verso le zone di operazione, sfugge totalmente ai nostri grandi strateghi della domenica, che evidentemente hanno ancora in mente le divisioni corazzate del generale Guderian ed il Blitzkrieg del 1940 nella Campagna di Francia, che per inciso non era stata addestrata ed armata per 8 anni con gli arsenali NATO, ricevendo “aiuti militari” per 40 miliardi di dollari.

Questi sono davvero convinti che gli ucraini (leggi: NATO/USA) stravinceranno una guerra (in incubazione da anni e accuratamente provocata), spezzando le reni alla Russia (e ancor di più all’Europa ricondotta al suo ruolo gregario di colonia atlantica).
Sono quelli che credono davvero che un conflitto su vasta scala si esaurisca in un paio di settimane, che una guerra lampo sia roba da manciata di giorni, altrimenti è disfatta, E che ovviamente sanno tutto dei piani di espansione di Putin/Hitler (secondo reductio) e dei suoi obiettivi di guerra, per intima conoscenza metafisica degli stessi. Sarebbe bastato studiare un po’ di Storia (vera), invece di inventarsela, per capire che se si vuole cercare una qualche analogia con lo scontro attuale (non per obiettivi, ma per tenuta, durata, ed esiti) è alla Guerra d’Inverno contro la Finlandia che si deve guardare: un conflitto brutale: durato poco più di tre mesi, durante i quali le truppe finlandesi mantennero costantemente l’iniziativa infliggendo perdite devastanti all’Armata rossa, che alla fine però vinse la guerra mutilando la Finlandia, nonostante la riprovazione e l’isolamento internazionale.
Non serve inoltre essere un Clausewitz per comprendere che una campagna di guerra si muove per obiettivi strategici (e noi dei piani russi, al netto delle chiacchiere, non sappiamo nulla); che è fatta di avanzate e ritirate sul terreno, volte ad acquisire vantaggi tattici ed evitare la dispersione di forze su ottimizzazione logistica, in un alternarsi di offensive e controffensive… Va da sé che non si stabiliscono migliaia di presidi statici (ed isolati), occupando tutti i villaggi del paese, a meno di non avere miliardi di soldati sul campo e linee di rifornimento praticamente infinite. Ai nostri intellettuali organici di regime bastava trascorrere meno tempo nei tank-show e leggere qualche libro in più… Isaac Babel per esempio che l’Ucraina la conosceva bene, visto che ci era nato. Avrebbero così scoperto l’esistenza di un altro conflitto della regione (Guerra polacco-sovietica), con la nascita del primo governo ucraino riconosciuto (prima di allora non era mai esistito), e apprendere come i medesimi villaggi ucraini venivano perduti e riconquistati anche fino a 18 volte, con tutto lo stuolo di devastazioni che ne seguiva.
No, i nostri imbonitori da salotto televisivo hanno preferito raccontarci storie fantastiche di mostri ed eroi conto orchi, arrivando a portare in parata le “mogli del Battaglione Azov”, per perorare la nobile causa degli ukronazi nascosti coi loro scudi umani nei sotterranei delle acciaierie di Mariupol.
Sono gli stessi cantaballe che ritenevano i soldati delle forze di invasione stessero morendo di fame, perché col confine a 30 km non arrivano rifornimenti, né approvvigionamenti di sorta (l’Intendenza militare, questa sconosciuta!).
I più svegli hanno capito che per la bisogna i russi utilizzano autostrade e ferrovie per muovere le truppe, e prendevano per buona la panzana che questi si smarrissero dopo la rimozione della cartellonistica stradale.
Sono quelli che ci hanno raccontato per settimane come fantomatiche squadre omicide di ceceni e mercenari della Wagner si aggirassero per le strade di Kiev col compito di assassinare il presidente Zelensky, quando sarebbe bastato disintegrare il Palazzo presidenziale con un attacco missilistico, se questo era il fine.
Succede, quando ci si abbevera acriticamente alle veline delle propaganda elette a fonti primarie di informazione, che nella fattispecie sono due: i video preconfezionati di Zelensky ed il profilo twitter di #DefenseU (dove la “U” sta per Ucraina), che poi è il profilo ufficiale delle Forze Armate Ucraine, che in questi mesi hanno condiviso con noi edificanti storie, come la massaia che abbatte i droni russi, centrandoli in pieno al lancio di barattoli di sottaceti fatti in casa; racconti truculenti (che sembrano usciti dalle fiabe dei Fratelli Grimm) con vecchie streghe che fanno strage di fantaccini di leva affamati, regalando loro torte avvelenate; l’immolazione di massa degli eroici difensori dell’Isola dei Serpenti (vivi e vegeti); video farlocchi di aerei abbattuti e di piloti russi catturati (peccato per il dettaglio della tuta sbagliata). Per contro, abbiamo figure mitologiche come il fantasma di Kiev, ovvero l’Hans Rudel delle vittorie immaginarie, nell’ucronia fantastica delle balle volanti. Non sono mancati nemmeno i frames ripresi dai videogiochi e rimontanti in grafica digitale; né i fotomontaggi con la stessa immagine riprodotta su sfondi diversi, ad ampliare l’estensione delle vittorie della “resistenza”…

Dilagano i crimini di guerra a gogò (veri o presunti non importa, l’importante è l’annuncio), come se si fossero spalancate le porte dell’Inferno. Ovviamente tutti a senso unico, senza che mai sia necessario produrre uno straccio di prova qualunque. A meno che non si vogliano considerare tali le presunte conversazioni telefoniche catturate dallo SBU: i non meno famigerati servizi segreti ucraini, che in questi anni si sono specializzati in delitti su commissione, sequestro degli oppositori politici, pubblicazione di nomi ed indirizzi dei parenti e figli di persone sgradite, stilando liste lunghe come elenchi telefonici di persone da colpire per rappresaglia o intimidazione, in quella florida democrazia e modello di libertà che chiamano Ucraina, dove già da prima della guerra le violazioni dello stato di diritto venivano occultate o bellamente ignorate, nell’accumulo di dossier di denuncia (circostanziate)… Ma per i “crimini russi” basta la parola e si va sulla fiducia, perché un amico della cognata di mio cugino che vuole restare anonimo mi ha raccontato che
E ci si rende allora conto che NON c’è alcun intenzione di accertare l’esatta dinamica dei fatti, onde attribuire responsabilità oggettive ed individuare colpevoli certi. Uno magari si aspetta un’accurata delimitazione della “scena del crimine”, attenta conservazione delle prove, esami autoptici approfonditi… analisi balistiche dettagliate sulle traiettorie e tipologie dei mezzi usati… Ecco, allegare agli atti un peluche insanguinato nelle fattispecie concrete di reato non vale come elemento probatorio, ma stimola molto la fame di sensazionalismo macabro di certo churnalism. E soprattutto veicola la narrazione, volta alla creazione di uno stato emotivo preimpostato.
È quasi istruttivo notare, a parti inverse, come dalle pagine dei nostri principali giornali un tempo affiorassero dubbi e preoccupazioni, prima della conversione a 360° con piegamento a 90. Evidentemente, certi allarmismi sono rientrati. Negli archivi dei nostri quotidiani nazionali, prima che venisse effettuata una capillare opera di pulitura e censura, affinché nulla possa disturbare la splendida narrazione collettiva, capita ancora di imbattersi in articoli come questo evidentemente sfuggiti alla rimozione:

«Qualcuno sta uccidendo sistematicamente tutti gli oppositori al governo ucraino nato dalla “Rivoluzione” di un anno fa. Stamattina è toccato a un personaggio molto noto a Kiev, Oles Buzina, giornalista e scrittore, grande protagonista dei talk show televisivi, e schierato su posizioni apertamente filo russe. Lo hanno atteso sotto casa e lo hanno giustiziato secondo il preciso copione di un delitto studiato ed eseguito da professionisti. Vladimir Putin, che lo ha comunicato in diretta mentre stava partecipando alla consueta maratona televisiva di primavera e rispondendo alle domande del pubblico, ha definito l’omicidio “uno dei tanti crimini della Nuova Ucraina”.
In realtà, nel silenzio di molti media occidentali, nella Kiev democratica e in corsa per entrare in Europa, sta avvenendo una spietata operazione di repulisti di ogni forma di opposizione. Ancora ieri sera, sempre nella capitale ucraina, un commando ha ucciso Sergej Sukhobok, titolare di un sito internet e di un piccolo giornale che contrasta la politica del governo e sostiene le ragioni della gente del Donbass ribelle. Poco prima, nel pomeriggio, altri killer avevano compiuto un’identica missione sotto casa di Oleg Kalashnikov, ex deputato del Partito filorusso delle Regioni e considerato un grande oppositore dei movimenti che hanno protestato l’anno scorso sulla Majdan di Kiev e che adesso guidano il Paese.
Tre omicidi politici in meno di 24 ore che, inevitabilmente sollevano lo sdegno interessato di Putin e della stampa russa. Ma è comunque inquietante il clima di odio e di desiderio di vendetta che si respira in queste ore in Ucraina. Dopo la notizia dell’uccisione dell’ex deputato molti oligarchi, politici e personaggi popolari in Ucraina hanno rilasciato raccapriccianti dichiarazioni infarcite di “finalmente”, “se l’è meritato”, “eliminato un nemico”.
Anche poco fa, subito dopo l’assassinio dello scrittore Buzina, il ministero dell’Interno ucraino ha diffuso la notizia definendolo “il famigerato giornalista”.
Probabile che gli omicidi, almeno per quanto riguarda l’esecuzione, siano collegati alla frangia più estrema dei “rivoluzionari” ucraini, il movimento neonazista Pravj Sektor che ha gestito la fase più violenta del ribaltamento al potere e che adesso partecipa con le sue unità paramilitari alla repressione della rivolta filorussa nell’Ucraina dell’Est. Sin dall’inizio della grande svolta di Kiev, Pravj Sektor condiziona pesantemente le scelte del governo e del presidente Poroshenko, boicottando ogni tentativo di cercare una soluzione pacifica e allestendo spedizioni punitive contro chiunque dissenta dalla nuova linea ipernazionalista e patriottica.
Il risultato è quello di inasprire ancora di più i rapporti con la Russia e complicare ogni possibile mediazione. Ieri, parlando di Ucraina, Putin ha continuato ad accusare l’Occidente di “appoggiare un governo di estrema destra” e ha negato ancora una volta che sul territorio ucraino ci siano dispiegate truppe russe come sostengono Kiev e molti media americani. “State tranquilli, non credo che si arriverà mai a una guerra aperta tra Russia e Ucraina”, ha detto ai cittadini russi preoccupati. Ma l’inizio di una nuova ondata di terrore incontrollabile in Ucraina non promette niente di buono.»

Nicola Lombardozzi
La Repubblica (16/04/2015)

Intendiamoci, dalle parti di Kiev (grossi) problemi con la stampa li hanno sempre avuti, con la conseguenza che all’interno della categoria i tassi di mortalità sono sempre stati piuttosto elevati, soprattutto durante il regime di Leonid Kučma.
Peccato che, al netto della resa dei conti, il cambio non ci abbia esattamente guadagnato in termini di democrazia e di incolumità personale…

“Ucraina, esponente opposizione trovato senza vita: è l’ottavo alleato di Yanukovych morto negli ultimi 3 mesi”

«Un ex deputato vicino al deposto presidente ucraino Viktor Yanukovych è stato trovato morto a tarda notte a Kiev. L’uomo, il 52enne Oleg Kalashnikov, era stato raggiunto da colpi di arma da fuoco, ma non è chiaro se si tratti di omicidio o suicidio.
Kalashnikov era un esponente del partito delle Regioni dell’ ex presidente Yanukovych, deposto nel febbraio 2014 dopo l’ondata di proteste del movimento di piazza Maidan. Secondo le autorità, riferisce radio Free Europe Liberty, Kalashnikov potrebbe essere legato al movimento anti Maidan che si opponeva alle proteste.
«Senza dubbio la vittima sapeva molte cose su chi ha finanziato il movimento anti Maidan», ha dichiarato Anton Herashchenko, un alto funzionario del ministero degli Interni di Kiev. Almeno otto alleati di Yanukovych sono morti negli ultimi tre mesi, secondo quanto ricorda la Bbc. Per la maggior parte si tratta di apparenti suicidi, ma non tutte le circostanze sono state chiarite.
Oleg Kalashnikov, l’ex deputato di opposizione ucciso ieri sera Kiev, aveva ricevuto messaggi intimidatori via mail per il suo invito a festeggiare il 70/mo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista, verso il quale Kiev sta prendendo le distanze nel suo tentativo di de-sovietizzarsi. Lo riferiscono i suoi famigliari e i suoi amici. «Ricevo continue minacce di morte per il mio appello aperto a festeggiare il 70/mo anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica. Queste minacce e questi sporchi insulti sono diventati una norma nell’Ucraina di oggi occupata dai nazisti», aveva scritto ad un amico, secondo quanto reso noto dal sito ‘Notizie ucrainè. Kalashnikov aveva sostenuto, pare anche finanziariamente, le proteste anti Maidan a sostegno di Ianukovich.
Sempre a Kiev, stamattina, è stato ucciso anche il noto giornalista ucraino Oles Buzina, nella sua abitazione, verso mezzogiorno. Lo riportano le agenzie russe e ucraine. Buzina si era da poco dimesso da direttore del quotidiano Segodnia, di cui è proprietario l’oligarca Rinat Akhmetov.
Il sottosegretario all’Interno Herashchenko ha precisato che sia Buzyna che Kalashnikov erano testimoni chiave in un processo nei confronti di attivisti filorussi che avevano attaccato i manifestanti della Maidan. Buzyna, che era stato per un breve periodo direttore del giornale filorusso Segodnya ed ora scriveva su un blog, è stato ucciso davanti casa. Il presidente ucraino Petro Poroshenko ha ordinato un’inchiesta sugli omicidi definiti degli atti «deliberati» compiuti per fare il gioco «dei nostri nemici». Sono almeno otto gli esponenti collegati all’ex governo Yanukovych che sono morti in circostanze da chiarire negli ultimi tre mesi. I primi erano stati dichiarati suicidi dalle autorità ucraine che ora però ammettono che possa essersi trattato di omicidi o di suicidi forzati.
Le uccisioni del giornalista filorusso Oles Buzina e dell’ex deputato del partito delle Regioni del deposto presidente Viktor Ianukovich, Oleg Kalashnikov, sono “una provocazione cosciente” per “destabilizzare la situazione in Ucraina”. Lo ha detto il presidente ucraino Petro Poroshenko, chiedendo indagini rapide e trasparenti sui due omicidi. Il deputato e consigliere del ministro dell’Interno, Anton Gherashenko, ha detto di non escludere che i due delitti siano stati ordinati da Mosca

Il Messaggero (16/04/2015)

In fondo, si tratta dello stesso baluardo democratico schierato contro la barbarie asiatica, dove i criminali comuni e militanti nazisti diventano ufficiali dell’esercito e della polizia, i partiti di opposizione vengono sciolti per decreto ed i loro esponenti arrestati, l’intera opposizione di ‘sinistra’ viene dichiarata fuorilegge (coi partiti di ispirazione neo-nazista il Servant of the People invece si intende benissimo), tutti i media sono unificati in un’unica “piattaforma di coordinamento ed indirizzo”, mentre quelli non allineati vengono chiusi ed i giornalisti indipendenti fatti sparire dalle “forze di sicurezza”. Mica come in Russia, dove ci sono gli “oligarchi”, i dissidenti scompaiono ed i giornalisti vengono assassinati, in un regime di sopraffazione dell’uno sull’altro. Per fortuna, in Ucraina avviene esattamente il contrario (è l’altro che sopraffà l’uno). Insomma, un’autocrazia dove gli oligarchi si costituiscono i loro eserciti privati e che per non farsi mancare proprio nulla si è munita anche della sua Gestapo, ovvero il famigerato Myrotvorets che lascia bene intendere cosa a quelle latitudini si intenda per “pacificazione”, in nome della sicurezza dell’umanità, la legge, e l’ordine internazionale. C’è da stare allegri!
Ora, prendete questa roba; immaginatela stabilmente incistata nella UE; immaginate un intero sistema mediatico allineato per farvela digerire e le direttive che provengono da Oltreoceano, con una scala delle priorità stabilite nei consessi di guerra ed alleanze militari, dove uno solo decide e tutti gli altri eseguono (un po’ come nel nostro parlamento). Benvenuti nel futuro!

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Letture del tempo presente (V)

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , on 21 marzo 2020 by Sendivogius

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia.
[…]
Nessuno scrittore d’epoca posteriore s’è proposto d’esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l’idea che se ne ha generalmente, dev’essere, di necessità, molto incerta, e un po’ confusa: un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori (e per verità ci fu dell’uno e dell’altro, al di là di quel che si possa immaginare), un’idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d’effetto, di corso, di progressione.
[…]
Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatre anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo.
[…]
Il protofisico Lodovico Settala, ché, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione.
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, “o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste” (Tadino, ivi.); ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace. Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi: “et ci parevano, – dice il Tadino, – tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d’aceto”. S’informarono del numero de’ morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre, “si dispose”, dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato; “et mentre si compilaua la grida”, ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a’ gabellieri. Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
[…] Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla.
[…]
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri. Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano. Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.
[…] Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì. Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati.

Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio. Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati. Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, “della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe”, dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti. Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento.
[…]
Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti 700 alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all’erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore, ch’era andato di nuovo a metter l’assedio a quel povero Casale; faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica dagli altri paesi; perché trovassero il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari per via d’imprestiti, d’imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po’ alla Sanità, un po’ a’ poveri; un po’ di grano compravano: supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancor venute. Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de’ soggetti abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro, per principale, un padre Felice Casati, uomo d’età matura, il quale godeva una gran fama di carità, d’attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d’animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto. Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gl’impiegati d’ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò crescendo, v’accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando un’asta, talvolta non armato che di cilizio; animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza. Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò.
[…] Ma due fatti, l’uno di cieca e indisciplinata paura, l’altro di non so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d’un attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a’ due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere all’immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito.
[…] In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
[…] Divenendo sempre più difficile il supplire all’esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de’ decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il governatore, marchese d’Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l’imposizioni fossero sospese, come s’era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare 712 che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que’ signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren. E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo; ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni.
[…] S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: 714 e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno (P. Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d’economia politica: parte moderna, tom. 17, pag. 203.), le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito.
[…] Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.
[…]
La frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione.
[…]
Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé. Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità 721 giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, “per le diligenze fatte”, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso. Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta.
[…]
I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva. E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera.
[…]
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego.
[…]
I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione d’attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi, l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non s’adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de’ commissari, come abbiam detto; sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l’autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa.
[…]
Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell’unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità.
[…]
Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.

Alessandro Manzoni
“I Promessi Sposi”
(Cap. XXX-XXXI)

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Il Governo del Popolo

Posted in A volte ritornano, Kulturkampf with tags , , , , , , , on 8 gennaio 2019 by Sendivogius

«Per quanto riguarda i primi mesi del nazismo ho raccolto qui, così com’erano, tutte le annotazioni del mio diario che avevano attinenza con la nuova situazione e la nuova lingua. A quel tempo le cose per me andavano incomparabilmente meglio che in seguito; in fondo ero ancora in servizio e in casa mia, potevo ancora osservare gli avvenimenti quasi indisturbato. D’altra parte non ero ancora diventato almeno in parte insensibile, ero ancora tanto abituato a vivere in uno stato di diritto che giudicavo un profondissimo inferno quello che in seguito avrei definito al massimo un limbo. Comunque, per quanto potesse poi peggiorare la situazione, tutto l’insieme di idee, azioni e linguaggio che ritrovai in seguito nel nazismo era già delineato, in embrione, in questi primi mesi

20 Aprile 1933. Ancora un’occasione celebrativa, un nuovo giorno festivo per il popolo: il compleanno di Hitler. Attualmente la parola “popolo” si usa tanto spesso, parlando e scrivendo, quanto il sale nelle pietanze, su tutto si aggiunge un pizzico di popolo: festa del popolo, compagno del popolo, comunità di popolo, vicino al popolo, estraneo al popolo, venuto dal popolo.

09 Luglio. Qualche settimana fa Hugenberg si è dimesso e il suo partito nazionaltedesco si è “sciolto autonomamente”. Da allora noto che al posto della «insurrezione nazionale» è subentrata la “rivoluzione nazionalsocialista”, che Hitler viene chiamato più frequentemente “cancelliere del popolo” e che si parla dello “stato totale”.

28 Luglio. Ma si sentono davvero sicuri? C’è anche molto isterismo nelle azioni e nelle parole del governo. Una volta o l’altra si dovrebbe studiare particolarmente l’isterismo del linguaggio.
[…] E questo cos’è se non timore angoscioso, più o meno esplicito? Voglio dire che questo trucco per creare tensione, imitato dai film e dai romanzi a sensazione di stampo americano, da un lato è un mezzo propagandistico escogitato per creare un’immediata sensazione di timore, ma d’altra parte è un mezzo cui si ricorre solo per necessità, se si ha a nostra volta timore.

Victor Klemperer
“Lingua Tertii Imperii – La lingua del Terzo Reich”
LaGiuntina, 1999

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IRON MEN

Posted in Kulturkampf, Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 19 settembre 2017 by Sendivogius

È rassicurante sapere che nei prossimi anni la presidenza Trump destinerà almeno 55 miliardi di dollari del bilancio federale in spese militari, per fare di nuovo grande l’America, preparandosi evidentemente a fronteggiare un’invasione aliena dallo spazio profondo. È infatti risaputo da tutti lo stato di profonda prostrazione e di drammatica arretratezza tecnologica in cui versano le forze armate statunitensi, soprattutto in considerazione delle nuove minacce globali, e massimamente se si considera il formidabile apparato bellico a disposizione dei mutandari salafiti del Daesh…
Si capisce bene che, dinanzi ad un branco di allucinati che combattono in sottana, meglio se armati con coltellacci da cucina, la risposta migliore sia la realizzazione di gingilli offensivi sempre più sofisticati e costosi. Com’è noto, il segreto della vittoria risiede nella preparazione…
A meno che l’obiettivo primario non sia inaugurare invece una nuova guerra fredda (di cui davvero si sentiva la mancanza) con la Russia e la Cina, in una corsa a perdere verso il riarmo globale, e spianare la strada ad un’altra mezza dozzina di conflitti.
 Ad ogni modo, a dispetto dei pregiudizi, i militari sono dotati in realtà di una fervida fantasia… amano giocare con la playstation nelle noiose ore trascorse in caserma… ed è lecito credere si esaltino con la serie completa di “Star Wars”, presumibilmente facendo il tifo per l’Impero galattico.
Per questo sono ormai una ventina di anni che fantasticano a colpi di milioni di dollari in progetti per la realizzazione di nuove tute da combattimento, esoscheletri potenziati e bio-armature, per rendere i “soldati del futuro” delle inarrestabili macchine individuali da guerra, nella presunzione tutta illusoria della invulnerabilità. Insomma, una specie di incrocio tra le armored suits già viste nei videogame di “Halo” e “Mass Effect”, sulla falsariga delle stormtroopers di Star Wars.
In pratica, si tratta di una masturbazione continuativa che va avanti almeno dal 1997, dai tempi infausti del vecchio PNAC (il progetto per il nuovo secolo americano); mai archiviato nelle stanzette del Pentagono.

Army of the Future: “Consider just the potential changes that might effect the infantryman. Future soldiers may operate in encapsulated, climate-controlled, powered fighting suits, laced with sensors, and boasting chameleon-like ‘active’ camouflage. ‘Skin-patch’ pharmaceuticals help regulate fears, focus concentration and enhance endurance and strength. A display mounted on a soldier’s helmet permits a comprehensive view of the battlefield – in effect to look around corners and over hills – and allows the soldier to access the entire combat information and intelligence system while filtering incoming data to prevent overload. Individual weapons are more lethal, and a soldier’s ability to call for highly precise and reliable indirect fires – not only from Army systems but those of other services – allows each individual to have great influence over huge spaces. Under the ‘Land Warrior’ program, some Army experts envision a ‘squad’ of seven soldiers able to dominate an area the size of the Gettysburg battlefield – where, in 1863, some 165,000 men fought”.

Ovviamente, negli ultimi decenni il progetto è proseguito, conoscendo nuovi sviluppi. E ora questa strana copula meccanica tra Robocop ed Iron Man, si chiama TALOS (Tactical Assault Light Operator Suit): una specie di robottone con dentro l’omino corazzato, che prevede sensori di posizione e sistemi di raffreddamento, con una pompa idraulica che si attorciglia per tre metri all’interno dell’armatura; o cose così… molto utili e soprattutto economiche. Ed i prototipi in circolazione iniziano ad essere parecchi…
L’efficacia in combattimento sui teatri di guerra è tutta da provare, ma insomma la speranza è anche l’ultima a morire.
 C’è da dire che l’idea, ancora a livello sperimentale, ha avuto successo un po’ in tutto il mondo… Anche l’Esercito italiano ne ha varato una sua versione improntata al massimo risparmio, rispetto agli ingenti investimenti americani. Nel nostro caso, il pezzo forte sono gli indispensabili “guanti termici”, che alla modica cifra di 650 euro a paio, costituiscono la dotazione più costosa (ed inutile) dell’intero kit di equipaggiamento. Si tratta dell’elemento che farà certamente la differenza sui nuovi campi di battaglia per il soldato del futuro!
Certo, a ben vedere, la Storia ci fornisce i riuscitissimi esempi del passato… E, visti i risultati, ci sarebbe da ridere se questi non fossero tragici. Insomma, la guerra può essere un’esperienza incredibilmente esaltante, soprattutto per chi non l’ha mai provata, come dicevano gli antichi. Perché dunque non cercare di farla in sicurezza?!? Non per niente, ogni aspirante guerriero ha sempre accarezzato l’idea di rendersi invulnerabile ai nemici, salvo scoprire quanto la realtà possa spesso essere assai diversa dalla fantasia.
Per dire, nel Tardo Antico, i Romani impararono presto a proprie spese, quanto le sofisticate armature dei loro comitatenses fossero inutili dinanzi alla potenza di penetrazione degli archi compositi, utilizzati dai pur infinitamente più arretrati popoli nomadi delle steppe.
Nel IX secolo d.C. gli anglo-sassoni affrontarono quasi con sufficienza i primi invasori vichinghi, nella certezza di ributtare a mare i feroci pagani giunti dalla Scandinavia. Almeno finché non scoprirono che le loro possenti armature venivano facilmente trapassate dalle frecce armate con punte di tipo bodkin, che affusolate e sottili, ma ben temprate, si infilavano negli anelli delle cotte di maglia, o sfondavano giubboni e corazze, pur nella loro letale semplicità.
Messe da parte per quasi tutta l’epoca moderna in seguito all’avvento delle armi da fuoco, le armature riscoprirono un inaspettato ritorno di fiamma in tempi assai più recenti, durante la prima guerra mondiale, che nella sua immane mattanza rappresentò pure una straordinaria occasione di innovazione militare. Certo gli esordi furono assai lenti… Per dire, al Comando francese (che per la sua straordinaria ottusità non aveva eguali) gli ci vollero mesi (e diverse migliaia di morti) per capire che pantaloni e kepì di un rosso sgargiante non erano esattamente del colore più indicato per passare inosservati ai tiratori nemici.
Ma vuoi mettere l’elàn guerriero, e scenografico, che i calzoni vermigli rappresentavano per una truppa lanciata a passo di carica sotto il fuoco nemico?!? E per giunta schierata come le vecchie fanterie di linea napoleoniche, per essere meglio falciata dalla fucileria avversaria?
Fortunatamente, non mancarono innovazioni importanti, tanto che per l’occasione l’Armée francese riscoprì pure l’uso della catapulta..!
Viste le perdite spaventose, e la riottosità crescente delle truppe a farsi macellare per la gloria dei generali nelle retrovie, verso la metà del conflitto, sui vari teatri di guerra cominciarono a fare la loro comparsa una notevole varietà di protezioni ed armature, che certo avrebbero reso invulnerabili i fantaccini alle pallottole.
Niente a che vedere con i khevsur della Georgia che ancora nel 1913 si presentavano in battaglia, bardati così…
Fu allora che l’ineguagliabile tecnologia teutonica mise a disposizione delle proprie fanterie la sua insuperabile corazza da combattimento…
Scenicamente imponente, la protezione si rivelò scomoda, ingombrante, e naturalmente inefficace, rendendo i fanti simili a gasteropodi, per una vaga somiglianza con le aragoste.
Va da sé che le nuove “sappenpanzer” non fecero mai la differenza in battaglia, ma almeno regalavano alla truppa la consolatoria illusione di essere immune ai proiettili.
Peccato che poi alla riprova dei fatti le cose non andassero esattamente per il verso sperato, dal momento che le corazze si rivelarono forabili eccome…
L’effetto palliativo però era assicurato, dal momento che divennero una preda di guerra ambitissima; soprattutto dalle truppe anglo-canadesi che combatterono alla Battaglia della Somme.
Certo, niente di paragonabile all’incredibile catafalco che per un certo periodo venne rifilato alle unità dell’esercito austro-ungarico. Una specie di kit componibile, che poteva fungere da corazza, parapetto, e casamatta portatile. E che con ogni probabilità veniva abbandonata dalla truppa, così camuffata da contrabbasso, alla prima occasione disponibile.

Ovviamente la cosa non passò inosservata agli alti comandi strategici dell’Intesa… E vista l’alta funzionalità di impiego dell’ultimo ritrovato bellico, ognuno si dette a fabbricarne di sue.
Tra i soldati britannici le corazze non ebbero molto successo… E certo gli inglesi preferirono di gran lunga continuare a riutilizzare quelle sottratte ai crucchi, finché non si resero conto che si trattava soltanto di un inutile ingombro da trascinarsi dietro.

Ma nessuno si dette più da fare dello USArmy. E lo straordinario risultato finale di tante fatiche furono le imbarazzanti armature Brewster..!
La Brewster Body Shield fece la sua comparsa nel 1918 sul fronte francese di Verdun. E si può solo immaginare l’incontenibile entusiasmo dei fortunati prescelti, che si trovarono costretti ad indossare un simile scafandro.
Realizzata in acciaio al nickel-cromo dalla Brewster Steel Company, l’armatura pesava oltre 40 kg ed è fin troppo facile intuire che fosse pure di rara scomodità.
Come si potesse correre su un terreno brullo e sconnesso, saltare tra una fossa e l’altra, e scavalcare trincee con una simile roba addosso, resta difficile da immaginare. Però si può ben supporre quale fosse l’esito finale…
Per proteggere le sentinelle, e soprattutto le vedette che costituivano il bersaglio preferito dei cecchini, vennero elaborate delle protezioni di rinforzo per gli elmetti. E le più funzionali furono probabilmente le placche d’acciaio che venivano applicate sugli stahlhelme tedeschi, i quali in alcuni casi vennero ridipinti in un primo esempio di mimetizzazione policroma.
I piastroni d’acciaio in forma trapezzoidale venivano agganciati ai chiodi ai lati dell’elmetto e fornivano così una protezione aggiuntiva, che però non garantiva la salvezza da un colpo frontale e diretto allo stirnpanzer.
Poi come al solito, si volle esagerare e cominciarono a circolare degli inquietanti mascheroni da saldatore di fonderia, a visibilità sempre più ridotta.

Siccome i cecchini più bravi miravano generalmente agli occhi, vennero realizzate fessure sempre più strette col risultato che la sentinella finiva per non vedere più un cazzo.
Gli americani, insuperabili come sempre, fecero un’eclatante invenzione ispirata direttamente al medioevo e mai (ri)messa in circolazione…

Sul fronte italiano, il Regio Esercito si dette da fare anch’esso e nel 1915 fecero la loro comparsa sul campo le mitiche corazze Farina, che avrebbero dovuto fornire un’impagabile protezione ai genieri inviati a tagliare i reticolati attorno alle trincee austriache.

Testate contro armi di medio e piccolo calibro, le corazze dimostravano una buona resistenza, a patto che ci si tenesse almeno a 150 metri (!) dal nemico.

Utilissime contro le schegge di rimbalzo degli shrapnel (e grazie al cazzo!), venivano forate come il burro dai proiettili calibro 8 mm dei fucili Steyr-Mannlicher M1895 in dotazione all’esercito austro-ungarico.
Emilio Lussu, volontario nella Grande Guerra, ridicolizza le corazze ampiamente, avendo avuto modo di verificare sul campo la loro straordinaria efficacia di impiego:

«Le corazze ‘Farina’ erano armature spesse, in due o tre pezzi, che cingevano il collo, gli omeri, e coprivano il corpo quasi sino alle ginocchia. Non dovevano pesare meno di cinquanta chili. Ad ogni corazza corrispondeva un elmo, anch’esso a grande spessore. Il generale era ritto, di fronte alle corazze….. Ora parlava, scientifico: “Queste sono le famose corazze ‘Farina’…. che solo pochi conoscono. Sono specialmente celebri perché consentono, in pieno giorno, azioni di una audacia estrema. Peccato che siano così poche! In tutto il corpo d’armata non ve ne sono che diciotto. E sono nostre! Nostre!” […] “A noi soli” continuava il generale “è stato concesso il privilegio di averle. Il nemico può avere fucili, mitragliatrici, cannoni: con le corazze ‘Farina’ si passa dappertutto”.
“Dappertutto per modo di dire” osservò il colonnello, che quel giorno era in vena di eroismo…. “io ho conosciuto le corazze Farina – spiegò il colonnello – e non ne conservo un buon ricordo, ma forse queste sono migliori”.
“Certo, certo. Queste sono migliori – riprese il generale – con queste si passa dovunque. Gli austriaci…”
Il generale abbassò la voce sospettoso e dette un’occhiata alle trincee nemiche, per accertarsi che non fosse sentito.
“Gli austriaci hanno fatto delle spese enormi per carpirci il segreto, ma non ci sono riusciti. Il capitano del Genio che è stato fucilato a Bologna, pare fosse venduto al nemico per queste corazze. Ma è stato fucilato a tempo. Signor colonnello vuole avere la compiacenza che esca il reparto dei guastatori?”
Il reparto dei guastatori era stato preparato dal giorno prima e attendeva d’essere impiegato. Erano volontari del reparto zappatori, comandati da un sergente, anch’egli volontario. In pochi minuti furono in trincea, ciascuno con un paio di pinze. Essi indossarono le corazze in nostra presenza. Lo stesso generale si avvicinò a loro ed aiutò ad allacciare qualche fibbia. ‘Sembrano guerrieri medioevali’ osservò il generale. I volontari non sorridevano. Essi facevano in fretta e apparivano decisi. Gli altri soldati, dalla trincea, li guardavano con diffidenza. Accanto al cannone praticammo un’altra breccia, nella trincea. Il sergente volontario salutò il generale. Questi rispose solenne, dritto sull’attenti, la mano rigidamente tesa all’elmetto. Il sergente uscì per primo; seguirono gli altri, lenti per il carico d’acciaio, sicuri di sé, ma curvi fino a terra, perché l’elmetto copriva la testa, le tempie e la nuca, ma non la faccia. Il generale rimase sull’attenti finché non uscì l’ultimo volontario, e disse al colonnello, grave: “I romani vinsero per le corazze”.
Una mitragliatrice austriaca, da destra, tirò d’infilata. Immediatamente, un’altra, a sinistra, aprì il fuoco. I volti si deformarono in una contrazione di dolore. Essi capivano di che si trattava. ‘Avanti!’ gridò il sergente ai guastatori. Uno dopo l’altro, i guastatori corazzati caddero tutti. Nessuno arrivò ai reticolati nemici. ‘Avan…’ ripeteva la voce del sergente rimasto ferito di fronte ai reticolati. Il generale taceva. I soldati del battaglione si guardavano terrorizzati

Emilio Lussu
“Un anno sull’altipiano”
(1938)

Essendo disponibile in numero limitato, un così straordinario artefatto venne distribuito soprattutto tra gli Arditi volontari delle cosiddette “compagnie della morte”: nome quanto mai azzeccato per gli aspiranti suicidi, che venivano inviati armati di cesoie e guantoni a tagliare i reticolati nemici.
Le protezioni Farina non si rivelarono più utili dei loro omologhi impiegati sugli altri fronti di guerra, ma la propaganda bellica dei comandi italiani vi aggiunse quel tocco di minchioneria in più, che fa sempre la differenza…
Immaginate voi la praticità (e soprattutto l’utilità) di correre e saltare e strisciare nella terra di nessuno, stringendo una baionetta tra i denti, con mezzo quintale di ferraglia tintinnante addosso, mentre scoprite con sorpresa che le vostre cesoie non riescono a tagliare un filo spinato rinforzato con più di 5 cm di spessore. Senza considerare l’estensione dei campi da bonificare…
I carriarmati si sarebbero rivelati assolutamente più funzionali, ma vabbé! All’epoca venne considerata inizialmente come un’invenzione poco utile e di scarso impiego.

Eppoi vuoi mettere il fascino di una specie di cavaliere medievale schierato in trincea?!?
Assolutamente inutili come protezione, le armature avevano l’indiscutibile svantaggio di rendere subito individuabili i guastatori nel buio, giacché bastava aguzzare l’udito al rumore del ferro che cozzava sulle pietraie insieme al ticchettio delle cesoie. Una volta scoperti, l’esito era in genere assai scontato…
Né migliorò l’utilizzo di scudi protettivi, che a parte l’evidente ingombro non garantivano granché…
Pertanto, vista la loro collaudata efficacia, di corazze pettorali ed armature ne circolarono ancora parecchie fino al 1945.
Dalla Polonia…
Alla Russia sovietica, con le sue Stalnoi Nagrudnik, che forse tra tutti i modelli messi in circolazione si rivelarono tra i più resistenti e forse non tra i più comodi, visto che i due piastroni imbottiti, una volta legati tra loro comprimevano la cassa toracica rendendo difficile la respirazione in caso di affanno.
Stalnoi NagrudnikAnche l’esercito imperiale nipponico realizzò una propria versione, riservata ai signori ufficiali, ed utilizzata durante l’invasione della Cina.
Sull’efficacia del soldato corazzato del futuro non è dato ancora di sapere. Certo per i profitti delle aziende impegnate nella ricerca sarà un successo di sicuro.

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EI FU…

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , on 26 novembre 2016 by Sendivogius

7-gennaio-1959-alla-vigilia-dellingresso-allavana

È morto Fidel Castro. Le roi est mort, vive le roi!
Ora, si possono pensare e dire molte cose buone o cattivissime del lìder maximo della Rivoluzione cubana, che comunque sia, piaccia o non piaccia, è stato uno dei protagonisti più complessi (e longevi) della storia del ‘900, segnando un’epoca e soprattutto un’utopia; più di quanto i nani ed i pagliacci cotonati, che si agitano nel verminaio di questo orrido squarcio di XXI secolo, saranno mai… 
i-3-bidoniFu un uomo duro? Certo! Fece degli errori? Infiniti! Fu un despota narcisista col gusto del potere? Sì anche (ma non solo), vogliamo parlare pure di tanti sedicenti “statisti” democratici?!?
Soprattutto, è stato l’uomo che (con molti altri) osò sfidare un impero. E vinse! Fu così che un’insignificante isola caraibica si trasformò in una moderna Tortuga, mantenendo la sua indipendenza e dignità, nell’arcipelago delle repubblichette bananiere che costellano da sempre quello che gli USA, sotto ogni amministrazione, considerano il loro esclusivo “cortile di casa”, da gestire per procura su mandato coloniale, soggiogare col ricorso sistematico al terrorismo di stato, e utilizzare come immenso laboratorio economico neo-liberista (prima che le ricette venissero imposte al mondo intero) su scala continentale. S’è visto poi quali erano le alternative considerate accettabili (ed invocate) al governo castrista

videla-pinochet

Nella sua esclusività, Cuba rappresentò invece un’eccezione unica nella storia latinoamericana; fu necessario cingerla con un cordone sanitario perché il contagio non si diffondesse. E lo chiamarono embargo.
Fu vera gloria? A posteri l’ardua sentenza…

Noi critichiamo Fidel, ma non lo condanniamo. Lasciamo le considerazioni ad altri, tanto sarebbe impossibile per noi esaurire l’argomento in così poche righe. E di più non aggiungiamo.
lavana-marzo-1960Quello che invece proprio non ci riesce di capire è per quale imperscrutabile legge della trascendenza su ogni fatto, evento, sbadiglio, vero o presunto tale che sia, sistematicamente, puntuale come un orologio rotto che segna l’ora esatta due volte al giorno, ogni volta ci dobbiamo sorbire l’immancabile omelia di San Roberto Saviano: l’Oracolo vivente per l’intrattenimento gerontologico da varietà finto impegnato, che ogni volta dispensa le sue perle di ovvietà e pregiudizi di saggezza. E che dal cantuccio nel quale vive rintanato in esilio volontario, come auto-recluso guardato a vista (tanta è la paura che s’è preso l’ultima volta), non resiste all’irrefrenabile impellenza di pontificare su tutto e su tutti. E farlo massimamente su cose che non conosce e delle quali ignora tutto, quasi che l’esternazione gratuita (ed inutile) rispondesse all’esigenza primaria di mantenere in vita la propria leggenda di carta, difendendo se stesso dall’ombra sempre roberto-savianoincombente dell’oblio che grava sui predicatori da salotto. Insomma, uno di quelli che per sopravvivere ha bisogno di creare dei “casi” mediatici attorno alla morte altrui, purché non ci si scordi di lui… E per la bisogna parla come un Trump di merda qualunque.
I nani, i pagliacci, e i giganti. Per l’appunto!

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