Archivio per Male

GEHENNA

Posted in Masters of Universe with tags , , , , , , , , , , , , , on 22 agosto 2015 by Sendivogius

Gehenna by Irie-Stock

Scaduto il fatto, archiviato l’evento. È il destino triste della notizia liofilizzata e concentrata per il consumo veloce, da metabolizzare in fretta nella dimenticanza dell’oblio; finché il prossimo scempio o una nuova strage non giungerà a ricordare la persistenza della minaccia presente, che si vorrebbe credere lontana. E dunque estranea.
Khaled Al-AsaadC’è solo una cosa che indigna più della ‘passione’ dell’anziano Khaled al-Asaad, archeologo 82enne e direttore del sito Khaled Asaadarcheologico di Palmira in Siria, torturato, decapitato e infine crocifisso dalle belve barbute dello “Stato Islamico”, per aver difeso la blasfemia e diffuso il politeismo avendo messo al sicuro le pietre scolpite dell’antica città romana trasformata dal pio “Califfato” in un teatro per esecuzioni di massa ed altre perversioni collettive…
Esecuzioni nel teatro romano di PalmiraEsecuzioni nel teatro romano di Palmira (1)È la sostanziale pusillanimità di un “Occidente” distratto e assente, per un Europa china sulla sola quadratura contabile, che si consola con le bandiere a mezz’asta e qualche drappo a lutto nella sostanziale indifferenza del pubblico, che preferisce non vedere e non sentire…

Occidente

Piazza del Duomo a Milano (11-07-2004)

E lo fa nell’ipocrita illusione che ciò basti ad arginare l’avanzata dell’orda nera, o abbia una qualche funzione deterrente nei confronti del truce fondamentalismo che alimenta i sogni malati degli irsuti montoni dalle barbe caprine, confluiti nell’abisso senza fondo dell’ISIS.
Kindergarten a RaqqaCiò che questi inciabattati selvaggi regrediti ad uno stadio ferino di brutalità primordiale portano in dote è un mondo oscuro, senza arte, né cultura, né musica, né poesia, senza alcuna bellezza, e finanche senza alcuna memoria di sé, consacrato ad una divinità primitiva e crudele da compiacere nel sangue di un’orgia di distruzione iconoclastica, per un nuovo medioevo barbarico, ansiosi come sono di condividere col resto del mondo l’inferno che li ha vomitati sulla terra.
Lo SchiaccianociRaramente, il male si è manifestato in modo così radicale ed assoluto, a tal punto da rasentare tratti dalla natura demoniaca tanto è profonda la malvagità che ne esplica l’azione, come forse non s’era visto nemmeno durante il nazismo, in una sorta di unicum senza termini di paragone nella storia recente.

La nuova Siria liberata

C’è qualcosa di profondamente morboso e malato nelle distorsioni di un credo religioso e perverso, votato alla morte, che coltiva ed esalta gli istinti peggiori dei suoi adepti; che ne divora a tal punto l’animo e le menti, da condizionarne persino l’aspetto in una metamorfosi belluina che sembra cambiare persino fisicamente i suoi allucinati seguaci, tanto da deformarne i tratti in una sorta di animalesco ibrido umanoide e scimmiesco, che sembra richiamare certe mutazioni lovecraftiane.
Isl'Amici a BerlinoCome una neoplasia in espansione, si accumula nel grembo delle civiltà nella negazione delle stesse, spargendo le sue metastasi, mentre il chirurgo indugia pensando che certi carcinomi in crescita possano essere in qualche modo assorbiti e reintegrati nel riassorbimento del tessuto tumorale, tramite il ristabilimento dell’equilibrio omeostasico. Come se fosse possibile convivere con un cancro.

Members of a heavily armed militia group hold their weapons in Freedom Square in Benghazi February 18, 2014. The Morning Glory affair is one of the starkest symbols yet of how weak Libya's central authority is. Three years after a NATO-supported revolt toppled Muammar Gaddafi, Libya is at the mercy of rival brigades of heavily armed former rebel fighters who openly and regularly defy the new state. Picture taken February 18, 2014. To match Insight LIBYA-MILITIAS/ REUTERS/Esam Omran Al-Fetori (LIBYA - Tags: CIVIL UNREST POLITICS) - RTR3J62V

«Il male vince sempre grazie agli uomini dabbene che trae in inganno; e in ogni età si è avuta un’alleanza disastrosa tra abnorme ingenuità e abnorme peccato

Gilbert Keith Chesterton
“Eugenics and Other Evils”
(Londra, 1922)

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Gli Adoratori del Diavolo

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 10 agosto 2014 by Sendivogius

Melek Ta'us - Peacock AngelAmmantati dal mito e dal fascino esotico di una delle culture meno conosciute e forse più interessanti del pianeta, gli Yazidi si affacciano alla conoscenza del grande pubblico italiano attraverso le strisce magiche e Corto Maltesebellissime di Hugo Pratt in una delle sue opere più famose e intense, “La casa dorata di Samarcanda”, nella metà degli anni ’70, in cui il grande Autore romagnolo rivisita un’antica leggenda di George Gurdieff, sedicente mago e iniziato, secondo il quale per imprigionare uno yazida è sufficiente tracciargli un cerchio attorno, dal quale gli sarà impossibile uscire, costringendolo a volteggiare su se stesso fino allo spasimo.
Corto Maltese (1)Per sfuggire alle persecuzioni islamiche, nel corso dei secoli gli Yazidi si sono concentrati, insieme ad altre minoranze confessionali, principalmente nelle zone Yazidamontuose, dall’Anatolia ai monti del Caucaso, e soprattutto nel Kurdistan iracheno tra Mosul e Sinjar. Gli Yazidi sono infatti un popolo di etnia curda, unici nel loro genere, per la complessa teologia che racchiude in un sincretismo straordinario elementi attinti dalle più diverse tradizioni religiose: culti pre-islamici di origine siriaco mesopotamica ed iranica; zoroastrismo; misticismo sufi e componenti paleocristiane riconducibili allo gnosticismo manicheo… Ma non mancano aspetti legati all’Islam sciita (soprattutto l’eresia ismailita) ed al mazdeismo.
Corto Maltese (2)Dal mitridaismo hanno ripreso la preghiera rivolta verso il sole ed il sacrificio di un toro per le cerimonie più solenni; dal cristianesimo nestoriano il rito del battesimo e la celebrazione del natale di Issah (Gesù); dall’ebraismo la pratica della circoncisione (peraltro facoltativa), lo studio dei numeri magici, e parte del loro stesso alfabeto; dalle confraternite sufi, il culto dei santi devoti, la danza mistica dei dervisci, e le pratiche di iniziazione; dallo gnosticismo ellenico, la venerazione per il Demiurgo e per gli arcangeli della creazione; dagli antichi culti orfici, la simbologia del serpente inteso come metafora di rigenerazione.
Alfabita ezdiyaSpregiativamente chiamati “adoratori del diavolo” dai loro nemici, gli Yazidi Kurdistan - ragazza yazida(ma anche Ezidi) sono in realtà il “popolo degli angeli” (dal termine yazd, che in lingua pharsi significa appunto “angelo” ovvero “essere divino”), ma esplicitamente il loro nome si richiama a Yazīd ibn Mu‛āwiyah (fratello del primo califfo ommayade), oggetto di una particolare devozione presso i loro insediamenti.
Yezidi Man Popolo di pastori semi-nomadi e di piccoli agricoltori, gli Yazidi sono una comunità endogamica, organizzata in confraternite chiuse, gerarchicamente regolate e suddivise in “iniziati” ed “aspiranti”, sotto la guida di uno Sheikh e di vari Agha tribali. Un tempo temibili guerrieri di montagna, decimati dalle feroci persecuzioni delle quali sono state vittime, sono un popolo sostanzialmente pacifico e ritirato.
Yezidi WomanLa complessa teogonia yezida si compone di sette arcangeli creatori (demiurghi) e delle loro successive emanazioni, che si manifestano in cicli di reincarnazioni (metempsicosi greca) tra gli uomini comuni, che diventano a loro volta mistici e capi religiosi della comunità. Al vertice della gerarchia celeste vi è Melek Ta’us: l’angelo creatore dalla natura tripartita, rappresentato in forma di pavone, che con le sue lacrime avrebbe estinto le fiamme dell’inferno.
Secondo una forzatura semantica, lo stesso nome di Melek Ta’us, variamente associato all’angelo caduto (e pentito), Lucifero (in qualità di portatore di luce), Iblis o Shaitan (il Satana della tradizione islamica), viene ritenuta una traslitterazione di Moloch, antica divinità siriaco-fenicia, e Teus/Zeus (dio), ma anche “Malik” (Re).
lalish - kevnarVa da sé che nell’ambito dell’islam sunnita gli Yazidi costituiscono gli eretici per eccellenza, associati ai pagani e dunque odiatissimi, tanto da scampare alla bellezza di 72 tentativi di sterminio nel corso degli ultimi 1.500 anni.
Mazarê Meheme Rashan li BashikêCi vanno assai vicino i mongoli di Hulagu Khan al principio del XIII° secolo, anche se il rischio di estinzione totale si palesa per gli Yazidi in tempi ben Yezidi_Manpiù moderni ad opera dell’Impero Ottomano. A partire dal 1802 i Turchi organizzano infatti una serie di campagne di guerra violentissime contro gli Yazidi, che peraltro si rifiutano di prestare servizio militare, ai quali sostanzialmente offrono due possibilità: conversione o morte. Il tentativo di annientamento: deportazioni e conversioni forzate, rapimento delle donne, eccidi di massa, cancellazione di interi villaggi, distruzione dei mausolei e dei luoghi di culto… si protrarrà per oltre un secolo, tanto che lo sterminio degli Armeni durante la prima guerra prosegue di pari passo con quelle degli Yazidi e della comunità greca di Smirne.
Donna yazidaOggi l’etnocidio della popolazione yazida, insieme alla cancellazione delle ultime comunità cristiane sopravvissute in Mesopotamia, assiro-caldei e nestoriani, viene portato avanti con bestiale determinazione dalle orde nere dei nuovi mongoli dell’ISIS: le bande di massacratori salafiti del sedicente Stato islamico dell’Iraq e del Levante. E questi sì, sono davvero quanto di più demoniaco si sia mai incarnato sulla faccia della terra in rappresentazione del Male, tanto da rappresentare con il loro truce fondamentalismo sanguinario i veri “adoratori del diavolo”. Ammesso si possa conferire una personificazione concreta alla malvagità ed ai suoi adepti.
Yezidi GenocideAbbondantemente foraggiate dai capitali sauditi in funzione anti-sciita, i miliziani dell’Isis sono il giocattolo impazzito, sfuggito al controllo delle monarchie teocratiche del Golfo, e costituiscono l’ultimo frutto avvelenato dell’allucinante parabola irachena, alla quale ora (suo malgrado) la titubante Amministrazione Obama è chiamata a porre un qualche rimedio prima che sia davvero troppo tardi.
Bandiera degli YazidiLa storia, come la strada dell’inferno, è lastricata di buoni propositi, ottime intenzioni, e clamorosi insuccessi. Se gli errori non mancano mai, raramente si è assistito a fallimento più grande dell’Iraq, che per gli entusiasti “esportatori di democrazia” avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello di un ricostituito giardino dell’Eden, a consolidamento di un nuovo secolo americano. Almeno secondo le fantasie visionarie della destra neo-con cresciuta attorno a quel cenacolo straussiano, che ha condotto gli Stati Uniti in una delle sue più catastrofiche avventure dalla fine della guerra della Vietnam.
IRAQ-SYRIA-UNRESTDieci anni di occupazione militare, miliardi di dollari spesi per una ‘ricostruzione’ mai davvero avvenuta, una classe politica tra le peggiori del pianeta, un paese dilaniato dalle faide tribali e la guerra civile, vicino alla catastrofe umanitaria, e quanto mai prossimo a sprofondare nell’abisso del più cupo totalitarismo salafita ispirato all’islamismo wahabita.
Members of the Islam State of Iraq and Shaam (Isis) with senior commander Abu WaheebDinanzi alle orde fondamentaliste dell’ISIS, l’indecente esercito iracheno si è sciolto come neve al sole al primo colpo di cannone. Tanto che l’orda salafita ha potuto occupare agevolmente e quasi indisturbata le grandi aree petrolifere dei distretti centrali e della provincia di Mosul, tagliando il paese a metà, mentre l’imbelle governo del settario Al-Maliki rimane trincerato nelle ridotte tribali del Sud, insieme alle sue milizie sciite male armate e ancor peggio addestrate, frettolosamente reclutate in sostituzione dell’inaffidabile esercito nazionale.
A tutt’oggi l’Iraq liberato, e che di fatto non esiste più, coi suoi strascichi velenosi, costituisce l’eredità infetta delle fallimentari politiche messe in atto dagli apprendisti stregoni alla destra di George W. Bush, che per la bisogna si erano affidati ciecamente ad un bugiardo matricolato ed un ladro come Ahmed Chalabi (su cui incredibilmente si continua ancora a puntare!), dopo aver scoperchiato il vaso di Pandora che non avrebbe mai dovuto essere aperto, e finendo con lo scatenare i peggiori djinni del deserto e che ora è quanto mai difficile ricacciare dentro.

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Il Paradiso del Diavolo

Posted in Business is Business, Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 10 novembre 2012 by Sendivogius

“Certe cose sono sconvolgenti e inaccettabili alla comune coscienza. La comune coscienza è inadattabile alle atrocità. E ci sarà pure qualche ragione. Forse perché essa, in realtà, le vuole.
[…] Certe cose atroci architettate o comunque volute dal Potere (quello reale non quello sia pur fittiziamente democratico) sono comunissime nella storia: dico ‘comunissime’: eppure alla comune coscienza paiono sempre eccezionali e incredibili.”

  Pier Paolo Pasolini
  (20/12/1969)

Giocando con la sua pessima fama (costruita ad arte), Aleister Crowley, che dell’argomento se ne intendeva, riteneva che il Male fosse qualcosa di immanente nell’indole umana e che in quanto tale andasse accettato come una componente essenziale della nostra realtà. Negarne l’esistenza ci renderebbe completamente impreparati ad affrontare le sue manifestazioni, conferendo al Male una natura del tutto eccezionale e dunque non gestibile. In definitiva, se ne decreterebbe il trionfo come si trattasse di un fenomeno casuale e del tutto imprevedibile.
La vera essenza del male risiede innanzitutto nell’inconsapevolezza di chi lo compie, nella sostanziale incapacità di comprendere la gravità delle proprie azioni. Il male può essere banale nella mediocrità personale di coloro che se ne fanno promotori, nella meccanica omicida dei suoi volenterosi carnefici. E Hannah Arendt, proprio in riferimento all’insignificante ordinarietà di Adolf Eichmann, sconvolta dalla ‘normalità’ di un uomo qualunque, parlò di assoluta banalità del male. Tuttavia, le forme attraverso le quali il male si esplica e si incarna nella realtà trascendono sempre la banalità dei suoi meri esecutori, giacché la vastità dell’orrore può essere abnorme nell’apparente semplicità della sua riproposizione, seppur realizzata in modalità differenti.
Ovunque vi sia sfruttamento, miseria, ignoranza, lì germoglia il seme del male, che prospera nella disuguaglianza attraverso le discriminazioni e cresce in parallelo all’avidità dei singoli. Sulla questione, le atrocità dell’imperialismo ed i genocidi del XX secolo non ci hanno risparmiato nulla. Eppure, vi sono casi che a volte sembrano sfuggire ad una catalogazione sistemica…

I Giardini del Male
 Ad un osservatore esterno, le vicende dell’America Latina risultano come pervase da una vena di follia irrazionale, impastata di violenza primordiale e incanalata nelle forme di una colonizzazione feroce, di sfruttamento selvaggio, nell’ambito di una sorta di brutale neo-feudalesimo su base agraria e capitalismo primitivo. Poco investigato e quasi misconosciuto nell’ambito della storiografia europea, lo sterminio delle popolazioni indigene agli inizi del ‘900 costituisce uno di quegli esempi estremi, talmente oltre i canoni consolidati, che resta a tutt’oggi difficile da comprendere appieno nella sua portata, in certo qual modo ‘anomala’.
Nello specifico, a circa 100 anni dalla sua pubblicazione, vale la pena di (ri)scoprire il rapporto (conosciuto come “Blue Book”) che sir Roger Casement, console generale britannico a Rio de Janeiro, presentò al Parlamento inglese, denunciando lo sfruttamento indiscriminato e la riduzione in schiavitù degli indios del bacino amazzonico, per l’estrazione del caucciù nel distretto del Putumayo: un vasto territorio al confine meridionale della Colombia, tra Equador, Perù, e Brasile.
Nello specifico, gli orrori del Putumayo sono difficili da spiegare e ‘giustificare’, secondo le componenti classiche di un’analisi di genere: razzismo, sfruttamento e capitalismo selvaggio, alienazione sociale e abbrutimento individuale, arretratezza culturale, autoritarismo statale…
Le violenze venivano compiute per conto e nell’interesse della Compagnia privata che deteneva il monopolio dell’estrazione del caucciù nella regione. Si trattava di una società per azioni a partecipazione anglo-peruviana e quotata nella borsa londinese. Ma fu una commissione d’inchiesta britannica, composta da fieri esponenti della borghesia liberale e di saldi principi conservatori, con l’appoggio del governo peruviano e del più grande impero coloniale del pianeta, a circostanziare i crimini con una serie di indagini dettagliate.
Si poteva parlare sicuramente di pregiudizio razziale da parte degli agenti bianchi della compagnia, ma era spesso l’esercito privato della multinazionale a praticare materialmente gli orrori denunciati. Si trattava di una milizia indigena, reclutata tra le stesse popolazioni asservite in stato di schiavitù. Provenivano dagli stessi villaggi, parlavano la stessa lingua, avevano relazioni parentali comuni e dunque lo zelo persecutorio non poteva essere il frutto di odi tribali o divisioni etniche.
Alcuni capi-posto, incriminati per i delitti, sono meticci di sangue misto e si avvalgono di aiutanti da campo reclutati tra gli abitanti delle Isole Barbados, ovvero discendenti dagli schiavi negri delle piantagioni da zucchero, che si rendono complici di violenze inaudite.
Tra i funzionari in loco della compagnia ci sono peruviani, boliviani, barbadoregni, ma anche irlandesi e statunitensi… È il caso di tal John Brown, che porta il nome del famosissimo attivista anti-schiavista; proviene da Chicago e lascia gli USA, per cercare fortuna in America Latina e sfuggire alle discriminazioni razziali. Si guadagnerà il soprannome di “capataz de los verdugos” (il capo dei boia).
Si può parlare di ignoranza e analfabetismo, ma le atrocità peggiori vengono compiute da uno degli agenti più colti e istruiti, presente nel Putumayo.
Nessuna variabile è prevalente e tutte sembrano decadere in una bolgia infernale, dove il male non ha colore né appartenenze particolari.

L’Inferno verde
 Costituito in massima parte da selve tropicali, il Putumayo è una giungla apparentemente inestricabile e semi-sconosciuta fin quasi la fine del XIX secolo, quando il francese Jules Crevaux esplorò la regione, attraversando in barca l’omonimo fiume e finire trucidato nelle terre estreme del Chaco bolivano.
Secondo un clichè assai diffuso, gli indios sono considerati dei selvaggi amorali. Pigri e bugiardi, sono per natura inclini al tradimento. E dunque di loro non c’è assolutamente da fidarsi. Non per niente, avventurieri ed esploratori si fanno largo a colpi di machete, dispensando fucilate.
Soprattutto, come gli indigeni di ogni latitudine, siano essi africani o aborigeni australiani, che non abbiano la fortuna di essere bianchi e cristiani, sono tutti e indistintamente dediti al cannibalismo per antonomasia. Dalle Americhe al Borneo, passando per la Cina. E questo li pone all’apice della barbarie, escludendoli dallo stesso genere umano. Dinanzi a tanta belluina ferocia, nessuna violenza potrebbe mai essere peggiore. E dunque ogni atto contro i popoli nativi è lecito e funzionale alla loro ‘civilizzazione’. Pertanto, le brutalità e la schiavizzazione non si configurano mai come violenze, bensì come una forma di ‘avviamento al lavoro’…

La Case commerciali
 Sul finire del XIX secolo, c’è un nuovo business che sembra garantire guadagni immediati e illimitati per pionieri dai pochi scrupoli e volontà di ferro, che abbiano il coraggio di avventurarsi nel cuore delle foreste vergini, con l’intenzione di stabilirvi imprese commerciali.
È il commercio del caucciù; o meglio, della gomma grezza di origine vegetale, ricavata dal lattice naturale della pianta, che serve per la realizzazione di pneumatici, su richiesta della nascente industria automobilista, e soprattutto per le ruote delle biciclette. Tra le infinite peculiarità della gomma, vi sono le sue proprietà elastiche, la resistenza, e l’assoluta impermeabilità all’aria e all’acqua. Caratteristiche che rendevano la gomma di gran lunga preferibile al cuoio.
Con milioni di alberi per la gomma, distribuiti su un territorio che sembra immenso, la foresta amazzonica è il nuovo Eldorado per i conquistadores del lattice prodigioso.
Nelle selve dell’Alta Amazzonia, e quindi del Putumayo, si riversa una massa di avventurieri, e di disperati, attratti dal miraggio di una ricchezza più presunta che facile. Sono uomini che si trovano ad operare in condizioni proibitive per un occidentale, immersi in una natura incontaminata ed ostile, per territori semisconosciuti e al di fuori da ogni legge e organizzazione civile, su confini spesso incerti e contesi dai nascenti stati sudamericani, per fondare le loro “case commerciali”.
Li chiamano caucheros. Le regole si dettano con la canna dei fucili e l’arbitrio è la regola.
Tristemente famoso diventerà un certo Hernandez: un gigantesco mulatto colombiano che, insieme ad un pugno di tagliagole evasi di galera come lui, si crea un suo feudo nel cuore della giungla con un migliaio di schiavi indigeni ed un harem di indie, prima di essere ucciso a pistolettate per una disputa di potere all’interno della banda.
I colonizzatori più intraprendenti costituiscono veri e propri regni personali, difesi da eserciti privati con migliaia di armati. A loro i deboli governi centrali, demandano praticamente tutto, considerando i loro avamposti commerciali alla stregua di presidi nazionali e militari. Si tratta di una sorta di feudalesimo baronale di Stato, legittimato da concessioni esclusive da parte di compagini statali che hanno solo un controllo nominale del territorio.
Centri periferici come Manaus in Brasile ed Iquitos in Perù si trasformano nelle capitali effimere di giganteschi imperi commerciali (come la Casa Suarez o la Vaca Diez), che hanno nel commercio del caucciù la loro ragione di esistere.
 Tra il 1890 ed il 1897 (anno della sua morte), diventa leggendario il potere del peruviano Carlos Fermín Fitzcarrald López, soprannominato “il Re del caucciù”. Nella sua opera instancabile, Fitzcarrald colonizza territori selvaggi, crea porti fluviali, fonda centri abitati, organizza le comunicazioni costruendo strade nella giungla (pianificherà persino una ferrovia) e realizza dal nulla una fitta rette di scambi commerciali. Per la bisogna impiega migliaia di indios alle sue dipendenze e molti lo venerano come una sorta di dio vivente. Ma non esita a scatenare le famigerate correrias (scorriere armate e spedizioni punitive) contro le tribù ostili alla sua espansione, o ai danni degli insediamenti dei coloni colombiani e brasiliani. All’apice del proprio potere personale, Fitzcarraldo pensa addirittura di organizzare i suoi domini in una sorta di repubblica indipendente, federata col Perù, e fondata su una sorta di regime assoluto ma paternalistico. Muore ad appena 35 anni, affogando durante una delle sue missioni esplorative. A modo suo, Fitzcarrald è un idealista, ammantato dall’alone del patriottismo, e anche un’eccezione in un mondo di pescecani che non guarda oltre il proprio profitto ed il mero arricchimento personale.
Le dispute territoriali tra colombiani e peruviani per il controllo del Putumayo sfociano spesso in azioni di guerra aperta, dove ad avere la peggio sono spesso i coloni provenienti dalla Colombia, alla quale formalmente la regione appartiene. Nel primo decennio del ‘900, da tali rivalità saprà trarre vantaggio Julio César Arana del Aguila, che si presenterà come tutore degli interessi nazionali del Perù e approfitterà degli appoggi politici, per costruire la sua personale impresa estrattiva e commerciale, realizzando una sorta di regno del terrore basato sulla tortura.

Julio César Arana del Aguila
 A suo modo, J.C.Arana è sicuramente un self-made-man e come tale non manca di ambizioni politiche, coerentemente col suo nome roboante (Giulio Cesare). Come ogni gangster che si rispetti, non avrebbe esitato a definirsi un “uomo d’affari”; uno di quelli che mentre ti punta la pistola alla tempia, accingendosi a premere il grilletto, ti sussurra serafico: “Senza rancori, sono soltanto affari”. Probabilmente, come un boss mafioso o un narcotrafficante delle Zetas messicane, si riteneva un imprenditore di successo.
Dalle ambizioni smisurate e perfidamente furbo, non era però un genio del male e di sicuro fu un uomo tutt’altro che banale. Se gli difettarono gli studi, non gli mancò certo l’intelligenza.
Originario di Rioja, un sobborgo fluviale nella selva di Moyabamba, dove nasce nel 1864, il giovane Arana si dedica all’onesto commercio di famiglia, fabbricando e vendendo cappelli (i famosi “panama”). Non privo di una notevole dose di intraprendenza, a soli 16 anni si trasferisce nella città cauchera di Iquitos e da lì si spinge nelle profondità del Putumayo, risalendo i fiumi dell’Alta Amazzonia, per rifornire i raccoglitori di caucciù con mercanzie e generi di prima necessità che Arana baratta in cambio di partite di gomma, da rivendere ovviamente a prezzi maggiorati ad Iquitos.
Nel 1888 mette su famiglia con Eleonora Zumaeta e costituisce il fulcro della sua impresa familiare, interamente fondata su vincoli di sangue, associando i suoi fratelli ed il cognato Pablo. Ma l’instancabile Arana non è semplicemente un grossista. Accumula sufficiente denaro per mettere su un piccolo emporio nel pieno della giungla che funziona come centro di scambio, sulle rive del fiume Yurimaguas per ottimizzare gli approvvigionamenti per via fluviale. Costituita la sua ‘casa commerciale’, Arana & family fanno giungere dal vicino Brasile gruppi di miserabili, facendo balenare loro la prospettiva di lauti guadagni. I coloni, prima di essere spediti nella giungla a raccogliere caucciù, vengono riforniti di provviste per tre mesi e di tutto il materiale indispensabile per la raccolta. Naturalmente a prezzi ipermaggiorati. Le partite di caucciù avrebbero dovuto estinguere il debito dei raccoglitori. Peccato che Arana corrisponda per ogni kg di gomma grezza un prezzo di gran lunga inferiore al valore di mercato, per un corrispettivo quasi mai sufficiente a saldare il debito iniziale, che viene dunque ricaricato con interessi usurai e con una nuova dotazione trimestrale che si somma al debito originario. In questo modo, il colono si trova indebitato a vita con gli Arana, in una situazione di semischiavitù. Il sistema messo in piedi da Arana è un classico dello sfruttamento amazzonico e si basa sull’accumulo di debiti perenni, impossibili da estinguere. La pratica è universalmente diffusa tra tutti i grandi ‘imprenditori’ della gomma.
Con scarso senso del ridicolo, Julio C. Arana si fa chiamare l’Abele dell’Amazzonia. Evidentemente si ritiene un benefattore.
Deciso ad estendere le sue attività, insieme al cognato Pablito si spinge oltre i confini della Colombia penetrando nel cuore del Putumayo.
Nel 1896, organizza una propria linea di trasporti a vapore per trasportare il caucciù nella città peruviana di Iquitos. Quindi, inizia ad acquisire con le buone, e più spesso con le cattive, nuove terre per la raccolta del caucciù. Soprattutto entra in contatto con le imprese commerciali dei colombiani, operanti nel Putumayo, dai quali apprende molti trucchi del mestiere…
Nel 1899 scopre che una delle più floride compagnie estrattive della regione, l’impresa colombiana dei fratelli Calderòn, ha avviato al lavoro coatto nelle sue piantagioni circa duemila indigeni, rastrellati durante le correrias tra le pacifiche tribù degli Huitoto, degli Andoque, dei Bora ed i Nonuya, e che ora detiene in condizione servile.
Deciso a migliorare l’estrazione e la lavorazione della materia, J.C.Arana ha un lampo di genio e scopre che può abbattere i costi di produzione… Perché impiegare gruppi di immigrati straccioni, scarsamente produttivi, non abituati al clima, che si ammalano facilmente e muoiono di malaria prima di saldare i debiti contratti con la Casa Arana? E che se non muoiono di malaria, si attaccano ad una bottiglia di acquavite diventando totalmente inutili al lavoro? Perché confidare in gente totalmente inaffidabile, che per disperazione può tirarti addosso una fucilata nel cuore della notte, quando si può disporre di un potenziale bacino di schiavi a costo zero?
Considerati meno che animali, gli indios del Putumayo costituiscono infatti una fonte di manodopera illimitata; possono diventare all’occorrenza oggetti di consumo sessuale e giocattoli di carne per i sadici passatempi dei guardiani delle piantagioni.
Al principio del nuovo secolo, nel 1900, entra in società col colombiano Benjamin Larrañaga e suo fratello Rafael, tra i maggiori possidenti della zona. I fratelli Larrañaga hanno incrementato le loro proprietà eliminando, fisicamente, la concorrenza e convincendo i più ragionevoli tra i loro connazionali a cedergli la terra a titolo gratuito. Naturalmente, la nuova Compagnia Larrañaga & Arana non perde occasione per incrementare i ranghi della propria manodopera indigena, ricorrendo all’ottimizzazione già praticata con successo dalla Casa rivale dei Calderòn.

Ora che Julio C. Arana è diventato uno stimato imprenditore, può finalmente fare ritorno ad Iquitos dove diventa subito un membro onorato dell’alta società. Julio Cesar è un uomo innamorato di sua moglie. Si distingue per i suoi costumi morigerati ed il tenore di vita austero, a tratti perfino ascetico. Si tiene lontano dai bordelli dei quali Iquitos abbonda; non apprezza la vita mondana e la sera va a letto presto. È un uomo colto, rispettabile, amante della lettura e delle buone maniere. Soprattutto, è generoso… l’Abele dell’Amazzonia supplisce infatti a tutte le carenze del governo di Lima: anticipa gli stipendi ai funzionari pubblici della città; paga i magistrati… paga gli ufficiali della polizia giudiziaria… provvede alle forniture delle guarnigione militare di Tarapaca e garantisce la regolarità delle paghe per la truppa.
Diventa presidente della locale Camera di Commercio e della giunta dipartimentale. È il Re Sole del Putumayo. A chi gli chiede ragione della sua intraprendenza risponde: “Qui lo Stato sono io”. Difficile dargli torto.
E infatti la guarnigione militare più che al governo peruviano risponde direttamente agli ordini di Julio Cesar Arana. Peraltro il governo centrale lo considera in tutto e per tutto il proprio emissario nella regione. Con l’inasprirsi dei rapporti tra Lima e Bogotà, insieme ai continui sconfinamenti delle truppe peruviane ed il blocco della navigazione fluviale ai danni dei colombiani, Arana approfitta subito dell’occasione per monopolizzare il commercio del caucciù ed eliminare tutti i suoi principali rivali. Fa assaltare i ranch dei colombiani con raid notturni. Taglieggia indiscriminatamente i piccoli raccoglitori. Chi non ‘collabora’ viene zavorrato e buttato nei fiumi. Requisisce proprietà, ricorrendo all’omicidio ed alla intimidazione sistematica, trovandosi a capo di possedimenti immensi.

Il Sistema perfetto
Nel 1904, Arana riorganizza gli asset proprietari della Compagnia. Il suo socio d’affari, Benjamin Larrañaga, muore stranamente avvelenato. Ed il figlio del defunto si affretta a cedere tutte le quote al solerte Julio Cesar che le acquista a prezzo stracciato.
Dal 1900 al 1906 la produzione di caucciù nelle terre degli Arana passa da circa 160 tonnellate a quasi 845.000 kg. La produzione è rimessa alla libera iniziativa degli agenti della compagnia, che dirigono sul posto le attività estrattive dei singoli distaccamenti: i capiposto ed i loro aiutanti vengono pagati a percentuale con una provvigione sulla quantità di gomma cumulata. Più lattice viene lavorato e spedito a Iquitos, più gli agenti di Arana guadagnano. Va da sé che i prezzi al kg continua a stabilirli Arana e le sue stime non sono sindacabili. Tutta l’attività di estrazione viene rimessa agli Indios, che non ricevono alcun compenso per il loro lavoro, se si eccettua qualche straccio per coprire le nudità e una ciotola di cereali ogni tanto.
In realtà si tratta di un gioco al ribasso dove, in proporzione, tutti ci rimettono e l’unico che guadagna è Arana che detiene saldamente il banco, senza rischiare nulla e con investimenti ridotti al minimo indispensabile.
La pressione costante sui raccoglitori è fondamentale per l’incremento della produttività, a tutto vantaggio degli sfruttatori. A dissuadere ogni tentativo di rivolta degli schiavi e vigilare sui possedimenti di Arana c’è un esercito privato di 1.500 mercenari armati di tutto punto.
Il sistema messo in piedi da Arana, con la sua efficienza criminale, è un franchising dell’orrore. L’organizzazione è in realtà semplice ed è già stata collaudato con successo da francesi e belgi nelle colonie africane del Congo.
La Compañia costruisce stazioni commerciali per lo stoccaggio della gomma grezza, provvedendo a tutte le fasi della produzione, dalla raccolta al trasporto.
Nella fattispecie, si tratta di una cinquantina di centri di raccolta, composti da poche baracche, totalmente autosufficienti ed a conduzione autonoma, con una rigida gerarchia di comando.
Ogni stazione ha il suo capoposto (jefe), con diritto di vita e di morte sui lavoranti; i suoi ‘caporali’ (capataz); la sua milizia etnica (muchachos); i suoi schiavi (flagelados).
I ‘capi’, provenienti un po’ dovunque, sembrano un battaglione di piccoli ‘Signor Kurtz’ già visti in “Cuore di tenebra” e spesso assomigliano ad un condensato di sadici psicopatici.
Sono affiancati da un piccolo esercito di aiutanti (capataz) tutto fare, che li coadiuvano come sorveglianti e capi-milizia. Sono in prevalenza dei miserabili reclutati per fame nelle Isole Barbados e scelti per la loro resistenza a condizioni climatiche estreme. Sono spesso gli esecutori materiali delle nefandezze peggiori. Chi non obbedisce ciecamente agli ordini dei capi, rischia di finire lui stesso al palo della tortura o di sparire nella foresta.
I muchachos sono giovani indios, inquadrati nell’esercito privato della Compagñia, Affiancano i capi ed i capataces nel controllo degli schiavi. Partecipano alle correrias per l’approvvigionamento di manodopera ed alla caccia dei fuggitivi.
Le punizioni corporali e la supervisione nei campi di lavoro viene poi affidata ai racionales: sono indios castiglianizzati, “civilizzati”, e fanno parte dei muchachos che affiancano i capataces.
È il sistema economico perfetto per rilanciare la crescita.

I Guardiani dell’Inferno
 Per incrementare la produzione e mantenere la disciplina, senza l’impaccio di inutili norme contrattuali o perniciose rivendicazioni sindacali, ogni responsabile della Casa Arana può decidere a proprio totale arbitrio, intraprendendo le azioni che ritiene più proficue all’incremento degli utili.
Tra i metodi (criminali), come documentato dalle successive inchieste e denunce, si distinguono in particolare una decina di centri di raccolta…
Il centro di La Chorrera (La Rapida) è il più grande e più produttivo dell’impero di Arana ed è anche soprannominata la “Colonia Indiana”, per l’enorme presenza di indios ridotti in schiavitù. A dirigere il centro, insieme al vice-amministratore Juan Tizon, c’è Victor Macedo: agente (e sicario) di assoluta fiducia di J.C.Arana.
La Chorrera gareggia in produzione con la stazione di El Encanto che prospera sotto l’illuminata amministrazione di Miguel Loaysa, a cui si deve l’invenzione del “Marchio di Arana”: 100 frustate per chi non raggiunge la quota prefissata di raccolto giornaliero, senza distinzione per uomini, donne e bambini. Se non si muore sotto le nerbate, si rimane marchiati a vita. E i sopravvissuti costituiscono un monito per tutti gli altri. Solitamente, i capataz ed i racionales impartiscono le scudisciate sulle natiche. Altre volte si prediligono braccia e schiena che nei casi più estremi vengono scarnificate dai colpi fino all’osso. Nel clima della giungla tropicale, le ferite spesso si infettano provocando la morte dei disgraziati.
In una bella giornata di Febbraio del 1903, Miguel Loaysa è ospite di Victor Macedo presso La Chorrera. È giorno di raccolta e circa 800 indios di etnia Ocaima sono giunti alla stazione per consegnare le balle di caucciù raccolto nella foresta. Le balle vengono quindi pesate e immagazzinate. E però c’è un problema: 25 indios non hanno raggiunto la quota obbligatoria di consegna. E dunque bisogna dare una lezione pubblica, per incentivare la produttività…
 I 25 disgraziati vengono avvolti con sacchi imbevuti di petrolio, dati alle fiamme, e lasciati correre per tutto il campo mentre bruciano vivi, tra le grandi risate dei manager in riunione che si divertono a finire i moribondi agonizzanti sul terreno a colpi di pistola.
Da notare che Macedo è un cholo, ovvero un meticcio di sangue indio.
L’abitudine di bruciare vivi gli indigeni è uno sport molto praticato e rientra tra i passatempi preferiti dei capi insediamento.
Nella stazione di Abisinia, condotta dal jefe Abelardo Aguero, gli indios Bora vengono solitamente appesi ai rami degli alberi con le braccia legate dietro la schiena ad ogni minima infrazione, controllati a vista dai capataz barbadoregni, che non avendo nient’altro da fare ogni tanto, poverini, si annoiano. Per ammazzare il tempo si divertono a tirare le gambe degli appesi, favorendo la disarticolazione degli arti superiori, mordendogli a sangue le cosce. Altre volte, Aguero ordina di accendere fuochi sotto gli appesi o cospargerli di benzina direttamente, divertendosi a guardarli mentre si contorcono in preda alla fiamme.
La pratica è molto apprezzata anche da Armando Normand, sovrintendente della stazione di Matanzas.
Per le punizioni più lievi si ricorre al ‘ceppo’: un cavalletto sul quale i rei venivano legati bocconi e lì lasciati immobilizzati per settimane, costretti a leccare il cibo da una ciotola.
Tanta severità da parte di Aguero è giustificata, giacché in passato c’era già stato un tentativo di rivolta che aveva creato parecchi problemi ai precedenti capiposto.
Ad Abisinia, uno dei luogotenenti di Arana, tal Bartolomé Zumaeta, aveva violentato la moglie di un capotribù Bora, il quale non aveva preso tanto bene l’affronto. Katenere, questo era il suo nome, di notte era penetrato nell’accampamento dei caucheros rubando loro i fucili e uccidendo lo stupratore. Avrebbe fatto meglio a sgozzarli tutti nel sonno… Infatti la Compagnia mette subito una taglia sul giovane capo indigeno, mentre si scatena una gigantesca caccia all’uomo che si protrasse per oltre due anni, finché una squadra di cacciatori non riuscì a catturare almeno la compagna di Katenere. Condotta al campo di Abisinia, la donna viene stuprata in pubblico da tutto il personale di guardia, compreso el jefe Vasquez, legata al ceppo della tortura, fustigata a sangue e lì lasciata senza acqua ne cibo per giorni. La donna non sarebbe infatti stata liberata, finché Katenere non si fosse consegnato alla ‘giustizia’. Cosa che regolarmente avvenne. Una volta costituitosi, Vasquez in persona cavò gli occhi a Katenere con un uncino di ferro, quindi lo legò al palo insieme alla moglie e diede fuoco ad entrambi.
In alternativa, secondo il capriccio del momento, gli indios potevano finire impiccati, impalati, crocifissi, affogati nei fiumi. Diversamente, gli indigeni vengono puniti col taglio delle orecchie, del naso, delle dita. Ma non era escluso il taglio delle mani o dei piedi; in tal caso i mutilati, ormai inutilizzabili, venivano cosparsi di kerosene e dati alle fiamme. Non era disdegnata l’evirazione…
A volte però si esagerava, come ebbe ad imparare a sue spese uno dei capi-posto, Miguel Flores, che nel 1907 ricevette una lettera di richiamo della Compagnia, per aver dilapidato con troppa facilità il capitale umano dell’impresa. Le uccisioni dovevano avvenire solo “in caso di necessità”. La risposta piccata di Flores non si era fatta attendere: «Protesto vivamente, perché in questi ultimi due mesi nel mio insediamento sono morti soltanto una quarantina di indios
 Abelardo Aguero ed il suo vice Augusto Jimenez ricevettero una multa per aver utilizzato i propri lavoranti come bersagli, in gare di tiro a segno per esercitare la mira. Non si poteva certo privare così l’impresa di preziosa manodopera schiava! E Julio C. Arana, l’Abele dell’Amazzonia, ci teneva a tutelare i suoi investimenti.
In virtù di tali precedenti, intorno al 1909 il 26enne Augusto Jimenez, un meticcio di sangue indio, verrà promosso a capo della stazione di Ultimo Retiro.
Jimenez ha preso il posto di Fidel Velarde e del suo vice Alfredo Mott, che nel frattempo hanno fatto carriera diventando responsabili rispettivamente delle stazioni di Occidente ed Atenas.
Durante la loro conduzione dell’insediamento di Ultimo Retiro, pare che una notte i due, completamente ubriachi, abbiano scommesso su chi avrebbe tagliato più in fretta un orecchio ad un indio huitoto legato al ceppo. Afferrati i machete, Velarde riesce a tagliare l’orecchio con un unico colpo. Alfredo Mott, che invece è ubriaco fradicio, manca il bersaglio ma in compenso centra in pieno il cranio dell’indio, aprendolo a metà.
Dalla sua stazione di Occidente, il buon Velarde (che già si era distinto al servizio di Macedo) si fa aiutare da un altro terzetto omicida: Manuel Torrio, Rodriguez e Acosta.
In fondo, non li si può troppo biasimare: si tratta di uomini abbrutiti dalla giungla, nati e cresciuti in contesti selvaggi…
Nella stazione di Matanzas si fa notare Armando Normand. Poco più che ventenne (è nato nel 1885), basso, minuto, brutto, è un boliviano di origini britanniche, che vanta un corso di studi a Londra, un diploma da contabile, e parla fluentemente l’inglese.
Sono pochi quelli che lavorano volentieri con Normand. Gli stessi capataces barbadoregni ne sono terrorizzati. L’intero insediamento è circondato da migliaia di ossa umane.
Una volta, il barbadoregno Augustus Walcott ebbe a sollevare alcune obiezioni, durante una delle punizioni pubbliche inferte da Normand: un indio che aveva tentato la fuga, era stato legato sospeso ad un palo, colpito a colpi di machete e quindi lasciato penzoloni a morire dissanguato. Walcott, commentò ad alta voce che non era quello il modo di ammazzare la gente (non è roba da cristiani questa!). In risposta, Armando Normand aveva fatto crocifiggere l’indisciplinato sottoposto, in ossequio alla devozione religiosa del nero capataz.
Se in seguito alle torture le ferite si infettano, rendendo gli indios inabili al lavoro, Normand li fa ammazzare a colpi di machete per risparmiare le pallottole.
Normand ha il discutibile pregio di riuscire a schifare perfino il resto della banda di allegri psicopatici al soldo della Casa Arana. Successivamente interrogati dalla Commissione Casament, i suoi assistenti lasceranno testimonianze allucinanti:

«Secondo il barbadiano Joshua Dyall, dalla sua personcina insignificante emanava una “forza maligna” che faceva tremare chi gli si accostasse e il suo sguardo, penetrante e glaciale, sembrava quello di una vipera. Dyall asseriva che non soltanto gli indios, ma anche i muchachos e persino gli stessi capataces si sentivano insicuri al suo fianco. Perché in qualunque momento Armando Normand poteva compiere o ordinare lui stesso un atto di ferocia raccapricciante, senza che si alterasse la sua indifferenza sdegnosa verso tutto ciò che lo circondava.
Normand gli aveva ordinato un giorno di assassinare cinque Andoques, puniti così per non aver consegnato le quote stabilite di caucciù. Dyall uccise i primi due a colpi di pistola, ma il capo ordinò che ai due successivi si schiacciasse prima i testicoli su una pietra usata per impastare manioca e li si finisse a bastonate. L’ultimo glielo fece strangolare con le sue mani. Durante tutta l’operazione rimase seduto su un tronco d’albero, fumando e osservando, senza che si alterasse l’espressione indolente della sua faccia rubiconda.
Un altro barbadiano, Seaford Greenwich, raccontò che lo spasso per i racionales dell’insediamento era l’abitudine del capo di mettere peperoncino tritato o intero nel sesso delle piccole concubine, per sentirle gridare dal bruciore.»

 “Il Sogno del Celta”
Mario Vargas Llosa
 Einaudi, 2011

Pare che questo fosse l’unico modo per eccitare il sadico Normand. Particolarmente temuti sono poi i suoi mastini, che non esita ad aizzare per un nonnulla contro i suoi lavoranti, facendoli sbranare vivi.
Nella stazione di Sur opera invece il buon Carlos Miranda, un allegro ciccione, molto spiritoso, di buone maniere e ottima educazione, purché non lo si faccia arrabbiare… Irritato da una vecchia indigena che incitava gli indios alla rivolta, Miranda la decapita con un solo colpo di machete; quindi se ne va in giro per l’accampamento mostrando il capo mozzo ai lavoranti terrorizzati, come una parodia di David e la testa di Golia.
Molto ambito era invece il servizio nell’insediamento di Entre Rìos, amministrato da Andrès O’Donnell, un irlandese che non lesinava la frusta ma che non amava le carneficine. O’Donnell si era creato un suo harem personale con una decina di concubine che lo seguivano ovunque. Ed era particolarmente apprezzato dai suoi subalterni.
Nell’insediamento di La Sabana, il capo José Inocente Fonseca ha adibito parte delle baracche in un serraglio di prostitute bambine dagli 8 ai 15 anni, per il suo uso e consumo personale.

Ovviamente, in tutti i casi, gli indigeni tenuti in cattività non sono considerati ‘schiavi’ ma “debitori” della Casa Arana. E pertanto non potranno essere liberati, finché non avranno saldato i debiti.
Per il lavoro svolto, la Compagnia non corrisponde salari. E del resto gli indios non attribuiscono alcun valore al denaro. Ad ogni lavorante indigeno, rastrellato nelle correrias, viene fornito il minimo indispensabile per la raccolta del caucciù. Le dotazioni vengono prese dai magazzini degli insediamenti e addebitati agli indigeni a valore decuplicato, che dovranno scontare alla consegna del prodotto. Quindi i raccoglitori vengono avviati al lavoro nella foresta, dove restano generalmente una quindicina di giorni prima di tornare con il lattice raccolto. Per evitare fughe, mogli e figli vengono trattenuti nel campo come ostaggi. I capi ed il personale della compagnia ne dispongono liberamente, utilizzandoli per servizi domestici o come schiave sessuali (dai 6 anni in su tutto va bene). Al ritorno dei raccoglitori, il caucciù veniva pesato, solitamente con bilance truccate. Se nell’arco di tre mesi non si raggiungevano i 30 kg, venivano inferte le punizioni già viste che andavano dalla fustigazione, alle mutilazioni, all’omicidio. I cadaveri non venivano mai sepolti, ma abbandonati nei dintorni a mo’ di monito.
Agli indios erano poi richieste tutta una serie di corvees supplementari che andavano dalla costruzioni delle baracche alla riparazione dei tetti, dalla pulizia dei sentieri al carico e scarico delle merci, fino all’affumicamento ed impasto del caucciù, nonché alla coltivazione degli orti per gli approvvigionamenti di cibo.
Quando non sono impegnati nelle loro scorrerie a caccia di nuovi schiavi, nelle torture, nelle punizioni, negli stupri o a litigarsi le concubine a colpi di coltello, i miliziani privati della Compagnia passano il tempo ad attaccare i trasporti dei colombiani o saccheggiare le loro proprietà, scambiandosi fucilate con l’esercito regolare di Bogotà. La cosa procura parecchi blasoni patriottici al bravo Julio Cesar Arana che nel frattempo è divenuto una delle persone più influenti del Perù.

Il Finanziere
 Diventato ormai affermato imprenditore di un così rispettabile commercio, Julio C. Arana, l’Abele dell’Amazzonia, amplia le sue vedute e decide di fare il grande salto in avanti, approdando in Borsa…
Nel 1903 apre una succursale della sua Casa commerciale a Manaus in Brasile. Quindi crea filiali a Londra e New York, per meglio accreditarsi sui mercati internazionali.
Nel 1907 istituisce la “Peruvian Amazon Rubber Company”, con capitali misti di investitori in prevalenza anglo-peruviani per un milione di sterline, e quotata alla City londinese.
Per la bisogna ha acceso un credito di 60.000 sterline inglesi con la filiale londinese della Banca del Messico, non prima di ipotecare tutte le proprietà immobiliari ed i suoi latifondi a nome della moglie Emanuelita. Né manca di far falsificare i bilianci societari da revisori contabili compiacenti. In questo modo, in caso di fallimento, eventuali azionisti e creditori non potranno rivalersi di un solo centesimo sulle immense ricchezze di Arana che però può ora drenare finanziamenti illimitati dal bel mondo della finanza anglosassone.
L’operazione di capitalizzazione è affidata ad Henry M. Read, gerente del ramo londinese della Banca del Messico. Ma nella nuova compagnia ci sono alcuni tra i più ricchi investitori dell’epoca: John Russell Gubbins, investitore particolarmente ammanigliato col governo peruviano; T.J.Medina, tra gli uomini più ricchi del Perù; il barone De Souza-Deiro; sir John Lister Kaye
Julio C. Arana non sa che in caso di insuccesso possono diventare nemici potenti.

Le prime denunce: Benjamin Saldaña Rocca
 Da che mondo è mondo, potenti e politicanti amano la stampa, fintanto che tesse le loro lodi e scodinzola ai loro piedi come un cagnolino addomesticati. In caso contrario, c’è sempre una legge bavaglio e un’intimidazione pronta, per azzittire giornalisti troppo impertinenti…
Nella città di Iquitos, che oramai è diventata un mandamento personale del boss Arana, c’è qualcuno che, nonostante tutto, non si lascia comprare né è disposto ai compromessi.
Benjamin Saldaña Rocca è un giornalista, che non ha bisogno di essere iscritto ad albi per scrivere, ed editore unico di due periodici locali: “La Felpa” e “La Sanciòn”. Sono poco più che giornalini, perennemente a corto di fondi, con tiratura settimanale e tutt’altro che regolare. Gli boicottano la distribuzione, gli sequestrano le copie dei giornali, gli bruciano la tipografia, lo minacciano di morte, gli sparano addosso e rimane zoppo, ma Rocca non molla. È una di quelle rare persone, per le quali i principi vengono assai prima del soldo. Rocca discende da una famiglia di ebrei sefarditi. Contro di lui, la Casa Arana organizza una infame campagna anti-semita.
Il 09/08/1907 Rocca presenta un esposto pubblico alla magistratura di Iquitos. È il suo coraggioso J’Accuse nel quale denuncia con dovizia di informazioni i crimini dei bravacci di Arana, facendo nomi e cognomi dei carnefici.
Su ‘La Felpa’ del 29/12/1907 descrive i sistemi truffaldini utilizzati dagli Arana. È il suo ultimo atto: in una notte al principio del 1908 Saldaña Rocca scompare da Iquitos. Alcuni testimoni vedono un uomo che gli assomiglia, col viso tumefatto che viene trascinato via da un gruppo di uomini, su una barca pronta a salpare sul fiume. Nessuno lo rivedrà più, né le sedicenti autorità si daranno mai la pena di appurarne la sorte.

El Gringo: Walter Hardenburg
 J.C.Arana sembra intoccabile e probabilmente si reputava tale… Ma in tutte le storie c’è sempre l’incognita non prevista che fa saltare i giochi, il granellino di sabbia che inceppa un ingranaggio che sembrava perfetto.
Il guastafeste si chiama Walter Ernest Hardenburg. È un ragazzone yankee venuto in Sud America a far fortuna. E come a volte capita di riscontrare in certi statunitensi, è anche un inguaribile idealista; una di quelle teste dure che fa delle questioni di principio una missione personale.
W.E.Hardenburg è un ingegnere ferroviario. O almeno così dice lui. Sicuramente è un operaio specializzato che ha fiutato l’occasione della vita… Per ottimizzare il trasporto del caucciù, come del caffè, e rendere più rapidi i collegamenti tra i centri amazzonici in espansione, il governo colombiano sta pianificando la costruzione di migliaia di chilometri di ferrovia. Pertanto, il personale esperto è richiestissimo e ottimamente pagato. Alla fine del 1907, dopo aver lavorato in Colombia, il 26enne Hardenburg, insieme ad un gruppo di avventurieri come lui, decide di inoltrarsi nelle profondità dell’Amazzonia, attraversare i territori della produzione gommifera nel Putumayo e raggiungere la città di Madeira in Brasile, per un nuovo ingaggio come tecnico ferroviario. Durante il suo viaggio nel Putumayo, Hardenburg viene ospitato in diverse tenute di caucheros colombiani, che lo informano con dovizie di particolari sui continui abusi e sulle violenze degli uomini della Peruvian Amazon Co. di Arana, che peraltro Hardenburg ha modo di sperimentare personalmente, con sequestri di persona e requisizioni forzose.
Lo stesso Hardenburg verrà sequestrato dagli uomini di Miguel Loayza e trattenuto come ‘ospite’ nella stazione di El Incanto. Durante il suo soggiorno coatto, avrà modo di vedere coi suoi occhi i metodi di lavoro utilizzati dalla Casa Arana, avendo occasione di visitare anche altre stazioni come la famigerata Chorrera. Ne rimarrà talmente sconvolto, da raccogliere le sue esperienze in un’opera dal titolo evocativo: “Putumayo, il Paradiso del Diavolo. Viaggi nella regione amazzonica del Perù e un resoconto sulle atrocità contro gli indigeni” (Boston, 1912).
Nel 1908, una volta libero, Hardenburg ci mette quasi un anno per mettere insieme i soldi, raccogliere ulteriori prove, riuscire a raggiungere Londra dove la Peruvian Amazon Co. ha la sua sede, e denunciare ciò che ha visto.
Nel 1909 il periodico londinese “Truth” pubblica un lungo articolo (“The Devil’s Paradise”) con le testimonianze di Hardenburg:

«Gli uomini della Compagñia tagliavano a pezzi gli indios coi machete e schiacciavano le cervella dei bambini piccoli lanciandoli contro gli alberi o i muri. I vecchi venivano ammazzati quando non potevano più lavorare, e per divertirsi, i funzionari della compagnia esercitavano la loro perizia di tiratori, utilizzando gli indios come bersaglio. In occasioni speciali, come il sabato di pasqua, sabato di gloria, li ammazzavano in gruppo oppure, di preferenza, davano loro fuoco col cherosene, per godere della loro agonia. […] Gli agenti della compagnia obbligano i pacifici indios del Putumayo a lavorare giorno e notte, senza il minimo riposo, salvo il cibo necessario per mantenerli in vita. Rubano i loro beni, le loro mogli, i loro figli.»

 Il reportage pubblicato dal “Truth”, fece inorridire il pubblico inglese, il quale trovò assolutamente scandaloso che simili fatti venissero compiuti da una società partecipata con capitali britannici e con una dirigenza quasi totalmente inglese. Le denunce di Hardenburg ebbero un incredibile eco nell’opinione pubblica della Gran Bretagna, approdando in Parlamento che pressato dalla blasonata “Società contro la schiavitù” decise di costituire una commissione d’inchiesta da avviare in Perù, in considerazione del fatto che si trattava pur sempre di una compagnia britannica con dirigenza e azionisti inglesi.
Per l’impero di Julio Cesar Arana si avvicinava il principio della fine….

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PATTO DI PACIFICAZIONE

Posted in A volte ritornano with tags , , , , , , , , , on 22 dicembre 2009 by Sendivogius


A Natale puoi
fare quello che non puoi fare mai:
(…)
È Natale e a Natale si può fare di più,
è Natale e a Natale si può amare di più,
è Natale e a Natale si può fare di più
per NOI

  Immancabile come un raffreddore stagionale, inevitabile come i conguagli delle bollette, ti scalda le viscere con la piacevole consistenza di un clistere.
È difficile immaginare le indicibili privazioni alle quali vengono sottoposti i grassi bimbi ariani che, liberi solo a Natale, puntualmente ti propinano un’orgia catodica di panettoni e zuccherosi sentimentalismi a buon mercato (reali quanto la neve artificiale sopra un presepe in cartapesta) nell’adescamento di consumatori compulsivi.
Quest’anno, la stucchevole ipocrisia delle atmosfere natilizie sembra aver contagiato anche i rissosi inquilini di Casa Montecitorio, convertiti al verbo dell’amore evangelico sull’altare delle riforme a soggetto. Un’annoiata sazietà pervade il lettore smaliziato che abbia sfogliato i quotidiani dell’ultima settimana: tra profusioni di devozione incondizionata al Re Pescatore, offeso nel suo ritiro; dissociazioni e obiezioni con premessa solidale; nuovi mistici dell’Amore universale conto i guerrieri dell’odio, per il reciproco rispetto e comune legittimazione. Inutile e persino ripetitivo ripercorrere le tappe e le incongruenze di tanti fumosi afflati pervasi da vaporosi sensi…

AMARCORD
C’era una volta un misericordioso Unto che si immolò per salvare l’Italia dai comunisti e dall’apocalisse bolscevica.
Peccato che nell’accezione berlusconiana, “comunista” costituisca una categoria onnicomprensiva nella quale rientrano a forza tutti coloro che in qualche modo esprimano una qualsiasi forma di dissenso nei confronti dell’Unico e Solo; ovvero osino contestare le decisioni del dio vivente. Siano essi comuni mortali, organismi istituzionali, premi Nobel, o “elite di merda”. E questo può essere un problema, giacché per il Ghandi di Arcore, “il comunista” non dovrebbe avere cittadinanza. Coerentemente è “l’anti-italiano” per eccellenza. Come incarnazione del Male, è fuori dal consesso civile e come tale dovrebbe essere sradicato o, quanto meno, messo in condizione di non nuocere. E l’intero Paese andrebbe spurgato dall’immondo contagio che l’ha infettato in parte: dalle arti, alla cultura; dalle Istituzioni alla Costituzione repubblicana (giudicata “sovietica”). La grande democraticità del Cavaliere Nero consiste nel non passare per le armi la categoria, come invece avveniva nella più pratica Argentina.
Le elezioni sono una prova ordalica, in cui si manifesta il potere di Dio: una scelta di civiltà, affinché “il Bene prevalga sul Male”. Se proprio non vuoi schierarti dalla parte del “Popolo della Libertà e del Buon Governo” nella migliore delle ipotesi sei un “coglione”.
Non esistono alternative possibili! «Se la sinistra andasse al governo l’esito sarebbe questo: miseria, terrore, morte. Così come avviene ovunque governi il comunismo». In base ad una equazione per la quale i due termini sono sinonimi inscindibili.
Quando ciò malauguratamente avviene, non può essere che attraverso la manipolazione del risultato elettorale. È il partito dell’Amore contrapposto alla “politica dell’odio”: contro i “brogli della sinistra”; contro Prodi, un vecchio boiardo democristiano accusato di essere una spia del KGB (con tanto di commissione di inchiesta parlamentare)… E molto altro ancora si potrebbe raccontare…

In virtù di siffatte e reiterate profusioni d’amore, con lo spirito del Natale sotto l’alberello prende forma l’idea di un nuovo “Patto di pacificazione nazionale” tra Pdl e UdC e PD, per isolare i “giustizialisti” di casa democratica e gli “eversori” della IdV. E sempre in nome dell’Amore che pervade gli animi e riempie i cuori dei vari Cicchitto, Quagliarello & Co. garantire l’impunità assoluta al bodhisattva della Brianza. Infine cancellare, col muto avvallo delle opposizioni più “responsabili”, ciò che rimane dello Stato di diritto.
Qualcosa di molto simile avvenne nel 1921.
Cambiano i soggetti politici, ma la sostanza che ne ispira la filosofia è la stessa…
Il 23 Luglio 1921 il cavalier Benito Mussolini dichiara di essere favorevole ad una ‘pacificazione’ tra fascisti, socialisti riformisti e cattolici del Partito Popolare, per isolare le frange ‘eversive’ in seno alla società.
Il 3 Agosto 1921 il “Patto di Pacificazione” viene siglato ufficialmente, tra socialisti e fascisti, con la mediazione del Presidente della Camera. Non aderiscono i Popolari, i Repubblicani ed i comunisti. Soprattutto, al Patto si oppongono con ferocia i caporioni fascisti delle zone padane e delle provincie settentrionali, che non riconoscendo alcuna tregua intensificheranno indisturbati i loro raid.
All’atto pratico, il patto di pacificazione permise a governo e fascisti dapprima di isolare politicamente e poi distruggere le formazioni di autodifesa contro le violenze squadriste, di spezzare ogni tentativo di fronte unitario da parte delle opposizioni, cancellare le forze popolari estranee alla logica dei partiti, e preparare indisturbati la successiva ‘Marcia su Roma’. Il seguito è noto…
Perciò, a dispetto di patti, baci e abbracci, a noi il Natale (e pure il resto dell’anno) piace festeggiarlo così…

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Il Mostro di Roma

Posted in Ossessioni Securitarie, Roma mon amour with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 10 marzo 2009 by Sendivogius

 

 E lasciavamo le porte aperte…”

 

urlo-scream  Quello delle “porte aperte” è un luogo comune particolarmente caro a certa vulgata qualunquista, cementata nella nostalgia di una sorta di “Età dell’Oro” che non è mai esistita, se non nella fantasia dei suoi ostensori. Si tratta di una proiezione fortunata che si perpetua longeva nel tempo, suffragata dalle presunte reminescenze popolari desunte dalla ‘saggezza degli anziani’, tanto da costituire un richiamo mitologico ad un perduto spirito solidale di comunità idealizzate. Un regno fatato di gente felice in casette di marzapane, non più reale di quanto non sia il Gatto con gli stivali, o la “Terra dell’Abbondanza” coi suoi fiumi di latte e miele, ma del quale si parla e si rimpiange come si trattasse di un mondo devastato da infezione aliena. Perché il ‘Male’ è sempre altro da me.

Pertanto è più facile crogiolarsi nel rimpianto di una purezza primigenia, irrimediabilmente violata, e credere alla leggenda di un passato migliore, coltivando il pensierino rassicurante che imputa al monstrum (nell’accezione prodigiosa e perversa del termine) ogni nefandezza possibile. Si segue l’onda emotiva, scivolando sugli umori della folla, e si dimentica che da sempre (oggi come ieri), l’intreccio perverso che lega tra loro Paura, Criminalità, Politica, può condurre ad esiti devastanti, per le finalità di pochi.

 

La psiche del demente politico esibito (narcisista a contenuto pseudo-etico) aggranfia il delitto alieno, reale o creduto, e vi rugghia sopra come belva cogliona e furente a freddo sopra una mascella d’asino

(Carlo Emilio Gadda – Quer Pasticciaccio Brutto de Via Merulana – Garzanti, 1957)

 

Evidente, nonché emblematica, la vicenda che nella Roma degli anni ‘20 vide, come protagonista, l’innocente Gino Girolimoni il quale si ritrovò coinvolto, suo malgrado, in una storia kafkiana dai risvolti tragici. Bollato col marchio di infamia, Girolimoni è entrato per sempre nell’immaginario collettivo come il “Mostro di Roma”.

Il ‘Caso G.’, pur con le sue peculiarità storiche, dimostra due cose molto semplici: che la ferocia criminale non è una specificità dei nostri tempi; che certe distorsioni degenerative del sistema repressivo non sono appannaggio esclusivo di un’epoca…

Sul “caso Girolimoni” esistono svariate fonti documentali. All’occorrenza, noi ci avverremo (in massima parte) dell’ottimo saggio monografico di Giangiulio Ambrosini, già magistrato di Cassazione, pubblicato nel 1997 sugli “Annali della Storia d’Italia”.

 

“Sbatti il mostro in prima pagina!”

La storia giudiziaria di ogni Paese è costellata di “mostri”, autori di gravissimi delitti consumati a danno di bambini, di giovani donne, di persone incapaci di difendersi o scelte per puro caso: delitti efferati in cui la componente sadica o sessuale gioca molto spesso un ruolo determinante, collegati fra loro in sequenze ossessivamente ripetitive. Il linguaggio giornalistico ribattezza oggi il “mostro” serial killer, ma la vecchia definizione continua ad avere sicura presa nella coscienza collettiva.

L’idea del mostro colpisce la fantasia popolare, incoraggiata dalla disinvoltura da parte dei media nel sollecitare una sotterranea morbosità da cui non è esente alcuno strato sociale, e autorizza l’opinione comune ad attribuire al soggetto demonizzato persino più delitti di quanti al limite ne abbia potuti commettere. Così può accadere che, quando un mostro venga per avventura catturato, si chiudano in un sol colpo casi che meriterebbero maggiore approfondimento e altri colpevoli ottengano un’insperata impunità.

La creazione del mostro ha il risultato di far accreditare a tutti i costi una persona, non importa se colpevole o innocente (indicata spesso sulla base di esilissimi sospetti dagli organi di polizia), che presenti idealmente i requisiti della “mostruosità” in ragione di qualche anomalia rispetto al sentire comune: avere lo stigma dell’emarginato, ostentare disponibilità superiori alle possibilità concrete, abbigliarsi o acconciarsi in maniera stravagante, condurre una vita poco appariscente e per ciò stesso misteriosa; in ultima analisi avere caratteristiche “diverse”.

(…) Il mostro in fuga non può che “essere tra noi”, quindi tutti si sentono autorizzati a promuovere la cultura del  sospetto, verso il vicino di casa,  nei riguardi del collega, persino ai danni di uno sconosciuto senza motivo apparente. L’istituto, di assoluta inciviltà, che si definisce “taglia”, può aprire un’autentica lotteria moltiplicando sospettanti e sospetti.

L’ammissione “spontanea” dello squilibrato, la confessione poi riconosciuta estorta con la violenza da disinvolti funzionari di polizia che si prefiggono di ben figurare per aver risolto il “caso”, la lettura frettolosa di indizi apparenti, possono comportare danni irreparabili.

Quando si procede contro un “mostro” individuato e dato per certo, si abbandonano tutte le altre piste.

Se poi il preteso mostro sarà riconosciuto innocente dai giudici (a parte le gravissime conseguenze patite dal soggetto che, suo malgrado ne ha rivestito i panni) le indagini ritorneranno talmente indietro da essere di regola irrimediabilmente compromesse.

(…) L’esigenza di trovare un colpevole coinvolge al tempo stesso investigatori e cittadini. Il colpevole indubbiamente esiste, perché reati sono stati commessi; la necessità di individuarlo a tutti i costi supera ogni ragionevole ipotesi di giustizia.

Se tutto ciò è vero in tempi di democrazia, a maggior ragione lo è quando giustizia, garanzie del cittadino, ricerca della verità, sono beni sacrificabili ad altri valori, di natura eminentemente politica, come il dimostrare l’efficienza di un regime, il simulare la capacità di garantire sicurezza sociale, il pretendere di essere in grado di rendere immediatamente giustizia.

(…) Di fronte al mostro, la cui esistenza non si è potuta celare, diventa necessario impedire la sconfitta nelle indagini e si impone quindi una rapida cattura (possibilmente credibile) e una condanna (eventualmente esemplare).

Il fascismo, nei primi anni di vita, ha avuto a che fare con qualche “mostro”. Uno dei più noti porta il nome di Gino Girolimoni, un uomo qualsiasi, a cui vicenda apparve sin d’allora ed è, riletta a distanza di anni, inquietante.

[ G.Ambrosini ]

 

L’incubo di Roma: il Martirizzatore di bimbe”

Tra il 1924 ed il 1927, Roma è sconvolta da una serie di brutali omicidi a sfondo sessuale. Le vittime sono giovanissime bambine che vengono rapite, seviziate, e uccise con raccapricciante ferocia da un maniaco, che agisce indisturbato nel cuore della città e sembra inarrestabile.

Il 31 Marzo 1924, Emma Giacobini (4 anni ancora da compiere) viene rapita in pieno giorno nei centralissimi giardini di Piazza Cavour, approfittando di un attimo di distrazione della madre. La bambina, “con un fazzoletto colorato strettamente legato al collo e segni di violenza sul corpo”, verrà ritrovata poche ore dopo da un gruppo di contadini nei campi a ridosso di Monte Mario, richiamati dalle urla strazianti della piccola. Emma è viva. Viene ricoverata in ospedale e sopravvive. Evidentemente il bruto non ha fatto in tempo a strangolare la vittima. Alcuni testimoni parlano di un uomo anziano e ben vestito, che si allontana in tutta fretta dal luogo dello stupro.

Il 4 Giugno del 1924, a pochi mesi dalla prima violenza, si registra un tentativo di rapimento ai danni di Armanda Leonardi (di appena due anni). La bambina viene afferrata sulla soglia di casa da uno sconosciuto. La piccola grida ed il rapitore, spaventato, fugge lasciandola cadere.

La sorte di Armanda è comunque segnata. Tre anni dopo, il 12 Marzo 1927, il maniaco arriva ad introdursi nella casa della bambina che “viene rapita dal suo letto nella sua abitazione al rione Ponte (…) Il fratellino Francesco si mette a urlare, accorre la madre che prima di svenire riesce a scorgere in fuga un uomo elegante con un cappotto nero e un ombrello. Il mattino successivo il corpo di Armanda viene trovato in un prato ai piedi dell’Aventino. La bambina è stata violentata e strangolata”.

Torniamo al 4 Giugno del 1924, la piccola Armanda è appena scampata al suo primo tentativo di rapimento, ed il ‘mostro’ (evidentemente insoddisfatto) si accanisce su un’altra bambina, Bianca Carlieri (4 anni), rapita in serata a Trastevere. “La polizia e gli abitanti del rione danno vita ad una gigantesca battuta per ritrovare la piccola ed il suo rapitore, indicato come un signore alto, elegante, anziano”. Il corpo di Bianca Carlieri verrà ritrovato il giorno seguente, nei pressi della basilica di S.Paolo fuori le mura, a notevole distanza dal luogo del rapimento. A questo punto, la psicosi del mostro si impossessa della popolazione, sfiorando l’isteria collettiva: “si racconta di un colonnello in pensione che, nei giardini di Piazza Vittorio, aveva giocosamente avvicinato una bambina rischiando il linciaggio”. A dire il vero, le testimonianze oculari sul presunto rapitore della Carlieri, sono diverse e spesso discordanti. Cosa che complica non poco il lavoro (già pessimo) degli inquirenti. Vengono approntati i primi identikit, talmente approssimativi da risultare inutili. Dell’uomo si sa vagamente che è una persona anziana, snella ed elegante con baffetti a spazzola. La stampa si scatena in una campagna forsennata che alterna resoconti morbosi sugli omicidi ad attacchi feroci contro l’incompetenza della polizia. Le indagini vengono ulteriormente fuorviate dalle false testimonianze di mitomani e millantatori.

Nel Giugno 1924, Presidente del Consiglio è il cavalier Benito Mussolini; il fascismo in ascesa consolida il suo controllo delle “forze dell’ordine”: Arturo Bocchini diventa Direttore generale della Pubblica Sicurezza. Luigi Federzoni è promosso Ministro degli Interni e il Questore di Roma viene rimosso senza troppi complimenti. La ‘Sicurezza’ diventa un affare politico. “Il numero dei fermati si moltiplica all’infinito (tra gli indiziati ci saranno anche dei suicidi). Viene offerta una prima taglia di diecimila lire”.

08 Luglio 1924. Il Consiglio dei Ministri approva il decreto governativo che pone serie limitazioni alla “Libertà di Stampa”. Niente più notizie sgradite al premier che possano alimentare allarmismi sociali e minare la base del suo imbarazzante consenso.

Il 24 Novembre 1924 scompare un’altra bambina: Rosina Pelli. Questa volta il rapimento avviene addirittura sotto il colonnato di Piazza S.Pietro. La salma di Rosina verrà rinvenuta in aperta campagna (allora), da un fornaciaro al Prataccio della Balduina. Il modus operandi dell’assassino è lo stesso riscontrato nei delitti precedenti. I testimoni, che pure hanno visto, non hanno saputo indicare di meglio che un uomo con cappellaccio scuro e cappotto marrone, ma anche dall’aspetto distinto e ben vestito. Ai funerali della bambina parteciperà persino la regina Elena di Savoia.

Il 30 Maggio 1925 il ‘mostro’ è di nuovo a caccia di giovani prede nel rione Borgo, a ridosso del Vaticano: dopo un primo tentativo di adescamento ai danni della piccola Anna del Signore, che (a conferma dei precedenti indizi) descriverà un uomo elegante, in abiti grigi, cappello scuro e baffi, il serial killer circuirà e ucciderà con le solite modalità una bambina di sei anni, Elsa Berni. Il corpo della piccola verrà rinvenuto in prossimità del fiume, sul Lungotevere Gianicolense.

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Il Ministro dell’Interno Federzoni, tramite decreto, dispone una nuova taglia:

un premio di lire 50.000 a favore di quei privati o confidenti che in qualunque modo, mediante informazioni o indicazioni, riusciranno a far identificare e assicurare alla giustizia il colpevole del truce delitto. Il funzionario o agente che riuscirà nell’eguale scopo otterrà una promozione straordinaria.

È giunto il tempo per gli sciacalli e per gli arrivisti zelanti.

26 Agosto 1925. L’efferatezza del maniaco si fa sempre più audace. Celeste Tagliaferri, una bimba di appena 17 mesi, viene rapita nella sua stessa culla, poco dopo mezzogiorno. Sempre nel rione Borgo. Qualcuno è entrato dalla porta aperta dell’alloggio rimasto incustodito. La bimba viene trovata, ancora vita, da un sarto sulla Via Tuscolana, in un canneto, “distesa su alcuni giornali, con un fazzoletto annodato intorno al collo e una ferita al basso ventre”. Nonostante i soccorsi, Celeste Tagliaferri non sopravviverà.

12 Febbraio 1926. Elvira Coletti, sei anni, viene rapita e violentata sotto Ponte Michelangelo, ma riesce a sfuggire al tentativo di strangolamento.

Nel corso del 1926, sembra che il maniaco abbia adescato altre bambine, ma la censura di regime oramai ha superato il rodaggio iniziale e le notizie vengono taciute o minimizzate; almeno fino al 12 marzo 1927, quando il predatore di bimbe si accanisce nuovamente contro la sfortunatissima Armanda Leonardi. Il suo corpo sarà rinvenuto dalle parti dell’Aventino.

È l’ultimo delitto del mostro. Mussolini promette la sua cattura (…) Il fascismo non può accettare una sconfitta tanto impopolare. È necessario trovare un responsabile, a qualunque costo, non importa se colpevole o innocente”. (G.Ambrosini)

 

“Il capro espiatorio”

Il 13 Marzo del 1927, commisariato P.S. di Borgo Pio, l’oste Giovanni Massaccesi, insieme ad altri testimoni suoi dipendenti, riferisce che la sera del delitto di Armanda Leonardi era entrata nel suo locale una bambina del tutto somigliante alla vittima, accompagnata da un uomo sospetto, mancino, con grossi baffi neri. Particolare significativo: l’uomo aveva sul collo un foruncolo sanguinante, che copriva con un fazzoletto. In realtà, si trattava di un operaio, Domenico Marinutti, che era entrato nell’osteria di Massaccesi insieme alla figlioletta. Marinutti, uomo onesto, dopo aver appreso la notizia sui giornali, si era recato spontaneamente al commissariato per rendere la sua deposizione e, pur mostrando la cicatrice rilasciata dal famigerato foruncolo, non era stato creduto.

Poco tempo dopo, nello stesso commissariato si presenta anche l’ing. Pacciarini, denunciando un tentativo di molestie ai danni della sua domestica dodicenne, da parte di uno sconosciuto che gira con una Peugeot di colore verde. Il sospetto viene quindi posto sotto osservazione e pedinato. D’altro canto, il possesso di un veicolo (una vera rarità per quei tempi) spiegherebbe il ritrovamento dei corpi in posti tanto lontani dal rapimento.

A seguito di un presunto tentativo di abbordaggio della giovane domestica, l’uomo viene arrestato. Il suo nome è Gino Girolimoni: trentotto anni e infanzia difficile, scapolo, fotografo amatoriale, di professione “mediatore”. In pratica, Girolimoni “procurava clienti ad agenti di assicurazione e ad avvocati e, grazie alla sua indubbia intelligenza, aveva ottenuto un certo successo economico. Guadagnava dalle 3000 alle 4000 lire al mese. Aveva fama di donnaiolo. E su questa debolezza scivolò (…) Girolimoni venne arrestato il 2 Maggio 1927. Tacque, negò ostinatamente ogni addebito, aggravando in qualche modo la sua posizione”. Soprattutto perché si rifiuta ostinatamente di confessare, rintuzzando con successo le domande dei suoi inquisitori. Si scoprirà poi che Girolimoni aveva intrecciato una relazione adulterina con la signora Pacciarini, la moglie dell’ingegnere, e blandiva la servetta per far pervenire alla signora i suoi bigliettini amorosi. Il galante corteggiatore, durante gli interrogatori di polizia, aveva tenacemente tenuto nascosto il nome della donna per non comprometterla. La denuncia dell’ing. Pacciarini, tutt’altro che disinteressata, era in realtà la vendetta di un marito cornuto.

La stampa, con il permesso del regime, si scatenò inscenando un vero linciaggio mediatico contro “l’immondo carnefice”, dando grande enfasi al fatto che Girolimoni avesse la disponibilità di due case e l’incredibile guardaroba di 12 abiti, degni di un “trasformista” amante dei travestimenti, condendo il tutto con altre argomentazioni deliranti.

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Convocato dalla polizia per l’identificazione, l’oste Massaccesi confermò naturalmente il riconoscimento, anche se la descrizione rilasciata in precedenza non corrispondeva affatto col Girolimoni, che peraltro non aveva mai portato i famigerati baffi attribuiti all’assassino e tanto meno risultava essere mancino. Il pagamento della taglia di 50.000 lire contribuì a cancellare ogni dubbio nella memoria più che interessata del Massaccesi.

Vennero inoltre messe agli atti le testimonianze ‘pilotate’ di bambini e piccoli testimoni, enormemente suggestionabili, per certificare le presunte attenzioni del pedofilo Girolimoni (qualcosa del genere è successo in tempi recenti a Rignano Flaminio).

“A Girolimoni vennero dedicate le prime pagine, furono scritti articoli-fiume, insieme a decine di sue fotografie. Cosa che consentì a non pochi cittadini di riconoscerlo”, in una girandola crescente di accuse e calunnie più o meno interessate.

Scrive sempre il giudice Ambrosini:

L’occasione per invocare il ripristino della pena di morte fu ghiotta, benché il linciaggio apparisse più efficace presso l’opinione pubblica. È troppo pensare che il caso sia stato determinante, ma non passarono molti anni prima che il codice Rocco reintroducesse la pena capitale. Il comunicato ufficiale della polizia, pubblicato sui giornali l’11 Maggio, si esprimeva enfaticamente in questi termini:

   Le incessanti indagini per la scoperta dell’autore degli assassini di Leonardi Armanda e di altre bambine, condotte silenziosamente ma tenacemente, sotto la personale direzione del Questore di Roma, sono state coronate da pieno successo. Dopo una lunga serie di appostamenti e osservazioni, l’assassino, raggiunto da un cumulo di elementi di prova, che appaiono irrefragabili, è stato identificato e arrestato. Egli è il mediatore Gino Girolimoni, nato il 1° Ottobre 1889 a Roma, dove ha vari appartamenti (…) Vero tipo di degenerato, si è potuto accertare durante il periodo in cui è stato sottoposto a pedinamento, che ha una abilità davvero eccezionale nell’eclissarsi dopo i tentativi di adescamento, ricorrendo anche al travisamento, come risulta da numerose fotografie rinvenute in uno dei suoi appartamenti. Procedutosi al suo arresto, l’assassino, sottoposto a stringenti interrogatori, ha mostrato il più ripugnante cinismo, negando sempre e dimostrando quell’audacia e quella scaltrezza che aveva già dimostrato nei suoi orribili delitti. Ma contro di lui stanno le prove schiaccianti, e particolarmente gli atti di ricognizione eseguiti con numerose persone che lo avevano precedentemente veduto e che lo hanno riconosciuto senza possibilità di equivoci o di inganno.

 

La ‘brillante’ operazione che portò all’arresto di Girolimoni, gratificò il capo della polizia (Bocchini), il questore di Roma (Angelucci) e alti funzionari che vennero convocati a Palazzo Venezia per ricevere l’encomio di Mussolini. L’incubo durato per tre anni aveva finalmente avuto fine grazie alla sagacia della polizia. Il caso, per quanto riguardava il potere politico, era chiuso”.

 

“L’Assoluzione”

gino-girolimoni1  Le “irrefragabili” prove della colpevolezza di Girolimoni, supervisionate dal questore in persona “senza possibilità di equivoci o inganno”, ad un più attento esame si rivelarono talmente inconsistenti da crollare miseramente già in corso di istruttoria, senza che si arrivasse nemmeno ad un pubblico dibattimento. Gino Girolimoni viene scarcerato l’8 Marzo 1928 da una magistratura, evidentemente, non ancora asservita alla volontà del regime.

Il proscioglimento e la scarcerazione di Girolimoni passarono sotto silenzio (…) Non si poteva ammettere una sconfitta così clamorosa, con il rischio di riaprire nella capitale la psicosi del mostro. Si disse comunque che Girolimoni era stato ampiamente indennizzato e che era stato autorizzato a cambiare cognome”.

FALSO. Girolimoni non ricevette mai alcun indennizzo e le sue richieste di poter cambiare cognome vennero sistematicamente ignorate. “Continuò a vivere a Roma circondato dall’ombra del sospetto. Non poté riprendere la sua attività, cessò la vita brillante e, (rovinato economicamente) si mise a fare il ciabattino. Non riuscì a trovare casa perché nessuno era disposta ad affittargliela. Non si sposò”. Morì poverissimo il 19 Novembre del 1961 e venne tumulato nel cimitero del Verano, a spese del Comune.

Il vero martirizzatore di bambine non fu mai trovato.

 

“I malvagi dormono in pace”

Tra coloro che contribuirono a demolire il castello probatorio costruito contro Girolimoni, va sicuramente ricordato il commissario di P.S. Giuseppe Dosi che, nonostante l’aperta ostilità dei suoi superiori, riuscì probabilmente a identificare il vero colpevole. Dosi incominciò a condurre indagini in proprio e annotò come tutti i rapimenti fossero avvenuti in un area piuttosto ristretta della città, in un raggio di ½ Km intorno alla basilica di S.Pietro. “Rilevò che quando il rapitore era stato scorto da taluno, era stato indicato come una persona alta, distinta elegante, anziana, con baffi curati, e secondo alcuni con accento straniero”. Vestito con abiti grigi o scuri. Da clergyman. Il commissario Dosi annotò altre circostanze: vicino al corpo di Rosina Pelli era stato rinvenuto un fazzoletto con le iniziale R.L. in caratteri gotici; nel caso di Elsa Berni erano stati trovati i frammenti di una lettera scritta in inglese; mentre vicino al cadavere di Armanda Leonardi erano stati repertati i resti di una rivista religiosa, sempre in lingua inglese. Dosi scoprì che, a Roma, coloro che ricevevano tale pubblicazione in abbonamento erano solo tre persone. In particolare, l’attenzione del poliziotto si concentrò su un pastore protestante della Holy Trinity Church, di nome Ralph Lyonel Brydges, ultrasessantenne, ma dal fisico asciutto e con baffetti molto curati. Durante l’arresto di Girolimoni, il religioso si era recato a Capri e, durante il breve soggiorno, si era subito dedicato a quello che sembrava essere il suo passatempo preferito: l’adescamento di bambine. Sorpreso a molestare una bambina inglese di sette anni, Patricia Blakensee, il sacerdote venne fatto pedinare per ordine del podestà dell’isola e successivamente arrestato per atti di libidine violenta, sempre ai danni della stessa Blakensee. Grazie all’intercessione del console britannico, il sacerdote venne prosciolto e dichiarato infermo di mente. Tuttavia, per la determinazione pressoché isolata di Dosi, nell’Aprile 1928 R.L.Brydges venne formalmente incriminato per i delitti del “mostro di Roma” e nuovamente prosciolto, perché impotente. Il pedofilo sembrava infatti godere della protezione della Chiesa Anglicana e, soprattutto, del Vaticano (vizietto antico). Trasferitosi in Sud Africa, pare abbia ripreso la sua attività di ‘serial killer’. “Dal Sud Africa sarebbe poi passato in Canada dove sembra sia morto in un manicomio. Altri lo vorrebbero finito sulla forca in Inghilterra, ma l’evento non ha mai avuto conferme”. Il commissario Dosi venne dapprima trasferito, poi arrestato, e successivamente rinchiuso in manicomio per ‘megalomani’. Liberato dopo la caduta del fascismo, venne reintegrato nella polizia divenendo uno dei massimi dirigenti dell’Iterpol.

Le notizie di queste indagini furono tenute segrete e non approdarono mai alla stampa. Tuttavia, è possibile che di “mostri” in circolazione ce ne fossero addirittura due: in alcuni casi, l’assassino aveva dimostrato un’ottima conoscenza della città e del rione di Borgo Pio, dando prova di sangue freddo e spietata determinazione. Ma in altre circostanze, gli stupri si erano conclusi in maniera frettolosa, nelle immediate vicinanze del luogo del rapimento, e spesso il pluriomicida non aveva trovato il tempo o la forza per strangolare le sue giovani vittime. Ma alla polizia e, soprattutto, al governo il ‘Mostro di Roma’ non interessava più.

 

DOCUMENTAZIONE :

Giangiulio Ambrosini; Il mostro di Roma: Gino Girolimoni – Annale XII della Storia d’Italia. Einaudi, 1997

Per una panoramica completa e particolarmente curata sull’argomento, potete leggere l’ottimo: “GIROLIMONI (e) IL MOSTRO DI ROMA”