
Massacri, stragi, etnocidi.. sono elemento ricorrente nella storia dell’umanità, tanto da costituire l’unico aspetto universalmente condiviso su scala globale fin dagli albori dei tempi. Se dovessimo prendere per buone le ipotesi più recenti, persino gli uomini di Neanderthal si sarebbero estinti in seguito ad un deliberato atto di sterminio, praticato con ferocia dal più “evoluto” Homo sapiens: l’umanità gattonava da poco sulla faccia della terra agitando pietre e bastoni, senza nulla sapere della lavorazione dei metalli o dei rudimenti fondamentali per l’agricoltura, che già si produceva nel suo primo genocidio.
In compenso, col tempo e con l’evoluzione, la pratica si è affinata così da estendersi con efficacia su scala di massa ancor maggiore, potendo contare su mezzi e strumenti sempre più sofisticati, fino ai massimi risultati raggiunti nell’età contemporanea…
Nel corso dei secoli, qualunque fosse la latitudine, razza, o religione, ogni popolo ha dato il suo fondamentale contributo nell’album delle atrocità, che sono sempre state perpetrate con gusto particolare e consumate con una certa creatività omicida.
E se la ferocia eliminazionista, ovviamente ammantata delle migliori intenzioni in nome del “progresso”, della “civilizzazione”, o della “sicurezza nazionale”, è stato uno dei tratti distintivi per l’affermazione dei moderni stati-nazione, pochi hanno celebrato le proprie efferatezze, incastonandole in una sorta di cornice epica di compiaciuta esaltazione, come nel caso della grande democrazia americana che ha fatto della dicotomia schmittiana Amico/Nemico l’essenza costitutiva della sua identità ‘nazionale’, parallelamente allo sviluppo di una propria “teologia politica”; per giunta con ampio anticipo sui tempi, rispetto alla formulazione teorica del giurista tedesco.
Tra gli innumerevoli bagni di sangue che hanno consacrato l’ascesa della nazione americana nella sua compiuta definizione identitaria, in concomitanza coi 150 anni esatti dalla consumazione della strage (29/11/1864), vale la pena di ricordare il massacro di Sand Creek.
Nel 1864, la guerra civile che oppone i secessionisti della CSA agli unionisti del Nord non è ancora terminata, che già la Federazione guarda con bramosia agli immensi territori dell’Ovest: una sorta di dispensa interna dalle risorse potenzialmente illimitate e tutta da colonizzare, dove convogliare le masse di disperati provenienti da ogni angolo della vecchia Europa. Che poi le terre in questione fossero già occupate, era questo un aspetto del tutto secondario e non certo tale da costituire un problema, per una nazione avviata verso le sorti radiose di un “destino manifesto”, ovviamente predestinata ad una espansione incontrollata della “razza bianca anglosassone” per volontà divina.
Per incentivare la migrazione verso le Grandi Pianure occidentali, nel 1862 il Congresso degli Stati Uniti promulga l’Homestead Act: tutte le terre poste al di fuori dei confini originari delle tredici colonie vengono considerate terreno demaniale da assegnare a chiunque ne faccia richiesta. Ripartiti in lotti di 65 ettari (estensibili), i terreni sono ceduti a titolo gratuito agli assegnatari dopo 5 anni di usufrutto legale. Ovviamente, gli eventuali diritti
delle popolazioni indigene di cacciatori semi-nomadi, che sulle terre oggetto dell’annessione vivono già da qualche millennio, non vengono minimamente presi in considerazione. Frazionati in clan rivali e gruppi tribali spesso in lotta l’uno contro l’altro, i popoli delle Grandi Pianure (Cheyenne, Dakota, Arapaho..) si ritrovano in poco tempo catapultati dal neolitico all’età moderna, in una società complessa e irriducibilmente aliena che non comprendono e nella quale risulta loro impossibile integrarsi. D’altra parte, i coloni considerano i “pellerossa” poco più che animali e meno che dei selvaggi: un inutile ingombro all’avanzata di sviluppo e progresso.
Secondo il copione classico di ogni espansione coloniale, con gli indigeni vengono siglati “patti di eterna amicizia”, si scambiano doni, si promette assistenza e protezione militare, si definiscono le zone di caccia, si delimitano le rispettive aree di influenza. Sono trattati che vengono blandamente rispettati da ambo le parti, fintanto che non si intensificano gli insediamenti dei colonizzatori.
All’occorrenza, i capitribù vengono ‘invitati’ d’imperio nei forti militari a sottoscrivere contratti capestro (che all’occorrenza vengono violati secondo convenienza), in cui cedono volontariamente la terra. Quindi sono costretti letteralmente a levare le tende e trasferiti di forza in qualche ritaglio di terreno, sempre più ristretto ed il più inospitale possibile, sperando che fame e malattie facciano il resto. Ove ciò non avvenga, provvede l’esercito.
Il destino riservato alle “selvagge” popolazioni degli Cheyenne e degli Arapaho del Colorado nel 1864 non fu poi molto diverso da quello in cui un paio di anni prima erano incorsi i Dakota del
Minnesota. In merito, il generale John Pope, al comando della spedizione punitiva del 1862 contro la tribù ribelle di Little Crow, ha le idee chiarissime su come vadano trattati gli oriundi, considerati “maniaci e bestie feroci” coi quali nessun accordo può essere considerato valido.
Il Gen. Pope istituisce deportazioni in condizioni proibitive. Sollecita impiccagioni di massa, mentre i suoi tribunali militari sfornano condanne in serie, dopo processi sommari che non prevedono alcun diritto alla difesa. Istituisce taglie da 25 dollari, per lo scalpo di ogni indiano sorpreso a gironzolare nel Minnesota.
Tra il 1861 ed il 1864 è la volta dei Navajo e degli Apache dell’Arizona: il capo Mandas, che è cristiano, viene catturato a tradimento, durante un incontro con le autorità militari, torturato con ferri roventi, infine ucciso e decapitato.
Prima di loro, intorno al 1830, era toccato alle “tribù civilizzate” dei Cherokee del Mississippi, ai Creek ed ai Chickasaw del Tennessee, ai Seminole della Florida… e ancor prima alla confederazione delle nazioni
irochesi. Incapaci di accantonare le proprie rivalità dinanzi al pericolo comune, in compenso le tribù si lasciano coinvolgere attivamente nelle Guerra d’Indipendenza prima, e in quella di secessione dopo, dividendosi equamente tra lealisti britannici ed indipendentisti, quindi tra confederati ed unionisti, senza ricavarne peraltro alcun beneficio in termini di riconoscimenti e trattati favorevoli.
“Civilizzati” o meno che fossero, i nativi vengono infatti giudicati inassimilabili al nuovo stato ‘democratico’ dalle sorti radiose. La separazione razziale, rigorosamente ammantata di una qualche legittimazione legale, costituirà una preoccupazione costante del legislatore statunitense, ansioso di preservare la purezza originale dei primi coloni wasp, sempre affamati di nuove terre da occupare.
Subito dopo la Guerra d’Indipendenza contro l’Impero britannico, le popolazioni oriunde vengono dapprima tenute separate dalla popolazione bianca, in una sorta di regime di apartheid. Quindi, man mano che aumenta l’interesse e la bramosia verso le loro terre, si ricorre ad una progressiva espropriazione, con la deportazione degli abitanti originari. I popoli autoctoni vengono espulsi in massa, al passo con le requisizioni coatte, e trasferiti in luoghi sempre più inospitali attraverso lunghe marce forzate, che spesso e volentieri si trasformano in vere marce della morte. Le “riserve indiane” verranno istituite solo quando non si troveranno terre ancora ‘selvagge’ dove poter espellere gli indesiderati.
È interessante notare come una delle prime forme scientificamente pianificate e organizzate di “pulizia etnica” in epoca moderna venga messa in pratica da un sistema democratico, costituzionalmente riconosciuto, per motivi squisitamente razziali. I giuristi di Washington parlano di “rimozione”, così come si fa coi rifiuti ingombranti. La pratica genocida, che per modalità di esecuzione poco differisce con l’eliminazione degli Armeni dell’Anatolia da parte dei Turchi un secolo fa, viene legittimata e protocollata su base legale attraverso l’Indian Removal Act del 1830.
Tortura e sterminio vengono considerate come giuste “punizioni” da impartire a scopo deterrente e con severità, perché ogni atto di indulgenza o moderazione si configura sempre come una intollerabile debolezza. Ne va del prestigio nazionale! Va da sé che i peggiori eccidi vengono sempre perpetrati a scopo “difensivo”.
La “democrazia americana” non aveva ancora compiuto 60 anni, che già applicava con disinvoltura la segregazione razziale, la pulizia etnica e lo sterminio degli indiani, la schiavitù dei ‘negri’. Col tempo migliorerà, estendendo le discriminazioni agli immigrati cinesi e asiatici, ai latini e agli ispanici, facendo del linciaggio e delle esecuzioni sommarie a sangue freddo una pratica ordinaria, in una nazione sempre più militarizzata nella sua paranoia securitaria.

La Conquista del West
Nel decennio che va tra il 1851 ed il 1861, vengono intensificati i trattati per regolare la penetrazione delle regioni attraversate dal fiume Platte, stipulando la ripartizione delle terre dal Nebraska al Missouri, fino alle Montagne Rocciose passando per il Colorado. Gli accordi sono semplici: si cedono le terre al governo federale in cambio di “doni”, che spesso e volentieri non arrivano, e ci si trasferisce di forza nelle “riserve” assegnate (e revocabili in qualsiasi momento).
Intorno al 1858, il massiccio afflusso in Colorado di minatori e cercatori d’oro che sconfinano in territorio indiano, insediandosi nei territori di caccia delle tribù, provocano il crescente malumore di Cheyennes e Arapaho, con incidenti sempre più frequenti sulla linea invisibile della frontiera. Attratti dalla corsa all’oro, circa 100.000 coloni in gran parte provenienti dal Kansas si insediano abusivamente nei territori assegnati agli indiani neanche un decennio prima (Trattato di Fort Laramie, 1851) e fondano una propria entità amministrativa indipendente che chiamano “Territorio di Jefferson”, stabilendo la propria capitale la neonata città di Denver. In tale modo, costituiscono il primo nucleo del futuro stato del Colorado che verrà ufficialmente riconosciuto nel 1861, in violazione di tutti i trattati precedentemente stipulati coi nativi.
Il 18/02/1861, a Fort Wise, viene stipulato un nuovo accordo bilaterale: gli ‘indiani’ avrebbero rinunciato unilateralmente ai 2/3 delle terre concesse soltanto un decennio prima; tutti i nativi avrebbero dovuto trasferirsi obbligatoriamente in un’ansa ritagliata lungo il fiume Arkansas nel Colorado orientale, in cambio di un’indennità dal valore di 30.000 dollari annui, convertiti in derrate alimentari, sementi per la coltivazione, e attrezzi agricoli. L’esercito si sarebbe impegnato nella “protezione” dei nativi deportati. Il nuovo trattato viene firmato soltanto da una decina di capi tribali, tra i quali Black Kettle (Pentola Nera), Antilope Bianca, e Lean Bear (Orso Magro).
Nel 1864 la situazione precipita ulteriormente, esacerbata dal fatto che il Colorado difetta in difese, dal momento che gran parte della truppa è stata inviata al fronte per combattere nella Guerra di Secessione.
Nell’Aprile del 1864, dopo l’ennesima razzia ai danni di alcuni rancheros, il generale Samuel Curtis, comandante federale del Dipartimento del Kansas, incarica il colonnello Chivington di provvedere alla difesa del nuovo Dipartimento del Colorado.
John Milton Chivington è un pastore metodista, con ambizioni politiche, che ha fatto carriera nell’esercito. Decisamente anti-schiavista, si è schierato dalla parte dell’Unione, distinguendosi nella Battaglia di Glorieta Pass alla quale partecipa insieme ai volontari del 1^ Reggimento cavalleggeri del Colorado. Il colonnello, investito del suo nuovo comando, si mette subito all’opera spingendo le sue rappresaglie oltre i confini della riserva indiana, attaccando indistintamente tutti i gruppi coi quali si imbatte.
Il 16/05/1865 una compagnia di cento soldati al comando del tenente Earye attacca l’accampamento della tribù di Orso Magro (Lean Bear), uno dei pochi capi che ha accettato il Trattato di Fort Wise, uccidendolo a freddo mentre disarmato agita una copia dell’accordo, reclamando il rispetto delle clausole sottoscritte appena tre anni prima.
La mancata corresponsione delle indennità promesse, la violazione dei diritti di transito e la distruzione delle mandrie di bisonti, provocano la feroce reazione degli indiani. In un crescendo di violenze sempre più efferate, gruppi armati di Cheyennes e Kiowas assaltano le fattorie isolate, trucidandone gli abitanti; attaccano i convogli di carri diretti verso la California; saccheggiano le
proprietà dei coloni. A distinguersi negli attacchi, sono le spietate bande guerriere degli “uomini-cane” (i “Dog Soldiers”), che sfuggono ad ogni controllo dei capi moderati e si muovono autonomamente sul territorio, sotto il comando di Roman Nose (Naso Romano).
Il 05/07/1864, allarmato dalle notizie di una imminente rivolta generale, e dai raid sempre più cruenti che ormai si spingono fino ai sobborghi di Denver, il
governatore John Evans promulga la legge marziale con la sospensione delle garanzie costituzionali. Dinanzi alla ferocia dei Dog-Soldiers, a Denver viene indetto lo stato d’assedio. Quindi si procede all’arruolamento di un nuovo corpo di volontari, con la creazione del 3^ Reggimento Cavalleria del Colorado.
Il nuovo reggimento di cavalleggeri è composto da 1150 effettivi su ferma trimestrale (per l’esattezza 100 giorni), mentre gli ufficiali vengono eletti su indicazione
delle truppa. La neo-costituita unità di cavalleria viene posta sotto il comando del 28enne George L. Shoup: un subordinato del colonnello Chivington, con cui a combattuto a Glorieta Pass contro i confederati. Descritto dopo i fatti di Sand Creek come la feccia del Colorado, il 3^Reggimento in realtà arruola il meglio della buona società di Denver: commercianti, uomini di affari, impiegati di banca, avvocati, insegnanti, ingegneri e piccoli proprietari terrieri…
Si tratta di civili senza un vero addestramento militare, volontari armati scarsamente professionalizzati, traumatizzati dalle incursioni delle bande di Naso Romano.
Al contempo però, oltre alla mobilitazione militare, si cerca di addivenire ad un nuovo accordo con i capi Cheyenne più accomodanti.
Il 28/09/1864, il maggiore Edward W. Wynkoop, che detiene il comando della guarnigione di Fort Lyon attorno al quale si sono raccolte le tribù non ostili, scorta a Denver una delegazione dei capi Cheyenne e Arapaho che avevano a loro tempo sottoscritto il trattato di Fort Wise nel 1861, per addivenire ad una nuova intesa che li garantisca da eventuali rappresaglie armate.
In quella che viene chiamata “Conferenza di Fort Wise”, partecipano il governatore Evans ed il comandante Chinvington,
oltre ai capi indigeni Pentola Nera (Black Kettle) e Antilope Bianca, senza che peraltro si raggiunga alcun accordo definitivo. Chivington telegrafa al suo diretto superiore, il gen. Curtis, per ricevere istruzioni. Lapidario, il generale boccia ogni possibile trattiva: “Non voglio alcuna pace finché gli indiani non soffriranno di più”.
Pertanto, i clan di Black Kettle e White Antelope e gli Arapaho di Mano Sinistra (Left Hand) vengono considerati “tribù ostili”. Nonostante questo, viene permesso loro di continuare ad accamparsi a due miglia da Fort Lyon, come era stato loro ordinato appena un paio di mesi prima dal governatore Evans.
Agli indiani vengono fornite razioni per dieci giorni, secondo quanto prestabilito peraltro da tutti i precedenti trattati ancora in vigore. Motivo per il quale il maggiore Wynkoop, comandante del forte, verrà rilevato dal comando e messo sotto indagine disciplinare.
Al suo posto, viene insediato il maggiore Scott Anthony, la cui massima preoccupazione è come “punire gli indiani”. Il maggiore Anthony intima alle tribù di Pentola Nera e Antilope Bianca di accamparsi in prossimità del fiume Sand Creek, in piena Riserva, ad una sessantina di km dal forte, ed invia persino un carro ambulanza col soldato David Louderback che poi diventerà uno dei testimoni d’accusa della mattanza.
Quindi informa il comando del colonnello Chivington che un migliaio di nativi ostili si sono accampati a meno di 30 miglia dal forte, chiedendo l’invio di immediati rinforzi.
Chivington ed Anthony con ogni evidenza si rifanno alla filosofia del generale Philip Sheridan, secondo cui un buon indiano è sempre quello morto. In particolare, Chivington, con spirito evangelico come si addice ad un presbitero della Chiesa Metodista, è convinto che si debba ‘ucciderli tutti’ a scopo preventivo, compresi i bambini, perché “le uova di pidocchio diventeranno pidocchi“.

Eventuali “danni collaterali” che all’epoca non venivano nemmeno contemplati rientravano nella ricerca ossessiva di una “punizione” collettiva. Come ebbe a dire lo stesso generale Sheridan:
«Se un villaggio viene attaccato e donne e bambini muoiono nel corso dell’attacco, la responsabilità di queste morti non deve ricadere sull’esercito, ma sulla gente che ha causato l’attacco stesso con i propri crimini.»
Che poi è quanto Tsahal va predicando ininterrottamente da settant’anni, mettendo in pratica le sue rappresaglie contro i palestinesi tutti e indistintamente. Sorvegliare e soprattutto punire.
Il 28 Novembre giunge al forte il contingente di cavalleria al comando del colonnello Chivington, che viene accolto con entusiasmo dal maggiore Anthony. Quest’ultimo si unisce alla spedizione con altri 125 soldati e quattro obici di artiglieria da montagna, per un totale di circa 800 uomini. Con loro, ci sono infatti i cavalleggeri del 1^ Rgt del Colorado, i volontari del 1^ Rgt del New Mexico, e quelli del 3^ Rgt del Colorado al comando del
colonnello fresco di nomina George Shoup, che in seguito farà una sfolgorante carriera politica diventando il primo governatore dello stato dell’Idaho (1889) e poi senatore degli Stati Uniti.
Chivington, che vuole sfruttare l’occasione per potere vantare una grande vittoria militare contro gli indiani, le cui bande combattenti finora hanno continuato a sgusciargli via tra le mani, scalpita per lanciare l’attacco contro l’accampamento che formalmente sarebbe sotto la ‘protezione’ dell’esercito, per giunta nel territorio di assegnazione, e nonostante le rimostranze di alcuni ufficiali del primo reggimento che non condividono le ragioni dell’attacco: il capitano Silas Soule, coi tenenti Joseph Cramer e James Connor.
All’alba del 29 Novembre 1864 i volontari della milizia del Colorado, affiancati dai soldati regolari dell’esercito federale,
piombano sull’accampamento di Black Kettle e Antilope Bianca, che vengono colti totalmente di sorpresa non aspettandosi alcuna minaccia. Sulla tenda di Black Kettle, posta al centro dell’accampamento, sventola una vistosa bandiera americana sotto la quale iniziano a raccogliersi le donne ed i bambini del campo, aspettandosi una qualche immunità, mentre i soldati, smontati da cavallo, circondano l’accampamento cominciando a sparare all’impazzata e avanzando in disordine nel caos più totale.
Tra i primi a venire falciati dalla scarica è Antilope Bianca che, gravato dai suoi 75 anni di età, viene abbattuto, mentre incredulo e sdegnato avanza disarmato verso il colonnello Chivington. I soldati faranno scempio del cadavere del vecchio capo, tagliando via naso, orecchi, e testicoli, dopo averlo scalpato. Sorte che peraltro viene riservata alla quasi totalità dei caduti.
Con le sacche testicolari pare siano stati ricavati dei porta tabacco a souvenir dell’impresa, mentre le vagine ascisse alle donne vengono usate come ‘decorazioni’ per i cappelli.
Alcuni dei soldati erano completamente ubriachi, il coordinamento pessimo, tanto che finirono con lo spararsi addosso gli uni con gli altri. Ma la cosa permise a Black Kettle e molti altri nativi di mettersi in salvo, sfuggendo così alla mattanza e provocando la delusione del maggiore Anthony: il comandante di Fort Lyon che aveva accordato la sua protezione agli indiani.
Come ebbe a testimoniare il Capitano Cree:
“Il Maggiore Anthony, dopo la battaglia al Sand Creek disse che avevamo fatto una buona cosa a uccidere gli Indiani. Voleva che li inseguissimo per poterne uccidere di più.”
Celebrato come una grande vittoria militare, il massacro di Sand Creek diventerà presto oggetto di inchiesta in sede penale, più come manovra per stroncare le ambizioni politiche di John Chivington che per senso di giustizia.
Suoi principali accusatori saranno il maggiore Edward W. Wynkoop, estromesso a suo tempo per essersi mostrato troppo morbido coi nativi, e gli ufficiali che maggiormente si erano opposti al raid, suscitando l’ira del loro comandante.
In proposito, il tenente James Connor ebbe a dichiarare:
«Tornato sul campo di battaglia il giorno dopo non vidi un solo corpo di uomo, donna o bambino a cui non fosse stato tolto lo scalpo, e in molti casi i cadaveri erano mutilati in modo orrendo: organi sessuali tagliati a uomini, donne e bambini; udii un uomo dire che aveva tagliato gli organi sessuali di una donna e li aveva appesi a un bastoncino; sentii un altro dire che aveva tagliato le dita di un indiano per impossessarsi degli anelli che aveva sulla mano; per quanto io ne sappia John M. Chivington era a conoscenza di tutte le atrocità che furono commesse e non mi risulta che egli abbia fatto nulla per impedirle; ho saputo di un bambino di pochi mesi gettato nella cassetta del fieno di un carro e dopo un lungo tratto di strada abbandonato per terra a morire; ho anche sentito dire che molti uomini hanno tagliato gli organi genitali ad alcune donne e li hanno stesi sugli arcioni e li hanno messi sui cappelli mentre cavalcavano in fila.»
Rober Bent, la guida meticcia che era stata costretta con la forza ad accompagnare le truppe verso il campo indiano, testimoniò:
«Vi erano circa trenta o quaranta squaws che si erano messe al riparo in un anfratto; mandarono fuori una bambina di sei anni con una bandiera bianca attaccata a un bastoncino; riuscì a fare solo pochi passi e cadde fulminata da una fucilata. Tutte le squaws rifugiatesi in quell’anfratto furono poi uccise, come anche quattro o cinque indiani che si trovavano fuori. Le squaws non opposero resistenza. Tutti i morti che vidi erano scotennati. Scorsi una squaw sventrata con un feto, credo, accanto. Il capitano Soule mi confermò la cosa. Vidi il corpo di Antilope Bianca privo degli organi sessuali e udii un soldato dire che voleva farne una borsa per il tabacco. Vidi un squaws i cui organi genitali erano stati tagliati.
Vidi una bambina di circa cinque anni che si era nascosta nella sabbia; due soldati la scoprirono, estrassero le pistole e le spararono e poi la tirarono fuori dalla sabbia trascinandola per un braccio. Vidi un certo numero di neonati uccisi con le loro madri.»
John S. Smith, commerciante ed interprete, ospite dell’accampamento, parla di massacro indiscriminato:
«Ho visto i corpi di coloro che erano distesi a terra venir tagliati a pezzi, incluse le donne. Si è trattato delle peggiori mutilazioni che abbia mai visto prima. Venivano tagliati coi coltelli, scalpati, i cervelli buttati via… bambini di due o tre mesi, gente di tutte le età, dai poppanti ai guerrieri.»
Il colonnello Shoup, comandante del 3^ Rgt Colorado indiziato delle atrocità peggiori, dichiarerà che lui era troppo distante per poter aver visto bene.
Black Kettle, sopravvissuto all’eccidio, dopo aver ricevuto un indennizzo irrisorio per lo spiacevole equivoco, verrà poi internato di riserva in riserva, costretto a sottoscrivere trattati di volta in volta abrogati o violati, salvo finire ammazzato quattro anni dopo nel Massacro di Washita, stavolta ad opera del 7^ Cavalleggeri del generale Custer.
Il capitano Silas Soule, che si era distinto nella battaglia di Glorieta Pass combattendo contro i confederati, venne deferito dal colonnello Chivington alla corte marziale con l’accusa di vigliaccheria per essersi rifiutato di sparare contro le donne in fuga.
“Non posso concludere il mio rapporto senza dire che la condotta del Capitano Soule, Compagnia D, 1° Cavalleria del Colorado, fu riprovevole, dal momento che disse di aver ringraziato Dio per non aver ucciso Indiani e altre espressioni che lo fanno sembrare più in simpatia con gli Indiani che con i bianchi.”
Rapporto al Gen. Curtis del Col. J.M.Chivington
Denver, 16/12/1864.
Ad ogni modo, Soule ne divenne l’ccusatore implacabile. Tuttavia non riuscì mai a testimoniare davanti alla commissione d’inchiesta militare, dal momento che alcuni mesi dopo venne ammazzato in una sparatoria a Denver da un certo Charles Squire, il quale riuscì poi ad evadere fortunosamente di prigione facendo perdere ogni traccia.
Ovviamente, a parte qualche nota di biasimo ed una condanna puramente formale, non il colonnello Chivington né alcuno dei responsabili dell’eccidio di Sand Creek ebbe mai a patire noie o conseguenze particolari per i loro atti, che non dettero luogo ad alcuna vera incriminazione e tanto meno ad una condanna.
Proprio come oggi a Ferguson in Missouri o nel Cermis (Italia, 1998). Ma l’elenco è potenzialmente infinito… Specialmente quando c’è di mezzo un “destino manifesto”..!
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This entry was posted on 30 novembre 2014 at 01:12 and is filed under Kulturkampf with tags Arapaho, Arizona, Black Kettle, Cheyenne, Colorado, Cultura, Dakota, Democrazia, Deportazione, Edward W. Wynkoop, Federazione, Genocidio, George L. Shoup, Guerra del Colorado, Guerra di Secessione, Guerre indiane, Henry Roman Nose, Homestead Act, Indiani d'America, James Connor, John Milton Chivington, Liberthalia, Little Crow, Massacro di Sand Creek, Memoria, Minnesota, Missouri, Nativi americani, Navajo, Nazione, Piccolo Corvo, Pulizia etnica, Punizione, Razzismo, Samuel Curtis, scalpo, Scott Anthony, Silas Soule, Sioux, Stati Uniti d'America, Stato, Storia, USA, Wasp, West. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed.
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30 novembre 2014 a 01:48
Hai fatto molto bene, caro Sendivogius, a rivelare alcune delle peggiori atrocità commesse dalle “civili” nazioni europee nel Nord America. Però, in nome dell’obiettività e della completezza, mi sembrerebbe opportuno che tu dedicassi altrettanto spazio alle non meno raccapriccianti atrocità commesse dai missionari spagnoli (che metodisti certo non erano) nel Sud America…
30 novembre 2014 a 01:58
I vescovi Diego de Landa e Juan de Zumàrraga… il domenicano Vincente de Valverde… I conquistadores Hernàn Cortés e Pedro de Alvarado… Francisco Pizarro… Pedro de Orellana… Lope de Aguirre… Francisco de Carvajal… Tutta gente che spesso e volentieri agiva contro lo stesso mandato reale.
L’elenco è lungo, ma ogni cosa a suo tempo.