Poenitentiam agite
Osservare il mondo, è un modo per immaginare il futuro nella comprensione del presente…
A tal proposito, una lettura imprescindibile (si fa per dire) sono le relazioni sociologiche del CENSIS, tutto teso negli ultimi tempi a delineare la “fenomenologia di una crisi antropologica”, tramite l’organizzazione di convegni specialistici per la garanzia occupazionale degli ‘addetti ai lavori’, riuniti sotto il nome di “Mese sociale”.
È da un po’ di tempo infatti che il prestigioso istituto lamenta la mancata visione del futuro da parte degli italiani che:
«sembrano sempre più imprigionati nel presente. Con uno scarso senso della storia e senza visione del futuro. Al desiderio si è sostituita la voglia, alle passioni le emozioni, al progetto l’annuncio. In un mondo dominato dalle emozioni, conta solo quello che si prova nel presente, non la tensione che porta a guardare lontano.»
E dunque restano rattrappiti in un individualismo egoistico per sopravvivenza, in attesa che passi la nottata. Nella loro allarmata denuncia i ricercatori del Censis rivelano inoltre che:
«Oggi i giovani italiani sono anche quelli in Europa che meno hanno intenzione di avviare una propria attività autonoma»
Per avviare una “attività autonoma” ci vuole quanto meno un capitale di investimento iniziale, un’idea con un minimo di ritorno commerciale, e un mercato fiorente dove poter investire.
Ora, sorvoliamo sul fatto che solo un coglione investirebbe tutti i suoi risparmi in un mercato asfittico, strozzato dalla più grande recessione economica dal 1929, e in un Paese col governo più pazzo del mondo. Dove li prenderebbe i ‘soldi’ questo nostro fantomatico giovane, futuro imprenditore e in pratica senza una reale occupazione?!? Dalle banche che hanno chiuso i rubinetti del credito? Frantumando il porcellino di coccio? Rapinando la pensione dei genitori? Impegnando la casa della nonna centenaria? Oppure millantare la conoscenza di Luigi Bisignani o qualche zio cardinale?!?
«Nella crisi antropologica che investe la società, non avere una visione del futuro significa concentrarsi sulla conservazione dell’esistente, cioè sul tenore di vita a cui siamo abituati.»
Per una generazione condannata ad una esistenza di “lavoretti” a scadenza, in una Italia fondata sul call center, che a livello contrattuale ha sostituito i gallinacei co.co.co con i fecali co.pro, e che superati i 35 anni è completamente tagliata fuori dal mercato del lavoro (ma gli si dice che deve lavorare fino a 70 anni), è un po’ difficile avere una “visione del futuro”. Non certo perché manchi di aspirazioni o di fantasia, ma perché un certo realismo spinge l’immaginazione a figurarsi un ‘domani’, dove il colore dominante è il marrone in tutte le sue sfumature…
Per questo si concentra sul Presente. E cerca di conservare quel poco che ha, cercando di mantenere quel minimo di “tenore di vita” che ancora lo separa dalla simpatica alternativa bohemienne di una panchina sotto il cielo stellato e una busta di stracci.
«Si allentano poi le responsabilità familiari.»
E certo occupazioni a tempo determinato, con salari inferiori ai mille euro, affitti alle stelle e prezzi degli immobili impossibili, asili pubblici inaccessibili e politiche familiari inesistenti, sono davvero il miglior incentivo per metter su famiglia con relativa prole.
Ma tali constatazioni sfiorano appena gli zelanti ricercatori, impegnati a fornire le interpretazioni più immaginifiche a problemi semplici nella loro evidenza.
Il problema fondamentale infatti risiederebbe in “un attaccamento immaturo alla nostra qualità della vita”. E quindi inzaccherano una serie di considerazioni, che sembrano coniugare uno stucchevole paternalismo al più becero moralismo religioso in salsa cattolica, per un catechismo indigesto onde fermare:
«il disfacimento della cultura del dono e del sacrificio in vista del bene comune, la crisi del sacro e la labilità dei suoi surrogati (l’esoterismo o la new age), la rimozione del senso del peccato (individuale o sociale), il primato dell’Io.»
Pertanto, in preda alle tentazioni di un edonismo materialista che predilige unicamente l’appagamento dei sensi, voi umili (e irredenti) peccatori capirete bene che:
«L’affievolirsi della dimensione trascendentale dell’esistenza non è dettata allora solo dallo scetticismo verso quella sfera, dall’agnosticismo o dal disinteresse tradizionale verso il sacro e le sue tematiche. La dimensione trascendentale resta, ma subisce anch’essa l’accorciamento della prospettiva personale: se il passato non mi riguarda, se il futuro ha importanza solo per l’emozione che riesce a darmi oggi, se conta solo il presente, allora la trascendenza finisce per essere solo un fatto emotivo, non contribuisce a costruire la persona, ma finisce anzi per avvalorare il suo ripiegamento nell’immanenza.»
Quando la sociologia si confonde con la mistica teologica, fulminata sulle tabelle della statistica!
Ite, Missa est.
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This entry was posted on 23 giugno 2011 at 03:54 and is filed under Kulturkampf with tags Censis, Crisi antropologica, Italia, Liberthalia, Mese sociale, Sociologia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.
23 giugno 2011 a 04:08
Ciao Sendivogius,
la lettura di questo post, mi ha fatto letteralmente trascendere…
Non commento nel merito dei loro studi(?), perché immagino che le parolacce e gli insulti che userei, le conosci già tutte.
Vado, che Missa est.
23 giugno 2011 a 09:59
La parte legata alla religione è interessante. Ritengo la religione cattolica un male per la società moderna, è pregna di obbedienza a preconcetti individuali ed immutabili nel tempo, è una religione di chiusura non di cooperazione ma questo non dipende principalmente dalla gestione dei prelati, è nel fondamento di base che pone un Dio al di sopra degli uomini che li giudica, quindi li spaventa. Altre religioni promuovono innanzi tutto la cultura (vedi l’ebraismo!) abbracciando il credo in quanto sapere e non per nascita. Alcune religioni pagane (che poi hanno sfociato nel neopaganesimo “new age” da te citato) prevedono la cooperazione con le divinità o la natura, l’uomo non è al di sotto ma dentro un ciclo vitale. Insomma… la cultura religiosa spirituale incide molto sul “sociale morale”, ma il cattolicesimo manca di “sociale globale”.
Per quanto riguarda in generale il lavoro, in parte me la prendo con genitori debosciati che educano i figli ad adagiarsi più che a combattere… ‘che tanto ci pensa mammà! Se non si ha un lavoro, non puoi ottenere meno di ciò che non hai. Poi sono indignata con quei giovani che si adagiano ai beni di seconda necessità mettendoli al primo posto: il telefonino, vacanze costose (vacanze non viaggi…), cene fuori, abiti alla moda, una ostentazione dei beni materiali messi al posto della dignita di una vita con meno agi ma comunque decorosa.
23 giugno 2011 a 10:09
amen! E che se ne vadano a quel paese.
Mi girano veramente le ciribiricoccole a sentire ‘sti qua, dato che del mio futuro so molto meno di niente, e probabilmente dovrò anche andarmene, probabilmente perché sono troppo immaturamente attaccata al mio tenore di vita.
23 giugno 2011 a 17:13
@ Mario
In genere, la lettura di certe relazioni mi strappa un sorriso divertito…
Contengono spunti di riflessione interessanti e ritratti sociali tutt’altro che disprezzabili. Sono certe considerazioni ‘valoriali’ che mi lasciano perplesso, come se il Censis si muovesse su un doppio livello:
1) “Essoterico” (analisi scientifica dei dati, indagine sociologica..)
2) “Esoterico”; ovvero il richiamo ad un ideale trascendentale di matrice religiosa, specificatamente cristiano; la crisi dei valori, intesa come mancanza del Sacro.
Insomma, il CENSIS non è un’appendice del CENSUR. E certe interpretazioni me le aspetto da un Massimo Introvigne, non certo da un Domenico De Masi.
@ Molly M.
🙂 Ti dirò… Le religioni (tutte le religioni) fondano l’essenza della propria struttura teologica sull’accettazione acritica del Dogma, in ossequio del quale il credente deve conformare i propri comportamenti, ubbidendo ai precetti dell’ortodossia ufficiale: vero prodotto temporale alla base di tutti i poteri clericali.
In questo, il Cattolicesimo non è affatto diverso dalle altre religioni, ma nel suo alveo contiene altresì un umanesimo sconosciuto o deficitario in molti altri credi religiosi. Poi è chiaro che esista una discrepanza evidente tra il messaggio evangelico originale e la sua applicazione pratica, mutuata dagli interessi molto terreni delle gerarchie ecclesiastiche.
I monoteismi sono per loro natura religioni ‘assolutistiche’, almeno in teoria… Perché quanto è più rigido l’apporto dogmatico, tanto più è diffusa la nascita di eterodossie e movimenti “eretici” in seno al culto originario. In fatto di eresie e scismi, la Chiesa è seconda solo all’Islam: altra religione tutt’altro che monolitica e che non brilla certo per elasticità di giudizio.
Pertanto non sono tanto convinto che il cattolicesimo sia una “religione di chiusura non di cooperazione“, altrimenti non si spiegherebbe l’esistenza di una dottrina sociale della Chiesa, la persistenza di un forte movimento ecumenico, ed una speculazione teologica vivacissima che in tempi recenti ha portato all’elaborazione di un pensiero senza eguali, come la “Teologia delle Religioni”.
Quindi mi è difficile escludere una “socialità globale” del cristianesimo, che ad ogni modo presenta una complessità non raggiungibile dalle nuove religioni sincretiche come l’etenismo e il ritorno ai culti olimpici; o i movimenti new age con le loro commistioni teosofiche, wiccane, e contaminazioni dharmico-induiste.
Invece, in merito al “Dio al di sopra degli uomini che li giudica, quindi li spaventa“, assomiglia soprattutto alla divinità gelosa e crudele dell’Antico Testamento. A tal proposito, se c’è una religione fortemente esclusivista (non contesto l’apporto culturale) questa è proprio l’Ebraismo, che in quanto a precetti e ubbidienze dà un bel contributo (dall’osservanza dei Mitzvòt alle regole del Casherut)! Tant’è che le adesioni al Credo avvengono per nascita, essendo escluse o fortemente scoraggiate le conversioni (regolate secondo la discrezione degli halakhot rabbinici).
In merito alla critica sociale, mi trovi perfettamente d’accordo: condivido fino all’ultima parola.
Le mie obiezioni all’analisi del Censis sono più che altro legate all’osservazione espressa in replica al commento di Mario (vedi sopra).
@ Lady Lindy
E infatti certe generalizzazioni non piacciono neanche a me: Si vede sempre il peggio di una generazione e si comprime la parte migliore.
Il Censis prende atto che esiste una componente notevole di “tamarri”, “truzzi”, e “coatti” (nome diverso a seconda delle latitudini, per il medesimo prodotto), insieme ad una cospicua presenza di figli di papà e parassiti vari in attesa di raccomandazione, che crescendo diventeranno delle esimie facce di merda (Bisignani docet).
Perché? Cinquanta anni fa era tutto rose e fiori? Eravamo forse la Terra degli Iperborei? Si piange sul declino dei tempi moderni (eh quando c’era Lui…) lamentando il paradiso perduto nel Paese di Bengodi… Peccato che io tutto ‘sto Eden non lo abbia mai visto!
23 giugno 2011 a 22:47
infatti, come dice Caparezza, “si stava meglio quando si stava peggiorando”.
24 giugno 2011 a 10:40
Mah … il tema è pericoloso, la possibilità di cadere nella retorica mi pare altissima …
Faccio quindi una considerazione di base: per fare un percorso professionale significativo ci vogliono vari ingredienti: sia personali come capacità, voglia di impegnarsi, accettazione del rischio … sia collettivi, come esistenza di mercati, disponibilità di infrastrutture techiche, mezzi finanziari …
Credo però che il punto centrale sia la convinzione di poter ottenere qualcosa di buono. Di buono per se, di buono socialmente … un ritorno economico per se certamente, ma non solo … Poi possiamo discutere su cosa sia buono … ma almeno una tensione …
Questo aspetto mi pare il punto debole di oggi (in questo sono abbastanza in sintonia con Mario Calabresi ed il suo ultimo libro “Cosa tiene accese le stelle” ). L’eventualità di fare qualcosa di buono nella propria vita non è considerata come qualcosa di possibile.
Lo possiamo vedere come osservazione generale: le nuove generazioni di oggi, a differenza di quelle che le hanno precedute non credono di poter avere un futuro migliore dei propri genitori. Non tanto per averci provato, ma perchà questa è la percezione generale.
Non voglio entrare nel merito se le condizioni attuali siano migliori o peggiori di quelle precendenti. Certo non possiamo far finta di non vedere che ci sono state generazioni che hanno avuto come scenario le guerre modiali, la grande recessione, gli anni di piombo … che visti da oggi possiamo ridimensionare ma che sono stati fenomeni planetari e disastrosi …
Ma non concepire la propria vita come una possibile costruzione è già un danno.
Ve vuoi parlo per esperienza personale. Con le mie figlie che fanno le scuole medie ho introdotto il tema “quello che fate è preparazione a qualcosa che verrà … serve a voi e non al voto di diploma”. Pensavo di dire una cosa banale, comunissima ai tempi miei. Ho invece incontrato interesse ed un certo stupore … che apprendere sia un modo di crescere come persone e che crescere come persone serva a qualcosa non è detto che sia l’ipotesi di lavoro più comune …
Un saluto da Pepito
24 giugno 2011 a 16:54
Caro Pepito,
Le tue osservazioni valgono più di ogni riflessione sociologica che mi sia capitato di leggere nell’ultimo periodo. Ed hanno il pregio notevole non solo di esulare da ogni “rischio retorico”, altresì di cogliere appieno la parte migliore e più significativa degli studi sociali intorno all’argomento in oggetto. Tant’è che le tue considerazioni sembrano ricalcare ed integrare in meglio le analisi pure presenti nel rapporto presentato dal Censis, appunto in occasione del “Mese sociale”, che pure contiene spunti condivisibili:
“Quello che conta non è essere realizzato, ma apparire realizzato, più che mai la laurea non è quel che ho imparato, ma il pezzo di carta, le università hanno moltiplicato l’offerta, spesso semplificandola. Anche nella scelta dei licei conta la possibilità di uscire con un buon voto per poter accedere all’università, quindi si prediligono i licei più facili.”
Dove a prevalere è la funzione utilitaristica e fruibile del ‘bene’, che è inteso come tale fintanto che è capitalizzabile e dunque monetarizzabile sul breve periodo, insieme ad una certa mancanza di ‘senso storico’ e, per l’appunto, di “tensione” ideale.
24 giugno 2011 a 15:34
Bel post, guarda proprio oggi scrivevo qualcosa di simile, ma da un’altra prospettiva.