MORTAL KOMBAT

Che in Afghanistan le cose non andassero per il verso giusto, s’era capito da un pezzo… E non è che ci volesse un genio per fare l’impresa!
Gli estremi c’erano già tutti da più di dieci anni fa, qualora fossero stati osservati senza lo sguardo fregnone dell’ottimista idiota, in piena Sindrome di Pollyanna.
Bastava conoscere la storia e la specificità dei popoli coi quali ci si va a scontrare, prima di infognarsi in missioni impossibili; o semplicemente fare i compitini a casa…
Su queste modeste paginette, il sospetto c’era già sopravvenuto nell’ormai lontano 2010 [QUI], quando gli USA stavano per impantanarsi in un’altra delle loro campagne imperiali tra le sabbie dello Yemen, prima di appaltare la guerra per procura all’Arabia Saudita, generando l’ennesima crisi umanitaria a telecamere oscurate, e concentrarsi sul disastro afghano…

Eppure, a volte, basterebbe poco capire che esistono vespai nei quali è d’obbligo muoversi con estrema cautela, ovvero non entrarvi affatto! Basterebbe fare tesoro delle esperienze passate… Cosa che per esempio non è avvenuta in Afghanistan: la scabrosa disfatta strategica da nascondere sotto il tappetino dell’informazione mediatica; la rachitica piantina morente da innaffiare di tanto in tanto con un po’ di retorica celebrativa. Che la missione in Afghanistan sia un fallimento è ormai evidente persino ai suoi più accesi fautori; per questo se ne parla il meno possibile. E ci si riferisce ad un Paese dove il tempo sembra trascorrere immutabile, in un ciclo perennemente avvitato su se stesso. Cambiano i protagonisti, ma circostanze e problematiche restano invariate nel corso dei secoli, quasi fossero ascritte in un limbo atemporale. Tant’è che un osservatore dell’800 troverebbe poche differenze con la situazione attuale:
a) L’assenza di un governo centrale, abbastanza forte da accentrare su di sé i pieni poteri ed il controllo sui riottosi signori della guerra locali;
b) Il conflitto endemico tra i vari gruppi etnici in un continuo attrito di forze contrapposte, secondo gli equilibri mutevoli di fragili alleanze siglate sulla necessità del momento… Gli Hazara sciiti, fieramente opposti agli Aimak sunniti. I Tagiki del Badakhshan. Gli Uzbeki e le popolazioni turcomanne del nord-ovest. L’etnia dominante dei Pashtun (o Afghan), che costituisce la maggioranza del Paese al quale dà il nome e che i coloniali britannici chiamavano “Phatan”.
c) La costante pressione destabilizzante verso la turbolenta Peshawar.
d) Una ostilità endemica con l’Iran (Persia).
e) La funzione strategica che l’Afghanistan ha rivestito, come ridotta di contenimento per l’espansionismo russo (zarista prima e sovietico poi) e per le ambizioni persiane. In quanto cuscinetto ideale a difesa dell’India, ha costituito la valvola di sfogo ideale, tramite interposizione di forze, per le tensioni imperiali delle grandi superpotenze: Impero Britannico nell’800 e USA nel ‘900 versus il gigante chiamato Russia.
f) I disastrosi fallimenti che hanno caratterizzato ogni tentativo di invasione e di occupazione diretta del territorio.

(Il titolo dell’articolo era evocativo: Accadde Domani)

Poi, le cose sono andate esattamente com’era prevedibilissimo che fosse, soprattutto considerate le premesse. Questo al netto delle quintalate di propaganda sparsa a quattro mani, in 20 anni di “guerre umanitarie” e visioni neo-imperiali, nonché a dispetto di tutti quegli “analisti” e sedicenti “esperti” di strategia geopolitica, che (ad essere generosi) non c’hanno mai capito un cazzo, accompagnati ora dal lamento funebre delle vergini violate sui sepolcri imbiancati di fresco, tra litri di lacrime versate a secchiate dopo il pasto del coccodrillo, per le sorti di quell’Afghanistan che si voleva liberato da quei cattivoni dei taliban ritornati al potere in pompa magna, senza incontrare resistenza alcuna.
L’esercito nazionale del presidente Najibullah, quasi interamente composto da coscritti di leva, addestrato dai sovietici e lasciato da questi, dopo il loro ritiro nel 1989, a difendere il paese dai valorosi mujaheddin fondamentalisti chiamati alla jihad (quegli stessi “combattenti per la libertà”, foraggiati ad libitum dalla CIA), resistette tre anni prima di capitolare.
Il nuovo esercito afghano di volontari professionisti, con le sue modernissime “unità speciali” (la cui tenuta sul campo poi s’è vista), inondato con miliardi di dollari, è collassato in tre giorni. Esattamente, come già era avvenuto in Iraq con l’insorgere dell’ISIS; il ché pone seri interrogativi sul come vengano addestrate e reclutate queste raffazzonate ma costosissime milizie ausiliarie di mercenari.
Sulla carta, il governo afghano aveva a disposizione una forza armata di almeno 180.000 soldati (ed il doppio degli effettivi a libro paga), che alla riprova dei fatti non combattono, con tank che non escono dalle rimesse ed aerei che non decollano, costati ai soli USA la modica cifra di 83 miliardi di dollari per l’addestramento, equipaggiamento, e spese di mantenimento. E sono solo una piccola parte di quei 2.261 miliardi buttati con generosa prodigalità nel cesso, per ritrovarsi gli ex amici talebani (the brave mujahideen fighters of Afghanistan) accampati a Kabul.
Nella Storia, ci sono ritirate e disfatte più o meno catastrofiche, ma è difficile trovarne di più costose per guerra più inutile e sconfitta più umiliante.

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