
Nel 1961, con la pubblicazione del suo “Assalto al potere mondiale“, lo storico Fritz Fischer sollevava un putiferio negli ambienti accademici tedeschi, mettendo in discussione uno dei totem nazionali, che vuole la Germania come una vittima delle circostanze, nella declinazione di ogni responsabilità per costante auto-assoluzione, sottolineando invece l’esistenza di un filo conduttore che accomunerebbe la politica estera ed economica del Reich guglielmino con lo stato nazionalsocialista, il quale nella sua eccezionalità pure agì in sostanziale continuità ereditandone molte delle linee guida.
Secondo l’analisi di Fischer, al principio del XX secolo il Reich perseguiva con lucidità il consolidamento di una posizione egemonica a livello continentale, tramite la creazione di una grande sfera di influenza su scala globalizzata, col suo “power-core” in una Mittleuropa sotto la diretta direzione tedesca, ed al contempo con la costituzione di una serie di stati-vassalli a sovranità limitata, posti sotto il controllo germanico. E ciò sarebbe dovuto avvenire, attraverso la costituzione di una specifica area economica di scambio, a garanzia delle industrie tedesche ed a vantaggio esclusivo della propria bilancia commerciale.
La supremazia teutonica, garantita dalla preponderanza dell’elemento militare, sarebbe stata ulteriormente puntellata da una serie di annessioni ai propri confini, con la creazione di una cintura di stati-cuscinetto nell’Europa Orientale e l’annessione di ampie porzioni di territorio francese e belga ad Occidente.
Il progetto di natura geopolitica a trazione economica avrebbe contato sul convinto appoggio della cancelleria imperiale e dei principali gruppi finanziari ed industriali del paese, potendo altresì contare sulla sponda di gran parte del mondo intellettuale tedesco. Lo scoppio della prima guerra mondiale sarebbe stato dunque solo la diretta conseguenza di una simile impostazione, costituendo a suo modo una “opportunità” per la realizzazione di un tale progetto.
Nel 1914, dopo l’offensiva della Marna, gli obiettivi di guerra tedeschi vengono condensati e ricapitolati in un controverso documento conosciuto come il “Programma di Settembre” (Septemberprogramm). Il capitolato, che costituiva una sorta di “lista della spesa” con le pretese e la raccolta di proposte informali, da parte dei vari gruppi di potere che si muovevano all’ombra dell’apparato politico-industriale e militare tedesco, raggiunge la sua stesura definitiva il 9 Settembre del 1914 (da lì il nome), ad opera del cancelliere Theobald von Bethmann-Hollweg. A compilare la stesura del programma provvede però Kurt Riezler, segretario generale del cancelliere.
A livello strettamente economico, una peculiarità piuttosto curiosa del piano consisteva nella creazione di una grande unione doganale, con la creazione di un’area di ‘libero’ scambio. Si tratta della “Mitteleuropäischer Wirtschaftsverband” (associazione economica mitteleuropea), che avrebbe dovuto comprendere la Francia, il Benelux (Belgio, Olanda e Lussumburgo), , l’Austria, l’Ungheria, l’Italia, i paesi
scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia) ed i futuri stati cuscinetto dell’Europa Orientale: dai paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia), passando per la Polonia e l’Ucraina, in funzione anti-russa.
In particolare, Kurt Riezler ipotizzava la creazione di una confederazione di stati, concepita come una società per azioni nelle quali l’azionista di maggioranza sarebbe stata la Germania, in grado di condizionare e determinare col suo peso egemonico le scelte e le condizioni di tutti gli altri.
Lo scopo di questa sorta di unione economica europea allo stato embrionale era quello di stabilizzare il dominio economico tedesco sull’Europa centrale. I partecipanti all’unione mittleuropea, “nominalmente uguali” sarebbero stati in realtà subordinati agli interessi tedeschi.
Nel caso della Francia era prevista poi l’annessione dei distretti minerari di Brey e della Lotaringia, la totale chiusura degli scambi commerciali con la Gran Bretagna e la trasformazione del territorio francese in un immenso mercato per le merci e gli investimenti tedeschi. Il Belgio sarebbe stato ridotto ad un protettorato tedesco, da tenere sotto occupazione militare.
È interessante notare come alcuni dei propositi contenuti all’interno del sedicente “programma” costituiscano una variabile costante della politica germanica: dalla creazione di una unione doganale per lo smercio delle proprie manifatture, alla creazione di un’area egemonica a trazione tedesca su base mitteleuropea, che abbia il suo punto di forza nell’area Baltica, puntando sul sostegno di Lituania ed Estonia per sottrarre l’Ucraina dalla sfera di influenza russa. In pratica è esattamente quanto sta accadendo oggi, col conflitto ucraino che oppone Berlino (e Washington) a Mosca per interposti contendenti.
Pertanto, Fritz Fischer individuava nelle aspirazioni egemoniche dell’espansionismo teutonico le cause che condussero l’Europa alla catastrofe della “Grande Guerra”, suscitando la stizzita reazione dei conservatori. Soprattutto, riaccendeva l’attenzione sull’anomalia tedesca, che nella sua specificità corre lungo le vie tortuose del “Sonderweg”, che in passato sono confluite in quel cocktail venefico ad alta gradazione tossica di intransigenza luterana ed ipocrisia moralista, autoritarismo prussiano ed elitismo reazionario, nazionalismo estremo e darwinismo sociale, che sono alle origini dello stato tedesco ed alla base di uno sviluppo patologico, di cui il nazismo non sarebbe che una “variante”; a tal punto da costituire un risultato storico inevitabile riflesso nei difetti unici del “carattere nazionale tedesco”, secondo l’analisi alquanto impietosa di certa storiografia britannica.
C’è da dire che il progetto economico di una “Mitteleuropäischer Wirtschaftsverband” non viene abbandonato con la fine della guerra, ma viene fatto proprio dai nazisti che riprendono l’idea conferendogli una dimensione prevalentemente economica, attraverso la costituzione di una “comunità europea” (Europäische Wirtschaftsgemeinschaft) d’impronta tedesca, attraverso l’istituzione di una moneta unica e la creazione di un grande spazio economico (Großwirtschaftsraums), da costruire sotto la guida della GEWG (Società per la programmazione economica europea).
Nel Luglio del 1940, Walther Funk, ministro dell’Economia e presidente della Reichsbank, presenta il suo progetto per la “riorganizzazione economica dell’Europa”, meglio conosciuto come Piano Funk, finché nel Settembre del 1942 le fatiche di Funk confluiranno in un articolato documento dal titolo assai evocativo: “Comunità economica europea” (Europäische Wirtschaftsgemeinschaft). Alla stesura oltre allo stesso Walther Funk, partecipano: Gustav Koenigs, segretario di Stato; Philipp Beisiegel, ministro del Lavoro; Heinrich Hunke, presidente della Camera di commercio e industria di Berlino… Ma ci sono anche esponenti del mondo economico tedesco come Anton Reithinger, direttore del dipartimento economico della IG Farben, e Bernhard Benning, direttore del Reichs-Kredit-Gesellschaft.
In quanto circoscritti ad un periodo oscuro della storia recente, alla luce delle vicende del tempo presente, ci sarebbe da chiedersi quanto il “percorso solitario” dei popoli tedeschi verso la cosiddetta integrazione europea, sempre in bilico tra Est ed Ovest, pulsioni isolazioniste e sindrome da accerchiamento, sia davvero compiuto. E quanto il ritrovato orgoglio nazionale che sembra degenerato in una nuova arroganza totalitaria, che ha nell’ordoliberismo tedesco il suo punto di forza, sia del tutto scevro da pretese di superiorità culturale ed etnica, mentre pretende di dare lezioni di etica ad un intero continente.
La differenza che intercorre tra una Germania europea ad un’Europa tedesca risiede nell’allucinante abnormità dello sciagurato caso ellenico, con l’imposizione di una serie di diktat che lungi dall’assomigliare ad una “trattativa” si configurano piuttosto come un ultimatum, fissato in 72 ore, finalizzato più che altro all’annientamento della Grecia a scopo intimidatorio, concepito come una sorta di atto di guerra attraverso la “conventrizzazione” di un intero paese per la sua capitolazione incondizionata.

L’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia, che determinò lo scoppio della prima guerra mondiale, si reggeva su condizioni lungamente più sostenibili e meno umilianti di quelle che la Germania ‘democratica’ sta imponendo alla Grecia nell’ignavia del resto d’Europa, a vergogna perenne di una “Unione” utilizzata come arma di distruzione di massa e che ha interamente smarrito le ragioni del suo essere.
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13 luglio 2015 a 08:00
sono semplicemente dei terroristi, “colpirne uno per educare tutti gli altri”, e stanno organizzando un vero e proprio colpo di stato, come hanno già fatto in Ucraina, ce ne ricorderemo nei prossimi 10 anni, di loro e dei loro servi
13 luglio 2015 a 12:56
Caro Sendivogius, credo che siamo a un punto di non ritorno. O c’è una presa di coscienza radicale da parte dei popoli europei, e una conseguente reazione, o andiamo verso un super stato autoritario a guida finanziaria e conduzione tedesca.
La proverbiale hybris teutonica, tanto ottusa quanto sempre più sfacciata, spero riesca a provocare la prima alternativa; l’inerzia morale in cui sembriamo essere tutti precipitati mi fa temere la seconda…
13 luglio 2015 a 15:53
Credo che ormai il Moloch eurocratico abbia tolto definitivamente la maschera, svelando la sua vera natura.
Non c’è da farsi alcuna illusione e, giunti a tal punto, sarebbe pura ingenuità credere che questa UE possa essere diversa da come appare.
Penso che la vera perdita di fiducia non sia tra i “creditori” e la Grecia, ma tra cittadini europei ed “istituzioni comunitarie”, sancendo una frattura irreparabile che non credo potrà essere ricolmata. Di fatto, con la strafexpedition greca, la sedicente “Unione” cessa di esistere. Adesso non resta che formalizzarne la fine, nei tre lunghi anni che precederanno la c.d. grexit e l’effetto domino che inevitabilmente investirà l’intera baracca.
La Germania è riuscita per la terza volta in cento anni a distruggere l’Europa. Non era un’impresa facile.
18 luglio 2015 a 16:20
🙂 Non credo alla storia del Quarto Reich!
Credo invece che l’origine di tutto sia la miope politica populista, clientelare ecc… dei paesi cicala.
In Italia basterebbe recuperare dal monte di illegalità (stimato essere 180 miliardi annui) anche solo 1/3 all’anno (pari a 4 punti di PIL) e in circa 30 anni azzereremmo il debito, altro che stagnazione attuale!!!
Non è stata mai la Germania a bocciare il Trattato costituzionale che avrebbe dato all’UE una dimensione politica.
Come disse lo Marchese…
– Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un… kaiser! –
18 luglio 2015 a 17:35
Uno dei motivi fondamentali per cui le cifre dell’evasione fiscale non possono essere iscritte a bilancio è perché, per l’appunto, si tratta di una stima presunta, non certificata bensì calcolata a campione sulle ipotetiche discrepanze virtuali nel reddito dichiarato. Ed è per questo che è difficilmente misurabile.
In pratica, detta in maniera molto semplicistica, si traccia una specie di differenziale tra imponibile dichiarato e moneta circolante, rapportata alla quantità dei consumi. Va da sé che la forbice di misurazione ha oscillazioni altissime, che cambiano ogni anno, non avendo a disposizione una base certa ma solo riferimenti su probabilità matematica.
Quindi, è molto “demogogico” dire e soprattutto far credere che basta recuperare i soldi dell’evasione fiscale per azzerare il debito pubblico e recuperare “180 miliardi annui”, ma anche 210 miliardi, o 250-280-300 miliardi… Proprio perché non conosciamo l’esatto ammontare dell’evasione fiscale, bensì lo ipotizziamo. Se infatti conoscessimo l’importo esatto, semplicemente, l’evasione non esisterebbe.
Il “Trattato costituzionale europeo” prevede innanzitutto una cospicua cessione di sovranità alle “istituzioni” della UE, soprattutto in materia fiscale ed economica, delegando alla Commissione europea importanti aspetti della politica nazionale e programmatica di uno Stato. In pratica, a decidere su cosa, come, perché spendere le tasse che i cittadini (italiani, francesi, inglesi, belgi..) pagano ai loro singoli Stati non saranno i ministri di governi e parlamenti regolarmente eletti, ma i vari Dijsselbloem, Katainen (Finlandia), Dombrovskis (Lettonia)…
La programmazione finanziaria e di bilancio sarebbe invece di pertinenza della signora Kristalina Georgieva (Bulgaria).
In compenso l’Italia può vantare un commissario del calibro della Mogherini che conta come il due di coppe con briscola a bastoni.
Per il resto, puoi (ri)trovare QUI una piccola panoramica su coloro dai quali dovremmo farci ‘governare’ in alternativa…
Così funziona e questa è la Commissione a cui si dovrebbe delegare in bianco la “dimensione politica”.
E visto che l’ultima parola spetta sempre alla Germania, che in quanto stato più popoloso dell’Unione è quello che elegge più deputati all’europarlamento (condizionandone l’orientamento politico) ed ha dunque un peso decisionale maggiore in commissione, alla luce delle recenti “trattative” gestite come un ultimatum di guerra, ci sarebbe da chiedere chi mai abbia voglia di cedere sovranità all’Europa di Schaeuble, magari per ritrovarsi un domani pignorato il Colosseo o la Torre Eiffel messa sotto ipoteca?!?
In quanto ai “paesi cicala”, nell’occhio della Commissione c’è anche e soprattutto la Francia che non credo si possa definire “miope”, né “clientelare”, né “populista” (fenomeno quest’ultimo assai più radicato in Germania di quanto non si creda). I francesi però, agli occhi delle tecnoburocrazie brussellesi hanno un grossissimo problema: possiedono uno stato sociale forte e ben radicato, credono nella funzione sociale dell’economia, e aborrono le privatizzazioni se non indispensabili, convinti come sono che i servizi fondamentali per la comunità debbano essere a controllo pubblico.
Ciò detto, a proposito di “cicale” (invenzione tedesca di gran moda, nata su riviste come Bild e Der Spiegel, prima di diventare luogo comune italico), non so te, ma io non mi ci vedo nei panni del beota parassita, tutto pizza, ‘maccaroni’, e mandolino, che passa le giornate a crogiolarsi al sole perché non ha voglia di lavorare. E, per quanto mi guardi attorno, di tipi così non ne ho mai incontrati. Quindi un po’ più di amor patrio e meno luoghi comuni, a meno che non si voglia dire che i tedeschi sono tutti nazisti.
18 luglio 2015 a 21:20
— delegando alla Commissione europea importanti aspetti della politica nazionale e programmatica di uno Stato. —
perchè ora senza costituzione europea com’è?
Guarda caso solo la piccola Irlanda nel 2008 bocciò… di poco… il trattato, seconda occasione persa di quella tanto agognata integrazione politica.
Quello è il vero ed unico tesoretto da cercare e trovare…
A mio avviso la vera morale de La Cigale et la Fourmi e solo una…
> Impegnarsi per raggiungere un obiettivo!
18 luglio 2015 a 23:36
La sedicente “unione europea”, che tale non è, si fonda su precetti esclusivamente economici. La cosidetta “integrazione politica” è funzionale all’efficientamento degli scambi commerciali nell’ambito di un mercato comune a trazione industriale-manifatturiera e non viceversa. In quanto tale, la UE risponde ad una struttura di tipo neo-mercantilista; la sua ideologia economica (che a sua volta determina quella politica) si fonda sul monetarismo della Scuola di Chicago, ovverosia Milton Friedman, che da sempre costituisce il fondamento delle politiche della destra conservatrice e neo-liberista coi suoi modelli di riferimento: Reagan e Thatcher, per intenderci meglio. Su questo, a livello fiscale e contabile si innesta l’Ordoliberismo, che è un concetto teorico tipicamente tedesco e si basa su un assurdo economico: conti in ordine, debito zero, “austerità espansiva” (mutuata dal neo-liberismo), contrazione dei salari e dei consumi interni a favore delle esportazioni, con un avanzo costante dei movimenti di capitale a saldo attivo sulla bilancia dei pagamenti, per entrate maggiori delle uscite.
Lo definisco ‘assurdo’ perché nella realtà pratica tale condizione ideale nella storia non si è mai verificata. Innanzitutto perché per crescere un’economia si indebita attraverso la spesa per investimenti (altrimenti entra in recessione) e dunque il pareggio di bilancio è una sostanziale utopia.
Lo sa bene la Germania che i suoi debiti non li ha mai pagati…
Eppoi perché specialmente nel caso tedesco la bilancia commerciale risponde allo stesso principio dei vasi comunicanti: in un mercato comune, se uno stato si arricchisce drenando risorse e capitali, tutti gli altri si impoveriscono. Esiste infatti un concetto chiamato “redistribuzione”, ma in quell’orecchio a Berlino proprio non ci sentono. Per creare un mercato europeo integrato con saldi ottimali, costruito attorno ad una moneta comune e cambi fissi, uno dei massimi teorici dell’euro, Robert Mundell (monetarista e ultra-liberista) parlava appunto della creazione di “aree valutarie ottimali” (ci ha preso il premio Nobel per questo) al di fuori delle quali un mercato comune è impossibile ed il sistema collassa.
Ovviamente, nella attuale UE non esiste nulla che possa definirsi neanche lontanamente ‘ottimale’. E le aree di Mundell del resto sono un’altra astrazione teorica che prevede la libera circolazione delle merci e delle persone (ovvero la manodopera), sostanzialmente equiparate: un’area è depressa o in recessione, si migra in massa verso nuovi distretti produttivi all’interno dell’area comune. Le differenze di lingua, cultura, religione, identità, integrazione, affetti e legami non vengono neanche presi in considerazione, in una sorta di anomia collettiva e livellatrice di diritti e tutele, con masse anonime di disperati che si muovono da un paese comunitario all’altro impattando sui sistemi di inclusione sociale fino a portarli al collasso. Sembrerebbe una descrizione apocalittica delle moderne migrazioni, ma probabilmente Mundell si ispira alle trasmigrazioni interne agli USA, che per lui devono costituire un valido modello di riferimento, come quelle ai bei tempi della Grande Depressione del 1929 che John Steinbeck descrive efficacemente nel suo capolavoro assoluto “Furore”.
Questo i cittadini hanno bocciato (le ‘costituzioni’ sono ben altra cosa!), almeno laddove ci si è potuto esprimere liberamente in un referendum. E con ogni evidenza, alle tecnoburocrazie monetariste che dominano la UE, i referenda proprio non piacciono.
19 luglio 2015 a 09:37
E’ semplice, come al solito semplifico… se tu hai dei costi di gestione e ammettendo che tu abbia una gestione virtuosa 🙂 se nelle entrate hai un ammanco stimato di circa 180 miliardi annui vuol dire che è – sicuro – che ogni anno ti indebiti, a prescindere se ho o non ho progettato ” un’opera faraonica “. Se il credito necessario allo stato per ripianare i disavanzi annuali ti viene dato dai tuoi connazionali, ricadiamo nel caso del Giappone dove il debito pubblico è circa al 90% tenuto dalla nazione nipponica e quindi poco facilmente speculabile sui mercati. Al contrario, quando hai crediti interni o esteri + come sempre gli interessi compresi, sei più facilmente speculabile e da qui il termine ” cicala ” nel senso che in Italia non ci siamo abbastanza impegnati per raggiungere gli obiettivi comuni…
— l’impegno ad avere un deficit pubblico strutturale che non deve superare lo 0,5% del PIL e, per i paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del PIL, l’1%; —
— l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità; —
Sono certo che saprai dare/darci una spiegazione convincente del perchè dal ’79-’80 il parametro del debito pubblico italiano che era al 60% è in seguito sempre aumentato arrivando a sfiorare attualmente il 130% del PIL…
19 luglio 2015 a 12:15
Lungimirante come sempre, è un vero piacere confrontarsi con te..:)
Premetto, per mera pignoleria, che il debito pubblico del Giappone è del 250% sul PIL. Cosa che non ha impedito al governo ultra-conservatore e nazionalista del premier Abe di applicare in economia una ricetta espansiva di spesa concertata, su modello neo-keynesiano, che ha fatto uscire il Giappone da una recessione quasi ventennale.
Come giustamente osservi, ciò che conta dinanzi ad un debito pubblico elevato è il ripristino di quello che viene chiamato “avanzo primario”. Quindi non si comprende bene il perché dell’ossessione (ordoliberista) di un debito zero, livellato in tempi strettissimi e dunque impossibili.
“…Sono certo che saprai dare/darci una spiegazione convincente del perchè dal ’79-’80 il parametro del debito pubblico italiano che era al 60% è in seguito sempre aumentato arrivando a sfiorare attualmente il 130% del PIL…”
Se ti fidi, io una piccola spiegazione ce l’avrei pure…
Fino al 1981 la Banca d’Italia (esattamente come fa la Banca centrale nipponica) era solita monetarizzare il debito pubblico, attraverso l’acquisto dei titoli del Tesoro per rifinanziare il debito statale.
In altre parole, la Banca Centrale acquistava consistenti pacchetti di obbligazioni, depositando i titoli nella pancia dello Stato italiano (utilizzandoli come una forma di collaterale di garanzia), mantenendo così la domanda sostenuta, e in tal modo contribuendo a mantenere i tassi di interesse ad un valore contenuto, tenendoli al riparo da eventuali speculazioni. Legge della domanda e dell’offerta.
I titoli schizzano di interesse quando non trovano sufficienti acquirenti, vengono considerati non solvibili (problema che l’Italia non ha mai avuto), e soprattutto vengono immessi sul mercato borsistico internazionale per ‘libere’ speculazioni in conto vendita alla scoperto. In finanza, il meccanismo (assai perverso) si chiama short-selling.
Si sosteneva allora che la linea perseguita dalla Banca d’Italia, diretta da due giganti come Guido Carli e Paolo Baffi, che nel 1976 arrivò a chiudere il mercato dei cambi per tutelare la lira dalle manovre speculative (all’epoca di poteva fare), come effetto collaterale, generava inflazione (la bestia nera del credo monetarista della Scuola di Chicago). Ma all’epoca governava la DC che tra i molti difetti aveva però il pregio di avere una visione fortemente sociale dell’economia di mercato, con una impostazione nettamente keynesiana. Che poi è quella che ha portato l’Italia a diventare (una volta) la sesta potenza industriale del pianeta.
Brutalmente rimossi Baffi e Sarcinelli con una schifosa campagna di delegittimazione, nel 1979 alla Banca d’Italia subentra Carlo A. Ciampi (sul personaggio io ho un giudizio pessimo sia come economista che come politico, ma non starò ora a tediarti con questo).
Nel 1981, con un vero e proprio blitz, senza informare il governo e mettendo il parlamento a fatto compiuto, l’allora ministro Beniamino Andreatta di concerto con Ciampi, separò la Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro in una sorta di “privatizzazione” dell’Istituto, provocando la caduta dell’allora governo di ‘centrosinistra’.
L’episodio è conosciuto come la “Lite delle comari”. Ed Andreatta si compiacque a lungo di un simile capolavoro (una specie di “golpe interno”). La motivazione addotta dal ciccioso economista trentino era l’abbassamento dell’inflazione, il contenimento dei tassi di interesse, ed il controllo del debito pubblico (allora basso).
Peccato che le cose andarono nella direzione diametralmente opposta!
Il risultato fu che la Banca d’Italia non poté più entrare nelle aste primarie di collocamento dei titoli di stato, come prestatore di ultima di istanza, al fine di comprare le emissioni invendute o calmierare le aste nel caso in cui le offerte degli investitori privati fossero state troppo basse (generando l’aumento dei tassi di interesse su rendimento titoli). Il collocamento dei titoli di stato venne rimesso interamente agli Istituti di Credito privati ed ai grandi trust finanziari che si muovono all’ombra degli hedge funds (e che ovviamente hanno tutto l’interesse a portare le aste al rialzo), aprendo in tal modo le aste alla speculazione finanziaria internazionale ed incontrollata.
Dieci anni dopo, nel 1992, si verifica il tracollo della lira con l’uscita dallo SME. La lira, con una Banca centrale impotente davanti alla speculazione perché impossibilitata ad intervenire, si svaluta del 20% ed il governatore Ciampi riuscì a bruciare in poche settimane la bellezza di 48 miliardi di dollari di allora.
La cosa contribuì non poco all’esplosione dei conti pubblici, con un debito attuale che cresce esponenzialmente dinanzi ad una spesa pubblica costantemente al ribasso. Ma siccome in quegli anni si parlava solo di “tangentopoli” (gli scandali di allora sembrano bazzecole dinanzi alla cleptocrazia di oggi!), con la scena politica monopolizzata da un imbarazzante pagliaccio come Berlusconi, i principali responsabili dello sfacelo di allora assursero a salvatori delle finanze nazionali.
Sulla “Squadra del ’92” (riciclatasi in blocco nelle file del centrosinistra) puoi leggere un lungo ma interessante articolo, pubblicato sul Corriere della Sera nel 1997 [QUI].
Sempre se vuoi, sulle cause del debito pubblico italiano, puoi invece leggere un’analisi comparata con tanto di dati e rilievi statistici [QUI].
Spero di essere stato abbastanza esauriente, non troppo impreciso, e soprattutto di non averti annoiato troppo.
19 luglio 2015 a 15:08
Wow! Notevole… peccato che nessun libro di storia contemporanea lo riporti come causa principale dell’aumento del debito pubblico negli anni ’80 in Italia… 😉
— La grande industria pubblica (siderurgica, meccanica, chimica) veniva sottoposta, in alcuni settori, ad ampie ristrutturazioni che ne aumentavano la competitività.
Le trasformazioni operate nell’industria pubblica e privata finirono però col gravare sulla collettività, sia in termini di accresciuta disoccupazione (l’11% circa nell’85), sia in termini di spesa dello Stato per la cassa integrazione guadagni (l’istituzione che garantisce un salario provvisorio ai lavoratori privati del posto). Nel periodo ’80-’90 anche durante il periodo di crisi si aveva una vitalità notevole. Il fenomeno si spiegava soprattutto con la crescita della cosiddetta economia sommersa: ossia quella miriade di piccole imprese disseminate nella provincia italiana e caratterizzate – grazie agli intensi turni lavorativi, all’assenza di controlli sindacali, alla mobilità della manodopera, all’elevata evasione fiscale, ma talora anche all’innovazione tecnologica – da alta produttività, da bassi costi e da una notevole capacità di adattamento alle esigenze del mercato. —
19 luglio 2015 a 16:40
La storia, e massimamente quella contemporanea, vive di semplificazioni nella generalizzazione (oserei dire ‘strumentalizzazione’) dei fatti ad uso politico. Per questo bisogna leggerla sempre tra le pieghe, dove si annidano le informazioni più importanti. Ciò detto, dipende sempre dalle opere che si acquistano in libreria (che di titoli sull’argomento ve ne sono a iosa)..;)
“La grande industria pubblica (siderurgica, meccanica, chimica) veniva sottoposta, in alcuni settori, ad ampie ristrutturazioni che ne aumentavano la competitività.”
Sarà per questo che noi, dopo le grandi dismissioni seguite alla svendita degli anni ’90, non abbiamo più una industria (sia essa siderurgica, meccanica, o petrolchimica) degna di questo nome.
Enimont, Montedison, Acciaierie di Terni, Ilva, Italsider… sono tutte realtà industriali scomparse o in crisi irreversibile legate ad un mondo ormai passato.
“Le trasformazioni operate nell’industria pubblica e privata finirono però col gravare sulla collettività, sia in termini di accresciuta disoccupazione (l’11% circa nell’85), sia in termini di spesa dello Stato per la cassa integrazione guadagni”
Oggi infatti che possiamo apprezzare appieno i benefici effetti delle “privatizzazioni”, con le cordate dei “capitani coraggiosi” e l’intraprendenza di personaggi come i Riva, il numero dei cassintegrati sfiora il 12% della forza lavorativa, ai quali si aggiunge una “disoccupazione reale” (includendo gli “scoraggiati” e gli “inattivi” in età da lavoro) del 30%, con punte del 45% per quanto riguarda la disoccupazione giovanile.
“..Il fenomeno si spiegava soprattutto con la crescita della cosiddetta economia sommersa: ossia quella miriade di piccole imprese disseminate nella provincia italiana e caratterizzate – grazie agli intensi turni lavorativi, all’assenza di controlli sindacali, alla mobilità della manodopera, all’elevata evasione fiscale, ma talora anche all’innovazione tecnologica..”
Infatti, per il nostro apparato imprenditoriale (per carità! Non chiamateli ‘padroni’) il massimo problema è costituito proprio dal sindacato e dal suo ruolo nelle politiche di concertazione.
A parte l’innovazione tecnologica (scomparsa) e la guerra alle rappresentanze sindacali estromesse un po’ ovunque, mi pare che per il resto tutto continui come prima, nella straordinaria idea di competere con la Cina ribassando i salari e aumentando le turnazioni, attraverso la cinesizzazione delle maestranze e nella massimizzazione dei profitti.