ORIENTE E OCCIDENTE
Nella (s)fortunata vulgata dello “scontro di civiltà”, che descrive l’Oriente e l’Occidente come due blocchi monolitici irriducibilmente contrapposti nella loro inconciliabile diversità, si rispolverano conflitti e contrapposizioni antiche, esasperate dall’urticante brutalità della guerra siriana e delle sue nefaste ramificazioni mesopotamiche, all’insegna del più bieco fanatismo. E, nelle esasperazioni estreme del tempo presente, si finisce col dimenticare come attraverso il costante attrito di forze contrapposte, lo scontro violento presupponesse anche l’incontro tra due mondi profondamente diversi, che non si capivano, diffidavano l’uno dell’altro, ma nonostante tutto interagivano pur nella reciproca alterità, fra tregue d’armi, scambi commerciali, e persino commistioni culturali che lo stato di guerra permanente pure non escludeva mai del tutto.
In tale prospettiva, è dunque interessante (ri)scoprire Usama ibn Munqidh: personaggio intrigante e spregiudicato quanto basta, vissuto nel periodo che va dalla presa di Gerusalemme alla riconquista della città ad opera di Ṣalāḥ al-Dīn.
Poco conosciuto al di fuori degli ambienti specializzati di orientalistica, Usama ibn Munqidh fu diplomatico, dotto islamico, cortigiano, avventuriero e spia nella turbolenta Siria del XII° secolo. “Osama”, il cui nome per esteso era Majd al-Dīn Usāma ibn Murshid ibn Alī ibn Munqidh al-Kināni, è stato anche uno scrittore arguto, capace di mescolare il serio ed il faceto nelle memorie di una vita lunghissima, anche secondo i nostri criteri attuali (10/07/1095–24/11/1188), per una storia in chiaroscuro dove nulla è mai ciò che sembra.
La sua intensa attività diplomatica lo portò ad interagire con gli europei trapiantati in Terrasanta, che egli chiamava indistintamente “Franchi”, reputandoli poco più che rozzi barbari, ma dai quali era incuriosito come dinanzi ad un fenomeno esotico, non mancando mai di fornire un ritratto colorito e beffardo degli stessi…
«Il signore di Munàitira scrisse a mio zio chiedendogli di mandare un medico per curare certi suoi compagni malati e quegli mandò un medico cristiano a nome Thabit. Il medico, dopo nemmeno dieci giorni, fu di ritorno. Noi gli dicemmo “Hai fatto presto a curare questi malati!”. Lui spiegò “Mi presentarono un uomo con un ascesso alla gamba e una donna con una consunzione. Feci un impiastro al cavaliere e l’ascesso si aprì e migliorò. Prescrissi una dieta alla donna, migliorandone il temperamento. Quand’ecco arrivare un medico franco. Affermò che non fossi in grado di curarli, e domandò al cavaliere ‘Vuoi morire con due gambe o vivere con una?’,
Avendo quello risposto che preferiva vivere con una sola gamba, ordinò: ‘Conducetemi un cavaliere gagliardo e un’ascia tagliente!’. Vennero cavaliere ed ascia, ed io ero lì presente. Colui adagiò la gamba su un ceppo di legno e disse al cavaliere ‘Dagli giù un gran colpo di ascia che la tronchi netto!’. E quello sotto i miei occhi la colpì d’un primo colpo e, non essendosi troncata, d’un secondo colpo. Il midollo della gamba schizzò via, e il paziente morì all’istante. Esaminata poi la donna, affermarono che avesse un demonio nella testa, innamoratosi di lei.
Ordinarono che le si tagliassero i capelli per renderla meno attraente. E quella tornò a mangiare i loro cibi, e la malattia le aumentò. ‘Il diavolo le è entrato nella testa!’, sentenziò colui. Preso il rasoio le aprì la testa a croce, asportandone il cervello fino a farle apparire l’osso del capo che colui strofinò col sale, e la donna, all’istante, morì. A questo punto domandai se avessero ancora bisogno di me. Risposero di no e io me ne andai via, dopo aver imparato della loro medicina quel che prima ignoravo.”»
Francesco Gabrieli
“Storici arabi delle crociate”
Einaudi, 2002
Usama reputa i “Franchi” poco più che rozzi barbari stranieri, ma al contempo ne era incuriosito. E a tratti non riesce a nascondere persino una certa ammirazione, tra episodi singolari, aneddoti edificanti, e storie probabilmente inventate di sana pianta, contenuti nella sua opera più conosciuta: il Kitāb al-I῾tibār, il “il Libro della Riflessione” o anche “Libro degli ammaestramenti con gli esempi”, da cui si possono trarre gustosi bozzetti di vita quotidiana.
«Ci sono fra i Franchi alcuni che, stabilitisi nel paese, hanno preso a vivere familiarmente coi musulmani e costoro sono migliori di quelli che sono ancor freschi dei loro luoghi d’origine; ma quei primi sono un’eccezione, che non può far regola. A questo proposito, mandai una volta un amico per una faccenda ad Antiochia, il cui capo era Todros ibn as-Safi [ovvero Teodoro Sofiano, un greco cristiano], mio amico, che aveva laggiù autorità. Questi disse un giorno all’amico mio: “Mi ha invitato un mio amico franco; tu vieni con me, per vedere il loro costume”. Andai con lui, raccontava l’amico, e venimmo alla casa di un cavaliere di quelli antichi, venuti con la prima spedizione dei Franchi. Costui, ritiratosi dall’ufficio e dal servizio, aveva in Antiochia una proprietà dei cui reddito viveva. Fece venire una bella tavola, con cibi quanto mai puliti e appetitosi. Visto che mi astenevo dal mangiare disse: “Mangia pure di buon animo, ché io non mangio del cibo dei Franchi, ma ho delle cuoche egiziane, e mangio solo di quel che cucinano loro: carne di maiale in casa mia non ne entra!”.
Mangiai, pur stando in guardia, e ce ne andammo. Passavo più tardi dal mercato, quando una donna franca mi si attaccò proferendo nella loro barbara lingua parole per me incomprensibili. Si raccolse attorno a noi una folla di Franchi, e io mi ritenni spacciato: quand’ecco venire innanzi quel cavaliere, che vistomi si avvicinò e disse a quella donna “Che ci hai con questo musulmano?”.
“Questo – rispose colei – ha ucciso mio fratello Urso”, il quale Urso era un cavaliere di Apamea, che era stato ucciso da un soldato di Hamàt.
Ed egli le gridò: “Questo è un borghese, cioè un mercante, che non fa la guerra, né sta là dove la fanno”.
Gridò poi alla gente adunatasi, e quelli si dispersero, e mi prese per mano: così quell’aver mangiato alla sua tavola ebbe per effetto di salvarmi la vita.»Usâma Ibn Munqiah
“Libro dell’ammaestramento con gli esempi”
Quello che emerge, tra storielle più o meno credibili, è comunque un quadro di relazioni continue e rapporti quasi affabili con il ‘nemico’, nonostante le feroci dinamiche della guerra di religione in corso. Usama frequenta regolarmente i “Franchi” stanziati nella regione ed intrattiene ottime relazioni coi Templari, che chiama persino “amici” nelle sue memorie…
«Quando visitai Gerusalemme, entrai nella moschea Al-Aqsa, che era occupata dai Templari, miei amici. A fianco c’era una piccola moschea che i Franchi avevano trasformato in chiesa. I Templari mi assegnarono questa piccola moschea per recitarvi le mie preghiere. Un giorno vi entrai e glorificai Dio. Ero immerso nella mia preghiera, allorché un Franco balzò su di me, mi afferrò e girò il mio viso verso l’oriente dicendo: “Ecco come si prega!” Una folla di Templari si precipitò su di lui, lo afferrò e lo buttò fuori. Poi si scusarono con me dicendo: “È uno straniero che è arrivato questi ultimi giorni dai paesi dei Franchi e non ha mai visto pregare alcuno che non sia girato verso l’oriente”.»
Usâma Ibn Munqiah
“Libro dell’ammaestramento con gli esempi“
Strettamente imparentato con la tribù araba dei Banu Mundiqh, emiri di Shayzar, l’intraprendente Osama apparteneva alla dinastia dei Munqidhidi che dalla loro roccaforte di Shayzar controllavano parte della Siria nord-occidentale. I Banu Mundiqh, dal canto loro, avevano acquistato senza colpo ferire la cittadella fortificata, messa in vendita dal vescovo che l’amministrava per conto dell’imperatore
bizantino Basilio II Bulgaroktonos (lo sterminatore di bulgari), così chiamato perché dopo aver sconfitto una imponente armata bulgara nelle gole di Kleidion, sui monti della Belasica, aveva rispedito indietro i prigionieri (circa 14.000 uomini) nella loro capitale di Prilep, non prima di averli fatti accecare tramite abbacinamento.
Al contempo, è significativo ricordare come lo zio di Usama, l’emiro Izz ad-Din al-Dawla, durante la prima crociata avesse rifornito di provviste e cavalli gli invasori europei in marcia verso Gerusalemme.
Costretti come sono a barcamenarsi nella stretta dei principati cristiani di Antiochia ed Edessa, della Contea di Tripoli e dell’Impero bizantino, mantenendo la propria autonomia rispetto all’ingombrante ingerenza dei turchi selgiuchidi ed alle incursioni dei Nizariti del Veglio della Montagna (la Setta degli Assassini), dagli emiri della piccola Shayzar il giovane Osama impara l’arte dell’intrigo e della diplomazia che non lo salveranno comunque dall’esilio. Quindi inizia a districarsi tra le varie signorie islamiche che si disputano il Levante: dagli atabeg turchi di Mosul, Aleppo e Damasco, fino ai Fatimidi del Cairo, mettendosi da
prigioniero al servizio di Zengi e di suo figlio Nur al-Din (meglio conosciuto nelle cronache occidentali come Nuraddino, ovvero Norandino), quindi col grande Saladino, prendendo parte a più cospirazioni dalle quali esce sempre indenne. Dalla somma delle sue esperienze, Usama ricava il materiale per le sue opere, in linea coi richiami moralistici ed edificanti della letteratura “adab”.
Le frequentazioni coi cavalieri cristiani ed i rapporti coi principati latini non incideranno mai troppo sui pregiudizi di Usama, che sostanzialmente considera i “Franchi” gente umorale, abituata ad agire d’istinto ed imprevedibile, privi di una vera moralità ed incapaci di gelosia, eppure eccezionalmente valorosi in battaglia.
«Presso i Franchi, non c’è ombra di senso dell’onore e gelosia. Se uno di loro va per la strada con la propria moglie e un altro lo incontra, questi prende per mano la donna e la tira in disparte, mentre il marito si allontana, aspettando che lei abbia finito di conversare. E se la fa troppo lunga, la lascia col suo interlocutore e se ne va!
Una mia diretta esperienza è questa: quando venni a Nablus, stavo in casa di un certo Mu’izz, la cui casa serviva d’albergo ai musulmani, con finestre che si aprivano sulla strada. Dall’altra parte della via c’era la casa di un ‘franco’ che vendeva del vino per conto dei mercanti: egli prendeva una bottiglia di vino e gli faceva pubblicità, annunciando “il tal mercante ha aperto una botte di questo vino; che ne volesse acquistare, si trova nel sito tal dei tali e io gli darò la primizia del vino che è in questa bottiglia”.
Ora costui, venuto un giorno a casa sua, trovò un uomo con sua moglie a letto.
Gli domandò: “Cos’è che ti ha fatto venir qui da mia moglie?”
“Ero stanco” rispose lui “e sono entrato qui a riposarmi”.
“E come mai sei entrato nel mio letto?”
“Ho trovato un letto fatto e mi sono messo a dormire”
“E questa donna dorme con te?”
“Il letto” rispose “è suo; potevo io impedirle di entrare nel suo letto?”
Al che il mercante concluse: “Se lo rifai un’altra volta litigheremo!”
E questa fu tutta la sua reazione e il massimo sfogo della sua gelosia.
Un altro caso consimile è questo, narratoci da un bagnino di Ma’arra di nome Salim, che stava in un bagno di mio padre: […] “Entrò nel bagno un cavaliere dei Franchi, ai quali non piace cingersi un panno alla vita: costui quindi allungò la mano e strappò via il panno dai fianchi e gettò via il perizoma. Così mi vide che da poco mi ero raso la zona del pube. “Salim!” esclamò; mi avvicinai a lui ed egli disse, stesa la mano sul mio pube: “Magnifico! Fai anche a me questo servizio!” e si distese supino sul dorso. Aveva in quel posto un vello lungo come la sua barba. Lo rasi, ed egli passatasi la mano, lo trovò bello liscio, e riprese: “Salim fai lo stesso alla Dama”, e ‘dama’ nella loro lingua vuol dire signora, cioè sua moglie. Ordinò quindi a un suo valletto: “Và a dire alla dama che venga”. Il valletto andò e tornò con lei, e la introdusse. Essa si distesa sul dorso ed egli disse: “Falle come hai fatto a me”. Io le rasai il vello e suo marito stava lì a guardarmi. E poi mi ringraziò e regalò secondo il mio servizio.
Guardate un po’ che contraddizione! Non hanno gelosia né senso dell’onore e al tempo stesso hanno tanto coraggio, che nasce di solito se non dal senso dell’onore e dal disdegno per ogni cosa malfatta.»
L’aneddoto surreale dimostra due cose: che Usama ibn Mundiqh era un gran cazzaro, il quale amava raccontare storielle a contenuto boccaccesco; e che gli europei, i “Franchi”, quando ne avevano la disponibilità, non disdegnavano affatto i piaceri del bagno e della toeletta.
Il Kitāb al-I῾tibār venne riscoperto in Europa solo nel 1880, grazie ad Hartwig Derenbourg che ne rinvenne il manoscritto nella biblioteca reale dell’Escorial di Madrid. Quindi venne successivamente tradotto e pubblicato in francese (1895) e poi in inglese (1930) ad opera dell’arabista Philip Hitti, che nella sua biografia di Usama non mancò di notare come il diplomatico siriano fosse intriso di sufismo di derivazione sciita e permeabile all’eresia ismaelita. Tra
le cronache di guerra, le campagne militari, le note autobiografiche e la grande passione per la caccia col falcone (che occupa una parte considerevole del libro), il Kitab è una delle poche opere musulmane a contenere un qualche interesse per lo stile di vita, i costumi ed il modo di pensare del nemico “crociato”, pur seppellendone l’interpretazione sotto uno spesso strato di pregiudizi e stereotipi. Perché l’Altro, nella sua diversità, è sempre più incivile, primitivo, illogico e amorale di quanto non sia l’ultimo dei miei.
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This entry was posted on 16 marzo 2015 at 17:36 and is filed under Kulturkampf with tags Arabi, Ṣalāḥ al-Dīn, Banu Mundiqh, Basilio II, Cristiani, Crociate, Cultura, Francesco Gabrieli, Franchi, Hartwig Derenbourg, Impero Bizantino, Islam, Kitāb al-I῾tibār, Letteratura, Liberthalia, Libri, Medio Oriente, Mondo, Munqidhidi, Norandino, Occidente, Oriente, Saladino, Shayzar, Siria, Società, Usama ibn Munqidh. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.
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