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Medz Yeghern – Il Grande Male

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Remember

Lo storico britannico Arnold J. Toynbee, a cui si deve Arnold J. Toynbeel’introduzione della ponderosa relazione intitolata “The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire” e meglio conosciuta come “Blue Book”, dove sono raccolte gran parte delle testimonianze sul genocidio degli Armeni e degli Assiro-Caldei, individuò nella “distruttività del nazionalismo moderno” il Grande Male dell’epoca, all’origine della febbre ideologica che sembrava consumare tra i fuochi della sua follia omicida popoli ed identità in un’orgia di massacri.
Il “Medz Yeghern” costituisce a suo modo la prima applicazione su scala nazionale di quell’ideologia eliminazionista (per fare propria la definizione di Daniel J. Goldhagen) che, innestandosi sul ceppo ben più antico degli odi etnici e del fanatismo religioso, si svilupperà nei grandi genocidi del XX secolo; i quali non costituiscono affatto una specificità esclusiva di determinate entità nazionali (meno che mai turche o tedesche).

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Interludio
1915 - pendaison à Constantinople d'un Arménien Il genocidio degli Armeni (e degli Assiro-Caldei e dei Greci del Ponto), ancorché contestato, implica aspetti particolari che nella portata delle sue dinamiche dimostrano essenzialmente come le attività di sterminio, pur avendo peculiarità universali, non presuppongano necessariamente l’esistenza di una struttura totalitaria né un’infallibile volontà organizzativa finalizzata alla distruzione, come fu per esempio nel caso del nazismo.
Fifth Regiment, Imperial Ottoman Cavalry, 1890s-1900s.La Turchia di inizio ‘900 era uno stato costituzionale, dittatoriale nella sostanza ma democratico nella forma, dotato di organi rappresentativi ed un proprio Parlamento che, per quanto limitato nei poteri ed epurato nella composizione, non fu mai sciolto nemmeno durante la disastrosa condotta della prima guerra mondiale e che per inciso non varò mai una legge organica, che legittimasse in modo esplicito le stragi e le espropriazioni forzate.
Soprattutto, i massacri furono alimentati con estrema facilità, in una spirale perversa di odio, vendette e ritorsioni, innescate dalle espulsioni di massa e lo sradicamento violento delle comunità turcofone e musulmane dai territori balcanici, oggetto di una pulizia etnica feroce da parte dei nuovi conquistatori ‘cristiani’. E delle quali loro malgrado fanno le spese gli Armeni e le altre comunità cristiane, presenti nei distretti orientali dell’Impero ottomano.
Vilayet armeniTra il 1880 ed il 1915, affluiscono in Anatolia milioni di profughi, che i Turchi chiamano Muhajir. Sono albanesi, bosniaci, bulgari, circassi della Cecenia, turcomanni e tatari della Crimea… tutti cittadini ottomani espropriati di ogni bene e cacciati via dalle loro case, che si riversano in massa nell’Impero del sultano in cerca di protezione ed asilo, e che vengono reinsediati nei distretti popolati dagli Armeni. L’eliminazione di una minoranza indesiderata comporta per il governo nazionalista l’opportunità di risolvere la “questione armena” e provvedere alla sistemazione dei nuovi arrivati, utilizzando i beni saccheggiati.
L'arrivo dei Muhajir a Istanbul nel 1912Lo sterminio degli Armeni, seppur condiviso e partecipato da gran parte della popolazione soprattutto nelle campagne, e massimamente i Muhajir, nella sua ferocia selvaggia non conobbe mai le forme proprie del razzismo biologico (come avvenne invece nel caso degli ebrei in Germania). Né era la diretta conseguenza di una produzione legislativa, volta alla massima discriminazione in attesa della “soluzione finale”.

Armenians_marched_by_Turkish_soldiers,_1915

Ufficialmente, ed in linea puramente teorica, quello degli Armeni si configurava come una deportazione di massa, “militarmente necessaria” per ragioni di sicurezza in tempo di guerra, e portata avanti con modalità brutali “al fine di massimizzare il numero di morti lasciati per strada” (A.J.Toynbee).

«L’atto che sancisce l’ufficialità dell’operazione è una risoluzione del Consiglio dei Ministri, datato 27 Maggio 1915. È un documento brevissimo che afferma il dovere dello Stato di reprimere con estremo rigore ogni attentato alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico. E conferisce alle autorità militari dei vari distretti la facoltà “se le esigenze della guerra lo impongono di trasferire e installare in altre località, individualmente o per gruppi, le popolazioni delle città e dei villaggi sospettate di tradimento o di spionaggio”. La parola ‘armeno’ non figura nemmeno nel testo.
Il 30 Maggio segue un decreto-legge dello stesso tenore, che non sarà mai ratificato dal Parlamento ottomano. Poi il 10 Giugno arriva una legge che precisa le modalità da seguire per il trasferimento delle persone e per la sistemazione dei loro interessi e affari prima della partenza. Infine, a operazione conclusa, il 26/09/1915, un’ultima legge stabilisce la sorte dei beni abbandonati dai deportati. Sul piano della legislazione ufficiale non c’è altro. I riferimenti espliciti agli Armeni sono sporadici; nelle istruzioni operative si preferisce ricorrere a perifrasi come “le persone trasportate altrove”, “le persone note”, e così via

Sergio De Santis
“Il genocidio degli Armeni”
(Marzo, 1996)

Turkish Cavalry L’applicazione delle disposizioni viene affidata alle autorità militari che godono di una discrezionalità illimitata, secondo un mandato tanto vago quanto ambiguo. Per essere sicuri di ottenere l’effetto implicitamente desiderato, gendarmeria ed esercito, vengono affiancati da appositi commissari governativi e soprattutto dalle unità operative dell’Organizzazione speciale.
Peraltro, la normativa in oggetto che si componeva di una serie di decreti governativi, spesso e volentieri seguiva e non precedeva le direttive emanate dal comitato centrale del partito di governo: il CUP (Comitato per l’Unione ed il Progresso).
Ismail Enver PashaIl 25 Febbraio del 1915, per ordine del Ministro della Guerra e uomo forte del regime, Ismail Enver pascià, tutti gli Armeni Medz_Yeghern_exteffettivi nell’esercito ottomano vengono distaccati nei “battaglioni lavoro” del Genio militare e quindi fucilati, o passati per le armi dai boia dell’Organizzazione speciale.
Al contempo viene ordinato a tutti i villaggi armeni dell’interno di consegnare ogni tipo di arma in loro possesso e di fornire ogni uomo valido per la coscrizione di leva, o in alternativa il pagamento del “bedel”, la tassa di esenzione. Trasgressori e renitenti vengono sottoposti a tortura con tenaglie roventi.
jevdet-bey Di conseguenza, il 19 Febbraio, la provincia armena di Van si ribella alle ingiunzioni del governatore turco, Jevdet Bey, che in caso di rivolta promette di uccidere ogni cristiano, uomo, donna, o bambino in cui dovesse imbattersi. E sarà di parola.
A farne le spese saranno soprattutto le comunità cristiane degli Assiro-Caldei, che a torto si credono immuni alla rappresaglia e vengono invece investiti appieno dalla repressione, che puntualmente si abbatte su di loro… Da Ras-el Hadjar a Tel Mozilt, passando di villaggio in villaggio per tutto il vilayet di Van ed i monti dell’Hakkari, tutti i 52 villaggi cristiani tra Beyazit e Eleskirt vengono distrutti dai reggimenti di cavalleria curda degli Hamidiye.
REVIEW OF KURDISH CAVALRY BY THE GOVERNOR OF VAN, BAHRI PASHAGli Armeni della città di Van si organizzano in milizie volontarie e squadre di auto-difesa resistendo agli attacchi dell’esercito ottomano, fino all’arrivo in loro soccorso di un contingente Linea di difesa a Van presso la città vecchiarusso. E questo rafforza ulteriormente la convinzione tra i “Giovani Turchi” che gli Armeni siano una minaccia, da debellare al più presto ed in maniera definitiva. E che porteranno alla stesura, per l’appunto 27/05/1915, della cosiddetta “Legge Tehcir” sulle deportazioni che avrebbero dovuto avere carattere straordinario e provvisorio. In realtà, la legge giunge per fornire una qualche copertura legale ad una vasta operazione di repressione, già in atto ed innescata motu proprio, su impulso di settori governativi legati all’apparato militare nell’ambito del pacchetto di “misure speciali”. Ad ogni modo, è dopo la promulgazione della legge che si intensificano le esecuzioni di ostaggi e l’uccisione dei prigionieri politici.
Fanti russi nei pressi di VanIl 24 Aprile c’è la grande retata contro l’elite armena, con l’arresto in massa di tutti gli elementi di spicco della comunità che verranno successivamente assassinati.
E, sempre nell’Aprile del 1915, vengono predisposti le prime operazioni di evacuazione della popolazione civile armena ed il suo trasferimento in appositi campi di raccolta, predisposti in Mesopotamia e Siria.
Nell’opera ci si avvale, almeno nelle sue fasi iniziali, pure della comprovata efficienza dell’alleato germanico, che predispone i piani di deportazione in cui è previsto anche l’utilizzo dei treni merci della nuova linea ferroviaria per Baghdad, per il trasferimento dei deportati in appositi campi di raccolta nel deserto che gli uomini del Kaiser chiamano, senza falsi eufemismi, konzentrationslager: 25 campi della morte, dove i pochi superstiti vengono lasciati morire di fame e malattia.
Deportazione degli armeniD’altronde, il Reich germanico può già vantare una comprovata esperienza con lo sterminio degli Herero, nelle sue colonie sudafricane.
Le operazioni di ‘deportazione’ hanno l’avvallo del generale Hans von Seekt, che i turchi chiamano “la Sfinge”, e che dopo la guerra diverrà uno dei personaggi di maggior rilievo e tra i più affidabili referenti tra i ‘democratici’ della Repubblica di Weimar.

Armenians hanged in the street in Constantinople - Armin T. Wegner

Operazione Massacro
Gendarmi turchi (1)Nata ufficialmente come una serie di trasferimenti coatti su vasta scala, la deportazione degli Armeni si trasformò fin da subito in una gigantesca operazione di pulizia etnica. Che l’eccidio sistematico delle popolazioni armene rientrasse in un progetto più ampio di sterminio, che fosse pianificato o meno, secondo una precisa strategia “eliminazionista” premeditata a lungo e scientificamente messa in atto, oppure fosse la conseguenza incidentale, ancorché voluta, di un insieme di massacri deliberati, per annichilire una minoranza interna percepita come infida, l’estensione a livello capillare delle esecuzioni sommarie e dei linciaggi di massa, con la messa in atto di pogrom organizzati, assunse fin da subito le dimensioni e gli effetti di un vero e proprio genocidio, strutturato nelle forme rozze e feroci della rappresaglia tribale, esasperata dall’odio religioso, e fomentata da una cruda avidità di saccheggio. I trasferimenti sono in realtà marce della morte attraverso il deserto siriano, senza viveri né acqua, esposte agli attacchi continui di banditi e predoni, che uccidono i pochi uomini rimasti, mentre stuprano e rapiscono le donne.
Le deportazioniL’ordine di deportazione viene affisso nelle piazze delle città o annunciato da banditori che vanno di villaggio in villaggio. Agli Armeni vengono concessi da due a cinque giorni di tempo per radunare le proprie masserizie. Il governo si farà carico della custodia e della salvaguardia dei beni abbandonati, fino alla Talat pasciàloro restituzione. In seguito, il ministro agli interni Talaat arriverà a chiedere alle compagnie assicurative la liquidazione delle polizze stipulate dagli Armeni da lui assassinati, definendosi il naturale erede, giacché il ministero ha espropriato tutti loro beni. Con ogni evidenza, la natura del provvedimento è punitiva e colpevolizzante, ma al contempo si sforza di lasciar trasparire una cornice legalitaria, come si può evincere dalla natura del testo del bando:

ArmeniI nostri concittadini armeni, avendo adottato da anni per istigazione straniera molte perfide idee di natura tale da turbare l’ordine pubblico; avendo provocato conflitti sanguinosi; avendo tentato di turbare la pace e la sicurezza dell’impero oltre che la pace e gli interessi degli altri cittadini; avendo osato unirsi agli attuali nemici in guerra contro il nostro impero, il nostro governo si è visto obbligato a prendere delle misure straordinarie sia per garantire l’ordine che per la sicurezza del Paese, sia anche per il benessere e la conservazione della stessa comunità armena.
Di conseguenza, e come misura in vigore per la durata della guerra, gli armeni dovranno essere trasferiti a destinazioni che già sono state predisposte in alcuni vilayet; ed è rigorosamente prescritto a tutti gli ottomani di ubbidire nel modo più assoluto agli ordini presenti:
1. Tutti gli armeni ad eccezione dei malati dovranno partire entro cinque giorni sotto scorta di gendarmi.
2. Sebbene sia permesso loro di portarsi dietro per il viaggio i beni trasportabili, è vietato agli armeni di vendere le loro proprietà e gli altri beni, oppure di affidarli ad altri, perché il loro esilio è solo temporaneo.
3. Alloggi adeguati sono previsti lungo il percorso, onde assicurare ogni conforto. E sono state predisposte tutte le misure per proteggerli da ogni aggressione o attentato alla loro vita, affinché possano giungere sani e salvi ai rispettivi luoghi di deportazione provvisoria….”

In realtà di “predisposto” per l’accoglienza non v’è proprio nulla…
Di quale sia l’esatta natura dei trasferimenti, si renderanno subito conto gli ufficiali tedeschi di collegamento, che descrivono la situazione nei loro rapporti.
Armin Theophil Wegner (1890) Dove è possibile, come nel caso dell’ufficiale medico Armin T. Wegner, i massacri vengono documentati con testimonianze ed evidenze fotografiche. Documentazione fotografica a cui si accompagnano pure clamorose patacche (come se la mostruosità dei massacri avesse bisogno di effetti speciali!), ovviamente accreditate via web, dove circolano provocando i “sobbalzi” di un’utenza che verifica assai poco, ma indugia sui richiami perversi di certe nudità estreme, volte più che altro a stuzzicare le fantasie sado-masochiste di un erotismo malato…
Crocifissioni di donne (1) Crocifissioni di donnePresentate quasi ovunque come “immagini d’epoca”, con la pretesa di dimostrare la disumanità congenita del “turco e musulmano”, quale unica nel suo genere, si tratta in realtà di fotogrammi cinematografici tratti dalla pellicola “Auction of Souls” del 1919: uno dei primissimi film dedicati al genocidio degli Armeni, tratto dal libro Ravished Armenia di Aurora Mardiganian, che sopravvissuta ai massacri raccontò dell’uccisione di 16 ragazze cristiane (che avevano rifiutato di convertirsi) presso la città di Malatia nel vilayet di Karput (Mamuretül-Aziz).
Auction of Souls (1919)Invero, secondo altri testimoni dell’efferatezza, le ragazze vennero sì trucidate, ma non crocifisse: furono infatti impalate massacro-di-valdesi(per via vaginale), secondo una pratica che nell’Europa cristiana del XVI secolo veniva riservata ai valdesi. Ma in questo caso le ragazze erano tutte rigorosamente vestite, per non offendere la ‘morale’ islamica con sconce nudità esibite in pubblico. Quando la realtà supera la finzione!
Al contrario, durante la Guerra di Algeria (1954-1962) i soldati francesi non si ponevano di questi problemi…
Francesi in AlgeriaPer quei paradossi della storia, nel 1915 crocifissioni di donne in effetti ve ne furono…
Contadine serbe crocifisse dalle truppe austro-ungariche nel 1914Ma ad opera dell’esercito austro-ungarico, nelle sue rappresaglie contro i contadini serbi.
E ciò, se ve ne fosse bisogno, dimostra come la crudeltà sia universalmente diffusa, senza limiti di religione o di “razza”.

Made in France

In merito allo sterminio degli Armeni, tra i numerosi testimoni dell’epoca, i soldati tedeschi presenti nell’Impero Ottomano furono tra i primi a rendersi conto dell’entità e della reale natura dei massacri…
Mappa del genocidio armenoIl tenente colonnello August Stange (Stanke Bey), che assiste agli sgomberi di Erzurum, riferisce:

«L’ordine di evacuazione è stato eseguito nel modo più brutale. La gente è stata buttata fuori di casa e ripartita in piccoli gruppi. La maggior parte non ha avuto neanche il tempo di prendere le cose più necessarie. Sotto gli occhi dei gendarmi, la popolazione locale si è impadronita dei beni abbandonati, di quelli rimasti nelle case, e spesso anche delle cose che gli armeni si volevano portare dietro. Il tempo era inclemente, ma i deportati hanno dovuto deportare all’addiaccio e si sono potuti procurare un po’ di cibo e di acqua solo distribuendo ricche mance ai gendarmi

Hans Freiherr von WangenheimIl 17/06/1915, il barone tedesco Hans von Wangenheim, ambasciatore a Costantinopoli e che pure ha sollecitato i militari tedeschi alla ‘collaborazione’, si vede comunque costretto a riferire a Berlino che avvalla tutta l’operazione:

«È evidente che l’espulsione degli armeni non è motivata solo da esigenze militari. Il ministro dell’interno, Talaat, ha infatti recentemente dichiarato che la Sublime Porta intende approfittare per farla finita in modo radicale [gründlich aufzuraümen] coi suoi nemici interni, senza essere disturbata da interventi diplomatici stranieri

Otto von LossowIl Gen. Otto von Lossow, plenipotenziario tedesco dell’Ambasciata germanica, che nel Novembre del 1923 sventerà il Putsch di Monaco aprendo il fuoco contro i nazisti, secondo un giudizio ampiamente condiviso dai suoi colleghi, ebbe a dire:

«Sulla base di tutti i rapporti e le notizie a me pervenute, non vi può essere alcun dubbio che i turchi stiano puntano al sistematico sterminio delle poche centinaia di migliaia di armeni ancora in vita

Liman von SandersIl Gen. Liman von Sanders si oppone fermamente alle deportazioni nelle città di Smirne e Costantinopoli, ma nelle province orientali la situazione è ben diversa…
Gli Armeni vengono rastrellati ovunque sia possibile e radunati nelle piazze delle città e dei villaggi, quindi incolonnati dalla gendarmeria ottomana lungo i sentieri che si inerpicano per gli altipiani, o attraverso il deserto, verso i centri di smistamento predisposti ad Aleppo che dista centinaia di chilometri, fino alla marcia finale in pieno deserto siriano verso Deir ez-Zor.
Oscar Heizer Oscar Heizer, console statunitense a  Trebisonda sul Mar Nero, non lascia adito a dubbi:

«L’ordine di deportazione è stato annunciato nelle strade il 26 Giugno e giovedì primo luglio è stato fatto eseguire dai gendarmi con le baionette inastate. Gruppi di vecchi, donne e bambini carichi di fagotti sono stati ammassati in una stradina laterale vicino al consolato. Non appena un gruppo raggiungeva il centinaio di persone, veniva avviato sulla strada di Erzerum, nel caldo torrido. Quelli che restavano, estenuati dalla fatica, venivano finiti a colpi di baionetta e gettati nel fiume. I corpi discendevano così fino alla foce, nei pressi della città, dove sono rimasti abbandonati sulle rocce e nella battigia, a imputridire sotto lo sguardo inorridito di chi passava nella zona

Morgenthau_telegram

E rapporti ancor più allarmati vengono stilati per il Henry MorgenthauDipartimento di Stato dall’ambasciatore Henry Morgenthau, che parla apertamente di una “campagna di sterminio razziale” e che sarà tra coloro che più si attiveranno concretamente per arginare la marea degli eccidi e tra i più implacabili nel denunciarli:

«Il vero scopo della deportazione fu rapina e distruzione; in realtà rappresentava un nuovo metodo di massacro. Quando le autorità turche hanno dato gli ordini per queste deportazioni, stavano semplicemente dando la condanna a morte ad una intera razza; hanno capito bene questo, e, nelle loro conversazioni con me, non hanno fatto particolari tentativi per nascondere il fatto

Henry Morgenthau
“Ambassador Morgenthau’s Story” (1918)

A sua volta, il rapporto di Morghenthau si basa sui dispacci dettagliatissimi che Leslie Davis, console statunitense a Karput, fa pervenire all’Ambasciata per tutta la metà del 1915.
Fiume Tigri - Le zattere della mortePer sfoltire il numero dei deportati, la gran parte della popolazione maschile armena viene trucidata subito, fin dai primi rastrellamenti. Nei distretti di Trebisonda, Erzurum, Bitlis, e nella piana di Muş, i prigionieri vengono rinchiusi nei fienili o nelle chiese e bruciati vivi, oppure vengono legati e caricati a forza su barconi che poi vengono affondati in mezzo ai fiumi. Per gli armenisterminatori si apre però il problema dei bambini e degli infanti abbandonati negli ospedali e negli orfanotrofi. A questi pare provveda una squadra di medici assai solerti, che somministrano iniezioni letali di morfina, secondo le istruzioni impartite dal dottor Nazim Bey, uno dei capi dell’Organizzazione speciale addetta allo sterminio.
L’opera di pulizia etnica e di soppressione è così solerte, che Giovanni Gorrini, console generale d’Italia, a proposito degli Armeni di Trebisonda già in estate (25/08/1915) scriverà:

«Degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati, infatti, deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati […] Il passaggio delle squadre degli armeni sotto le finestre e davanti la porta del consolato, le loro invocazioni al soccorso senza che né io né altri potessimo fare nulla per loro, la città essendo in stato d’assedio, guardata in ogni punto da 15mila soldati in pieno assetto di guerra, da migliaia di agenti di polizia, dalle bande dei volontari e dagli addetti del Comitato Unione e Progresso; i pianti, le lacrime, la desolazione, le imprecazioni, i numerosi suicidi, le morti subitanee per lo spavento, gli impazzimenti improvvisi, gli incendi, le fucilate in città, la caccia spietata nelle case e nelle campagne; i cadaveri a centinaia trovati ogni giorno sulla strada dell’internamento, le giovani donne ridotte a forza musulmane o internate come tutti gli altri, i bambini strappati alle loro famiglie o alle scuole cristiane e affidati per forza alle famiglie musulmane, ovvero posti a centinaia sulle barche con la sola camicia, poi capovolti e affogati nel mar Nero o nel fiume Dére Méndere, sono gli ultimi incancellabili ricordi di Trebisonda, ricordi che, ancora, a un mese di distanza, mi straziano l’anima, mi fanno fremere»

Cadaveri di Armeni buttati nell'Eufrate

La seconda ondata di deportazioni si abbatte invece sugli Armeni della Cilicia che vengono annientati nelle marce della morte, lontano da occhi indiscreti dopo le proteste tedesche e americane, tra i monti dell’Anatolia e nei deserti della Siria. Chi rimane indietro, viene ucciso dai gendarmi; tutti gli altri vengono lasciati in balia degli attacchi dei Muhajir, delle bande dei circassi, dei predoni arabi, delle unità di cavalleria irregolare curda, e soprattutto degli assassini a contratto (gli Tchettè) della Techkilat i Mahsousse, ovvero l’Organizzazione speciale del CUP (il partito di governo).
Imperial Army Cavalry LanceNelle sue memorie, l’ambasciatore Morgenthau traccia una descrizione efficace:

«Durante circa sei mesi, dall’aprile all’ottobre del 1915, quasi tutte le grandi vie dell’Asia Minore erano intasate da queste orde di esiliati. Si poteva vederle affollare le valli, o scalare i fianchi di quasi tutte le montagne, marciando e marciando sempre senza sapere dove, se non che ogni sentiero conduceva alla morte. Villaggi dopo villaggi, città dopo città, furono spogliati della loro popolazione armena, in condizioni simili. Durante questi sei mesi, da quanto si può sapere, circa 1.200.000 persone furono indirizzate verso il deserto della Siria.
deportazione armeni[…] Avevano appena abbandonato il suolo natale che i supplizi cominciavano; le strade che dovevano seguire non erano che dei sentieri per muli dove procedeva la processione, trasformata in una ressa informe e confusa. Le donne erano separate dai bambini, i mariti dalle mogli. I vecchi restavano indietro esausti, i piedi doloranti. I conduttori dei carri trainati dai buoi, dopo avere estorto ai loro clienti gli ultimi quattrini, li gettavano a terra, loro e i loro beni, facevano dietrofront e se ne tornavano ai villaggi, alla ricerca di nuove vittime. Cosí, in breve tempo, tutti, giovani e vecchi, si ritrovavano costretti a marciare a piedi; e i gendarmi che erano stati inviati, per cosí dire, per proteggere gli esiliati, si trasformavano in Kurdish Hamidiye officerveri carnefici. Li seguivano, baionetta in canna, pungolando chiunque facesse cenno di rallentare l’andatura. Coloro i quali cercavano di arrestarsi per riprendere fiato, o che cadevano sulla strada morti di fatica, erano brutalizzati e costretti a raggiungere al piú presto la massa ondeggiante. Maltrattavano anche le donne incinte e se qualcuna, e ciò avveniva spesso, si accovacciava ai lati della strada per partorire, l’obbligavano ad alzarsi immediatamente e a raggiungere la carovana. Inoltre, durante tutto il viaggio, bisognava incessantemente difendersi dagli attacchi dei musulmani. Distaccamenti di gendarmi in testa alle carovane partivano per annunciare alle tribú curde che le loro vittime si avvicinavano e ai paesani turchi che il loro desiderio finalmente si realizzava. Lo stesso governo aveva aperto le prigioni e rilasciato i criminali, a condizione che si comportassero da buoni maomettani all’arrivo degli armeni. Cosí ogni carovana doveva difendere la propria esistenza contro piú categorie di nemici: i gendarmi di scorta, i paesani dei villaggi turchi, le tribú curde e le bande di tchettè o briganti. Senza dimenticare che gli uomini che avrebbero potuto proteggere questi sfortunati erano stati tutti uccisi o erano stati arruolati come lavoratori, e che i malcapitati deportati erano stati sistematicamente spogliati delle armi.

Kurdish Cavalry Troops On Horse

A qualche ora di marcia dal punto di partenza, i curdi accorrevano dall’alto delle loro montagne, si precipitavano sulle ragazze giovani e, spogliandole, stupravano le piú belle, come pure i bambini che piacevano loro, e rapinavano senza pietà tutta la carovana, rubando il denaro e le provvigioni, abbandonando cosí gli sfortunati alla fame e allo sgomento

Gendarmi turchi

Nel vilayet di Bitlis opera Mustafa Abdülhalik, che è anche il cognato dello spietato Talaat pascià, il Ministro degli Interni. E siccome i massacri sono ormai una faccenda di famiglia all’interno del Triumvirato della morte, per sradicare la comunità armena, Abdülhalik si fa aiutare dal tenente colonnello Halil, che comanda il nucleo locale dell’Organizzazione speciale ed è imparentato con Enver pascià, il fanfaronesco Ministro della Guerra.

Il Grande Male

Nel vilayet di Diyarbekir e nell’Hakkari, i programmi di sterminio vengono estesi alle comunità cristiane degli Assiro-Caldei. Le deportazioni e gli eccidi si estendono ai distretti di Harput, Mardin, e Viranşehir, Midyat, Nisibi, Jazirah… secondo le solite modalità. Stessa sorte tocca ai villaggi assiri nei pressi della città di Diyarbekir, che vengono attaccati da bande di briganti curdi: Cherang, Hanewiye, Hassana, Kavel-Karre… Secondo le cifre riportate nel 1918 dal Patriarcato siro-ortodosso, nella sola provincia di Diyarbakir, sono 77.963 gli Assiro-Caldei trucidati nella repressione (molti dei quali bruciati vivi) e 278 i villaggi distrutti.
Distribuzione della popolazione Assiro-Caldea nel 1914Ad indirizzare ed aizzare i massacri ci sono i funzionari inviati dal Ministero dell’Interno, per conto di Talaat pascià che è tra i massimi pianificatori dello sterminio.
Mehmed ReshidSoprattutto, a guidare le operazioni sul luogo vi è il governatore Mehmed Reshid, meglio conosciuto come il Macellaio di Diyarbakir.
Come molti dei principali responsabili del genocidio, Reshid Bey è un medico ed ha partecipato alla fondazione del Comitato dell’Ittihad (CUP). Soprattutto, discende da una famiglia di profughi circassi fuggiti dalla Cecenia.
teste mozzate di armeni Durante il suo mandato Reshid Bey fa massacrare circa 150.000 persone, spazzando via il 95% della popolazione cristiana nella sua provincia più popolosa. Chi si oppone viene rimosso o peggio… Hilmi bey, prefetto di Mardin, viene rimpiazzato da Chefiq bey che verrà destituito quasi subito per le stesse ragioni (troppo ‘morbido’). Viene sospettato per l’omicidio di Hussein Nesimi Bey e Sabit Bey, sottoprefetti di Lice e Sabit, insieme a quello di Nadji bey sottoprefetto di Bechiri e originario di Baghdad, che disgustati dalla sua crudeltà avevano provato a porre un freno alle stragi. E per questo viene convocato a rendere conto al comitato centrale. Quando, Mithat Sukru Bleda, il segretario generale del partito, che nonostante tutto non condivide il massacro dei cristiani, gli domanda come un medico possa uccidere o giustificare l’entità di simili massacri e quale ricordo lascerà il suo nome nella storia, Reshid bey sembra abbia obiettato:

“Non è forse il dovere di un medico quello di uccidere i microbi? Lasciate che altre nazioni scrivano su di me qualunque storia vogliano, non me ne può fregare di meno.”

Orhan PamukNella vicina provincia di Van imperversa invece Djevdet Bey, cognato di Enver pascià, e detto anche “Il Maniscalco” per la sua abitudine di far ferrare le piante dei piedi dei prigionieri, come fossero gli zoccoli di un cavallo, e quindi costringerli a marciare. Djevdet organizza raid terroristici contro gli insediamenti armeni attorno al capoluogo eponimo e continue provocazioni ai danni della comunità urbana. Durante le fasi di repressione e deportazione, ordina che chiunque presti aiuto agli Armeni Djevet Beysia ucciso sul posto e la sua casa bruciata. Tra le sue disposizioni, c’è anche l’eliminazione di tutti i maschi al di sopra dei dodici anni, mentre le donne vengono ridotte in schiavitù e vendute come bottino di guerra. I villaggi cristiani distrutti sono oltre 800. I massacri si concentrano in 20 settimane, da Febbraio ad Aprile 1915. E questo prima ancora che vengano promulgati gli ordini di deportazione.
Rafael de Nogales MendezTra i testimoni delle stragi vi è pure Rafael de Nogales Mendez, un mercenario venezuelano e ufficiale di artiglieria, al comando di un distaccamento della gendarmeria ottomana, il quale raccoglierà le sue esperienze nella propria opera autobiografica: Quattro anni sotto la Mezzaluna.
Assyrian genocideLa repressione si estende anche oltre confine, con l’invasione della Persia dove molti dei profughi Armeni ed Assiro-Caldei hanno trovato rifugio e protezione. Ad Urmia e Tabriz la popolazione musulmana insieme alla gendarmeria persiana ed un pugno di consiglieri militari svedesi, supportata da una brigata di cosacchi, si unisce con determinazione ai profughi cristiani per respingere gli attacchi della III Armata ottomana.
Cosacchi russi 1904Dopo lo sgomento iniziale, ovunque possono, gli Armeni Les 40 jours du Musa Daghcombattono, come a Mussa Dagh, in Cilicia al confine tra Siria e Turchia, dove per quaranta giorni di assedio, asserragliati sui monti, in 5.000 riescono a resistere contro una forza turca preponderante, prima di essere portati in salvo via mare da una flottiglia francese giunta in soccorso.

Fortificazione armena a Van

Una macchina imperfetta
impiccati La macchina di sterminio avviata dal governo dei “Giovani Turchi” in realtà non fu mai quel perfetto meccanismo di distruzione di massa, che tendenzialmente si sarebbe portati a credere. La posizione dell’Ittihad (il Comitato per l’Unione e Progesso), da cui provenivano i principali pianificatori dei massacri, era tutt’altro che universalmente condivisa.
ImpiccagioniAllo stesso modo, l’esecuzione degli ordini e delle disposizioni ministeriali fu tutt’altro che unitaria ed unanimemente applicata. E ciò avveniva nonostante la minaccia di ritorsioni ed il deferimento ai tribunali militari, in caso di mancato ottemperamento. In alcuni settori, e specialmente nelle grandi città, i provvedimenti repressivi vennero ‘reinterpretati’, applicati blandamente, oppure bellamente ignorati. In molti casi, governatori militari e funzionari civili, messi alle strette dalle pressioni del governo, si dimisero in segno di protesta piuttosto che essere costretti ad eseguire ordini che non condividevano affatto e giudicavano inumani.
Aleppo1915 - Impiccagione di ArmeniInsieme alla disapplicazione delle normative, furibonde proteste ufficiali furono levate alla volta di Costantinopoli dal vali di Aleppo, Celal bey, che fintanto fu governatore della città si rifiutò sempre di perseguitare gli Armeni. La stessa ferma opposizione si ebbe ad opera di Hasan Mazhar bey, governatore di Ankara, e di Suleiman Nazif, governatore turco di Baghdad. Altri funzionari imperiali come Sabit bey e Nesim bey vennero per questo assassinati da sicari del ministro Talaat.
TalaatPer questo, per facilitare le operazioni, vengono inviati nelle province commissari ministeriali con funzioni ispettive ed ampio potere di delega, al fine di denunciare le infrazioni agli ordini impartiti dal governo. I funzionari più recalcitranti vengono costretti alle dimissioni e sostituiti con esponenti dei “Giovani Turchi” di comprovata fedeltà al partito.
La stessa politica di sterminio messa in atto dal CUP non ebbe affatto il consenso pieno della gente comune, specialmente quella più urbanizzata, che spesso ne era inorridita.
teste tagliateFurono tutt’altro che rari i casi in cui le famiglie musulmane offrivano nascondigli ai loro vicini armeni, prendendone in custodia i beni e opponendosi ai saccheggi. E soprattutto vengono nascosti i bambini. La cosa doveva essere piuttosto diffusa perché le autorità militari ebbero a lamentarsene.
1885Il 10/07/1915, dal suo quartier generale di Tartum nel vilayet di Erzurum, il generale Mahmud Kâmil stilò una nota ufficiale in cui deplorava il comportamento di parte della popolazione civile e dei suoi stessi soldati, rivolgendosi ai governatori dei vilayet interessati dalla deportazione:

Fanteria araba dell'esercito ottomano«Apprendiamo che in certe località, la cui popolazione viene mandata verso l’interno, certi elementi della popolazione musulmana offrono riparo presso di sé agli armeni. Essendo ciò contrario alle decisioni del governo, i capifamiglia che tengono presso di sé o proteggono armeni devono essere messi a morte davanti alle proprie case ed è indispensabile che queste siano incendiate. Quest’ordine dev’essere trasmesso come si conviene e comunicato a chi di competenza. Controllate che nessun armeno non deportato possa rimanere e informateci della vostra azione. Gli armeni convertiti dovranno ugualmente essere inviati. Se quelli che cercano di proteggerli o mantengono rapporti amicali con loro sono dei militari, dopo avere informato il loro comando bisogna immediatamente rompere i loro legami con l’esercito e portarli in giudizio. Se si tratta di civili, è necessario licenziarli dal loro lavoro e spedirli davanti alla corte marziale affinché siano processati

Le defezioni, che furono varie e numerose, non erano sempre dettate da motivi propriamente umanitari o ragioni disinteressate…
Negli ambienti di governo si discuteva sull’utilità dello sterminio. Molti esponenti politici, e soprattutto i notabili locali, facevano notare che una eliminazione indiscriminata degli Armeni privava l’impero di una preziosa classe media di professionisti, che nel caso delle province orientali dell’Asia Minore costituiva la quasi totalità dei medici, degli artigiani più esperti, e degli investitori commerciali.
cavalieri curdi nel 1915Le tribù curde, che pure ebbero un ruolo determinante nei massacri, finirono col venirne a noia o più semplicemente, nell’opera di assimilazione forzata all’elemento turco, incominciarono a sospettare di essere i prossimi. Alcuni capi tribali obiettarono cinicamente che lo sterminio degli Armeni li avrebbe privati di una vantaggiosa fonte di reddito, dal momento che nessuno avrebbe più corrisposto loro il tributo in termini di forniture di cereali e pagamento della ‘protezione’: aspetti molto più vantaggiosi sul lungo periodo, rispetto al saccheggio di una popolazione già duramente prostrata.
kurd_pcNel vilayet di Diyarbekir, dove spadroneggia Reshid bey e la sua “Brigata macellaia”, l’agha curdo di Sirnak, Rachid Osman pone la sua banda a difesa dei 500 Armeni di Harbol.
Kasap taburuE lo stesso fa un altro capo curdo, Murtula beg, che mette sotto la propria protezione armata tutti i villaggi che può difendere attorno a Mogkh nel vilayet di Van, schierandosi contro il governatore e contribuendo alla salvezza di quasi 5.000 armeni.

Hamidiye curdi

Spesso le sopravvivenza di singoli individui o comunità era rimessa ad un puro capriccio del caso, determinato dalla località di residenza, l’appartenenza sociale, il livello di istruzione e le doti intellettuali, il sesso e l’età, nonché la bellezza fisica.

Armena di Tiflis «Ragazzine o giovani donne istruite, che parlavano preferibilmente il francese o l’inglese, che suonavano il piano o il violino erano particolarmente concupite dai funzionari dei “Giovani Turchi”, che desideravano fondare con loro famiglie turche “moderne”. Questa categoria di armene, che ne conta qualche migliaio, forma un primo gruppo di superstiti, sposate Alì Samilcontro la loro volontà ai loro “salvatori”. Una seconda categoria di scampate, sempre collocata nel gruppo delle giovani femmine e che consiste questa volta in decine di migliaia di persone, è stata resa schiava da notabili locali, semplici soldati, funzionari civili, capi tribali di tutte le origini (turche, curde, arabe, beduine), anche contadini o più spesso ancora loro vicini: rapite o comprate sulla via delle deportazioni, senza motivo ideologico, esse avevano la vocazione di arricchire gli harem, a trasformarsi in oggetti sessuali, ad alimentare i bordelli organizzati dalle autorità ottomane. Non di meno sono state salvate. Certune hanno anche fondato delle famiglie con i loro aguzzini, dopo essersi convertite. Una parte di loro, alla fine della Prima guerra mondiale, è stata ritrovata nei rifugi creati per la loro riabilitazione. Molte, impregnate di un forte senso di colpa, hanno preferito rimanere con i loro “salvatori”.
cache_42075621I bambini, dei due sessi, di età inferiore ai 5 anni nel 1915 hanno formato la categoria più numerosa fra i superstiti. Il loro salvataggio dipende tuttavia da situazioni molto diverse fra loro. Coloro che erano considerati più “sani” sono stati fatti oggetto di un traffico diretto ad allargare la famiglia di coppie senza figli, soprattutto nelle città come a Costantinopoli o Aleppo, in maggioranza “turche”, di ceti sociali elevati – dell’orbita dei giovani turchi o dei notabili di provincia, talvolta divenendo i cocchi di queste famiglie.
Qajar_Armenian_WomenLa grande maggioranza di questi bambini tuttavia s’è ritrovata in ambiente rurale, in famiglie curde, arabe o beduine modeste, dove è vissuta in condizioni di ferahogluailesi60schiavitù venendo talvolta abusata sessualmente. Una piccola minoranza è stata perfino accolta negli orfanatrofi creati dallo Stato-Partito a fine di farne i “nuovi Turchi”. Non di meno sono stati salvati. Molti sono stati raccolti da gruppi di ricerca organizzati dalle istituzioni armene all’indomani dell’armistizio di Moudros.
armeni assassinatiGiovani donne e bambini molto piccoli di età formano le due categorie principali di armeni salvati, se così si può dire, da un aspetto ideologico del piano genocidario che consisteva nello schiavizzare una parte del gruppo vittima e integrarlo nel progetto di costruzione di una nazione turca

Raymond Kévorkian
“La resistenza ai genocidi.
Atti diversi di salvataggio”
(Parigi – Dicembre 2006)

Un tentativo di salvataggio riuscito con successo riguarda invece le studentesse armene del Collegio americano di Bitlis. Che riescono a sfuggire alla deportazione ed ai matrimoni forzati, grazie all’intervento di Mustafa bey, responsabile dell’ospedale militare. Mustafa è un medico arabo di origine siriana, che si è specializzato in Francia e Germania. Riesce a far passare le ragazzine armene come infermiere e personale specializzato, indispensabile per il buon funzionamento dell’ospedale, finché queste non vengono fatte espatriare in USA dagli insegnanti statunitensi della scuola.

«Più a ovest, in Anatolia, dove delle colonie armene fiorivano da secoli in ambiente turco, la situazione era molto meno tesa che all’Est. Il vilayet di Angora aveva inoltre la particolarità di ospitare una popolazione armena a stragrande maggioranza di rito cattolico, oltretutto turcofona (ma scrivente in caratteri armeni), la quale aveva una reputazione di essere troppo poco politicizzata e perfettamente inoffensiva. Il vali, Hasan Mazhar bey, in carica dal 18 giugno 1914, era per lo meno così convinto di quanto precede da resistere agli ordini di deportazione rivoltigli dal ministero degli Interni. La risposta di Istanbul è stata rivelatrice. A inizio del 1915, il Comitato centrale dei “Giovani Turchi” ha inviato ad Angora uno dei suoi membri più eminenti, Atıf bey, del quale conosciamo il ruolo ricoperto in seno alla direzione politica della Techkilat-ı Mahsusa [l’Organizzazione speciale] in qualità di delegato. Su suo intervento diretto, il ministro degli Interni pone immediatamente fine alle funzioni del vali Mazhar l’8 luglio 1915 e nomina vali ad interim il delegato del partito Atıf bey, che porrà in atto lo sterminio degli armeni della regione.
Nel sangiaccato di Ismit, vicino a Istanbul, tutti gli armeni sono stati deportati nell’agosto 1915 con l’eccezione di quelli di Geyve il cui sottoprefetto, Said bey (in carica dal 19 settembre 1913 al 21 agosto 1915) si è rifiutato di applicare gli ordini e di conseguenza è stato destituito e sostituito da Tahsin bey (in carica fino al 5 settembre 1916), un militante dei “Giovani Turchi”.
Eppure, tutti questi fatti evidenziano atti di coraggio che non hanno realmente permesso di salvare armeni. Diversamente è andata a Kütahya, una prefettura a ovest di Angora, la cui popolazione armena non è mai stata deportata. il mutesarif Faik Ali bey non ha eseguito gli ordini di deportazione senza tuttavia essere destituito. Secondo il giornalista Sébouh Agouni, che dopo la guerra gli ha personalmente domandato come fosse riuscito a mantenere gli armeni della regione nelle proprie case, sembra che la popolazione turca locale si sia fermamente opposta alla deportazione degli armeni, spinta da due famiglie di notabili, i Kermiyanzâde e gli Hocazâde Rasık Gli armeni dei sangiaccati vicini di Aydin e di Denizly hanno beneficiato dell’azione di un funzionario locale, il comandante della gendarmeria di Aydin Nuri bey.
Adana[…] Nel sud, a Adana, il vali Ismail Hakkı bey, un albanese considerato moderato, sembra aver resistito alle pressioni del CUP locale, che gli chiedeva di eseguire gli ordini di deportazione. Senza opporsi apertamente a essi, in qualche caso egli è riuscito a ritardare la partenza dei convogli o a farli tornare indietro.
Al nord del vilayet di Adana, nel sangiaccato di Hacın, la missionaria americana Edith Cold segnala che il mufti della città si è rifiutato di appoggiare le deportazioni e ha perfino preso possesso dei beni di uno dei suoi amici armeni affinché non siano depredati.
[…] Noi potremmo aggiungere, per completare il nostro studio del comportamento degli alti funzionari locali, che certi prefetti o sottoprefetti, soprattutto nelle regioni che ospitavano i campi di concentramento, hanno salvato armeni o li hanno risparmiati dalla deportazione in cambio di somme enorme, mentre altri riscuotevano effettivamente un riscatto continuando a inviare alla morte i “donatori”. La sfumatura fra questi due tipi di comportamento non si può negare. Con l’esperienza, certe famiglie in grado di pagare per avere salva la vita avevano del resto trovato una sorta di risposta a questi comportamenti cinici, utilizzando delle lettere di cambio che erano firmate dagli interessati solo ogni mese. Questo sistema di ripartizione mensile ha permesso ad alcuni di sopravvivere per più di un anno o almeno fino a esaurimento del budget

Raymond Kévorkian
“La resistenza ai genocidi.
Atti diversi di salvataggio”
(Parigi – Dicembre 2006)

Squadrone di cavalleggeri

Operazione Nemesi
A shameful actCon la fine della prima guerra mondiale e la catastrofica sconfitta della Turchia che vede dissolversi il suo impero, i responsabili del genocidio, avvenuto tra l’altro sotto gli occhi di tutti ed alla luce del giorno, vengono messi sotto processo e condannati in contumacia, poiché nel frattempo hanno avuto modo di riparare all’estero, soprattutto in Germania che rifiuta ogni richiesta di estradizione.
Pertanto, in risposta alla cappa di impunità che si è andata condensando attorno agli sterminatori, la “Federazione rivoluzionaria armena” del Dashnak organizza la cosiddetta “Operazione Nemesi”, affidata a squadre di giustizieri che hanno il compito di colpire i colpevoli ovunque si nascondano.
In pochi anni, tra il 1921 ed il 1922 vengono colpiti i principali pianificatori del genocidio, a partire dal “Triumvirato della morte”, il direttorio che ha guidato con pugno di ferro la Turchia durante gli anni della guerra.
Mehmed Taalat pascià, l’ex ministro dell’Interno e poi Gran Vizir, viene ucciso a Berlino il 15 marzo del 1921. Stessa sorte tocca a Jemal pascià, ministro della Marina; all’ex primo ministro Said Halim, tra i massimi dirigenti dei “Giovani Turchi”; al dott. Behaeddin Chakir, responsabile dell’Organizzazione Speciale, a Gemal Azmi, prefetto di Trebisonda…
Molti altri esponenti dei “Giovani Turchi” provarono a riciclarsi nel nuovo governo nazionalista di Mustafà Kemal Ataturk, finendo successivamente giustiziati per aver tentato un nuovo colpo di stato.
greek_cavalry_1921Ovviamente i massacri non cessarono, ma si estesero dilatati ad una nuova dimensione che avrebbe riguardato le popolazioni elleniche presenti in territorio turco, in una delle più grandi pulizie etniche della storia moderna, estesa dall’Albania al Caucaso, nel corso del devastante conflitto che oppose la Grecia e la Turchia tra il 1919 ed il 1922: la più tragica dimostrazione di quali livelli di brutalità e ferocia può raggiungere l’idiozia della febbre sciovinista.

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Riepilogo delle pubblicazioni precedenti:
1) Profondo rosso
2) Medz Yeghern

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GERMANIA FEROX

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Coat of Arms in German Afrika (1914)Nato quasi per caso, dietro una pressione particolarmente aggressiva di una intraprendente oligarchia di spregiudicati circoli mercantili, Deutsch OstAfrikaambienti ultranazionalisti, e conventicole integraliste, l’espansionismo coloniale dei tedeschi in Africa si sviluppa su due direttive, ad Est e ad Ovest, nella febbricitante acquisizione del maggior numero di territori possibili, prima della chiusura della Conferenza di Berlino, sulla spartizione delle terre africane (1894-1895). Se nell’Africa orientale la penetrazione germanica, si apre i propri spazi di azione ai danni del Sultanato di Zanzibar (e con la tolleranza britannica), estendendosi in modo omogeneo dalla costa ai grandi laghi dell’interno, sul versante opposto questa si ritaglia brandelli di territorio in ordine sparso e ovunque sia possibile, senza troppe sottigliezze o scrupoli.
Polizeitruppe Nella futura colonia del Kamerun, l’iperattivismo delle compagnie commerciali amburghesi (in particolare la società dei Fratelli Woermann), operative nel golfo di Guinea con traffici estesi dalla Liberia al Gabon fin dalla metà del XIX secolo, sfocia in una occupazione diretta del territorio africano a partire dal 1894. Insieme alla compagnia Jantzen & UfficialeThormählen, la Wolber & Brohm e GL Gaiser, la Woermann traffica in armi e liquori, con le popolazioni indigene, in cambio della raccolta di olio di palma. Al contempo, prende possesso di vaste piantagioni specializzate nella produzione di banane, tabacco e cotone, che fanno il paio con le ricche piantagioni di cacao e caffé che i commercianti tedeschi hanno rilevato dai danesi nel vicino Golfo del Benin, con base a Lomé e capitale dell’attuale stato del Togo.
DWAG - German West African Company Preoccupati delle continue dispute tra i regoli locali, perennemente in lotta tra di loro, i mercanti tedeschi, riuniti nella “Compagnia dell’Africa Occidentale tedesca” (Deutsch-Westafrikanische Gesellschaft), hanno bisogno di una amministrazione stabile che garantisca i loro affari, chiedendo l’instaurazione di speciali “aree di protezione” ad opera del governo germanico.

Polizeitruppe

TOGOLAND
Proposed Coat of Arms Togo - 1914Per consolidare la loro presenza nella regione, nel Febbraio del 1884, i tedeschi stipulano uno dei loro trattati di “eterna amicizia” con le popolazioni rivierasche intorno al porto di Aného, una vecchia stazione portoghese per il commercio degli schiavi. Per essere più convincenti, sequestrano i capi indigeni locali che prontamente accettano la “protezione” tedesca in cambio del rilascio.
Il 05/07/1884, con i cosiddetti Trattati di Togoville, l’esploratore e diplomatico Gustav Nachtigal, firma un accordo col re africano Mlapa III, estendendo la “protezione” dell’Impero germanico dalla Costa d’Oro britannica al Benin francese. In pratica, si tratta di una striscia ritagliata tra le colonie francesi del Dahomey e dell’Alto Volta ghanese, affondata nei lidi paludosi di quella che un tempo era conosciuta come “Costa degli schiavi” e proiettata verso l’interno dell’entroterra africano. Di fatto, con la nascita del “Protettorato Togoland” (Schutzgebiet Togo), si ha il riconoscimento della prima colonia tedesca in terra d’Africa, subito sancita dall’arrivo delle cannoniere della Kaiserliche Marine.

Deutsch-Kamerun

KAMERUN
Proposed Coat of Arms Cameroon - 1914Pochi giorni dopo (12/07/1884), la premiata ditta Jantzen & Thormählen, con l’intermediazione di Eduard Schmidt per conto della compagnia Woermann, stipula un ulteriore trattato di protezione con tali Akwa e Ndumbé Lobé Bell: re tribali delle terre dei Duala, che vivono lungo l’estuario dell’attuale fiume Wouri nel Golfo di Guinea. All’epoca, il fiume Wouri era conosciuto col nome datogli dai mercanti di schiavi portoghesi: Rio dos Camarões (fiume dei gamberi), deformato dai tedeschi in Kamerun e da lì il nome della colonia.
Estuario del fiume Wouri nel 1850Il furbo Lobé Bell, per il disturbo, si fa liquidare dai tedeschi la bellezza di 27.000 marchi in oro per la sua firma, sancendo il riconoscimento ed il rispetto di tutti i contratti di proprietà e cessione precedentemente stipulati dalle compagnie tedesche, con la cessione di 220.000 acri.
Dieci anni dopo dalla stipula del trattato, nel 1895, le acquisizioni tedesche avevano raggiunto un’estensione di quasi 500.000 km², ai quali vanno aggiunti gli altri 60.000 km² del Togoland.
Le foto dell’epoca ci restituiscono il ritratto di un soddisfatto Re Bell in tenuta da pagliaccio.

Re Bell nel 1881

Un ulteriore tentativo di creare un enclave commerciale tedesca in Nigeria (Mahinland), per intercessione di Gottlieb Leonhard Gaiser, dell’omonima casa commerciale di Amburgo, con tanto di contratto di compravendita il 29/01/1885, è destinato a rimanere frustrato.
Kamerun PolizeitruppeLa situazione relativamente tranquilla delle colonie del Togo e del Kamerun, gli indigeni pacifici e l’esiguo numero di coloni occidentali che non superavano le poche centinaia, insieme allo status giuridico di Gottlieb Leonhard Gaiser“protettorato”, non richiesero mai un’eccessiva presenza militare. Per questo le mansioni di sicurezza ordinaria ed ordine pubblico furono più che altro demandate ad uno speciale corpo di polizia militare con Kameruneffettivi indigeni, la Polizeitruppe, per un dispendio minimo in termini di risorse ed una amministrazione coloniale piuttosto efficiente che, almeno sul piano della formalità, agiva sulla sottoscrizione di un mandato contrattuale di natura assolutamente legale.

Flag of Deutsch Südwest Afrika

NAMIBIA
Proposed Coat of Arms Southwest Africa 1914Le cose cambiano (e in peggio!) nel caso dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest (Deutsch-Südwestafrika), corrispondente all’attuale Namibia.
A partire dall’Aprile 1883, Adolf Lüderitz, un furbo mercante di tabacco legato alle gilde mercantili di Brema, estorce una serie di contratti truffaldini ai danni degli oriundi boscimani (Owambo; Khoi; Nama; Herero), che i tedeschi chiamano dispregiativamente “Ottentotti” (balbuzienti), stanziati lungo la costa sud-occidentale della Namibia, quasi al confine con l’odierno Stato del Sudafrica.
Il termine ottentotto è invero di origine olandese ed è mutuato dai coloni boeri del vicino Kapland sudafricano.
NamibiaIl 01/05/1883, consigliato da alcuni missionari tedeschi, Lüderitz, insieme al suo compare Heinrich Vogelsang, acquista la baia di Angra Heinrich VogelsangPequeña, convinto che la regione sia ricca di giacimenti minerari, da un locale capo ottentotto al quale i due tedeschi conferiscono il pomposo nome tedesco di Giuseppe Federico II, investendolo di poteri regali che in realtà il capotribù non possiede. In cambio di 100 sterline in oro e 200 fucili, adolf luderitzLüderitz compra la baia ed il territorio circostante per una profondità di 5 miglia, al quale con somma modestia dà il nome di Lüderitz Land.
Molto probabilmente, Giuseppe Federico non era un re tribale, ma un kaptein di quelli che i boeri chiamavano evocativamente “Baasters” (bastardi): ovvero, mezzosangue di lingua afrikaans, nati dalle relazioni (non sempre consensuali) che i primi coloni olandesi e tedeschi della Colonia del Capo avevano intrattenuto con le donne locali dei Nama.

Basteers

Discriminati ed emarginati, intorno al 1870, la piccola comunità dei Baasters (circa 1.500 unità) si trasferirà progressivamente verso nord, oltre il fiume Orange in Namibia, fondando un suo stato indipendente: la “Libera Repubblica di Rehoboth”, con tanto di parlamento rappresentativo (Volkraad) regolarmente eletto ed una propria costituzione democratica (Vaderlike Wette).
Contadini Herero nel 1913Sempre nel Maggio del 1883, tanto per non perdere tempo, Heinrich Vogelsang, il giovane socio di Lüderitz, acquista altre 20 miglia di costa tra Angra Pequeña ed il fiume Orange. Nel contratto, i due furbacchioni omettono di specificare alle tribù Nama (che per l’appunto non sono dei selvaggi analfabeti), come la misurazione delle terre cedute non sia in miglia inglesi (come gli africani si aspettano), ma in “miglia prussiane”… ovvero: 7.532 metri contro i 1.852 metri del sistema di misura anglosassone.
Unsere_Schutztruppen_in_Afrika_Tafel_49Esattamente come Carl Peters andava facendo sul versante orientale german troopersdell’Africa tedesca, nel 1884 Lüderitz ottiene la ratifica dei trattati da parte del governo di Berlino, con l’annessione dei territori alla Germania insieme all’invio di truppe e governatori militari.
DAWG - deutsch-westafrikanische gesellschaft 1905 Quindi, nell’Aprile del 1885, anche Adolf Lüderitz fonda la sua nuova “Società coloniale per l’Africa tedesca del Sud-Ovest” (Deutsche Kolonialgesellschaft für Südwest-Afrika), per lo sfruttamento massiccio delle terre occupate. La DKGSWA, o più semplicemente DWAG, costituisce il tipico esempio di commistione trasversale tra potere politico, economico e finanziario, con la confluenza di importanti istituti di credito, gruppi industriali, e la partecipazione di esponenti del mondo politico.
DOAAd ogni modo, Lüderitz non avrà modo di godersi il frutto dei suoi sforzi, perché nel 1886 muore annegando nel fiume Orange durante una delle sue spedizioni.

Deutsch-Süd-West-Afrika

Un’amministrazione cristiana e moderna
Ernst Heinrich Göring Ad amministrare la nuova colonia dell’Africa del Sud-Ovest, dalla Germania viene inviato un commissario imperiale con poteri straordinari. Si tratta di Heinrich Ernst Göring, il padre del futuro feldmaresciallo del Terzo Reich. Nel corso del suo mandato (1890-1885), Göring senior si distingue sostanzialmente, per la sistematica espropriazione ed il massacro delle popolazioni locali, con l’instaurazione di una rigida separazione razziale e l’elaborazione delle prime forme di apartheid, sancite dal nuovo sistema giuridico introdotto il 17/04/1886.
Schutztruppe - Bundesarchiv_Bild Deutsch-OstafrikaGöring persiste nella fortunata pratica dei trattati truffa e come un moderno boss mafioso estorce contratti di “protezione” alle popolazioni indigene. Quindi si fa costruire una lussuosa residenza su un altura DSWA - zerstoerteWagenbauereisacra agli Herero, dove ha sede un loro antico cimitero. Per attirare nuovi investimenti da parte della DWAG, con l’afflusso di coloni e nuovi contingenti militari per rafforzare il suo potere personale, Göring vanta la presenza di straordinari filoni auriferi nella regione a nord della nuova capitale coloniale di Otjimbingwe. Pare che per essere più convincente, si sia messo a sparacchiare nelle grotte della zona con fucili caricati a polvere d’oro.
Deutsch-SüdwestafrikIl suo aiutante generale sul campo (Landeshauptmann), futuro Curt von Francoisgovernatore, è il capitano Curt von François, irrequieto discendente di un’antica famiglia ugonotta, che estenderà ulteriormente i confini della colonia ai danni delle popolazioni siminomadi dei Nama e degli Herero, contro i quali Südwest-Afrikaconcentra i suoi raid punitivi. Gli Herero sono pastori abituati a seguire la transumanza degli animali; non riconoscono diritti inalienabili di proprietà e considerano i corsi d’acqua bene comune. I coloni tedeschi dal canto loro requisiscono le mandrie che confinano nei terreni espropriati, vantano la proprietà esclusiva sui pozzi idrici, e imprigionano i pastori quando non gli sparano direttamente addosso.
Namibia 1900 - Insediamento HereroA fronte di un’immigrazione relativamente contenuta (meno di 3.000 unità), i tedeschi si distinguono per un colonialismo particolarmente rapace e vessatorio.
HereroNel 1896 esplode la prima rivolta dei Nama guidati dal loro capo Hendrik Witbooi, conosciuta come ribellione dei Khaua-Mbandjeru e repressa duramente dal maggiore Curt von François. Vengono requisiti senza indennizzo 12.000 capi di bestiame; i Nama del Kailkhauan vengono disarmati e costretti al lavoro coatto dopo essere stati internati in speciali campi di prigionia.
Proudly-Afrikan-Namibian-Bones-2Nel 1897 un’epidemia di peste bovina falcidia le mandrie degli Herero, che per sopravvivere sono costretti ad alienare gran parte dei loro territori, offrendosi come contadini delle nuove piantagioni e tenuti in uno stato di semi-schiavitù.
Erichsen_slave_labour_p._83_v2Al contempo, vengono deportate o disperse le comunità meticce dei Baastards afrikaneer, rinchiusi in “riserve”.
Theodor Gotthilf LeutweinIl nuovo governatore Theodor Gotthilf Leutwein (1894-1904) viene ferocemente criticato, per questa sua linea troppo morbida e così tanto accondiscendente nei confronti degli autoctoni.
LeutweinÈ interessante notare come una delle rappresentazioni preferite tra gli illustratori del colonialismo tedesco in Africa, il soggetto prediletto sia il ritratto di marziali orchestrine militari, riprodotte in tutte le salse possibili. Con ogni evidenza, insegnare la musica ai negri doveva essere considerato il massimo risultato di ogni civilizzazione possibile.

askari kapelle

ORCHESTRINA (Askarikapelle) - Bundesarchiv_Bild Deutsch-Ostafrika

La grande rivolta degli Herero
WATERBERG Battle - Le Petit Journal 21.02.1904 Il 1904 segna l’inizio della grande rivolta degli Herero del Damaraland, che coglie completamente di sorpresa i tedeschi, impegnati a reprimere l’ennesima ribellione ai confini meridionali della loro colonia. Il governatore Leutwein dispone infatti di forze limitate, costituite da meno di 3.000 uomini e così ripartite: quaranta ufficiali e 726 soldati divisi in quattro compagnie di cavalleggeri; una batteria di artiglieria campale; una riserva di 34 ufficiali e 730 soldati di fanteria, con un complemento ausiliario di 250 scout (in massima parte reclutato tra i Bastards), ai quali vanno aggiunti le forze di Marina ed i volontari reclutati tra i residenti tedeschi nella colonia.
Namibia 1904OMEG railway prior to 1915.Il 12/01/1904, gli Herero della regione di Okahandja, esasperati dalle requisizioni tedesche e gli espropri di terreno per la costruzione delle nuova ferrovia di Otavi che taglia in due il Damaraland, si ribellano sotto il comando di Samuel Maharero, che pure non aveva mancato di mantenere fino ad allora buone relazioni con l’amministrazione coloniale tedesca.
Leutwein-MahareroA scatenare l’esasperazione degli Herero è un certo tenente Ralph Zürn, comandante della guarnigione locale, sorpreso a saccheggiare i cimiteri indigeni alle ricerca di crani da asportare in un infame commercio. Da notare che gli Herero erano cristiani.
Samuel MahareroDi certo, Samuel Maharero, che aveva fama di poliglotta, era dotato di notevoli doti diplomatiche, poiché aveva saputo ricomporre brillantemente i dissidi e le faide che contrapponevano da sempre i Nama agli Herero, convincendoli a prendere parte attiva nella rivolta e sancendo l’alleanza col suo storico rivale WitboiHendrik Witbooi ed altri capi indigeni. Con questi aveva avuto modo di intrattenere una fruttuosa corrispondenza, pianificando nei dettagli la rivolta. Furbamente, aveva dato ordini precisi di non recare alcun danno alle missioni protestanti e di evitare ogni azione contro residenti inglesi o le comunità boere. Al contempo, proibisce tassativamente ogni violenza contro donne e bambini, o la popolazione non combattente.
Namibia (ferrovia)Con una forza sul campo di 8.000 uomini in armi, gli Herero attaccano e saccheggiano le fattorie isolate; spezzano i collegamenti ferroviari, distruggendo il ponte di Otona; quindi pongono d’assedio gli importanti centri coloniali di Okahandja e Windhoek.
BW_VrijKorpsatrailwaytruck_LAngeNegli attacchi, circa 150 coloni tedeschi cadono morti sul campo. E nonostante le accortezze prese da Maharero, restano uccisi anche tre donne e sette boeri.
Per le operazioni militari, Maharero si fa affiancare da un abile capo: Jakob MorengaJakobus Morenga, che da luogo ad una serie di brillanti operazioni di guerriglia, con attacchi mordi e fuggi contro i presidi delle schutztruppe coloniali. Per le sue tattiche di guerra, Morenga viene (esageratamente) soprannominato il “Napoleone nero”.
Con l’avvicendamento del governatore Leutwein, anche i Nama di Hendrik Witbooi entrano in guerra. Witbooi, Witbooi Hendriklegato da personale amicizia col commissario tedesco, non si sentiva più vincolato al rispetto del trattato di pace, impostogli durante la sanguinosa repressione del 1897. Nonostante i suoi 70 anni suonati, il vecchio capo Nama guida personalmente i suoi guerrieri in battaglia, salvo rimanere ucciso durante uno scontro a fuoco (29/10/1905) sui monti del Karas, durante l’agguato ad una colonna tedesca, per una ferita non curata.
Tuttavia, dopo i primi rovesci, la reazione dei tedeschi sarà brutale e spietata.

berfall auf marsch

Lothar von Trotha
L.v.Trotha a Pechino durante la rivolta dei Boxers Il 03/05/1904, Theodor Leutwein viene sostituito dal generale Lothar von Trotha, che si porta appresso un corpo di spedizione di quasi 15.000 soldati regolari. Lothar von Trotha è un militare di lungo corso: ha combattuto come ufficiale di carriera nelle guerre prussiane contro l’Austria e la Francia, inoltre è uno specialista in guerre coloniali. In tale ambito, si è fatto un nome per i suoi metodi spicci e spietati, usati per reprimere i Boxers nella ribellione cinese del 1900. Nelle colonie tedesche dell’Africa orientale si è distinto per la ferocia con cui ha schiacciato la rivolta dei WeHehe.

schutztruppen in combattimentoE su tale esperienza questa specie di proto-nazista basa la sua linea di azione…

“La mia intima conoscenza della gran parte delle tribù africane mi ha del tutto convinto che un Negro non rispetta i trattati ma solo la forza bruta.”

Lothar von Trotha (1) Lothar von Trotha applica subito la tattica già sperimentata con successo della terra bruciata e tecniche di terrorismo indiscriminato ai danni delle popolazioni non combattenti. Prima di scatenare la sua offensiva attraverso una preventiva azione strutturale di pulizia etnica, ordina alle popolazioni indigene di abbandonare il territorio ‘tedesco’ della Namibia, esprimendo quello che è il suo intimo convincimento:

“Io credo che una nazione come questa dovrebbe essere annientata, oppure, se ciò non è possibile con misure tattiche, dovrebbe essere espulsa dal paese […] La costante pressione delle nostre truppe dovrebbe aiutarci a stanare anche i gruppi più piccoli di questa nazione che si sono mossi nelle retrovie e distruggerli gradualmente.”

Trotha non mancherà di fare l’una e l’altra cosa…
MeharistiGiocando sulla velocità di spostamento e sui vantaggi di una guerra di movimento, il generale Von Trotha fa grande affidamento sulla mobilità ridersdelle sue truppe montate ed in particolare sulle unità mehariste delle sue efficienti truppe cammellate, per intercettare e distruggere i gruppi di Herero che si muovono assai lentamente, trascinandosi dietro mandrie e familiari, in modo da arrestarne le incursioni ma al contempo tagliando loro ogni via di fuga.
HererowarsIl 12/08/1904, sull’altipiano di Waterberg, sconfigge in una dura battaglia campale le forze congiunte dei Nama e degli Herero, senza tuttavia riuscire a strappare una vittoria definitiva.

krieg5

In compenso, i tedeschi si accaniscono sulla popolazione inerme che seguiva i guerrieri in battaglia, attendendo nelle retrovie, caricandoli a colpi di baionetta ed impiccando i superstiti.
ImpiccagioniUna degna (ennesima) lezione di civiltà da parte della razza superiore.
Schutztruppen riempiono le borracce Con una enorme manovra a tenaglia, i tedeschi cominciano a premere i ribelli verso il desolato deserto del Kalahari, procedendo al sistematico avvelenamento dei pozzi d’acqua, facendo invece presidiare quelli che servono al suo esercito, onde sfiancare il nemico per fame e per sete. Chiunque si arrende, viene impiccato sul posto con teutonico rigore.
Herero-ExecutionsQuindi si assicurano la linea dei rifornimenti, puntellando il territorio con presidi stabili a ridosso del deserto, lungo una linea di 150 miglia, stabilendo una fascia di protezione invalicabile.

Reiter der Schutztruppe beim Gewehrreinigen in Swakopmund Deutsch-Südwestafrika

Dalle loro postazioni di difesa, i tedeschi inviano pattuglie ricognizione e squadroni di cavalleria, onde intercettare e bloccare ogni movimento dei Nama e degli Herero.

pattuglia

Per sopperire al trasporto delle truppe di fanteria ed in special modo dell’artiglieria da campagna, si fa ampio ricorso alle ferrovie, con l’organizzazione di convogli militari.

treno artiiglieria

Soprattutto, per completare l’accerchiamento e la distruzione dei ribelli, il comando germanico elabora un piano di sterminio generalizzato. In qualità di Impiccagioni (1)comandante supremo, Lothar von Trotha dà ordine di distruggere tutti i raccolti, sterminare il bestiame, e passare immediatamente per le armi qualsiasi “negro” con cui si imbattono le sue truppe, senza particolari riguardi per sesso, età, o condizioni.
DSWA_Ausmarsch_der_Truppen_Outjo_Chiusi nella sacca desertica tra l’Omaheke ed il Kalahari, senza acqua né provviste, gli Herero vengono ulteriormente falcidiati dai raid delle pattuglie tedesche, le quali perlustrano le piste che conducono  ai pochi pozzi disponibili.
Staffetta meharistaNei dispacci che lo stato maggiore germanico in Namibia invia al Kaiser non si perde occasione di sottolineare come:

DSW Feldkompanie“l’arido deserto di Omaheke ha completato ciò che l’esercito tedesco ha cominciato: lo sterminio della nazione Herero”

Lothar von Trotha e il suo Stato Maggiore
Franz Georg von Glasenapp Il generale Franz Georg von Glasenapp, professionista di grande esperienza, che con Ludwig von Ludwig von EstorffEstorff, guida uno dei tre corpi d’armata nei quali il gen. Trotha ha suddiviso il suo esercito, verrà pubblicamente biasimato per aver impedito il totale sterminio degli Herero, permettendo agli ultimi superstiti di riparare in territorio britannico. Per questo Glasenapp fu destituito dal comando e provvisoriamente privato del grado.

Deutsch-Süd-Westafrika, Stab von Estorff

In tal modo, Maharero e Morenga riuscirono però a riparare in Botswana, dopo una allucinante traversata del deserto del Kalahari, con meno di mille superstiti, su un nucleo originale di circa 50.000 Herero al seguito, ponendosi sotto la protezione degli inglesi. Morenga, il sedicente Napoleone, morirà nel 1907 durante uno scontro a fuoco contro una pattuglia della polizia coloniale britannica.

Surviving Herero

SHARK ISLAND
Herero e Nama a Shark Island (Lieutenant von Durling) L’11/12/1904, su incarico del cancelliere Bernhard von Bülow che sollecita una “sistemazione temporanea” per gli Herero ed i Nama scampati allo sterminio e ancora presenti in Namibia, il generale von Trotha stabilisce la realizzazione di campi di concentramento (Konzentrationslager) in territorio africano. Parte delle tribù Nama vengono deportate in massa nelle paludi del Togoland e del Kameron, deve vengono affittati come manodopera schiava nelle piantagioni tedesche.
Gli Herero vengono invece rinchiusi in campi di prigioni allestiti lunga la costa nei pressi di Swakopmund, tra i quali si distingue l’allucinante campo realizzato sull’isola di Haifisch, meglio conosciuta come “Shark Island” (l’isola dello squalo), davanti la Baia di Lüderitz.
Namibia - Schiavi hereroTra il 1905 ed il 1907, Haifisch, raccoglie tutti i ribelli (circa 3.000) rastrellati per il territorio della Namibia tedesca. I prigionieri arrivano ad ondate, rastrellati da speciali unità chiamate Etappenkommando sotto la supervisione dei quali vengono avviati incatenati al lavoro coatto nelle miniere e nella costruzione delle ferrovie.

Namibia - Schiavi herero (1)

Per il trasporto dei prigionieri vengono utilizzati, con largo anticipo sui tempi, i vagoni bestiame dei treni merci. Quindi si provvede alla sistematica schedatura ed avvio al lavoro coatto dei prigionieri, che però ancora non vengono marchiati sul braccio. L’alimentazione consiste in un pugno di riso crudo. Nel campo, l’uso della frusta è la regola e non sono infrequenti i casi di stupro.
Schutztruppe della DSWAI tassi di mortalità tra gli internati raggiungono l’80%.
In anticipo sul famigerato Dottor Mengele, in questa sorta di Auschwitz Eugen Fischerafricana in miniatura, si distingue l’indefessa attività “scientifica” del dott. Eugen Fischer: il padre dell’eugenetica nazista e del quale (per l’appunto!) Joseph Mengele fu allievo zelante.
Fischer catalizza le sue ossessioni sulla definizione di razza mista, concentrandosi sui mulatti, per dimostrare a quali orribili degradazioni genetiche incorrerebbe la razza bianca, qualora dovesse mescolarsi con ceppi inferiori.
Ovviamente, la sua prescrizione è sterilizzazione per tutti.
Il risultato più evidente di queste degenarazione razziale sono per lui i Bastards Rehobothers, dei quali si affanna catalogare gradazioni di occhi e capelli. Al contempo, misura crani, braccia e ossa, profanando cimiteri ed esaminando cadaveri per cogliere ogni minima variazione.
Ericksen - Testa imbalsamata di un prigioniero di Shark Island Tuttavia, il campo di Shark Island è il suo personale parco giochi, con il suo immenso potenziale di cavie DOGANAumane da seviziare a piacimento. Qui Fischer può dedicarsi al proprio passatempo preferito: una raccolta di teste, scarnificate, imbalsamate, sezionate, per la sua personale collezione che invia alle varie università tedesche, con sommo giubilo dei teutonici accademici, tanto da diventare rettore dell’Università di Berlino.
Teste di prigionieri Nama - Collezione personale di FischerCavie umaneI sedicenti “esperimenti scientifici” condotti a Shark Island comprendevano altresì l’inoculazione di vari agenti patogeni, dal vaiolo alla tubercolina (malattie che peraltro già affligevano gli internati, senza bisogno di interventi esterni), per poterne esaminare effetti e resistenza sui negri, e dissezionare poi i cadaveri.
Shark Island Death CampNei campi di Swakopmund, nell’evocativa “Costa degli Scheletri” (Skeleton Coast), si distingue per la sua opera instancabile pure il Dottor Bofinger, anche lui molto occupato nella raccolta delle teste. E quando i prigionieri non muoiono di morte naturale, provvede lui stesso ad accelerarne la dipartita con una iniezione letale, onde poter procedere all’asporto dei crani.

Herero heads (2)

Bofinger rimuove personalmente le teste con chirurgica precisione, in almeno 17 casi. C’è anche il teschio di una bambina di un anno, alla quale il dottore ha rimosso il cervello per conservarlo in formaldeide. Si può dire che, in nome della frenologia, i tedeschi inaugurano una sorta di commercio, su scala industriale…
Namibian SkullsAlla rimozione dei tessuti provvedono le donne detenute nei campi, che erano costrette a bollire le teste mozzate (all’occorrenza dei loro stessi parenti), per poterne poi raschiare via la carne rimasta con cocci di bottiglia. I teschi così ripuliti venivano quindi imballati e spediti in Germania, mentre i cadaveri erano gettati in mare, ad ingrassare gli squali.

Imballaggio dei teschi

Secondo cifre approssimative, tra il 1904 del il 1907 si stima che i tedeschi abbiano eliminato qualcosa come il 75% degli Herero ed il 50% del popolo Nama: ovvero, circa 80.000 persone contro appena 1.749 tedeschi. Per l’esattezza: 676 soldati caduti in combattimento; 76 dispersi; 689 deceduti per ferite o malattia.

Schutztruppen

german-troops E bisogna dire che la maggior parte dei circa 19.000 soldati impegnati complessivamente per la repressione della rivolta erano in buona parte reclute provenienti dalla Germania. Dunque ancora bisognose di acclimatarsi alle non facili condizioni africane, per una campagna di guerra che in realtà fu meno cruenta ed impegnativa per i tedeschi di quanto non vogliano dare a credere le stampe agiografiche…
krieg2L’eliminazione di massa dei Nama e degli Herero si può a tutti gli effetti considerare il primo genocidio scientificamente pianificato ed attuato da una nazione moderna.
Herero chainedSe è vero come è vero, che il XX secolo è anche il secolo dei grandi eccidi di massa, due genocidi ad opera della medesima nazione sono decisamente troppi!
Ciò la dice lunga sul grande di proiezione empatica di un popolo e sulla capacità di rapportarsi con l’Altro. Ovviamente, la Germania di oggi è diversa da quella di inizio ‘900. Per capire il mutamento del suo approccio culturale ai problemi, basta infatti vedere come tratta il resto degli attuali partners europei.
Coloniali tedeschiIl 16 Agosto del 2004, a cento anni dallo sterminio, la Germania si è finalmente decisa a presentare scuse formali al governo della Namibia (fino ad allora si era limitata ad esprimere “rammarico”), assumendosi la piena responsabilità dei crimini, ma escludendo il pagamento di qualsiasi indennizzo, nonostante il saccheggio, la spoliazione, la deportazione e la riduzione in schiavitù delle popolazioni namibiane.
Del resto, i tedeschi sono inflessibili nell’esigere il pagamento dei debiti altrui, ma quando si tratta di pagare i propri serrano le tasche, oltreché i ranghi.
Deutsch-Südwestafrika, Herero-AufstandIl popolo della Namibia ha chiesto quantomeno la restituzione dei teschi Herero heads (1)dei propri antenati, in parte avvenuta solo nel 2011. A tutt’oggi, la blasonata Università di Friburgo ha recisamente rifiutato di privarsi della piacevole visione della propria  preziosa collezione.

  FINE (2/2)

ASKARI

 > prima parte: L’anima del commercio

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Il Paradiso del Diavolo

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“Certe cose sono sconvolgenti e inaccettabili alla comune coscienza. La comune coscienza è inadattabile alle atrocità. E ci sarà pure qualche ragione. Forse perché essa, in realtà, le vuole.
[…] Certe cose atroci architettate o comunque volute dal Potere (quello reale non quello sia pur fittiziamente democratico) sono comunissime nella storia: dico ‘comunissime’: eppure alla comune coscienza paiono sempre eccezionali e incredibili.”

  Pier Paolo Pasolini
  (20/12/1969)

Giocando con la sua pessima fama (costruita ad arte), Aleister Crowley, che dell’argomento se ne intendeva, riteneva che il Male fosse qualcosa di immanente nell’indole umana e che in quanto tale andasse accettato come una componente essenziale della nostra realtà. Negarne l’esistenza ci renderebbe completamente impreparati ad affrontare le sue manifestazioni, conferendo al Male una natura del tutto eccezionale e dunque non gestibile. In definitiva, se ne decreterebbe il trionfo come si trattasse di un fenomeno casuale e del tutto imprevedibile.
La vera essenza del male risiede innanzitutto nell’inconsapevolezza di chi lo compie, nella sostanziale incapacità di comprendere la gravità delle proprie azioni. Il male può essere banale nella mediocrità personale di coloro che se ne fanno promotori, nella meccanica omicida dei suoi volenterosi carnefici. E Hannah Arendt, proprio in riferimento all’insignificante ordinarietà di Adolf Eichmann, sconvolta dalla ‘normalità’ di un uomo qualunque, parlò di assoluta banalità del male. Tuttavia, le forme attraverso le quali il male si esplica e si incarna nella realtà trascendono sempre la banalità dei suoi meri esecutori, giacché la vastità dell’orrore può essere abnorme nell’apparente semplicità della sua riproposizione, seppur realizzata in modalità differenti.
Ovunque vi sia sfruttamento, miseria, ignoranza, lì germoglia il seme del male, che prospera nella disuguaglianza attraverso le discriminazioni e cresce in parallelo all’avidità dei singoli. Sulla questione, le atrocità dell’imperialismo ed i genocidi del XX secolo non ci hanno risparmiato nulla. Eppure, vi sono casi che a volte sembrano sfuggire ad una catalogazione sistemica…

I Giardini del Male
 Ad un osservatore esterno, le vicende dell’America Latina risultano come pervase da una vena di follia irrazionale, impastata di violenza primordiale e incanalata nelle forme di una colonizzazione feroce, di sfruttamento selvaggio, nell’ambito di una sorta di brutale neo-feudalesimo su base agraria e capitalismo primitivo. Poco investigato e quasi misconosciuto nell’ambito della storiografia europea, lo sterminio delle popolazioni indigene agli inizi del ‘900 costituisce uno di quegli esempi estremi, talmente oltre i canoni consolidati, che resta a tutt’oggi difficile da comprendere appieno nella sua portata, in certo qual modo ‘anomala’.
Nello specifico, a circa 100 anni dalla sua pubblicazione, vale la pena di (ri)scoprire il rapporto (conosciuto come “Blue Book”) che sir Roger Casement, console generale britannico a Rio de Janeiro, presentò al Parlamento inglese, denunciando lo sfruttamento indiscriminato e la riduzione in schiavitù degli indios del bacino amazzonico, per l’estrazione del caucciù nel distretto del Putumayo: un vasto territorio al confine meridionale della Colombia, tra Equador, Perù, e Brasile.
Nello specifico, gli orrori del Putumayo sono difficili da spiegare e ‘giustificare’, secondo le componenti classiche di un’analisi di genere: razzismo, sfruttamento e capitalismo selvaggio, alienazione sociale e abbrutimento individuale, arretratezza culturale, autoritarismo statale…
Le violenze venivano compiute per conto e nell’interesse della Compagnia privata che deteneva il monopolio dell’estrazione del caucciù nella regione. Si trattava di una società per azioni a partecipazione anglo-peruviana e quotata nella borsa londinese. Ma fu una commissione d’inchiesta britannica, composta da fieri esponenti della borghesia liberale e di saldi principi conservatori, con l’appoggio del governo peruviano e del più grande impero coloniale del pianeta, a circostanziare i crimini con una serie di indagini dettagliate.
Si poteva parlare sicuramente di pregiudizio razziale da parte degli agenti bianchi della compagnia, ma era spesso l’esercito privato della multinazionale a praticare materialmente gli orrori denunciati. Si trattava di una milizia indigena, reclutata tra le stesse popolazioni asservite in stato di schiavitù. Provenivano dagli stessi villaggi, parlavano la stessa lingua, avevano relazioni parentali comuni e dunque lo zelo persecutorio non poteva essere il frutto di odi tribali o divisioni etniche.
Alcuni capi-posto, incriminati per i delitti, sono meticci di sangue misto e si avvalgono di aiutanti da campo reclutati tra gli abitanti delle Isole Barbados, ovvero discendenti dagli schiavi negri delle piantagioni da zucchero, che si rendono complici di violenze inaudite.
Tra i funzionari in loco della compagnia ci sono peruviani, boliviani, barbadoregni, ma anche irlandesi e statunitensi… È il caso di tal John Brown, che porta il nome del famosissimo attivista anti-schiavista; proviene da Chicago e lascia gli USA, per cercare fortuna in America Latina e sfuggire alle discriminazioni razziali. Si guadagnerà il soprannome di “capataz de los verdugos” (il capo dei boia).
Si può parlare di ignoranza e analfabetismo, ma le atrocità peggiori vengono compiute da uno degli agenti più colti e istruiti, presente nel Putumayo.
Nessuna variabile è prevalente e tutte sembrano decadere in una bolgia infernale, dove il male non ha colore né appartenenze particolari.

L’Inferno verde
 Costituito in massima parte da selve tropicali, il Putumayo è una giungla apparentemente inestricabile e semi-sconosciuta fin quasi la fine del XIX secolo, quando il francese Jules Crevaux esplorò la regione, attraversando in barca l’omonimo fiume e finire trucidato nelle terre estreme del Chaco bolivano.
Secondo un clichè assai diffuso, gli indios sono considerati dei selvaggi amorali. Pigri e bugiardi, sono per natura inclini al tradimento. E dunque di loro non c’è assolutamente da fidarsi. Non per niente, avventurieri ed esploratori si fanno largo a colpi di machete, dispensando fucilate.
Soprattutto, come gli indigeni di ogni latitudine, siano essi africani o aborigeni australiani, che non abbiano la fortuna di essere bianchi e cristiani, sono tutti e indistintamente dediti al cannibalismo per antonomasia. Dalle Americhe al Borneo, passando per la Cina. E questo li pone all’apice della barbarie, escludendoli dallo stesso genere umano. Dinanzi a tanta belluina ferocia, nessuna violenza potrebbe mai essere peggiore. E dunque ogni atto contro i popoli nativi è lecito e funzionale alla loro ‘civilizzazione’. Pertanto, le brutalità e la schiavizzazione non si configurano mai come violenze, bensì come una forma di ‘avviamento al lavoro’…

La Case commerciali
 Sul finire del XIX secolo, c’è un nuovo business che sembra garantire guadagni immediati e illimitati per pionieri dai pochi scrupoli e volontà di ferro, che abbiano il coraggio di avventurarsi nel cuore delle foreste vergini, con l’intenzione di stabilirvi imprese commerciali.
È il commercio del caucciù; o meglio, della gomma grezza di origine vegetale, ricavata dal lattice naturale della pianta, che serve per la realizzazione di pneumatici, su richiesta della nascente industria automobilista, e soprattutto per le ruote delle biciclette. Tra le infinite peculiarità della gomma, vi sono le sue proprietà elastiche, la resistenza, e l’assoluta impermeabilità all’aria e all’acqua. Caratteristiche che rendevano la gomma di gran lunga preferibile al cuoio.
Con milioni di alberi per la gomma, distribuiti su un territorio che sembra immenso, la foresta amazzonica è il nuovo Eldorado per i conquistadores del lattice prodigioso.
Nelle selve dell’Alta Amazzonia, e quindi del Putumayo, si riversa una massa di avventurieri, e di disperati, attratti dal miraggio di una ricchezza più presunta che facile. Sono uomini che si trovano ad operare in condizioni proibitive per un occidentale, immersi in una natura incontaminata ed ostile, per territori semisconosciuti e al di fuori da ogni legge e organizzazione civile, su confini spesso incerti e contesi dai nascenti stati sudamericani, per fondare le loro “case commerciali”.
Li chiamano caucheros. Le regole si dettano con la canna dei fucili e l’arbitrio è la regola.
Tristemente famoso diventerà un certo Hernandez: un gigantesco mulatto colombiano che, insieme ad un pugno di tagliagole evasi di galera come lui, si crea un suo feudo nel cuore della giungla con un migliaio di schiavi indigeni ed un harem di indie, prima di essere ucciso a pistolettate per una disputa di potere all’interno della banda.
I colonizzatori più intraprendenti costituiscono veri e propri regni personali, difesi da eserciti privati con migliaia di armati. A loro i deboli governi centrali, demandano praticamente tutto, considerando i loro avamposti commerciali alla stregua di presidi nazionali e militari. Si tratta di una sorta di feudalesimo baronale di Stato, legittimato da concessioni esclusive da parte di compagini statali che hanno solo un controllo nominale del territorio.
Centri periferici come Manaus in Brasile ed Iquitos in Perù si trasformano nelle capitali effimere di giganteschi imperi commerciali (come la Casa Suarez o la Vaca Diez), che hanno nel commercio del caucciù la loro ragione di esistere.
 Tra il 1890 ed il 1897 (anno della sua morte), diventa leggendario il potere del peruviano Carlos Fermín Fitzcarrald López, soprannominato “il Re del caucciù”. Nella sua opera instancabile, Fitzcarrald colonizza territori selvaggi, crea porti fluviali, fonda centri abitati, organizza le comunicazioni costruendo strade nella giungla (pianificherà persino una ferrovia) e realizza dal nulla una fitta rette di scambi commerciali. Per la bisogna impiega migliaia di indios alle sue dipendenze e molti lo venerano come una sorta di dio vivente. Ma non esita a scatenare le famigerate correrias (scorriere armate e spedizioni punitive) contro le tribù ostili alla sua espansione, o ai danni degli insediamenti dei coloni colombiani e brasiliani. All’apice del proprio potere personale, Fitzcarraldo pensa addirittura di organizzare i suoi domini in una sorta di repubblica indipendente, federata col Perù, e fondata su una sorta di regime assoluto ma paternalistico. Muore ad appena 35 anni, affogando durante una delle sue missioni esplorative. A modo suo, Fitzcarrald è un idealista, ammantato dall’alone del patriottismo, e anche un’eccezione in un mondo di pescecani che non guarda oltre il proprio profitto ed il mero arricchimento personale.
Le dispute territoriali tra colombiani e peruviani per il controllo del Putumayo sfociano spesso in azioni di guerra aperta, dove ad avere la peggio sono spesso i coloni provenienti dalla Colombia, alla quale formalmente la regione appartiene. Nel primo decennio del ‘900, da tali rivalità saprà trarre vantaggio Julio César Arana del Aguila, che si presenterà come tutore degli interessi nazionali del Perù e approfitterà degli appoggi politici, per costruire la sua personale impresa estrattiva e commerciale, realizzando una sorta di regno del terrore basato sulla tortura.

Julio César Arana del Aguila
 A suo modo, J.C.Arana è sicuramente un self-made-man e come tale non manca di ambizioni politiche, coerentemente col suo nome roboante (Giulio Cesare). Come ogni gangster che si rispetti, non avrebbe esitato a definirsi un “uomo d’affari”; uno di quelli che mentre ti punta la pistola alla tempia, accingendosi a premere il grilletto, ti sussurra serafico: “Senza rancori, sono soltanto affari”. Probabilmente, come un boss mafioso o un narcotrafficante delle Zetas messicane, si riteneva un imprenditore di successo.
Dalle ambizioni smisurate e perfidamente furbo, non era però un genio del male e di sicuro fu un uomo tutt’altro che banale. Se gli difettarono gli studi, non gli mancò certo l’intelligenza.
Originario di Rioja, un sobborgo fluviale nella selva di Moyabamba, dove nasce nel 1864, il giovane Arana si dedica all’onesto commercio di famiglia, fabbricando e vendendo cappelli (i famosi “panama”). Non privo di una notevole dose di intraprendenza, a soli 16 anni si trasferisce nella città cauchera di Iquitos e da lì si spinge nelle profondità del Putumayo, risalendo i fiumi dell’Alta Amazzonia, per rifornire i raccoglitori di caucciù con mercanzie e generi di prima necessità che Arana baratta in cambio di partite di gomma, da rivendere ovviamente a prezzi maggiorati ad Iquitos.
Nel 1888 mette su famiglia con Eleonora Zumaeta e costituisce il fulcro della sua impresa familiare, interamente fondata su vincoli di sangue, associando i suoi fratelli ed il cognato Pablo. Ma l’instancabile Arana non è semplicemente un grossista. Accumula sufficiente denaro per mettere su un piccolo emporio nel pieno della giungla che funziona come centro di scambio, sulle rive del fiume Yurimaguas per ottimizzare gli approvvigionamenti per via fluviale. Costituita la sua ‘casa commerciale’, Arana & family fanno giungere dal vicino Brasile gruppi di miserabili, facendo balenare loro la prospettiva di lauti guadagni. I coloni, prima di essere spediti nella giungla a raccogliere caucciù, vengono riforniti di provviste per tre mesi e di tutto il materiale indispensabile per la raccolta. Naturalmente a prezzi ipermaggiorati. Le partite di caucciù avrebbero dovuto estinguere il debito dei raccoglitori. Peccato che Arana corrisponda per ogni kg di gomma grezza un prezzo di gran lunga inferiore al valore di mercato, per un corrispettivo quasi mai sufficiente a saldare il debito iniziale, che viene dunque ricaricato con interessi usurai e con una nuova dotazione trimestrale che si somma al debito originario. In questo modo, il colono si trova indebitato a vita con gli Arana, in una situazione di semischiavitù. Il sistema messo in piedi da Arana è un classico dello sfruttamento amazzonico e si basa sull’accumulo di debiti perenni, impossibili da estinguere. La pratica è universalmente diffusa tra tutti i grandi ‘imprenditori’ della gomma.
Con scarso senso del ridicolo, Julio C. Arana si fa chiamare l’Abele dell’Amazzonia. Evidentemente si ritiene un benefattore.
Deciso ad estendere le sue attività, insieme al cognato Pablito si spinge oltre i confini della Colombia penetrando nel cuore del Putumayo.
Nel 1896, organizza una propria linea di trasporti a vapore per trasportare il caucciù nella città peruviana di Iquitos. Quindi, inizia ad acquisire con le buone, e più spesso con le cattive, nuove terre per la raccolta del caucciù. Soprattutto entra in contatto con le imprese commerciali dei colombiani, operanti nel Putumayo, dai quali apprende molti trucchi del mestiere…
Nel 1899 scopre che una delle più floride compagnie estrattive della regione, l’impresa colombiana dei fratelli Calderòn, ha avviato al lavoro coatto nelle sue piantagioni circa duemila indigeni, rastrellati durante le correrias tra le pacifiche tribù degli Huitoto, degli Andoque, dei Bora ed i Nonuya, e che ora detiene in condizione servile.
Deciso a migliorare l’estrazione e la lavorazione della materia, J.C.Arana ha un lampo di genio e scopre che può abbattere i costi di produzione… Perché impiegare gruppi di immigrati straccioni, scarsamente produttivi, non abituati al clima, che si ammalano facilmente e muoiono di malaria prima di saldare i debiti contratti con la Casa Arana? E che se non muoiono di malaria, si attaccano ad una bottiglia di acquavite diventando totalmente inutili al lavoro? Perché confidare in gente totalmente inaffidabile, che per disperazione può tirarti addosso una fucilata nel cuore della notte, quando si può disporre di un potenziale bacino di schiavi a costo zero?
Considerati meno che animali, gli indios del Putumayo costituiscono infatti una fonte di manodopera illimitata; possono diventare all’occorrenza oggetti di consumo sessuale e giocattoli di carne per i sadici passatempi dei guardiani delle piantagioni.
Al principio del nuovo secolo, nel 1900, entra in società col colombiano Benjamin Larrañaga e suo fratello Rafael, tra i maggiori possidenti della zona. I fratelli Larrañaga hanno incrementato le loro proprietà eliminando, fisicamente, la concorrenza e convincendo i più ragionevoli tra i loro connazionali a cedergli la terra a titolo gratuito. Naturalmente, la nuova Compagnia Larrañaga & Arana non perde occasione per incrementare i ranghi della propria manodopera indigena, ricorrendo all’ottimizzazione già praticata con successo dalla Casa rivale dei Calderòn.

Ora che Julio C. Arana è diventato uno stimato imprenditore, può finalmente fare ritorno ad Iquitos dove diventa subito un membro onorato dell’alta società. Julio Cesar è un uomo innamorato di sua moglie. Si distingue per i suoi costumi morigerati ed il tenore di vita austero, a tratti perfino ascetico. Si tiene lontano dai bordelli dei quali Iquitos abbonda; non apprezza la vita mondana e la sera va a letto presto. È un uomo colto, rispettabile, amante della lettura e delle buone maniere. Soprattutto, è generoso… l’Abele dell’Amazzonia supplisce infatti a tutte le carenze del governo di Lima: anticipa gli stipendi ai funzionari pubblici della città; paga i magistrati… paga gli ufficiali della polizia giudiziaria… provvede alle forniture delle guarnigione militare di Tarapaca e garantisce la regolarità delle paghe per la truppa.
Diventa presidente della locale Camera di Commercio e della giunta dipartimentale. È il Re Sole del Putumayo. A chi gli chiede ragione della sua intraprendenza risponde: “Qui lo Stato sono io”. Difficile dargli torto.
E infatti la guarnigione militare più che al governo peruviano risponde direttamente agli ordini di Julio Cesar Arana. Peraltro il governo centrale lo considera in tutto e per tutto il proprio emissario nella regione. Con l’inasprirsi dei rapporti tra Lima e Bogotà, insieme ai continui sconfinamenti delle truppe peruviane ed il blocco della navigazione fluviale ai danni dei colombiani, Arana approfitta subito dell’occasione per monopolizzare il commercio del caucciù ed eliminare tutti i suoi principali rivali. Fa assaltare i ranch dei colombiani con raid notturni. Taglieggia indiscriminatamente i piccoli raccoglitori. Chi non ‘collabora’ viene zavorrato e buttato nei fiumi. Requisisce proprietà, ricorrendo all’omicidio ed alla intimidazione sistematica, trovandosi a capo di possedimenti immensi.

Il Sistema perfetto
Nel 1904, Arana riorganizza gli asset proprietari della Compagnia. Il suo socio d’affari, Benjamin Larrañaga, muore stranamente avvelenato. Ed il figlio del defunto si affretta a cedere tutte le quote al solerte Julio Cesar che le acquista a prezzo stracciato.
Dal 1900 al 1906 la produzione di caucciù nelle terre degli Arana passa da circa 160 tonnellate a quasi 845.000 kg. La produzione è rimessa alla libera iniziativa degli agenti della compagnia, che dirigono sul posto le attività estrattive dei singoli distaccamenti: i capiposto ed i loro aiutanti vengono pagati a percentuale con una provvigione sulla quantità di gomma cumulata. Più lattice viene lavorato e spedito a Iquitos, più gli agenti di Arana guadagnano. Va da sé che i prezzi al kg continua a stabilirli Arana e le sue stime non sono sindacabili. Tutta l’attività di estrazione viene rimessa agli Indios, che non ricevono alcun compenso per il loro lavoro, se si eccettua qualche straccio per coprire le nudità e una ciotola di cereali ogni tanto.
In realtà si tratta di un gioco al ribasso dove, in proporzione, tutti ci rimettono e l’unico che guadagna è Arana che detiene saldamente il banco, senza rischiare nulla e con investimenti ridotti al minimo indispensabile.
La pressione costante sui raccoglitori è fondamentale per l’incremento della produttività, a tutto vantaggio degli sfruttatori. A dissuadere ogni tentativo di rivolta degli schiavi e vigilare sui possedimenti di Arana c’è un esercito privato di 1.500 mercenari armati di tutto punto.
Il sistema messo in piedi da Arana, con la sua efficienza criminale, è un franchising dell’orrore. L’organizzazione è in realtà semplice ed è già stata collaudato con successo da francesi e belgi nelle colonie africane del Congo.
La Compañia costruisce stazioni commerciali per lo stoccaggio della gomma grezza, provvedendo a tutte le fasi della produzione, dalla raccolta al trasporto.
Nella fattispecie, si tratta di una cinquantina di centri di raccolta, composti da poche baracche, totalmente autosufficienti ed a conduzione autonoma, con una rigida gerarchia di comando.
Ogni stazione ha il suo capoposto (jefe), con diritto di vita e di morte sui lavoranti; i suoi ‘caporali’ (capataz); la sua milizia etnica (muchachos); i suoi schiavi (flagelados).
I ‘capi’, provenienti un po’ dovunque, sembrano un battaglione di piccoli ‘Signor Kurtz’ già visti in “Cuore di tenebra” e spesso assomigliano ad un condensato di sadici psicopatici.
Sono affiancati da un piccolo esercito di aiutanti (capataz) tutto fare, che li coadiuvano come sorveglianti e capi-milizia. Sono in prevalenza dei miserabili reclutati per fame nelle Isole Barbados e scelti per la loro resistenza a condizioni climatiche estreme. Sono spesso gli esecutori materiali delle nefandezze peggiori. Chi non obbedisce ciecamente agli ordini dei capi, rischia di finire lui stesso al palo della tortura o di sparire nella foresta.
I muchachos sono giovani indios, inquadrati nell’esercito privato della Compagñia, Affiancano i capi ed i capataces nel controllo degli schiavi. Partecipano alle correrias per l’approvvigionamento di manodopera ed alla caccia dei fuggitivi.
Le punizioni corporali e la supervisione nei campi di lavoro viene poi affidata ai racionales: sono indios castiglianizzati, “civilizzati”, e fanno parte dei muchachos che affiancano i capataces.
È il sistema economico perfetto per rilanciare la crescita.

I Guardiani dell’Inferno
 Per incrementare la produzione e mantenere la disciplina, senza l’impaccio di inutili norme contrattuali o perniciose rivendicazioni sindacali, ogni responsabile della Casa Arana può decidere a proprio totale arbitrio, intraprendendo le azioni che ritiene più proficue all’incremento degli utili.
Tra i metodi (criminali), come documentato dalle successive inchieste e denunce, si distinguono in particolare una decina di centri di raccolta…
Il centro di La Chorrera (La Rapida) è il più grande e più produttivo dell’impero di Arana ed è anche soprannominata la “Colonia Indiana”, per l’enorme presenza di indios ridotti in schiavitù. A dirigere il centro, insieme al vice-amministratore Juan Tizon, c’è Victor Macedo: agente (e sicario) di assoluta fiducia di J.C.Arana.
La Chorrera gareggia in produzione con la stazione di El Encanto che prospera sotto l’illuminata amministrazione di Miguel Loaysa, a cui si deve l’invenzione del “Marchio di Arana”: 100 frustate per chi non raggiunge la quota prefissata di raccolto giornaliero, senza distinzione per uomini, donne e bambini. Se non si muore sotto le nerbate, si rimane marchiati a vita. E i sopravvissuti costituiscono un monito per tutti gli altri. Solitamente, i capataz ed i racionales impartiscono le scudisciate sulle natiche. Altre volte si prediligono braccia e schiena che nei casi più estremi vengono scarnificate dai colpi fino all’osso. Nel clima della giungla tropicale, le ferite spesso si infettano provocando la morte dei disgraziati.
In una bella giornata di Febbraio del 1903, Miguel Loaysa è ospite di Victor Macedo presso La Chorrera. È giorno di raccolta e circa 800 indios di etnia Ocaima sono giunti alla stazione per consegnare le balle di caucciù raccolto nella foresta. Le balle vengono quindi pesate e immagazzinate. E però c’è un problema: 25 indios non hanno raggiunto la quota obbligatoria di consegna. E dunque bisogna dare una lezione pubblica, per incentivare la produttività…
 I 25 disgraziati vengono avvolti con sacchi imbevuti di petrolio, dati alle fiamme, e lasciati correre per tutto il campo mentre bruciano vivi, tra le grandi risate dei manager in riunione che si divertono a finire i moribondi agonizzanti sul terreno a colpi di pistola.
Da notare che Macedo è un cholo, ovvero un meticcio di sangue indio.
L’abitudine di bruciare vivi gli indigeni è uno sport molto praticato e rientra tra i passatempi preferiti dei capi insediamento.
Nella stazione di Abisinia, condotta dal jefe Abelardo Aguero, gli indios Bora vengono solitamente appesi ai rami degli alberi con le braccia legate dietro la schiena ad ogni minima infrazione, controllati a vista dai capataz barbadoregni, che non avendo nient’altro da fare ogni tanto, poverini, si annoiano. Per ammazzare il tempo si divertono a tirare le gambe degli appesi, favorendo la disarticolazione degli arti superiori, mordendogli a sangue le cosce. Altre volte, Aguero ordina di accendere fuochi sotto gli appesi o cospargerli di benzina direttamente, divertendosi a guardarli mentre si contorcono in preda alla fiamme.
La pratica è molto apprezzata anche da Armando Normand, sovrintendente della stazione di Matanzas.
Per le punizioni più lievi si ricorre al ‘ceppo’: un cavalletto sul quale i rei venivano legati bocconi e lì lasciati immobilizzati per settimane, costretti a leccare il cibo da una ciotola.
Tanta severità da parte di Aguero è giustificata, giacché in passato c’era già stato un tentativo di rivolta che aveva creato parecchi problemi ai precedenti capiposto.
Ad Abisinia, uno dei luogotenenti di Arana, tal Bartolomé Zumaeta, aveva violentato la moglie di un capotribù Bora, il quale non aveva preso tanto bene l’affronto. Katenere, questo era il suo nome, di notte era penetrato nell’accampamento dei caucheros rubando loro i fucili e uccidendo lo stupratore. Avrebbe fatto meglio a sgozzarli tutti nel sonno… Infatti la Compagnia mette subito una taglia sul giovane capo indigeno, mentre si scatena una gigantesca caccia all’uomo che si protrasse per oltre due anni, finché una squadra di cacciatori non riuscì a catturare almeno la compagna di Katenere. Condotta al campo di Abisinia, la donna viene stuprata in pubblico da tutto il personale di guardia, compreso el jefe Vasquez, legata al ceppo della tortura, fustigata a sangue e lì lasciata senza acqua ne cibo per giorni. La donna non sarebbe infatti stata liberata, finché Katenere non si fosse consegnato alla ‘giustizia’. Cosa che regolarmente avvenne. Una volta costituitosi, Vasquez in persona cavò gli occhi a Katenere con un uncino di ferro, quindi lo legò al palo insieme alla moglie e diede fuoco ad entrambi.
In alternativa, secondo il capriccio del momento, gli indios potevano finire impiccati, impalati, crocifissi, affogati nei fiumi. Diversamente, gli indigeni vengono puniti col taglio delle orecchie, del naso, delle dita. Ma non era escluso il taglio delle mani o dei piedi; in tal caso i mutilati, ormai inutilizzabili, venivano cosparsi di kerosene e dati alle fiamme. Non era disdegnata l’evirazione…
A volte però si esagerava, come ebbe ad imparare a sue spese uno dei capi-posto, Miguel Flores, che nel 1907 ricevette una lettera di richiamo della Compagnia, per aver dilapidato con troppa facilità il capitale umano dell’impresa. Le uccisioni dovevano avvenire solo “in caso di necessità”. La risposta piccata di Flores non si era fatta attendere: «Protesto vivamente, perché in questi ultimi due mesi nel mio insediamento sono morti soltanto una quarantina di indios
 Abelardo Aguero ed il suo vice Augusto Jimenez ricevettero una multa per aver utilizzato i propri lavoranti come bersagli, in gare di tiro a segno per esercitare la mira. Non si poteva certo privare così l’impresa di preziosa manodopera schiava! E Julio C. Arana, l’Abele dell’Amazzonia, ci teneva a tutelare i suoi investimenti.
In virtù di tali precedenti, intorno al 1909 il 26enne Augusto Jimenez, un meticcio di sangue indio, verrà promosso a capo della stazione di Ultimo Retiro.
Jimenez ha preso il posto di Fidel Velarde e del suo vice Alfredo Mott, che nel frattempo hanno fatto carriera diventando responsabili rispettivamente delle stazioni di Occidente ed Atenas.
Durante la loro conduzione dell’insediamento di Ultimo Retiro, pare che una notte i due, completamente ubriachi, abbiano scommesso su chi avrebbe tagliato più in fretta un orecchio ad un indio huitoto legato al ceppo. Afferrati i machete, Velarde riesce a tagliare l’orecchio con un unico colpo. Alfredo Mott, che invece è ubriaco fradicio, manca il bersaglio ma in compenso centra in pieno il cranio dell’indio, aprendolo a metà.
Dalla sua stazione di Occidente, il buon Velarde (che già si era distinto al servizio di Macedo) si fa aiutare da un altro terzetto omicida: Manuel Torrio, Rodriguez e Acosta.
In fondo, non li si può troppo biasimare: si tratta di uomini abbrutiti dalla giungla, nati e cresciuti in contesti selvaggi…
Nella stazione di Matanzas si fa notare Armando Normand. Poco più che ventenne (è nato nel 1885), basso, minuto, brutto, è un boliviano di origini britanniche, che vanta un corso di studi a Londra, un diploma da contabile, e parla fluentemente l’inglese.
Sono pochi quelli che lavorano volentieri con Normand. Gli stessi capataces barbadoregni ne sono terrorizzati. L’intero insediamento è circondato da migliaia di ossa umane.
Una volta, il barbadoregno Augustus Walcott ebbe a sollevare alcune obiezioni, durante una delle punizioni pubbliche inferte da Normand: un indio che aveva tentato la fuga, era stato legato sospeso ad un palo, colpito a colpi di machete e quindi lasciato penzoloni a morire dissanguato. Walcott, commentò ad alta voce che non era quello il modo di ammazzare la gente (non è roba da cristiani questa!). In risposta, Armando Normand aveva fatto crocifiggere l’indisciplinato sottoposto, in ossequio alla devozione religiosa del nero capataz.
Se in seguito alle torture le ferite si infettano, rendendo gli indios inabili al lavoro, Normand li fa ammazzare a colpi di machete per risparmiare le pallottole.
Normand ha il discutibile pregio di riuscire a schifare perfino il resto della banda di allegri psicopatici al soldo della Casa Arana. Successivamente interrogati dalla Commissione Casament, i suoi assistenti lasceranno testimonianze allucinanti:

«Secondo il barbadiano Joshua Dyall, dalla sua personcina insignificante emanava una “forza maligna” che faceva tremare chi gli si accostasse e il suo sguardo, penetrante e glaciale, sembrava quello di una vipera. Dyall asseriva che non soltanto gli indios, ma anche i muchachos e persino gli stessi capataces si sentivano insicuri al suo fianco. Perché in qualunque momento Armando Normand poteva compiere o ordinare lui stesso un atto di ferocia raccapricciante, senza che si alterasse la sua indifferenza sdegnosa verso tutto ciò che lo circondava.
Normand gli aveva ordinato un giorno di assassinare cinque Andoques, puniti così per non aver consegnato le quote stabilite di caucciù. Dyall uccise i primi due a colpi di pistola, ma il capo ordinò che ai due successivi si schiacciasse prima i testicoli su una pietra usata per impastare manioca e li si finisse a bastonate. L’ultimo glielo fece strangolare con le sue mani. Durante tutta l’operazione rimase seduto su un tronco d’albero, fumando e osservando, senza che si alterasse l’espressione indolente della sua faccia rubiconda.
Un altro barbadiano, Seaford Greenwich, raccontò che lo spasso per i racionales dell’insediamento era l’abitudine del capo di mettere peperoncino tritato o intero nel sesso delle piccole concubine, per sentirle gridare dal bruciore.»

 “Il Sogno del Celta”
Mario Vargas Llosa
 Einaudi, 2011

Pare che questo fosse l’unico modo per eccitare il sadico Normand. Particolarmente temuti sono poi i suoi mastini, che non esita ad aizzare per un nonnulla contro i suoi lavoranti, facendoli sbranare vivi.
Nella stazione di Sur opera invece il buon Carlos Miranda, un allegro ciccione, molto spiritoso, di buone maniere e ottima educazione, purché non lo si faccia arrabbiare… Irritato da una vecchia indigena che incitava gli indios alla rivolta, Miranda la decapita con un solo colpo di machete; quindi se ne va in giro per l’accampamento mostrando il capo mozzo ai lavoranti terrorizzati, come una parodia di David e la testa di Golia.
Molto ambito era invece il servizio nell’insediamento di Entre Rìos, amministrato da Andrès O’Donnell, un irlandese che non lesinava la frusta ma che non amava le carneficine. O’Donnell si era creato un suo harem personale con una decina di concubine che lo seguivano ovunque. Ed era particolarmente apprezzato dai suoi subalterni.
Nell’insediamento di La Sabana, il capo José Inocente Fonseca ha adibito parte delle baracche in un serraglio di prostitute bambine dagli 8 ai 15 anni, per il suo uso e consumo personale.

Ovviamente, in tutti i casi, gli indigeni tenuti in cattività non sono considerati ‘schiavi’ ma “debitori” della Casa Arana. E pertanto non potranno essere liberati, finché non avranno saldato i debiti.
Per il lavoro svolto, la Compagnia non corrisponde salari. E del resto gli indios non attribuiscono alcun valore al denaro. Ad ogni lavorante indigeno, rastrellato nelle correrias, viene fornito il minimo indispensabile per la raccolta del caucciù. Le dotazioni vengono prese dai magazzini degli insediamenti e addebitati agli indigeni a valore decuplicato, che dovranno scontare alla consegna del prodotto. Quindi i raccoglitori vengono avviati al lavoro nella foresta, dove restano generalmente una quindicina di giorni prima di tornare con il lattice raccolto. Per evitare fughe, mogli e figli vengono trattenuti nel campo come ostaggi. I capi ed il personale della compagnia ne dispongono liberamente, utilizzandoli per servizi domestici o come schiave sessuali (dai 6 anni in su tutto va bene). Al ritorno dei raccoglitori, il caucciù veniva pesato, solitamente con bilance truccate. Se nell’arco di tre mesi non si raggiungevano i 30 kg, venivano inferte le punizioni già viste che andavano dalla fustigazione, alle mutilazioni, all’omicidio. I cadaveri non venivano mai sepolti, ma abbandonati nei dintorni a mo’ di monito.
Agli indios erano poi richieste tutta una serie di corvees supplementari che andavano dalla costruzioni delle baracche alla riparazione dei tetti, dalla pulizia dei sentieri al carico e scarico delle merci, fino all’affumicamento ed impasto del caucciù, nonché alla coltivazione degli orti per gli approvvigionamenti di cibo.
Quando non sono impegnati nelle loro scorrerie a caccia di nuovi schiavi, nelle torture, nelle punizioni, negli stupri o a litigarsi le concubine a colpi di coltello, i miliziani privati della Compagnia passano il tempo ad attaccare i trasporti dei colombiani o saccheggiare le loro proprietà, scambiandosi fucilate con l’esercito regolare di Bogotà. La cosa procura parecchi blasoni patriottici al bravo Julio Cesar Arana che nel frattempo è divenuto una delle persone più influenti del Perù.

Il Finanziere
 Diventato ormai affermato imprenditore di un così rispettabile commercio, Julio C. Arana, l’Abele dell’Amazzonia, amplia le sue vedute e decide di fare il grande salto in avanti, approdando in Borsa…
Nel 1903 apre una succursale della sua Casa commerciale a Manaus in Brasile. Quindi crea filiali a Londra e New York, per meglio accreditarsi sui mercati internazionali.
Nel 1907 istituisce la “Peruvian Amazon Rubber Company”, con capitali misti di investitori in prevalenza anglo-peruviani per un milione di sterline, e quotata alla City londinese.
Per la bisogna ha acceso un credito di 60.000 sterline inglesi con la filiale londinese della Banca del Messico, non prima di ipotecare tutte le proprietà immobiliari ed i suoi latifondi a nome della moglie Emanuelita. Né manca di far falsificare i bilianci societari da revisori contabili compiacenti. In questo modo, in caso di fallimento, eventuali azionisti e creditori non potranno rivalersi di un solo centesimo sulle immense ricchezze di Arana che però può ora drenare finanziamenti illimitati dal bel mondo della finanza anglosassone.
L’operazione di capitalizzazione è affidata ad Henry M. Read, gerente del ramo londinese della Banca del Messico. Ma nella nuova compagnia ci sono alcuni tra i più ricchi investitori dell’epoca: John Russell Gubbins, investitore particolarmente ammanigliato col governo peruviano; T.J.Medina, tra gli uomini più ricchi del Perù; il barone De Souza-Deiro; sir John Lister Kaye
Julio C. Arana non sa che in caso di insuccesso possono diventare nemici potenti.

Le prime denunce: Benjamin Saldaña Rocca
 Da che mondo è mondo, potenti e politicanti amano la stampa, fintanto che tesse le loro lodi e scodinzola ai loro piedi come un cagnolino addomesticati. In caso contrario, c’è sempre una legge bavaglio e un’intimidazione pronta, per azzittire giornalisti troppo impertinenti…
Nella città di Iquitos, che oramai è diventata un mandamento personale del boss Arana, c’è qualcuno che, nonostante tutto, non si lascia comprare né è disposto ai compromessi.
Benjamin Saldaña Rocca è un giornalista, che non ha bisogno di essere iscritto ad albi per scrivere, ed editore unico di due periodici locali: “La Felpa” e “La Sanciòn”. Sono poco più che giornalini, perennemente a corto di fondi, con tiratura settimanale e tutt’altro che regolare. Gli boicottano la distribuzione, gli sequestrano le copie dei giornali, gli bruciano la tipografia, lo minacciano di morte, gli sparano addosso e rimane zoppo, ma Rocca non molla. È una di quelle rare persone, per le quali i principi vengono assai prima del soldo. Rocca discende da una famiglia di ebrei sefarditi. Contro di lui, la Casa Arana organizza una infame campagna anti-semita.
Il 09/08/1907 Rocca presenta un esposto pubblico alla magistratura di Iquitos. È il suo coraggioso J’Accuse nel quale denuncia con dovizia di informazioni i crimini dei bravacci di Arana, facendo nomi e cognomi dei carnefici.
Su ‘La Felpa’ del 29/12/1907 descrive i sistemi truffaldini utilizzati dagli Arana. È il suo ultimo atto: in una notte al principio del 1908 Saldaña Rocca scompare da Iquitos. Alcuni testimoni vedono un uomo che gli assomiglia, col viso tumefatto che viene trascinato via da un gruppo di uomini, su una barca pronta a salpare sul fiume. Nessuno lo rivedrà più, né le sedicenti autorità si daranno mai la pena di appurarne la sorte.

El Gringo: Walter Hardenburg
 J.C.Arana sembra intoccabile e probabilmente si reputava tale… Ma in tutte le storie c’è sempre l’incognita non prevista che fa saltare i giochi, il granellino di sabbia che inceppa un ingranaggio che sembrava perfetto.
Il guastafeste si chiama Walter Ernest Hardenburg. È un ragazzone yankee venuto in Sud America a far fortuna. E come a volte capita di riscontrare in certi statunitensi, è anche un inguaribile idealista; una di quelle teste dure che fa delle questioni di principio una missione personale.
W.E.Hardenburg è un ingegnere ferroviario. O almeno così dice lui. Sicuramente è un operaio specializzato che ha fiutato l’occasione della vita… Per ottimizzare il trasporto del caucciù, come del caffè, e rendere più rapidi i collegamenti tra i centri amazzonici in espansione, il governo colombiano sta pianificando la costruzione di migliaia di chilometri di ferrovia. Pertanto, il personale esperto è richiestissimo e ottimamente pagato. Alla fine del 1907, dopo aver lavorato in Colombia, il 26enne Hardenburg, insieme ad un gruppo di avventurieri come lui, decide di inoltrarsi nelle profondità dell’Amazzonia, attraversare i territori della produzione gommifera nel Putumayo e raggiungere la città di Madeira in Brasile, per un nuovo ingaggio come tecnico ferroviario. Durante il suo viaggio nel Putumayo, Hardenburg viene ospitato in diverse tenute di caucheros colombiani, che lo informano con dovizie di particolari sui continui abusi e sulle violenze degli uomini della Peruvian Amazon Co. di Arana, che peraltro Hardenburg ha modo di sperimentare personalmente, con sequestri di persona e requisizioni forzose.
Lo stesso Hardenburg verrà sequestrato dagli uomini di Miguel Loayza e trattenuto come ‘ospite’ nella stazione di El Incanto. Durante il suo soggiorno coatto, avrà modo di vedere coi suoi occhi i metodi di lavoro utilizzati dalla Casa Arana, avendo occasione di visitare anche altre stazioni come la famigerata Chorrera. Ne rimarrà talmente sconvolto, da raccogliere le sue esperienze in un’opera dal titolo evocativo: “Putumayo, il Paradiso del Diavolo. Viaggi nella regione amazzonica del Perù e un resoconto sulle atrocità contro gli indigeni” (Boston, 1912).
Nel 1908, una volta libero, Hardenburg ci mette quasi un anno per mettere insieme i soldi, raccogliere ulteriori prove, riuscire a raggiungere Londra dove la Peruvian Amazon Co. ha la sua sede, e denunciare ciò che ha visto.
Nel 1909 il periodico londinese “Truth” pubblica un lungo articolo (“The Devil’s Paradise”) con le testimonianze di Hardenburg:

«Gli uomini della Compagñia tagliavano a pezzi gli indios coi machete e schiacciavano le cervella dei bambini piccoli lanciandoli contro gli alberi o i muri. I vecchi venivano ammazzati quando non potevano più lavorare, e per divertirsi, i funzionari della compagnia esercitavano la loro perizia di tiratori, utilizzando gli indios come bersaglio. In occasioni speciali, come il sabato di pasqua, sabato di gloria, li ammazzavano in gruppo oppure, di preferenza, davano loro fuoco col cherosene, per godere della loro agonia. […] Gli agenti della compagnia obbligano i pacifici indios del Putumayo a lavorare giorno e notte, senza il minimo riposo, salvo il cibo necessario per mantenerli in vita. Rubano i loro beni, le loro mogli, i loro figli.»

 Il reportage pubblicato dal “Truth”, fece inorridire il pubblico inglese, il quale trovò assolutamente scandaloso che simili fatti venissero compiuti da una società partecipata con capitali britannici e con una dirigenza quasi totalmente inglese. Le denunce di Hardenburg ebbero un incredibile eco nell’opinione pubblica della Gran Bretagna, approdando in Parlamento che pressato dalla blasonata “Società contro la schiavitù” decise di costituire una commissione d’inchiesta da avviare in Perù, in considerazione del fatto che si trattava pur sempre di una compagnia britannica con dirigenza e azionisti inglesi.
Per l’impero di Julio Cesar Arana si avvicinava il principio della fine….

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