TERRAE OBSCURAE (I)

 Un vecchio giovane Paese

«Posso dire di non aver conosciuto un solo rivoluzionario totale, uno cioè che volesse sovvertire dalle fondamenta il nostro modo di vita e di rassegnazione millenarie, che desiderasse veramente, per scendere a immagini banali ma espressive, vivere in un Paese senza Papa e senza Re, senza chiese e senza istituzioni repressive, affidato solo alla fatica quotidiana della ragione e della dialettica democratica.
[…]
queste tanto esaltate, mitizzate anime collettive, queste pretese “comunioni dei santi” altro non esprimono che il desiderio conservatore di solidarietà dentro la repressione, di unità dentro l’autoritarismo, di scelte non importa se giuste o sbagliate, purché “sacre”, “dogmatiche”, decise dall’alto.
[…]
Il filo conduttore della storia nazionale mi pare questa perenne diffidenza verso la libera ragione, questo perenne ricorrere ai correttivi autoritari o conservatori. Alla fondazione della Repubblica, i dirigenti dei partiti, la classe politica, erano democratici per amore o per forza: per amore della libertà persa nel ventennio fascista e per forza dei vincitori “occidentali” e democratici, per la forza delle democrazie americana e inglese da cui dipendevano i nostri destini. Ma questo ceto politico “democratico”, per amore o per forza, doveva operare in una società fortemente autoritaria e non solo per la predicazione fascista, ma perché da noi democrazia vera, di massa, non era mai esistita, perché da noi la rivoluzione protestante, religiosa e sociale, delle responsabilità individuali non si era mai compiuta.
[…]
E mentre cresceva dal basso questa democrazia dei comportamenti, questa democrazia dei rapporti quotidiani, quasi a parare il pericolo, quasi a frenare l’ingovernabilità della ragione, mutava la mentalità della classe politica, si facevano più forti le sue precauzioni, l’appropriazione dello Stato, i controlli della stampa e della giustizia, il sistema “corporato”. La morale del Paese, le sue regole del gioco, sono sempre duplici; le nostre monarchie costituzionali sono sempre state octroyées, strappate dalle situazioni, concesse di malavoglia, gestite con animo da ancien régime; la rivoluzione fascista è stata nella realtà una convivenza, un condominio con il vecchio Stato. La repubblica democratica “fondata sul lavoro” è stata ricostruita dai padroni secondo le regole del liberismo padronale, il nostro, anche lui ambiguo, metà libero e metà assistito dallo Stato. E ora siamo alla repubblica parlamentare ma “corporata”, alla repubblica che dovrebbe essere governata dai delegati della maggioranza sotto il controllo dei delegati della opposizione, ma in realtà è coacervo di tutti i poteri.
[…]
La confutazione economica e tecnica di questo modo di governare è sin troppo facile: esso si è tradotto negli ultimi quindici anni in una dilapidazione gigantesca di risorse economiche e di possibilità di sviluppo;  ha condotto alla bancarotta della grande industria di Stato, alla agonia delle industrie siderurgica e chimica, alla stagnazione economica, e alla stessa decadenza della classe operaia.
[…] L’importante è che nessuno, in basso, possa dire di sapere o avere comunque capito qualcosa. E allora, secondo una tradizione confindustriale ora adottata da tutti, si alternano i periodi trionfali, le scoperte ottimistiche, al pianto greco sulla bancarotta generale. Sui giornali si passa continuamente dai periodi di sfascio, stangata, miseria, a quelli di rilancio, decollo, successo mondiale.»

 (Giorgio Bocca;Italia anno uno. Garzanti, 1984)

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