Partito della Nazione
Ultimamente, si sente parlare sempre più spesso e con una certa leggerezza, in conformità con la faciloneria dei tempi che corrono, di “Partito della Nazione”. Si tratta di una scelta semantica funzionale a
definire la catalizzazione del consenso. E di per se stessa si presta a interpretazioni quantomeno dubbiose: se la “nazione” vive politicamente in un partito che ne riflette le scelte e l’animus prevalente, come si dovrebbe definire ciò che ne resta al di fuori per incapacità di omologazione o intrinseca resilienza? Anti-nazionale, e dunque anti-italiano, ‘sovversivo’?!?
Se la scelta delle parole è importante, bisognerebbe saper cogliere anche il presupposto “totalitaristico” di simili definizioni…
Il termine, recentemente evocato dal premier Renzi, è in realtà una vecchia trovata di Pier Ferdinando Casini [QUI]. E con ogni evidenza si ispira a quello che in Italia fu il “partito della nazione” per eccellenza: la Democrazia Cristiana. La riscoperta rende bene qual’è il modello ispiratore e l’approdo ultimo delle attuali fregole “riformiste”, soffritte in salsa liberista.
Ma l’idea di un “partito della nazione” non è certo una novità nello spettro politico, visto che solletica perfino le simpatie di vecchi comunisti in disarmo come Alfredo Reichlin, in una ritrovata visione egemonica ai tempi della post-democrazia.
Sostanzialmente, costituisce una variante rivista e corretta del cosiddetto catch-all party, il “partito pigliatutto”: invenzione non nuovissima, dal momento che il primo ad utilizzare l’espressione fu il prof. Otto Kirchheimer, che ne teorizzò la struttura già a metà degli anni ’60, considerando il fenomeno come la naturale evoluzione dei partiti di massa. Tramite l’adozione di un armamentario post-ideologico, assolutamente flessibile e trasversale, il “partito pigliatutto” si concentra sulla promozione elettorale di interessi specifici e quanto più variegati possibile. Ottimizza il consenso, tanto più condivise sono le tematiche promosse, quanto più è indefinita la visione ideologica d’insieme e liquido il suo elettorato di riferimento. Allargando l’offerta elettorale delle proposte, pesca suffragi nei bacini elettorali più diversi. Si direbbe che più che indirizzare l’elettore, focalizzando l’azione su specifici temi, ne insegua piuttosto gli umori, avvallandone le pulsioni e funzionando come perfette macchine elettorali, per la massimizzazione del consenso in termini di voti.
Il “partito pigliattutto” è stata l’entità prevalente dell’ultimo decennio, con la sua struttura su base personalistica, mutuata dal linguaggio pubblicitario e dal marketing avanzato. Pertanto, si è passati dal partito-azienda, inteso come emanazione proprietaria delle aziende Mediaset, al sedicente “movimento” che pesca a destra e a sinistra, fuori dai vincoli di appartenenza politica nel culto ossessivo del Capo politico di cui è la protuberanza, ma in quest’ultimo caso siamo fuori scala ed è come contare i coliformi in una fogna. Più ordinario è invece il caso di quell’ex contenitore di correnti l’un contro l’altra armate, che è stato fino a poco tempo il partitone democratico, ridotto oramai a coreografia scenica e filiale organizzativa del renzismo dilagante.
Soprattutto, nella loro offerta indifferenziata, i catch-all parties sono prodotti a forte contenuto mediatico, fondati sulla predominanza degli slogan, e costruiti attorno alla personalità eclettica di un leader di cui si mettono al servizio, essendo strumenti più funzionali che sostanziali. E questo ne costituisce anche il limite e la debolezza più evidente, dal momento che la vacuità ideologica, il personalismo verticistico, ed i trasformismi politici, possono degenerare nei casi peggiori, in culto della personalità, incentrato attorno ad un populismo reazionario e improntati alla massima ubiquità.
Come sempre, gli esempi più deleteri ci vengono dalla realtà latinoamericana, rotta a tutte le degenerazioni possibili. In tale ambito, un modello atipico quanto particolare sono i “partidos colorados” di Paraguay ed Uruguay, capaci delle involuzioni e dei contorcimenti politici il più eclatanti (e ripugnanti) possibile.
Tornando invece alla specificità italiana, sopravvalutare la portata dei propri successi (ancor più se elettorali per tornate minori) non è mai un buon metro di giudizio, esattamente come non giova all’azione la prudenza eccessiva.
E questo bisognerebbe ricordarlo all’aspirante “Telemaco” in viaggio per l’Europa. Peraltro, ad essere pignoli, la scelta mitologica è davvero tra le più infelici: Telemaco nel suo girare a vuoto, è uno dei personaggi più inconcludenti dell’Odissea; tutta la sua vita è consacrata alla ricerca del padre assente (che se la spassa come meglio può, passando di letto in letto), al quale demandare la risoluzione di problemi (tipo i proci che gli hanno occupato casa e gli insidiano la madre) che è totalmente incapace di risolvere da
solo. Che siano la dea Atena, che si manifesta con l’aspetto del vecchio Mentore, papà Ulisse (travestito da vecchio), la madre Penelope… Telemaco si appoggia totalmente agli altri, i “vecchi” per l’appunto, senza i quali è perduto. Quando per forza di cose decide da solo, affrancandosi finalmente dall’ombra paterna, inesorabilmente sbaglia e fa una gran brutta fine.
Ecco, parlare di “Generazione Telemaco” non è esattamente una metafora di buon auspicio. Fortunatamente, la gilda di mercanti riunita sotto la finzione di un europarlamento è troppo intenta a tirar di conto sulla pelle dei popoli, per perder tempo a leggere i Classici (non è stato detto che con la Cultura non si mangia?) e dunque non si corre il rischio possa cogliere l’incongruenza. In quanto agli apologeti di casa nostra, che sempre più numerosi si affollano alla destra del Figlio, riuscirebbero a far passare l’ottone per la pietra filosofale.
È curioso che ci si gingilli invece attorno a recipienti dal contenuto variabile come il “partito della nazione”, tanto da non capire quanto siano anacronistici sia l’uno (il “Partito”) che l’altra (la “Nazione”) in un contesto fortemente diversificato. A meno che non si intenda utilizzare il nuovo contenitore come un vaso di decantazione, dove marinare opinioni, divergenze e sensibilità differenti, lasciate in decantazione fino ad elidere ogni sfumatura contraria, nell’illusione di un unanimismo stretto attorno ad un leader che decide in splendida solitudine. Perché se in Italia c’è una cosa che non manca, sono i suoi aspiranti “salvatori”.
4 luglio 2014 a 21:34
del resto, mi permetto di aggiungere superfluamente, siamo in un periodo che più che di pace sembra “di pacificazione” (e pure forzata): in ogni ambito, dal politico al culturale passando per lo storico sento che si stanno cercando di incanalare le correnti, appiattire i dislivelli e le differenze in un’apparente normalità (in realtà, anche qui, “normalizzata”), soffocando i contrasti dinamici e fisiologici ovvi in un mondo complesso come il nostro. E tutto ciò parte proprio dalla base fondamentale di comunicazione, il linguaggio, dunque con una scelta mai casuale di termini e slogan sempre finalizzati al livellamento delle sfumature semantiche. E credo sia proprio vero che in linea di massima ad una povertà di linguaggio corrispondano poi povertà di contenuti e idee.
5 luglio 2014 a 02:07
😉 E’ opportuno ricordare come i tuoi interventi non siano mai superflui e quanto piuttosto contribuiscono ad arricchire queste modeste pagine con spunti interessanti di discussione…
Tant’è vero che in pochissime parole hai saputo condensare uno degli assiomi fondamentali della sociolinguistica applicata all’antropologia culturale, che molto si richiama alla cosiddetta
“ipotesi della relatività linguistica“ di Edward Sapir e Benjamin Whorf… Ma sì, sfoggiamoli ogni tanto ‘sti studi di sociologia!
In quanto alla “pacificazione” in atto, questa costituisce più che altro un tassello del procedimento di “normalizzazione” posto in essere da ormai più di un trentennio. Se per “normalizzazione” s’intende anche e soprattutto l’omologazione sistemica, la cetomedizzazione delle coscienze e della società, col suo livellamento critico al ribasso, la semplificazione analitica, la negazione di ogni conflitto (e opposizione) in una sostanziale ed acritica accettazione del pensiero unico dominante (ordoliberismo monetarista e neo-darwinismo sociale), veicolato delle oligarchie tecnocratiche vecchie e nuove….
Ma credo anche che siamo dinanzi alla costruzione di qualcosa di ‘nuovo’ (e al contempo antico): dalla concentrazione dei poteri attraverso lo smantellamento degli equilibri costituzionali, passando per la compressione degli spazi di discussione e di confronto, al verticismo dirigista fondato sul carisma personalistico del leader-condottiero.
Fino a qualche anno fa, esistevano ancora degli argini democratici, ora invece l’elemento plebiscitario, unito all’accentramento dei poteri nelle disponibilità di un “leader” che decide in fretta e soprattutto da solo (duce!duce!), è diventato parte integrante del pacchetto ‘riforme’, che la sempre citata a sproposito “Europa” (non) ci chiede.
La parabola cesarista si compie e si realizza proprio quando il suo massimo ostensore, il papi della patria, sembrava una brutta pagina di storia pronta per l’archiviazione. Tanto che il suo disegno reazionario pare destinato a realizzarsi postumo.
Mala tempora currunt sed peiora parantur… E la chiamano “svolta”!
P.S. Tanto per rimanere in tema e ribadire certa correlazione tra “partito della nazione” e anti-italinità: “Chi blocca le riforme sabota l’Italia” (Matteo Renzi, 05/07/14)
5 luglio 2014 a 09:44
Come districarsi tra le medie, le normalizzazioni e le correlazioni…
– CHE COS’È LA CULTURA?
«Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell’intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini.
La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile – o, per dir meglio, visibile – nel vissuto e nell’esistenziale e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente ad un nuovo Potere.
[…]
Conosco, alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”: produrre e consumare.
L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderati”, dovuti alla tolleranza ed a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere […] è in realtà – se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma “totale” di fascismo. Ma questo Potere ha anche “omologato” culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre.
[…]
Il nuovo fascismo non distingue più: non è umanisticamente retorico, è pragmatico.
Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo. –
http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/15/mangia-cioccolato-e-vinci-il-premio-nobel/
5 luglio 2014 a 15:04
La tua citazione tratta da P.P.P. è calzante come poche, tanto che adesso vado a rispolverare gli “Scritti corsari“ dalla mia ‘piccola’ biblioteca domestica… anche se una parte consistente della produzione pasoliniana si pone a cavallo di quello che già Marx bollava, in termini non esattamente lusinghieri, “socialismo reazionario” e “comunismo utopistico”, ed ha un messaggio romanticheggiante intrinsecamente nostalgico-conservatore.
P.S. Non ho capito bene l’accostamento con l’articolo linkato di Dario Bressanini, ma la correlazione tra consumo di cibo biologico e autismo m’ha troppo divertito.
Per non parlare dell’uso di Internet Explorer e inclinazione omicida… Io alterno Firefox a Chrome, quindi penso di essere immune..:)
5 luglio 2014 a 19:21
Non è tanto il link ma il concetto di “correlazione” che si lega in particolare alla tua chiusura…
– Perché se in Italia c’è una cosa che non manca, sono i suoi aspiranti “salvatori” –
e più in generale a quello che sottende il topic…
Esiste secondo me, una certa correlazione tra “totalitarismo” e democrazia che sono in antitesi, ma vicini nell’evoluzione ciclica delle forme di Stato come sostenuto nell’antichità (Platone, la deriva ciclica Timocrazia – Oligarchia – Democrazia – Tirannia) come pure oggi (Popper)…
5 luglio 2014 a 19:54
Conosco la Vostra associazione da qualche anno… solo oggi pomeriggio ho avuto occasione di entrare nel nucleo…
Complimenti per la cultura e l’ondata filosoficheggiante che mi hanno restituito il senso di libertà… che da anni stanno tentando di omogeneizzare…
5 luglio 2014 a 21:03
@ Il Matematico
Il ciclo platonico sulla trasformazione delle forme di governo, specialmente nell’interpretazione che Polibio fornisce nella sua anaciclosi, mi ha sempre affascinato… Tant’è che in passato più di una volta si è posto in questo piccolo spazio l’attenzione sulla degenerazione della Democrazia in Oclocrazia, che tra tutte le forme applicate di πολιτεία costituisce l’ultima e la “peggiore di tutte”.
«Finché sopravvivono cittadini che hanno sperimentato la tracotanza e la violenza, contenti della presente situazione, essi stimano più di ogni altra cosa l’uguaglianza dei diritti e la libertà di parola; ma quando subentrano al potere dei giovani e la democrazia viene trasmessa ai figli dei figli di questi, non tenendo più in gran conto, a causa dell’abitudine, l’uguaglianza e la libertà di parola, cercano di prevalere sulla maggioranza. In tale colpa incorrono soprattutto i più ricchi. Desiderosi dunque di preminenza, non potendola ottenere con i propri meriti e le proprie virtù, dilapidano le loro sostanze per accattivarsi la moltitudine, allettandola in tutti i modi. Quando sono riusciti con la loro stolta avidità di potere, a rendere il popolo corrotto e avido di doni, la democrazia viene abolita e si trasforma in violenta demagogia.»
Polibio. “Storie”; VI, 9.
@ Anonimo
Ovviamente sei il benvenuto! E’ implicito che potrai onorarci dei tuoi interventi ogni volta che vorrai…
Grazie davvero per la considerazione accordata e gli attestati di stima.
P.S. Un nickname non comporta oneri ed è sempre meglio di “anonimo”..;)
5 luglio 2015 a 17:53
[…] degna dei propri rappresentati. Per questo si parla con leggerezza e ammiccante compiacimento di“partito della nazione”, più volte evocato sulla falsariga della cinquantennale egemonia democristiana, nella rievocazione […]
7 luglio 2015 a 17:13
[…] degna dei propri rappresentati. Per questo si parla con leggerezza e ammiccante compiacimento di“partito della nazione”, più volte evocato sulla falsariga della cinquantennale egemonia democristiana, nella rievocazione […]