Nel giorno in cui il ducetto di Arcore rilancia la campagna di tesseramento per un milione di iscritti al PdL, e della condanna di compare Turiddu Cuffaro, vale la pena ricordare un’altra storia (sicuramente poco conosciuta) di partiti, di tessere, di ‘indegni’ e funzionarini zelanti, a riprova di come certe analogie, oltre ad essere ricorrenti, comincino a diventare persino imbarazzanti per somiglianza e coincidenze. Tutto torna, in ciclica processione, nell’eterno ritorno al sempre uguale e nell’immutabile riproduzione dell’esistente, con tutto il suo disarmante squallore…
Approfittiamo della circostanza per rendere un piccolo omaggio ad un grande giornalista dalla penna ironica e scrittore dalla prosa brillante, tragicamente scomparso, Sergio Turone: un uomo che molto avrebbe avuto da dire sulle miserie del tempo presente e di quello venturo, attraverso l’arguta conoscenza della storia passata…

Il troppo zelo di Giuriati, il moralizzatore mancato
“Era il momento della ‘moralizzazione’. Assestatosi al potere dopo il felice superamento della crisi matteottiana, Mussolini aveva messo a segno altri due colpi vincenti di cospicua rilevanza: l’intesa di Palazzo Vidoni, con cui aveva catturato alla propria causa una parte della dirigenza sindacale riformista e fondato il sindacalismo di regime; e soprattutto, nel febbraio 1929, la firma dei Patti lateranensi di conciliazione tra Stato e Chiesa cattolica.
(…) Dall’intesa di Palazzo Vidoni scaturì (1928) il corporativismo, ossia quel sistema di relazioni industriali con cui Mussolini pretese di superare la lotta di classe. Nel corporativismo, operai e industriali di un medesimo settore produttivo erano associati alla stessa corporazione di categoria. Di fatto, ciò toglieva alla parte più debole, i lavoratori, ogni possibilità di reale tutela dei propri interessi. Ciò permise una politica economica di fortissima compressione dei salari e, contemporaneamente, di sistematico protezionismo. Rispetto al mondo industriale, l’Italia divenne una provincia marginale e il livello dei consumi era minimo. Però il ceto imprenditoriale, enormemente favorito da quella strategia economica, finì con l’identificarsi col fascismo.
Anche più vantaggiosa fu, per Mussolini, l’operazione Concordato con cui si attribuì – legittimamente – il merito di aver composto un dissidio risalente al 1870, e creò le condizioni per un’adesione di massa dei cattolici al Partito fascista.
Rilanciato da successi così vistosi, Benito Mussolini, si rese conto che – se voleva procedere senza scosse nell’acquisizione del consenso borghese – doveva ripulire il partito almeno dalla feccia più lercia. Uno dei personaggi francamente ripugnanti passati dal manganello al potere era Mario Giampaoli, federale di Milano. Forse non fu casuale che Milano, città genitrice dei Fasci di combattimento, avesse covato i primi rappresentati del fascismo smaccatamente corrotto.
(…) Giampaoli aveva utilizzato la violenza squadristica per fare insieme carriera e quattrini. Conduceva una vita lussuosa tra donne facili e affaristi grintosi. L’incarico di liquidarlo fu dato da Mussolini ad Achille Starace, vicesegretario del partito. Starace – che era di limitata intelligenza ma non disonesto personalmente, e soprattutto aveva un intuito sublime nell’interpretare e realizzare la volontà di Mussolini – condusse un’inflessibile inchiesta su Giampaoli, ne smascherò le magagne e destituì il federale di Milano. Colpì anche i suoi fedeli espellendoli dal partito.
Soddisfatto dell’operazione, Mussolini elogiò Starace. Quanto però, poco dopo, dovette trovare un successore per Augusto Turati, non ritenne il caso di promuovere il vice, che considerava «un cretino obbediente». Per verità, che la scelta sia caduta su
Giuriati è abbastanza sorprendente, perché da testimonianze accreditate non risulta che Mussolini avesse del prescelto una stima superiore. Anzi, lo definiva – riferendosi al suo aspetto sussiegoso – «l’austero fesso». Evidentemente, bruciato dall’esperienza Farinacci – la cui indiscutibile intelligenza volpina si era rivelata pericolosa per il duce stesso – Mussolini riteneva adatti al ruolo di segretario di partito uomini di scarsa professionalità e soprattutto fedeli.
A Giuriati diede subito un incarico delicato: condurre su scala nazionale quell’operazione di pulizia del partito che Starace aveva condotto a Milano: «vi farò un monumento – disse al neosegretario – se riuscirete a eliminare 10.000 indegni».
Nella circostanza, l’inventore del motto «Credere, obbedire, combattere» si rivelò più fesso che austero. Perché si buttò sull’operazione con uno zelo furibondo. Inviò circolari severissime ai segretari di federazione, «i quali, allibiti, si chiedevano come fosse possibile espellere su due piedi dal partito personaggi che in alcune zone erano l’immagine stessa del regime con tutte le loro potenti consorterie, come nel caso del clan di Costanzo Ciano» [A.Spinosa, “Starace”, Rizzoli]. Vista la scarsa collaborazione dei federali, Giuriati si mise al lavoro di persona, esaminando caso per caso le situazioni dei fascisti chiacchierati, col dichiarato proposito di ritirare la tessera «agli iscritti che hanno carpito il distintivo fascista o per nascondere le mende passate, o per munire di una comoda etichetta i loro affari».
Compiuta l’opera, il segretario del PNF si fece ricevere da Mussolini per informarlo. Dalle sue memorie possiamo desumere l’orgoglioso compiacimento che doveva essere in lui quando parlò: «Duce! Ecco la statistica dei casi da me esaminati, ed ecco l’elenco, nome per nome, delle tessere che ho ritirato: gli esclusi dal tesseramento ammontano a 120.000».
Il livello di involontario umorismo ispirato da questa vicenda reale – e riferita proprio dall’interessato – raramente fu toccato dalle barzellette che circolavano clandestinamente durante il fascismo.
Centoventimila tessere ritirate per indegnità. Mussolini si afferrò la testa tra le mani, restò in silenzio qualche istante, poi esplose in una serqua di invettive contro Giuriati. Lo stesso Mussolini, d’altronde, aveva dato al segretario del partito, quando gli aveva conferito l’incarico della ‘moralizzazione’, un dato numerico preciso: diecimila indegni. L’eccesso di zelo aveva indotto Giuriati a strafare: l’austero fesso non aveva capito che a Mussolini interessava non la moralizzazione del partito, ma un restauro di facciata buono a soddisfare una borghesia ormai vogliosa di lasciarsi infinocchiare, per imbarcarsi sul carro del regime.
La segreteria di Giuriati durò pochissimo. L’ora di Achille Starace stava arrivando. L’interessato – a dimostrazione dell’assioma che il cretino può essere furbo – seppe accellerarla, accreditando la voce (sicuramente falsa) secondo cui Giuriati era omosessuale. Nella concorrenza cannibalesca tra gerarchi, era questa un’arma largamente usata. È noto che sotto il fascismo non c’era infamia peggiore dell’omosessualità. Voci in proposito circolarono anche su Starace che però seppe neutralizzarle.
(…) Assunta la carica, Starace (secondo voci probabilmente false, ma che il nuovo segretario lasciò circolare) diede ordine che fosse bruciata la poltrona del suo predecessore: a ostentare schifo per le asserite preferenze sessuali del povero Giuriati.”
Sergio Turone
“Corrotti e Corruttori”
Ed. Laterza, 1984.
Naturalmente, tra i ranghi del pretorio delle libertà non si ha la minima idea di cosa sia la famigerata moralizzazione; tanto meno si avverte la necessità di prestare tempo e risorse all’incresciosa finzione, alimentando inutili ipocrisie legalitarie. Semmai è palese il contrario. Da questo punto di vista, la rivoluzione berlusconiana è unica nel suo genere: la mutazione antropologica che fa della violazione la regola, del favoreggiamento a delinquere un vanto, dell’impunità dei potenti una missione. Reiterata, come il gusto per il reato.
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This entry was posted on 23 gennaio 2010 at 21:40 and is filed under A volte ritornano, Kulturkampf with tags "Corrotti e Corruttori", Achille Starace, Aldo Giuriati, Benito Mussoli, Fascismo al potere, Gerarchi fascisti, Liberthalia, Moralizzazione, Palazzo Vidoni, PdL, Sergio Turone, Tesseramento. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed.
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5 marzo 2010 a 16:23
Non poteva che essere così. Il potere dei gerarchie e di tutti gli amministratori fascisti era pressochè insindacabile. I controlli potevano essere effettuati solo dall’interno del partito stesso , con i risultati che ormai oggi possiamo definire esilaranti.