C’era una volta il “giornalismo d’inchiesta”… brillante invenzione di una stampa del tutto ideale (e per questo irreale), che aspira ad essere qualcosa d’altro e di più, rispetto ad una cassa di risonanza di poteri consolidati; o ridursi a mero strumento di manipolazione delle coscienze, per la promozione di interessi particolari su diffusione propagandistica.
Da noi, dove il giornalismo libero non è mai stato, nell’imprescindibilità di un’atavica vocazione cortigiana, le inchieste si limitano più che altro a tirar di conto nelle tasche altrui, con indignazione variabile in base alle appartenenze di scuderia. Oppure finiscono nel vuoto cosmico del disinteresse generale su ottundimento di massa. Più che i fatti, prevalgono i teoremi. E tutto si riduce ad appendice di un romanzo criminale senza fine, da tirare avanti fino ad esaurimento dei lettori disponibili.
Questo quando va bene, nel minimo di approfondimento che ne consegue, perché di preferenza il giornalista italiano riporta opinioni, di solito le proprie (meglio se mutuate da quelle del suo interessato padrone editoriale), elette ad imprescindibile verità di fede disciplinata in dogmi apodittici, da circostanziare al limite con poche battutine su twitter e condensabili in slogan rifritti, riassumibili in una mezza dozzina di parole vuote. “Altrimenti il pubblico non capirebbe”.
Per questo predilige i sensazionalismi della comunicazione emozionale, che lo dispensano dalla confutazione critica nell’onere della prova su verifica indotta, nella prevalenza dei patetismi mediatici su base regressiva, attraverso la delineazione dei fronti di appartenenza su divisione manichea. Il giornalista non deve mediare un’informazione verificata, ma creare un “animus” particolare e soprattutto funzionale ad altro…
Il fenomeno era già in essere da tempo, ma il conflitto in Ucraina scatenato dall’invasione russa ha ingenerato in un sistema mediatico embedded una sorta di catechesi propedeutica alla pedagogia di guerra. Più che formare coscienze, si preparano i futuri soldati alla guerra di domani, che ormai viene data quasi per certa, considerata accettabile… E per questo va resa desiderabile nell’ineluttabilità della stessa.
È una narrazione mitopoietica, che aborre la complessità; né tollera dubbi o esitazioni di sorta: nel migliore dei casi sono intesi come cedimenti al Nemico e nella peggiore delle ipotesi come un atto di tradimento della patria (ucraina, per proiezione).
L’addestramento è affidato ad un battaglione di invasati 50/60enni, con contorno di supponenti bimbiminkia in carriera e figlie di papà, preferibilmente parcheggiate sul seggiolone di qualche consiglio d’amministrazione a mantenimento pubblico. Che più che altro, sembrano i servi sciocchi di una compagnia di giro per l’intrattenimento ed indottrinamento delle reclute, mentre si infervorano come un Tirteo redivivo e leggono le veline della propaganda eletta a verità incontrovertibile, giacché nessuna panzana dal fronte ucraino pare loro abbastanza grande né assurda, da non essere esaltata o dal dover essere confutata, senza che mai ombra di dubbio alcuno sfiori le loro granitiche certezze.
Si distinguono per foia guerriera una mandria assortita di pasciuti e panciuti maschi adulti in fase senescente, che hanno superato la crisi di mezza età sostituendo i pruriti erotici di ritorno con le fregole di guerra in orgasmo surrogato, dopo aver riscoperto i soldatini con mezzo secolo di ritardo, per giocare alla guerra sul divano di casa travestiti da grandi strateghi, in un ritrovato vitalismo su eccitazione bellica.
E che ora imperversano a tempo pieno su reti unificate diffondendo il Verbo, mentre si passano la staffetta e randello per la bastonatura collettiva su pestaggio in gruppo dell’Orsini di turno.
A loro tempo imboscati, dopo essere ricorsi a qualsiasi espediente utile per sfangare il servizio militare di leva (“obbligatorio” per tutti, ma non per loro), oggi si sentono tutti generali, promossi sull’aia dei pollai televisivi per meriti di corte, mentre piantano bianderine e spostano carrarmatini di plastica sul tabellone del Risiko!, con l’aria tronfia e compiaciuta di ogni citrullo ingallonato che giochi alla guerra senza mai averne vista una.
Sono gli emuli contemporanei di quel giornalismo parolaio ed interventista che condusse l’Italia al mattatoio della prima guerra mondiale, in un’epifania sanguinaria di nazionalismo sciovinista ed esaltazione bellicista contro i “panciafichisti” di allora. All’epoca, le voci critiche o diffidenti erano bollate così. Oggi possiamo contare su un maccartismo di ritorno, molto più consono all’american spirit che pervade i nostri concionanti guerrafondai da salotto. Ma a differenza dei nostri eccitabili rambo da tastiera, gli “interventisti” di un secolo fa almeno ebbero la compiacenza di arruolarsi volontari in prima linea e farlo con convinzione, spesso rimanendoci secchi. Qui invece abbiamo solo un commando di indecenti pennivendoli d’assalto, che in guerra preferiscono mandarci gli altri, per spacciare qualche copia in più dei loro insulsi giornaletti in crisi di vendite e credibilità, appagando il proprio narcisismo da salotto e magari riciclarsi con un ingaggio da zerbino sull’uscio di qualche panel NATO.
Tale è l’assatanato manipolo di ringhiosi cagnetti da riporto, pronti a scondinzolare dietro a Padron Sam (nei panni di un vecchio rincoglionito, che non riesce a trattenere le sue flatulenze) in cambio di qualche croccantino, ridotti come sono a sbavanti mascottine da CCS di caserma.
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This entry was posted on 15 aprile 2022 at 13:54 and is filed under Kulturkampf, Risiko! with tags Comunicazione, Costume, Giornalisti, Guerra in Ucraina, Guerrafondai, Italia, Joe Biden, Liberthalia, Media, Ruffiani, Società, USA. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed.
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