La chiamano “storytelling”: l’arte di creare storie, incastonate nella propedeutica pedagogica della finzione narrativa, attraverso la semplificazione del messaggio nella fruizione del medesimo, per presupposizione dialogica su funzione proiettiva. Per essere convincente, lo storytelling deve ‘sembrare’ vero, fornendo un “ritratto realistico” (e quindi convincente) di ciò che si intende illustrare. Tuttavia, la sua plausibilità non risponde necessariamente ad un presupposto oggettivo e confutabile con elementi logici, ma ad una principio di realtà che sposta la realizzazione di effetti e benefici nell’indefinitezza di un tempo presunto.
Quando viene applicato alle tecniche di “management”, lo storytellig si trasforma in format pubblicitario, secondo i meccanismi promozionali che sono propri della comunicazione integrata e che si fondano sulla condivisione di immagini a valenza simbolica, interiorizzate su base emozionale, nella reiterazione del messaggio meglio se strutturato secondo postulati sillogici.
A livello molto più prosaico, in “politica”, e ancor più quando questa si riduce a marketing elettorale per pubblicitari di successo, l’intera faccenda ha un nome ben preciso…
Si chiama ‘propaganda’.
Il concetto era già chiarissimo agli albori del XX° secolo e si sviluppa di pari passo con l’affermazione della società di massa, dove il massiccio ricorso alle tecniche della propaganda è speculare alla costruzione del consenso, per la strutturazione (e mantenimento) del ‘potere’ dipanato nelle sue varie articolazioni sistemiche, che si traduce nella capacità di controllare (ed indirizzare) l’opinione pubblica su larga scala, tramite il filtraggio e la manipolazione delle informazioni con campagne mediatiche mirate.
Lo sapeva benissimo un creativo come Edward Bernays che intuì subito la correlazione esistente tra pubblicità e comunicazione politica: ogni cittadino è un potenziale consumatore che va indirizzato nelle sue scelte, stabilendo una “connettività emozionale” col prodotto che si intende promuovere. E poiché le masse sono sostanzialmente irrazionali, se ne possono manipolare le opinioni e orientarne i gusti, agendo sull’inconscio collettivo, tramite la stimolazione delle paure e dei desideri. Pertanto la contraffazione dei fatti e delle informazioni, attraverso una distorsione cognitiva della realtà è sempre funzionale al raggiungimento del risultato, che poi si traduce nel vantaggio soggettivo di una ristretta oligarchia. Non per niente, Bernays parla senza eufemismi di “manipolazione delle coscienze”, nell’entusiastica conservazione dello statu quo fondato sulla supremazia del Mercato.
Su presupposti simili, ma per considerazioni completamente diverse, Walter Lippmann ebbe a sottolineare come “ciò che l’individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa,
ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date”. E siccome la maggior parte delle persone vivono in uno “pseudoambiente” dove, in assenza di esperienza diretta, i fatti vengono più ‘pensati’ che ‘vissuti’, la conoscenza di ogni individuo si fonda “su immagini che egli si forma o che gli vengono date”. Pertanto, si tratta di “immagini mentali” in grado di suscitare “sentimenti” contrastanti a seconda delle prospettiva con cui queste vengono inquadrate.
Di conseguenza, per Lippmann la ‘propaganda’ è “lo sforzo di modificare le immagini a cui reagiscono gli individui, di sostituire il modello sociale con un altro”.
La scarsità di conoscenze a propria disposizione, unita ai limiti delle proprie esperienze dirette ad alla necessità di semplificazione, conduce alla formazione di “stereotipi” che si configurano come un risparmio di energia mentale e si consolidano nel rassicurante conformismo da cui scaturiscono.
«Nella grande fiorente e ronzante confusione del mondo esterno scegliamo quello che la nostra cultura ha già definito per noi, e tendiamo a percepire quello che abbiamo trascelto nella forma che la nostra cultura ha stereotipato per noi […] Perciò gli stereotipi sono fortemente carichi dei sentimenti che gli sono associati. Costituiscono la forza della nostra tradizione e dietro le loro difese possiamo continuare a sentirci sicuri della posizione che occupiamo»
Walter Lippmann
“L’opinione pubblica”
Donzelli (Roma, 1995)
In pratica, per Lippmann gli stereotipi sono immagini parziali (e spesso distorte) che gli individui desumono dal “cerchio ristretto” delle proprie conoscenze; ovvero: dalla condivisione
collettiva dei frammenti si struttura la collettività, che si conforma alla prospettiva di maggioranza secondo un’ottica comune. I contatti con il mondo esterno, fuori dalla portata di un’esperienza empirica e diretta, vengono mantenuti e filtrati in immagini emozionali da una serie di “autorità cognitive”, dalle quali il ‘cittadino’ riceve gli stimoli cognitivi ed affettivi e su questi costruisce le proprie opinioni. Le “autorità cognitive” (media, personaggi pubblici, organizzazioni) contribuiscono alla “formazione di una volontà comune”, in cui si distinguono “capi e seguaci”.
Va da sé che la cosiddetta “opinione pubblica” non è mai un soggetto con cui relazionarsi, ma un oggetto da manipolare ai propri fini.
«I capi spesso fingono di aver semplicemente scoperto un programma che esisteva già nelle teste del loro pubblico. Quando lo credono, di solito si ingannano. I programmi non nascono contemporaneamente in una moltitudine di cervelli. E questo non perché una moltitudine di cervelli siano necessariamente inferiori a quelli dei capi, ma perché il pensiero è la funzione di un organismo, e una massa non è un organismo.
Questa realtà non appare chiaramente perché la massa è costantemente esposta a suggestioni. Non legge le notizie, bensì le notizie avvolte in un’aurea di suggestione, indicante la linea di azione da prendere. Ascolta resoconti non oggettivi come sono i fatti, ma già stereotipati secondo un certo modello di comportamento. Così il capo apparente scopre che il capo reale è un potente proprietario di giornali.
[…] Nella prima fase, il capo dà voce alle opinioni prevalenti della massa. Si identifica con gli atteggiamenti comuni del suo pubblico, talvolta sbandierando il suo patriottismo, spesso toccando una rivendicazione. Stabilito che ci si può fidare di lui, la moltitudine che stava vagando qua e là può incanalarsi verso di lui. Ci si aspetterà allora che esponga un piano d’azione, ma egli non troverà questo piano negli slogan che esprimono i sentimenti della massa. Questi slogan spesso non lo indicheranno nemmeno. Dove la politica incide molto alla lontana, quello che è essenziale è che il programma all’inizio si riallacci verbalmente ed emotivamente a quello a cui la moltitudine ha già dato voce. Gli uomini che riscuotono fiducia possono, sottoscrivendo simboli accettati, fare molta strada per conto loro senza spiegare la sostanza del loro programma.»
Walter Lippmann
“L’opinione pubblica”
Donzelli (Roma, 1995)
Lippmann scriveva nel 1922, ma le sue parole potrebbero valere benissimo anche per l’oggi.
La comunicazione di massa, opportunamente veicolata ed eterodiretta, si fa portatrice di quel carico di suggestioni, fungendo da cassa di risonanza, riducendo la partecipazione a fruizione passiva di un messaggio appositamente confezionato per il consumo allargato. In proposito, il sociologo Robert K. Merton parlava di “disfunzione narcotizzante” dei mass-media.
Si parva licet componere magnis, la piccola narrazione renziana, rapportata al contorno di tribuni e capetti politici variamente assortiti, non fa eccezioni. Ne persegue le medesime matrice lungo le direttive di una retorica propagandistica, tutta imperniata sul mantra salvifico delle “riforme” che, per l’appunto, hanno ormai sostituito l’inconsistenza sostanziale del “programma”, stimolando l’immaginario di un’opinione destrutturata a dimensione pubica.
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This entry was posted on 13 Maggio 2015 at 20:16 and is filed under Kulturkampf with tags Comunicazione, Consenso, Cultura, Democrazia, Edward Bernays, Italia, Liberthalia, Marketing, Mass Media, Mercato, Opinione pubblica, Pensiero, Politica, Potere, Propaganda, Pubblicità, Robert K. Merton, Società, Sociologia, Stereotipi, Storytelling, USA, Walter Lippmann. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed.
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15 Maggio 2015 a 02:15
Il suo blog é davvero una bella scoperta,ho apprezzato molti articoli,e sto cercando di leggerli tutti, tra l’altro.Continui così.
Saluti.