Archivio per Turchia
Letture del tempo presente (VIII)
Posted in Kulturkampf with tags Cesare Martinetti, Charlie Hebdo, Decadenza, Esteri, Europa, Francia, Integralismo islamico, Islamismo, Liberthalia, Mattia Feltri, Nizza, Occidente, Recep Tayyip Erdoğan, Samuel Paty, Società, Terrorismo islamico, Turchia, Winston Churchill on 30 ottobre 2020 by Sendivogius«L’incolmabile e spaventosa differenza fra la strage islamista nella cattedrale di Nizza e le precedenti, in Francia e non solo, è che quelle derivavano da minuziose strategie di terroristi asserragliati nelle grotte afghane o nel sedicente Stato del Profeta, questa deriva dall’incontinenza e dalla sconsideratezza verbale del presidente di una nazione, la Turchia, che solo pochi anni fa ambiva all’ingresso nell’Ue, che tuttora partecipa a organismi europei (compreso quello di tutela dei diritti umani) e che occupa un ruolo rilevante nella Nato, la più grande organizzazione di difesa internazionale.
Mattia Feltri
Mamma li Turchi!
Posted in Muro del Pianto with tags Europa, Guerra, Kurdistan, Liberthalia, Recep Tayyip Erdoğan, Ricatto, Rojava, Siria, Turchia, UE on 12 ottobre 2019 by SendivogiusNon bastava l’infiorata di svastiche e celtiche che già infarciscono ad libitum i nostri stadi di calcio ad ogni partita. No, adesso ci mancava anche l’esibizionismo militarista dell’imperialismo turco in parata, col suo tronfio travestitismo kitsch per le coreografie da antico ottomano del sultano!
Provocazione lampante di flagrante arroganza, e patente propaganda di regime, dinanzi ad un’Europa divisa, prona nell’alcova del tracotante Sultano, mentre gattona a brache calate, dinanzi alla strafottenza dei ricatti di un ringalluzzito sciovinismo ottomano, dopo aver perso anima, corpo, coraggio, dignità, e finanche qualcos’altro..!
Ma davvero dobbiamo sorbirci anche questa merda qua, senza colpo ferire?!?
E c’era pure ‘qualcuno’ che questi qui voleva fortissimamente farli entrare nella UE dalla porta principale, mentre ancora resta da capire cosa cazzo c’entri la Turchia con l’Europa e coi suoi supposti ‘valori’! Valori dei quali si fa apertamente beffa, mentre reclama il pizzo di stato come un brigante qualunque, quale moderno tributo da versare ad un antico nemico, che ora pensa davvero di usare qualche milione di profughi come potenziale bomba demografica, da far implodere ai porosi confine del fradicio confino europeo dinanzi alle sue tremebonde cancellerie.
E ce li coccoliamo fin dentro casa i nuovi lupacchiotti grigi, che si fregiano (a torto) di discendere direttamente dalle orde mongole di Gengiz Khan e Tamerlano, mentre fantasticano di nuove prese di Costantinopoli, o pensano davvero di riportare i giannizzeri sotto le mura di Vienna!
Davvero, a volte, uno si ritrova nell’anacronistica assurdità di rimpiangere niente meno che lo spirito di un Sobieski o di un Eugenio di Savoia, se l’alternativa è la pavidità parolaia di un’unione di amebe, tanto è lo schifo (non ci sono altre parole) per definirne la penosa inconsistenza.
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FACCE DA CULO
Posted in Risiko! with tags Caschi Bianchi, Donald Trump, Esteri, Europa, Geopolitica, Guerra, Italia, Liberthalia, Siria, Turchia, UE, USA, White Helmets on 8 aprile 2017 by SendivogiusE insieme ad ogni tragedia, immancabile arriva la farsa!
Dopo che The Donald, ovvero il pupazzo presidenziale facente feci in carica, ha ordinato il suo bel raid missilistico sulla Siria, perché la notte prima ha dormito col culo scoperto e s’è svegliato con la luna storta, davvero non ha prezzo vedere le facce da SA del neo-nazismo nazionalpopulista, intruppati dietro il supercafone cotonato alla Casa Bianca, mentre pigolano tutto il loro sconcerto e la ‘delusione’, misurando ora le distanze da questa grottesca parodia di Flavio Briatore, che tanto ne aveva eccitato le polluzioni fascistoidi e che adesso guardano frignanti al ‘compagno’ Putin, una volta vomitata la sbornia trumpista.
In una di quelle turgide esibizioni imperiali con cui l’Amerikani celebrano se stessi, The Donald mostra i muscoli; facendo peraltro una figura miserrima sul piano militare, visto che solo 1/3 dei 60 razzi sparati ad cazzum è andato effettivamente a segno sul bersaglio, in una di quelle smargiassate tipiche del personaggio che galvanizza i tagliagole salafiti e di fatto allontana la conclusione della guerra in Siria, fornendo una sponda inaspettata (ma non imprevedibile) a quelle forze che alimentano il terrorismo islamico internazionale. Complimentoni!
Soprattutto, l’attacco a sorpresa ha ricompattato mezza Europa nel consueto ruolo di sudditanza che gli stati clienti di solito tengono nei confronti del loro vero padrone. A livello nostrano, il sempre più imbarazzante Governo Gentiloni è andato pigolando qualcosa su una reazione nell’ordine: “proporzionata” e “motivata” che “favorisce il processo di pace” (!). Sono gli stessi cacadubbi che, in eccesso di prudenza, nel caso della strage di Stoccolma con l’ennesimo camion lanciato sulla folla inerme, parlano di “presunto atto terroristico” non necessariamente riconducibile ad una “matrice islamica”. No, infatti si stratta di un incidente stradale con un camion impropriamente adibito al trasporto esplosivi. E l’autista poverino era in cura per problemi psichici.
Per fortuna, nel caso siriano, Trump ha messo d’accordo tutti, ricompattando persino l’opposizione ‘democratica’ con gli orgasmi da bombardamento di Kerry e di quella Hilary Clinton, aspirante presidente in quanto donna (e nulla più), che s’agitava da mesi per un intervento armato contro chi i terroristi li combatte per davvero.
«Ora che bombarda ed uccide come tutti gli altri presidenti USA, Trump torna per bene per UE e NATO.
Trump ha fatto il suo esordio da bombardiere, adeguandosi così alla tradizione dei presidenti USA nessuno dei quali si è mai sottratto alla necessità imperiale di lanciare ordigni ed uccidere.
Che sparare missili per vendetta sul gas sia un atto non solo criminale, ma stupido, non passa neppure per l’anticamera del cervello del regime occidentale che da decenni si è arrogato il diritto ed il potere di giustiziere mondiale. Anzi grazie a questo atto il “diverso” Trump torna a pieno titolo nel rispetto e nella considerazione della élite europea e nordamericana. Clinton, Bush, Obama non avrebbero saputo fare di meglio.
I governi UE e NATO tirano un sospiro di sollievo, alla fine Trump non è la Brexit, è solo uno dei tanti modi di mascherarsi che ha il palazzo economico finanziario e militare. Peggio per gli sprovveduti che ci hanno creduto. Trump è solo culturalmente un po’ più fascista e razzista dei predecessori, ma alla fine quando si tratta di difendere gli interessi dell’impero si normalizza. Bentornato tra noi, dicono governi occidentali e stampa, finanza e industria militare, in fondo non avevamo dubbi. Come può un miliardario evasore fiscale non difendere il suo ed il potere delle élites di cui solo ambisce di far parte?
Oggi si apre un nuovo capitolo della guerra mondiale a pezzi, pezzi che diventano sempre più attaccati fra loro. Un capitolo che stupisce per la velocità con cui una notizia priva di alcuna dimostrazione, l’esercito di Assad avrebbe usato i gas, è diventata la fonte di legittimazione del lancio dei missili. Tranquillizzo gli ipocriti, sono contro Assad, come lo ero verso Gheddafi, Saddam, Milosevic. Ma sono atterrito dalle guerre scatenate dal potere occidentale sulla base delle proprie fake news. Ho ancora in mente l’immagine del segretario di stato degli USA Colin Powell, che all’ONU nel 2003 mentiva sapendo di mentire mentre mostrava la fiala con la falsa prova degli inesistenti gas di Saddam. Grazie a quella falsa prova Bush, la UE e la NATO scatenarono la seconda guerra in Iraq e grazie ad essa ora abbiamo l’ISIS.»Giorgio Cremaschi
(07/04/17)
Mr President ha deciso insindacabilmente che i cattivoni dell’esercito regolare siriano abbiano fatto uso di armi chimiche, ed in assenza di qualunque riscontro o verifica sul campo ha deciso di bombardare i responsabili fino a prova contraria. Sai com’è?!? C’è l’assoluta certezza del governo israeliano, che mira alla dissoluzione della Siria con la sua polverizzazione in microentità, divise in uno stato di anarchia
militare permanente (divide et impera), più facili da contrastare e più pratiche da controllare, se si pensa di creare una zona cuscinetto sotto occupazione a ridosso della frontiera israeliana, con la creazione di una “fascia di sicurezza”. Non sarebbe certo una novità, visto che si tratta della stessa strategia che Tel Aviv utilizza da almeno 30 anni in Libano. In quanto ai bombardamenti mirati con armi proibite, magari al fosforo bianco, dalle parti di Tsahal sono indubbiamente degli esperti…
E l’attacco alla Siria lo chiedeva da tempo anche l’Arabia Saudita, quel fulgido baluardo di laicità e libertà civili, che Daesh (o come diavolo lo si vuole chiamare) l’ha creato e finanziato (e protetto). E ovviamente la Turchia neo-ottomana del sultano Erdogan, che un giorno sì e l’altro pure minaccia l’Europa, usando l’immigrazione di massa come arma non convenzionale. Ovviamente non è il caso di ricordare come l’unico attacco chimico finora certificato in Siria, riconduca a pesanti responsabilità turche [QUI], che vista l’impunità (quella sì, reale) non hanno fatto altro che riproporre il medesimo giochetto con immutato cinismo, cercando una leva più favorevole con la nuova amministrazione USA. E non per niente Idlib è provincia siriana a ridosso del territorio turco. Dove credete sennò che affluiscano armi, rifornimenti (e combattenti) in una città completamente assediata, se non dall’unico lato di un confine non presidiato?!?
Ci sono poi la Gran Bretagna e la Francia, quest’ultima davvero convinta di ricostruirsi un’influenza coloniale nei suoi ex protettorati in Medio Oriente, dopo l’immane casino creato in Libia per un paio di concessioni petrolifere.
E soprattutto c’è la sedicente ONG dei fantomatici “Caschi Bianchi”, che spergiurano sulle responsabilità dell’attacco. Presunto fino a prova contraria, perché al di fuori della loro parola non ci sono altre evidenze…
«Per mesi i media occidentali hanno riempito gli schermi con le loro immagini, mentre salvavano vittime della guerra, diffondendo le loro dichiarazioni come la Verità Assoluta e facendone degli eroi senza macchia.
Statistiche: stessa bambina ad usum fotografi, tre “soccorritori”, salvata tre volte in tre giorni diversi.
Peccato che nessuno dica che i Caschi Bianchi, o meglio White Helmets, sia un’organizzazione con sede in Turchia fondata da James Le Mesurier, un ex ufficiale inglese tutt’ora in stretti rapporti con l’Intelligence britannico. Né dica che i Caschi Bianchi siano sovvenzionati (largamente) dal Governo inglese (12,5 ml di sterline nel 2016, ma erano 32 nel 2013, e questi sono solo fondi “ufficiali”), da società dell’onnipresente Soros (13 ml di dollari) e dagli Stati Uniti tramite l’Agenzia per lo sviluppo internazionale (23 ml di dollari), oltre che da diversi Paesi occidentali grazie alle pressioni di Usa ed Inghilterra. Come pure, nessuno ha mai trovato singolare che i Caschi Bianchi operino esclusivamente nei territori controllati da Al-Nusra (ovvero Al-Qaeda) e perfino dell’Isis. D’altronde, uno dei suoi capi, Mosab Obeidat, è noto per aver svolto il ruolo di mediatore per rifornire i “ribelli” di armi e munizioni (i rapporti parlano di un “affare” da 2,2 ml di dollari).
Con simili premesse, è singolare che i Caschi Bianchi siano considerati una delle fonti più attendibili per ogni tipo di accusa lanciata contro il Governo siriano e i suoi alleati. E di accuse ne hanno lanciate un’infinità, sempre a senso unico, sempre più “drammatiche”, scagliate nella speranza che la reazione delle opinioni pubbliche occidentali, perché per esse erano confezionate, fermassero l’offensiva di Damasco che stava sgretolando i terroristi.
Eppure, le denunce che i Caschi Bianchi non siano un organismo indipendente ma fornisca servizi medici e supporto ai terroristi, oltre a mettere in atto una sistematica campagna di disinformazione contro il Governo siriano, sono tante.
[…] In realtà, la saga dei Caschi Bianchi non deve stupire e non è affatto l’unica; insieme c’è il sedicente “Osservatorio siriano per i diritti umani”, da sempre voce dei “ribelli”, con sede a Londra e diretto da Rami Abdel Rahman che vive a Coventry, vicino agli ambienti (ed ai finanziamenti) dei Servizi britannici. E ancora, c’è l’infinita serie di appelli che hanno inondato i social da Aleppo; profili farlocchi che raccontavano d’essere comuni cittadini che invocavano l’intervento dell’Occidente, salvo scoprirsi dopo uomini legati ai “ribelli”.
Per tutte vale la storia di Bilal Abdel Kareem, un giornalista accreditato fra i terroristi di Aleppo Est, conosciuto per aver intervistato i capi di Al-Nusra; una personalità assai in vista fra i “ribelli” che si spacciava per espressione della “società civile”.»“Siria, Caschi Bianchi e menzogne“
(24/12/2016)
Con ogni evidenza, l’instabilità della Siria e la recrudescenza terroristica conviene a molti…
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EMBEDDED
Posted in Kulturkampf, Risiko! with tags Arabia Saudita, Bosnia, Fronte al-Nusra, Guerra, ISIS, Jabhat Fatah al-Sham, Kunduz, Liberthalia, Media, Medio Oriente, MSF, Omran Daqneesh, Propaganda, Russia, Salafiti, Siria, stato islamico, Turchia, USA, Yemen on 20 agosto 2016 by SendivogiusIn Siria i “ribelli moderati” stanno perdendo la guerra. O quantomeno le cose non vanno esattamente secondo le aspettative dei principali sponsor di questi fieri guerrieri della libertà, che giocano al medioevo in una pletora di formazioni monotematiche: da Jaysh al-Islam (“Esercito dell’Islam”) a Jaysh al-Jihad (“Esercito della Jihad”); dalla “Armata dei Mujahedeen” alla “Unione islamica dei combattenti del Levante” (Islami Ajnad al-Sham); da Fatah al Islam a Jabhat Ansar al-Islam; dal “Fronte islamico” a Sham al-Islam… convenuti in Siria (al-Sham appunto) sotto i bandieroni neri della sharia, finalmente ripristinata quale unica legge dello stato (islamico) e tutti generosamente finanziati da indefessi campioni della democrazia votati alla laicità, come le monarchie del Golfo arabico e la sempre prodiga Turchia di Erdogan che negli anni non ha certo lesinato le armi e la fornitura di ordigni chimici (a tutt’oggi gli unici ad essere stati usati). Ovviamente, tra i compagni di merende beneficiati da patenti democratiche, dispensate con estrema prodigalità, non vanno dimenticati i galantuomini di Jabhat Fatah al-Sham (“Fronte per la conquista del Levante”), meglio conosciuto come Fronte (Jabhat) al-Nusra, e già costola siriana di al-Qaeda, nella giostra di formazioni salafite che entrano ed escono dalla porta girevole del sedicente “califfato”, tramite il gioco trasversale delle alleanze di comodo. Evidentemente, il cambio di nome è funzionale alla ritrovata verginità “moderata” [QUI], nella fiducia di poter avere insospettabili protezioni sotto cui agire.
La nuova Siria democratica:
A sinistra, miliziano di Jabhat al-Nusra.
Al centro, miliziano dell’Isis.
A destra, miliziano del Fronte Islamico.
Trova le differenze…
Trattasi di quella sincera opposizione democratica, mediaticamente impresentabile, e che quindi bisogna rilanciare in qualche modo presso il grande pubblico che giustamente ne diffida con ragioni più che fondate.
La libera opposizione siriana si batte per la democrazia, per i diritti delle donne, per la libertà e una società più laica.
Questo perché fortunatamente tra le opinioni occidentali esiste ancora una sana repulsione verso chi taglia teste, come neanche nella Francia di Robespierre, distrugge i monumenti islamicamente non conformi e devasta con gusto gli antichissimi monasteri cristiani; imburqa le donne nei territori ‘liberati’ e ostenta i cadaveri dei nemici maciullati in compiaciuta esibizione di sé.
Pertanto, bisognava assolutamente rilanciare l’appeal di simili
figuri in seria crisi di immagine, confezionando per loro un qualche pedigree accettabile… operazione già disperata di suo… infine ammansire gli scettici che ne biasimano le gesta e magari giustificare la prossima “ingerenza umanitaria” (a suon di bombe) nel conflitto siriano, per sostituire il regime nazionalsocialista di Assad con uno persino peggiore, purché sia in funzione anti-russa, secondo le linee guida della nuova guerra fredda e che ha in quella Hillary Clinton in corsa alla Casa Bianca il suo alfiere più convinto.
Nell’attesa, c’è già chi parla di “intervento umanitario” come in Bosnia o in Kosovo… E peccato solo per il fatto che i due staterelli artificiali precocemente falliti si siano trasformati in campi di addestramento terroristici a cielo aperto, per la penetrazione salafita in Europa; ampiamente conosciuti e tollerati, nella sostanziale acquiescenza della NATO che pure dovrebbe presidiarne il territorio.
Che l’ISIS non sia mai stato un vero problema dell’Amministrazione USA è reso evidente dalla leggerezza con cui il fenomeno è stato ampiamente sottovalutato e lasciato crescere a dismisura, fintanto che poteva tornare utile nel great game mediorientale e ridisegnare le sfere geopolitiche di influenza. Adesso che il Dipartimento di Stato sta approntando i preparativi per la prossima guerra, bisogna predisporre il terreno emotivo per rendere più digeribile il nuovo conflitto, presso un’opinione pubblica quanto mai perplessa, data la natura dei nuovi “alleati”.
E quindi cosa c’è di meglio dell’uso strumentale dell’ennesimo infante flagellato dagli orrori della guerra?!?
Perché va da sé che i bombardamenti non sono tutti uguali. Per esempio, quelli perpetrati sullo Yemen, meglio se contro scuole e ospedali eletti ad obiettivi privilegiati dell’aviazione saudita, opportunamente rifornita di bombe dalle grandi democrazie occidentali (Italia in primis), non fanno assolutamente notizia.
Lo Yemen è lontano; scarseggiano le coperture mediatiche; non produce flussi di profughi a getto continuo (e dove mai potrebbero fuggire, chiusi come sono tra il deserto arabico e l’Oceano Indiano?). La sua popolazione poi è scarsamente fotogenica (forse) e non interessa agli specialisti del pietismo telecomandato.
L’attacco sistematico delle strutture sanitarie costituisce d’altronde l’ultima grande novità delle guerre asimmetriche del nuovo millennio. A tutt’oggi resta insuperata la distruzione dell’ospedale di Kunduz in Afghanistan, gestito da “Medici senza frontiere”, e spazzato via dalle bombe intelligenti della USAF che, compiuta la missione, ha subito assolto se stessa, salvo preoccuparsi dei raid russi in Siria e non perdendo mai occasione di denunciare i crimini di guerra (degli altri).
Al netto delle ipocrisie, l’ineffabile Edward Luttwak, con tutta la consueta simpatia che ne contraddistingue le apparizioni pubbliche, ha sciolto ogni equivoco ribadendo come un ospedale che cura tutti i feriti senza distinzioni di fronte si configura come un legittimo obiettivo militare, con buona pace degli ultimi duecento anni di convenzioni belliche comunemente accettate, che mai avevano messo in discussione il ruolo universale delle strutture sanitarie in zona di guerra.
Il dio biblico degli eserciti benedica dunque quest’uomo, che ha la capacità di dire le più ciniche abnormità, senza che nulla sfiori mai la sua spietata imperturbabilità!
Pertanto, il cannoneggiamento degli ospedali si configura come crimine variabile, a seconda di chi distrugge cosa, della latitudine, e degli schieramenti di appartenenza, nell’ambito assai flessibile dei “danni collaterali”.
Anche l’uso di bombarde improvvisate da parte del “libero esercito siriano”, che sparano a casaccio bomboloni caricati a mitraglia nei quartieri alawiti (e cristiani) delle città siriane, rientra nell’alveo delle operazioni militari moralmente corrette e strategicamente ineccepibili.
Ci sono inoltre immagini ‘crude’ che possono essere mostrate, sbattute in prima pagina su tutti i quotidiani, ed altre invece no. Altrimenti bisognerebbe gettare nel pastone mediatico anche i neonati seppelliti vivi sotto le macerie di Gaza, i bambini devastati dalle schegge, durante i “bombardamenti chirurgici” dell’esercito israeliano. Ma non sarebbe opportuno…
Luglio 2014. Operazione “Margine di protezione”.
Israele bombarda i ‘terroristi’ di Hamas.
Se volete vedere una vera galleria degli orrori, disgustarvi sarebbe fin troppo facile…
Ma è assai sconveniente per i media embedded proporre immagini non compatibili con le loro narrazioni funzionali.
In fondo, la strategia di propaganda aveva già ripagato nel caso del piccolo Aylan: il bimbo curdo adagiato cadavere tra i flutti del bagnasciuga dai solerti gendarmi turchi ad usum fotografi, appositamente fatti convenire sul luogo dello scempio.
L’immagine, una volta introiettata in ‘Occidente’ e oltre, è stata subito trasformata da tragedia in farsa, che gli istrionici coglioni non mancano proprio mai…



Datemi un cazzo di bulldozer!!
In compenso, accesi i riflettori sul caso, la cosa ha permesso al sultano di Ankara, tra le altre, di intascare a fondo perduto i miliardi di una UE supina ai ricatti di un infame dittatorello asiatico, che ormai usa la Germania come il suo personale parco giochi, mentre nei distretti orientali dell’Anatolia (gli stessi che un secolo fa videro il genocidio degli Armeni e degli Assiro-Caldei) continua indisturbata la spietata repressione delle popolazioni curde (come il piccolo Aylan e la sua famiglia).
Al contempo, notizie come questa QUI non conquistano la prima pagina dei giornali, sempre per quella questione di opportunità, alleanze, e presentabilità.
È la stampa bellezza. E tu puoi fare molto più di niente…
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COSE TURCHE
Posted in Risiko! with tags Colpo di Stato, Cultura, Dittatura, Edward Luttwak, Esteri, Golpe, Liberthalia, Recep Tayyip Erdoğan, Società, Turchia on 17 luglio 2016 by SendivogiusNella sua guida pratica al colpo di stato, un giovanissimo Edward Luttwak illustrava (era il lontano 1968) con dovizia di analisi tutte le variabili possibili per la riuscita del golpe perfetto, individuando nella rapidità di esecuzione e nella neutralizzazione degli obiettivi primari gli elementi fondamentali per il suo successo.
«Fino a quando l’attuazione del colpo di stato è rapida e noi rimaniamo avvolti nell’anonimo, nessuna particolare fazione politica avrà un motivo o un’occasione per opporsi. In fin dei conti potremmo essere i suoi potenziali alleati. In ogni caso, un indugio ci farà perdere il vantaggio principale di cui disponiamo: la neutralità volontaria di quegli elementi i quali si attengono al principio “aspetta e stà a guardare” e la neutralità involontaria di quelle forze che richiedono tempo per essere concentrate e spiegate prima dell’azione. La necessità di un massima rapidità significa che le tante operazione del colpo di Stato devono essere attuate quasi simultaneamente; ciò a sua volta richiede un gran numero di persone.»
Edward N. Luttwak
“Tecnica del Colpo di Stato”
Longanesi, 1969
E quindi richiede l’impiego di unità che siano ben organizzate, motivate, e più che determinate a realizzare l’impresa.
Ovviamente, Luttwak non manca di elencare la scala delle priorità, da realizzare immediatamente nelle prime fasi del golpe. Tra questi:
a) Assicurarsi l’appoggio delle unità di polizia militare della Gendarmeria; neutralizzare i servizi di intelligence e controspionaggio (e fin qui ci siamo).
b) Ridurre al silenzio le principali autorità politiche e di governo ostili al putsch, che devono essere catturate (o eliminate) ben prima della mobilitazione generale. E bisogna farlo in fretta, tramite blitz coordinati e condotti possibilmente da squadre d’elite, in modo da bloccare l’intera catena di comando “lealista” e ritardare così la possibile controffensiva nella confusione delle direttive, paralizzando la capacità di reazione.
c) Occupare le stazioni radiotelevisive, assicurarsi il pieno controllo delle trasmissioni, ed interdire tutte le comunicazioni, facendo filtrare solo notizie e proclami favorevoli alla nuova giunta.
d) Controllare le principali arterie stradali ed i nodi strategici; assicurarsi quindi la conquista simbolica dei luoghi del potere, attraverso l’occupazione dei principali edifici di governo (ministeri e sedi istituzionali). Garantirsi il necessario spazio di manovra (e di movimento truppe) con l’imposizione del coprifuoco (che va fatto rispettare) e la proclamazione della legge marziale.
e) Disporre di un numero sufficiente di truppe e delle fondamentali coperture, tipo l’appoggio dell’aviazione militare col controllo dei cieli e degli aeroporti. Soprattutto, ricercare il consenso o quantomeno la neutralità delle forze sociali del regime che si intende deporre.
«L’efficienza dei soldati moderni, con i loro rapidi mezzi di trasporto, le comunicazioni sicure e le armi potenti, significa che anche una singola formazione fedele al regime potrebbe intervenire e sconfiggere il colpo di Stato, se com’è possibile le sue forze sono scarse e la massa della popolazione ed il resto delle forze statali rimangono neutrali.
[…] È naturalmente possibile servirsi di un cacciabombardiere per “eliminare” un palazzo presidenziale, invece di inviare una squadra ad arrestarne l’occupante…. ma si tratta di un modo alquanto estremo di giocare la partita…. Il bombardamento tattico della propria futura capitale, e della propria possibile residenza dopo il colpo di Stato, non può certo ispirare fiducia nel nuovo governo.»Edward N. Luttwak
“Tecnica del Colpo di Stato”
Longanesi, 1969
Sarà per questo che gli improvvisati golpisti turchi si sono messi a mitragliare un palazzo presidenziale praticamente vuoto, occupare sedi di un partito abbandonato per tempo, mettersi a cannoneggiare il Parlamento (per essere sicuri di aver contro tutti i deputati indistintamente), non preoccupandosi minimamente di catturare la leadership politica del Paese, a cui è stato concesso tutto il tempo necessario per fuggire e rifugiarsi chissà dove, dando al presidente-sultano la fondamentale possibilità di chiamare a raccolta i suoi accoliti e lanciare i propri appelli dalla televisione pubblica, opportunamente lasciata trasmettere in tutta tranquillità durante le fasi iniziali e più delicate del colpo di Stato.
Naturalmente, per la perfetta riuscita del coprifuoco si è scelto come orario il dopocena di un venerdì sera, con le strade di Istanbul e della capitale Ankara intasate dal traffico, i locali pieni, e l’intera popolazione in giro, ben sveglia, e connessa ai social network (peraltro lasciati liberi di trasmettere senza troppi problemi).
Luttwak nel suo manualetto di istruzioni non poteva certo immaginare le potenzialità di internet, ma certamente sapeva che:
«Le forze politiche possono intervenire contro il colpo di Stato in due modi:
a) Possono chiamare a raccolta e dispiegare le masse, o una parte di esse contro il nuovo governo.
b) Possono manipolare mezzi tecnici da esse controllati, allo scopo di opporsi al consolidamento del nostro potere.
L’azione dei capi politici, religiosi, etnici o intellettuali, che potrebbero avvalersi contro di noi della struttura del loro partito o della loro comunità, costituisce un esempio del primo intervento.»
E appunto per questo,
«La nostra neutralizzazione generale delle forze politiche verrà condotta nei termini di questa infrastruttura. Ci impadroniremo, mantenendole, di quelle infrastrutture che saranno necessarie ai nostri scopi, mettendo temporaneamente fuori uso le altre. Se i sistemi di comunicazione e il sistema di trasporti sono sotto il nostro controllo, o per lo meno non funzionano, la minaccia potenziale posta dalle “forze politiche” sarà in vasta misura neutralizzata; i capi del governo ante-golpe saranno arrestati, in quanto fanno parte dell’infrastruttura e sarebbero probabilmente le maggiori fonti di ispirazione di ogni opposizione al colpo di Stato.
Neutralizzeremo in particolare alcune forze politiche, identificando e isolando la loro leadership e smembrandone l’organizzazione; ciò si renderà necessario soltanto con quelle forze che siano sufficientemente elastiche e militanti, per intervenire contro di noi anche se l’infrastruttura sarà neutralizzata. Entrambe le forme di neutralizzazione implicheranno la scelta di determinati obiettivi che saranno catturati o posti fuori uso da squadre formate con quelle forze dello Stato che avremo completamente sovvertito o, secondo la nostra terminologia, incorporato.
[…] Per quanto il nostro colpo di Stato possa essere attuato senza spargimento di sangue, per quanto progressisti e liberali possano essere i nostri scopi, dovremo ugualmente isolare alcuni singoli individui, durante e immediatamente dopo la sua attuazione. Di essi il gruppo più importante sarà quello formato dalle figure più eminenti del regime ante-colpo di Stato o, in altri termini, dai leader del governo e dai loro stretti collaboratori, sia che essi siano ufficialmente uomini politici o no.
[…] Oltre ad essere scomodamente numeroso, questo gruppo sarà inoltre particolarmente deciso e pericoloso. La reputazione personale e l’autorità dei suoi componenti potrebbero essere tali da consentire loro di chiamare a raccolta le forze disorganizzate dello Stato o le masse organizzate; potrebbero inoltre imporre la loro volontà alle squadre inviate a catturarli, tramutandole in alleati.
[…] In fine dei conti, se un giovane soldato che agisce al di fuori delle mansioni familiari si trova di fronte ad una personalità politica tutto il comportamento della quale è calcolato in modo tale da indurre la gente ad ubbidirla, è difficile essere certi che eseguirà gli ordini e non i contrordini che potrebbero essergli impartiti.»
Va da sé che nessuna di queste ‘accortezze’ è stata messa in pratica dai golpisti turchi; i quali, per essere sicuri del pieno fallimento di un’iniziativa peraltro anacronistica, hanno affidato le operazioni a pochi raffazzonati reparti di fanteria meccanizzata, massimamente composti da soldati di leva (che in parte credevano di partecipare ad una simulazione), privi di motivazioni ideologiche e che certamente non avrebbero aperto il fuoco in maniera indiscriminata contro una folla di civili disarmati. Insomma, un pugno di gendarmi della polizia militare, qualche plotone di fucilieri, con l’appoggio di una dozzina di carri armati tra cui facevano bella vista di sé gli obsoleti M-60 ed i vecchi cingolati M-113, accanto a qualche sporadico Leopard 2 subito abbandonato ed un paio di elicotteri d’attacco Cobra, per uno schieramento complessivo di forze assolutamente incapace di contrastare il probabile attacco di una qualunque brigata corazzata.
Peraltro, a disarmare gli insorti è bastata una folla confluita in massa contro i posti di blocco presidiati da sparuti gruppetti di fantaccini allo sbaraglio. E questo la dice lunga sulla convinzione e le motivazioni di un tentativo di colpo di Stato quantomeno surreale, sicuramente fuori dal tempo e dalla storia.
Ad essere molto maliziosi, si potrebbe quasi pensare che una manina assai interessata abbia spinto un risicato gruppo di ufficiali intermedi, soffiando sui malumori che già da tempo circolano nei circoli militari dell’esercito turco, portandoli a sopravvalutare di molto le loro possibilità e conducendoli ad un’azione tanto azzardata quanto fallimentare. Soprattutto, si è trattato di “una benedizione voluta da dio”, giunta provvidenziale a rinsaldare il potere declinante del sultano Erdogan e sancirne l’apoteosi imperiale, in pieno revival neo-ottomano; oppure, se preferite, carnevale…
Per fortuna in Turchia ha vinto la democrazia, coi muezzin delle moschee che nella notte del golpe incitano i fedeli alla jihad contro i militari, che nel loro fumosissimo programma di governo avrebbero avuto in progetto di porre un freno alla deriva islamista del Paese.
Sarà per questo che il presidente Erdogan come prima cosa ha provveduto ad arrestare o rimuovere oltre tremila magistrati, sostituendo i giudici della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione con fedelissimi dotti islamici di sua esclusiva fiducia, mentre pensa di indire un referendum per attribuirsi i pieni poteri e magari sciogliere i partiti dell’opposizione curda. Non si capisce bene la relazione con il colpo di Stato, ma si intuiscono benissimo le finalità dei provvedimenti…
Il sobrio ingresso alla residenza presidenziale di Erdogan il Sultano
E nell’intermezzo si parla di reintrodurre la pena di morte, mentre arrivano le prime immagini di decapitazioni anche ad Istanbul sopra il ponte sul Bosforo, al liberatorio grido di Allahu Akbar. Sono alcuni dei doni portati in dote dallo sposo turco nel peggior matrimonio di interessi, mai consumato peggio dai tempi di Barbablù.
Anche questo è il ‘ritorno’ della democrazia in Turchia. Ovvero: il consolidamento di una dittatura a discapito di un’altra. Difficile stabilire quale sia peggio. In compenso, sono scene che toccano il cuore di ogni sincero democratico, che crede alle libertà civili ed allo stato di diritto. Indubbiamente, l’autocrazia asiatica ha adesso tutti i requisiti per entrare a pieno titolo nell’Unione europea, che davvero se ne sentiva la mancanza di simili contributi.
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LO SPOSO TURCO
Posted in Kulturkampf, Risiko! with tags Angela Merkel, Germania, Immigrazione, Liberthalia, Recep Tayyip Erdoğan, Turchia, UE on 7 Maggio 2016 by SendivogiusModifica unilaterale della Costituzione, stravolgimento delle regole parlamentari, concentrazione abnorme dei poteri istituzionali, nepotismo esteso oltre ogni familismo amorale, asservimento dei media e bavaglio alla libera stampa… No, non è l’Italietta bonapartista di Renzimandias, ma la Turchia del sultano Erdogan: il nuovo amichetto di fräulein Merkel, auto-assunta ad arcigna governante di un’Europa ridotta a dépendance tedesca, ed ora tutta preoccupata su come puntellare i sacri confini germanici salvaguardandoli dalla pressione migratoria, senza però pregiudicare il transito delle merci in uscita a tutela delle proprie esportazioni.
Per questo c’è bisogno di Recep Tayyip Erdogan: l’inquietante padiscià imbucato a Berlino, che tanto ama giocare all’impero ottomano, credendosi evidentemente l’incarnazione in formato tascabile di Solimano redivivo. Uno che nel suo tetro palazzo presidenziale di Ankara, agli incontri ufficiali, si presenta così…
Il fatto che un simile dittatore da operetta venga fatto imboccare a forza in quel circolo degli orrori a cui sempre più assomiglia la UE, e dalla quale oramai troppi scalpitano per uscire, costituirà per i secoli a venire il marchio d’infamia di un continente sempre più allo sbando, nella drammatica assenza di una qualunque classe dirigente.
L’adesione di Istanbul a questo club dei suicidi impiccati al rigore contabile era in cantiere da tempo… Ce lo chiede Washington che ha bisogno della base aerea di Incirlik (a be’ allora..) e naturalmente il “Mercato”.
Da qui, e dalle esigenze di politica interna per un’Angelona prossima alla frutta, scaturisce la sottoscrizione di un accordo vergognoso con la Turchia di Erdogan, che non ferma i flussi migratori, ma semplicemente li storna verso le coste italiane del Mediterraneo. E giacché non sarebbe vantaggioso provocare il collasso della Grecia, fintanto il governo ellenico non avrà saldato gli interessi a strozzo sul debito, chiude provvisoriamente la tratta balcanica nonostante questa possa essere riaperta in ogni momento, secondo i capricci e soprattutto i ricatti dell’ingombrante “alleato” turco.
Per ogni “migrante” rimpatriato, i cittadini europei se ne prenderanno subito a carico un altro, per un saldo zero sui rimpatri e un aggravio progressivo sui bilanci pubblici che in qualche modo dovranno essere finanziati. Vengono sbloccati i visti per la libera circolazione di tutti i cittadini turchi (solo 75 milioni) all’interno della UE, per un’altra massiccia immissione di imprescindibili “risorse” da ricollocare in qualche modo, che si andranno ad aggiungere agli altri milioni di disperati proveniente da ogni bidonville del pianeta: i “doni” (assolutamente non richiesti) come ama chiamarli il Gran Muftì di Roma, al secolo “papa Bergoglio”.
Sarebbe il sommo pontefice di romana chiesa (santa?), che di tutto sembra occuparsi eccetto di ‘cristiani’, mentre sollecita il ritorno ad uno “spirito umanistico” dell’Europa (Dio non voglia!) che a suo tempo tanti bei papi ci ha dato come quell’Enea Silvio Piccolomini fissato con le crociate contro i turchi.
Per intenderci, Angelona era quella che soltanto otto mesi fa era pronta ad accogliere mezzo milione di “profughi” all’anno o anche più, in un flusso ininterrotto per i prossimi lustri a venire; salvo poi fare precipitosamente marcia indietro quando questi “doni” della globalizzazione hanno cominciato a reclamare il loro diritto di preda nella notte brava di capodanno, con lo stalking di massa contro le ‘femmine’ degli infedeli, per una riedizione ‘goliardica’ delle vecchie marocchinate (troppo politicamente scorrette per essere ricordate).
A suo tempo, sulla questione considerata nella sua dimensione generale [QUI] eravamo stati fin troppo facili profeti:
“…c’è da chiedersi, quando tra qualche settimana sarà nuovamente mutata la percezione mediatica, quanti di quei tedeschi ed austriaci che ora corrono ad accogliere festanti l’arrivo dei migranti alle loro frontiere orientali risponderanno con lo stesso entusiasmo, non appena si renderanno conto che l’ondata non si esaurirà in poche decine di migliaia di profughi. Soprattutto, sarà interessante confrontarne le reazioni quando prenderanno atto che l’intera operazione non è a costo zero, specialmente nel momento in cui verranno contabilizzati gli oneri che una simile ‘riallocazione’ su vasta scala comporta; nonché l’impatto che questa avrà sui sistemi di welfare e di pubblica assistenza, con la distribuzione delle risorse interne e le priorità di spesa ad essa connessa. Perché è evidente che gli stati europei, nella loro apparente opulenza, hanno pur sempre un limite fisiologico…”
(06/09/2015)
Per il ricostituito Reich germanico senza le panzer-divisionen, i vantaggi del matrimonio combinato con l’imbarazzante sposo turco sono pochini e tutti di breve periodo. Per il resto d’Europa, che supinamente ha subito il trattato su imposizione tedesca, non andando oltre qualche mugugno, i benefici assommano a zero con costi alla lunga insostenibili.
In compenso, vengono assecondate le velleità neo-ottomane della Turchia di Erdogan e tutte le sue destabilizzanti ambiguità nello scacchiere mediorientale, sollevando una cortina di silenzio sulle continue violazioni dei diritti civili con cui un regime sempre più autoritario reprime con durezza il dissenso interno.
Fortunatamente, da noi non vengono (ancora) ammazzati i giornalisti o prese d’assalto dalla polizia le sedi dei giornali. Al massimo, si mettono sotto processo i comici per delitto di lesa maestà delle loro sacralità imperiali, tanto per compiacere il permaloso dittatorello di turno…
Al contempo, si tace interamente sul terrorismo di Stato (che in Turchia sembra essere pratica ordinaria ed elettoralmente vincente), sugli omicidi politici, nonché sulla repressione delle minoranze (non solo curde) e sul ruolo fondamentale che il governo turco ha giocato nel creare e foraggiare le bande di psicopatici in ciabatte che imperversano in Siria.
Fu così che l’islamofascismo del sultano di Ankara diventò improvvisamente presentabile e congruo agli standard europei; così inflessibili sui conti, ma sempre molto elastici quando investono la sfera dei diritti e le tutele della cittadinanza. Per questo, nella nuova Turchia erdoganizzata, ridotta ad una satrapia personale a feudalizzazione familiare, non si può assolutamente parlare di sterminio degli armeni: è un delitto di stato (usare la parola “genocidio”, mica il delitto!). In compenso si può tranquillamente concionare di “razza turanide”, di genetica e “panturanesimo” delle stirpi uralo-altaiche. Se riguardasse noi “occidentali” bianchi e cattivi, si parlerebbe apertamente di razzismo… Ma in questo caso si tratta di una diversa sensibilità culturale nella ‘relativizzazione’ dei costumi locali. A parti inverse, immaginatevi soltanto un presidente tedesco che oggi si mettesse a parlare di “razza ariana”, negando la shoah degli ebrei.
Per contro, la Turchia è da sempre parte integrante della storia europea…
Dalla conquista di Costantinopoli nel 1453 all’ultimo assedio di Vienna nel 1683, non si contano i suoi contributi alla pace ed alla stabilità dell’Europa, lasciando un indelebile ricordo in quei popoli balcanici che hanno avuto la mirabile fortuna di essere amministrati da così illuminato dominatore come certamente fu l’Impero ottomano. È il motivo per cui le popolazioni dell’Europa orientale guardano alle fiumane umane di immigrati, aspiranti profughi, con la stessa apprensione e timori che i loro antenati della Moesia e dell’Illyricum devono aver provato all’arrivo dei Goti nella regione balcanica, nonostante l’ammorbante vulgata pietista che ad ogni ora del giorno e della notte trabocca dai nostri Cinegiornali Luce, tanto per cercare di ammorbidire la gigantesca supposta in arrivo, finendo invece per provocare l’effetto opposto con l’inevitabile crisi di rigetto che di solito ne consegue.
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Medz Yeghern – Il Grande Male
Posted in Kulturkampf with tags Albania, Anatolia, Armenia, Armin T. Wegner, Arnold J. Toynbee, Assedio di Van, Auction of Souls, August Stange, Aurora Mardiganian, Balcani, Behaeddin Chakir, Bulgaria, Caucaso, Cecenia, Circassi, Comitato per l’Unione e il Progresso, crocifissioni di donne, Cultura, Curdi, Dashnaktsutiun, Diyarbakir, Djevdet Bey, Genocidio degli Armeni, Germania, Giovani Turchi, Giovanni Gorrini, Grecia, Guerra, Hans von Wangenheim, Henry Morgenthau, Impero Ottomano, Ismail Enver, Ittihad Ve Terakki Comyeti, Jamal Pascià, Jevdet Bey, Legge Tehcir, Liberthalia, Marcia della morte, Medz Yeghern, Mehmed Reshid, Mehmed Talat, Muhajir, Musa Dagh, Mustafa Abdülhalik, Nazim Bey, Nazionalismo, Organizzazione speciale, Oscar Heizer, Otto von Lossow, Prima Guerra Mondiale, Pulizia etnica, Rafael de Nogales Mendez, Ravished Armenia, Raymond Kévorkian, Russia, Serbia, Siria, Sterminio, Storia, Tchetté, Techkilat i Mahsousse, Turchia, USA, Van on 20 aprile 2015 by SendivogiusLo storico britannico Arnold J. Toynbee, a cui si deve
l’introduzione della ponderosa relazione intitolata “The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire” e meglio conosciuta come “Blue Book”, dove sono raccolte gran parte delle testimonianze sul genocidio degli Armeni e degli Assiro-Caldei, individuò nella “distruttività del nazionalismo moderno” il Grande Male dell’epoca, all’origine della febbre ideologica che sembrava consumare tra i fuochi della sua follia omicida popoli ed identità in un’orgia di massacri.
Il “Medz Yeghern” costituisce a suo modo la prima applicazione su scala nazionale di quell’ideologia eliminazionista (per fare propria la definizione di Daniel J. Goldhagen) che, innestandosi sul ceppo ben più antico degli odi etnici e del fanatismo religioso, si svilupperà nei grandi genocidi del XX secolo; i quali non costituiscono affatto una specificità esclusiva di determinate entità nazionali (meno che mai turche o tedesche).
Interludio
Il genocidio degli Armeni (e degli Assiro-Caldei e dei Greci del Ponto), ancorché contestato, implica aspetti particolari che nella portata delle sue dinamiche dimostrano essenzialmente come le attività di sterminio, pur avendo peculiarità universali, non presuppongano necessariamente l’esistenza di una struttura totalitaria né un’infallibile volontà organizzativa finalizzata alla distruzione, come fu per esempio nel caso del nazismo.
La Turchia di inizio ‘900 era uno stato costituzionale, dittatoriale nella sostanza ma democratico nella forma, dotato di organi rappresentativi ed un proprio Parlamento che, per quanto limitato nei poteri ed epurato nella composizione, non fu mai sciolto nemmeno durante la disastrosa condotta della prima guerra mondiale e che per inciso non varò mai una legge organica, che legittimasse in modo esplicito le stragi e le espropriazioni forzate.
Soprattutto, i massacri furono alimentati con estrema facilità, in una spirale perversa di odio, vendette e ritorsioni, innescate dalle espulsioni di massa e lo sradicamento violento delle comunità turcofone e musulmane dai territori balcanici, oggetto di una pulizia etnica feroce da parte dei nuovi conquistatori ‘cristiani’. E delle quali loro malgrado fanno le spese gli Armeni e le altre comunità cristiane, presenti nei distretti orientali dell’Impero ottomano.
Tra il 1880 ed il 1915, affluiscono in Anatolia milioni di profughi, che i Turchi chiamano Muhajir. Sono albanesi, bosniaci, bulgari, circassi della Cecenia, turcomanni e tatari della Crimea… tutti cittadini ottomani espropriati di ogni bene e cacciati via dalle loro case, che si riversano in massa nell’Impero del sultano in cerca di protezione ed asilo, e che vengono reinsediati nei distretti popolati dagli Armeni. L’eliminazione di una minoranza indesiderata comporta per il governo nazionalista l’opportunità di risolvere la “questione armena” e provvedere alla sistemazione dei nuovi arrivati, utilizzando i beni saccheggiati.
Lo sterminio degli Armeni, seppur condiviso e partecipato da gran parte della popolazione soprattutto nelle campagne, e massimamente i Muhajir, nella sua ferocia selvaggia non conobbe mai le forme proprie del razzismo biologico (come avvenne invece nel caso degli ebrei in Germania). Né era la diretta conseguenza di una produzione legislativa, volta alla massima discriminazione in attesa della “soluzione finale”.
Ufficialmente, ed in linea puramente teorica, quello degli Armeni si configurava come una deportazione di massa, “militarmente necessaria” per ragioni di sicurezza in tempo di guerra, e portata avanti con modalità brutali “al fine di massimizzare il numero di morti lasciati per strada” (A.J.Toynbee).
«L’atto che sancisce l’ufficialità dell’operazione è una risoluzione del Consiglio dei Ministri, datato 27 Maggio 1915. È un documento brevissimo che afferma il dovere dello Stato di reprimere con estremo rigore ogni attentato alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico. E conferisce alle autorità militari dei vari distretti la facoltà “se le esigenze della guerra lo impongono di trasferire e installare in altre località, individualmente o per gruppi, le popolazioni delle città e dei villaggi sospettate di tradimento o di spionaggio”. La parola ‘armeno’ non figura nemmeno nel testo.
Il 30 Maggio segue un decreto-legge dello stesso tenore, che non sarà mai ratificato dal Parlamento ottomano. Poi il 10 Giugno arriva una legge che precisa le modalità da seguire per il trasferimento delle persone e per la sistemazione dei loro interessi e affari prima della partenza. Infine, a operazione conclusa, il 26/09/1915, un’ultima legge stabilisce la sorte dei beni abbandonati dai deportati. Sul piano della legislazione ufficiale non c’è altro. I riferimenti espliciti agli Armeni sono sporadici; nelle istruzioni operative si preferisce ricorrere a perifrasi come “le persone trasportate altrove”, “le persone note”, e così via.»Sergio De Santis
“Il genocidio degli Armeni”
(Marzo, 1996)
L’applicazione delle disposizioni viene affidata alle autorità militari che godono di una discrezionalità illimitata, secondo un mandato tanto vago quanto ambiguo. Per essere sicuri di ottenere l’effetto implicitamente desiderato, gendarmeria ed esercito, vengono affiancati da appositi commissari governativi e soprattutto dalle unità operative dell’Organizzazione speciale.
Peraltro, la normativa in oggetto che si componeva di una serie di decreti governativi, spesso e volentieri seguiva e non precedeva le direttive emanate dal comitato centrale del partito di governo: il CUP (Comitato per l’Unione ed il Progresso).
Il 25 Febbraio del 1915, per ordine del Ministro della Guerra e uomo forte del regime, Ismail Enver pascià, tutti gli Armeni
effettivi nell’esercito ottomano vengono distaccati nei “battaglioni lavoro” del Genio militare e quindi fucilati, o passati per le armi dai boia dell’Organizzazione speciale.
Al contempo viene ordinato a tutti i villaggi armeni dell’interno di consegnare ogni tipo di arma in loro possesso e di fornire ogni uomo valido per la coscrizione di leva, o in alternativa il pagamento del “bedel”, la tassa di esenzione. Trasgressori e renitenti vengono sottoposti a tortura con tenaglie roventi.
Di conseguenza, il 19 Febbraio, la provincia armena di Van si ribella alle ingiunzioni del governatore turco, Jevdet Bey, che in caso di rivolta promette di uccidere ogni cristiano, uomo, donna, o bambino in cui dovesse imbattersi. E sarà di parola.
A farne le spese saranno soprattutto le comunità cristiane degli Assiro-Caldei, che a torto si credono immuni alla rappresaglia e vengono invece investiti appieno dalla repressione, che puntualmente si abbatte su di loro… Da Ras-el Hadjar a Tel Mozilt, passando di villaggio in villaggio per tutto il vilayet di Van ed i monti dell’Hakkari, tutti i 52 villaggi cristiani tra Beyazit e Eleskirt vengono distrutti dai reggimenti di cavalleria curda degli Hamidiye.
Gli Armeni della città di Van si organizzano in milizie volontarie e squadre di auto-difesa resistendo agli attacchi dell’esercito ottomano, fino all’arrivo in loro soccorso di un contingente
russo. E questo rafforza ulteriormente la convinzione tra i “Giovani Turchi” che gli Armeni siano una minaccia, da debellare al più presto ed in maniera definitiva. E che porteranno alla stesura, per l’appunto 27/05/1915, della cosiddetta “Legge Tehcir” sulle deportazioni che avrebbero dovuto avere carattere straordinario e provvisorio. In realtà, la legge giunge per fornire una qualche copertura legale ad una vasta operazione di repressione, già in atto ed innescata motu proprio, su impulso di settori governativi legati all’apparato militare nell’ambito del pacchetto di “misure speciali”. Ad ogni modo, è dopo la promulgazione della legge che si intensificano le esecuzioni di ostaggi e l’uccisione dei prigionieri politici.
Il 24 Aprile c’è la grande retata contro l’elite armena, con l’arresto in massa di tutti gli elementi di spicco della comunità che verranno successivamente assassinati.
E, sempre nell’Aprile del 1915, vengono predisposti le prime operazioni di evacuazione della popolazione civile armena ed il suo trasferimento in appositi campi di raccolta, predisposti in Mesopotamia e Siria.
Nell’opera ci si avvale, almeno nelle sue fasi iniziali, pure della comprovata efficienza dell’alleato germanico, che predispone i piani di deportazione in cui è previsto anche l’utilizzo dei treni merci della nuova linea ferroviaria per Baghdad, per il trasferimento dei deportati in appositi campi di raccolta nel deserto che gli uomini del Kaiser chiamano, senza falsi eufemismi, konzentrationslager: 25 campi della morte, dove i pochi superstiti vengono lasciati morire di fame e malattia.
D’altronde, il Reich germanico può già vantare una comprovata esperienza con lo sterminio degli Herero, nelle sue colonie sudafricane.
Le operazioni di ‘deportazione’ hanno l’avvallo del generale Hans von Seekt, che i turchi chiamano “la Sfinge”, e che dopo la guerra diverrà uno dei personaggi di maggior rilievo e tra i più affidabili referenti tra i ‘democratici’ della Repubblica di Weimar.
Operazione Massacro
Nata ufficialmente come una serie di trasferimenti coatti su vasta scala, la deportazione degli Armeni si trasformò fin da subito in una gigantesca operazione di pulizia etnica. Che l’eccidio sistematico delle popolazioni armene rientrasse in un progetto più ampio di sterminio, che fosse pianificato o meno, secondo una precisa strategia “eliminazionista” premeditata a lungo e scientificamente messa in atto, oppure fosse la conseguenza incidentale, ancorché voluta, di un insieme di massacri deliberati, per annichilire una minoranza interna percepita come infida, l’estensione a livello capillare delle esecuzioni sommarie e dei linciaggi di massa, con la messa in atto di pogrom organizzati, assunse fin da subito le dimensioni e gli effetti di un vero e proprio genocidio, strutturato nelle forme rozze e feroci della rappresaglia tribale, esasperata dall’odio religioso, e fomentata da una cruda avidità di saccheggio. I trasferimenti sono in realtà marce della morte attraverso il deserto siriano, senza viveri né acqua, esposte agli attacchi continui di banditi e predoni, che uccidono i pochi uomini rimasti, mentre stuprano e rapiscono le donne.
L’ordine di deportazione viene affisso nelle piazze delle città o annunciato da banditori che vanno di villaggio in villaggio. Agli Armeni vengono concessi da due a cinque giorni di tempo per radunare le proprie masserizie. Il governo si farà carico della custodia e della salvaguardia dei beni abbandonati, fino alla
loro restituzione. In seguito, il ministro agli interni Talaat arriverà a chiedere alle compagnie assicurative la liquidazione delle polizze stipulate dagli Armeni da lui assassinati, definendosi il naturale erede, giacché il ministero ha espropriato tutti loro beni. Con ogni evidenza, la natura del provvedimento è punitiva e colpevolizzante, ma al contempo si sforza di lasciar trasparire una cornice legalitaria, come si può evincere dalla natura del testo del bando:
“I nostri concittadini armeni, avendo adottato da anni per istigazione straniera molte perfide idee di natura tale da turbare l’ordine pubblico; avendo provocato conflitti sanguinosi; avendo tentato di turbare la pace e la sicurezza dell’impero oltre che la pace e gli interessi degli altri cittadini; avendo osato unirsi agli attuali nemici in guerra contro il nostro impero, il nostro governo si è visto obbligato a prendere delle misure straordinarie sia per garantire l’ordine che per la sicurezza del Paese, sia anche per il benessere e la conservazione della stessa comunità armena.
Di conseguenza, e come misura in vigore per la durata della guerra, gli armeni dovranno essere trasferiti a destinazioni che già sono state predisposte in alcuni vilayet; ed è rigorosamente prescritto a tutti gli ottomani di ubbidire nel modo più assoluto agli ordini presenti:
1. Tutti gli armeni ad eccezione dei malati dovranno partire entro cinque giorni sotto scorta di gendarmi.
2. Sebbene sia permesso loro di portarsi dietro per il viaggio i beni trasportabili, è vietato agli armeni di vendere le loro proprietà e gli altri beni, oppure di affidarli ad altri, perché il loro esilio è solo temporaneo.
3. Alloggi adeguati sono previsti lungo il percorso, onde assicurare ogni conforto. E sono state predisposte tutte le misure per proteggerli da ogni aggressione o attentato alla loro vita, affinché possano giungere sani e salvi ai rispettivi luoghi di deportazione provvisoria….”
In realtà di “predisposto” per l’accoglienza non v’è proprio nulla…
Di quale sia l’esatta natura dei trasferimenti, si renderanno subito conto gli ufficiali tedeschi di collegamento, che descrivono la situazione nei loro rapporti.
Dove è possibile, come nel caso dell’ufficiale medico Armin T. Wegner, i massacri vengono documentati con testimonianze ed evidenze fotografiche. Documentazione fotografica a cui si accompagnano pure clamorose patacche (come se la mostruosità dei massacri avesse bisogno di effetti speciali!), ovviamente accreditate via web, dove circolano provocando i “sobbalzi” di un’utenza che verifica assai poco, ma indugia sui richiami perversi di certe nudità estreme, volte più che altro a stuzzicare le fantasie sado-masochiste di un erotismo malato…
Presentate quasi ovunque come “immagini d’epoca”, con la pretesa di dimostrare la disumanità congenita del “turco e musulmano”, quale unica nel suo genere, si tratta in realtà di fotogrammi cinematografici tratti dalla pellicola “Auction of Souls” del 1919: uno dei primissimi film dedicati al genocidio degli Armeni, tratto dal libro “Ravished Armenia” di Aurora Mardiganian, che sopravvissuta ai massacri raccontò dell’uccisione di 16 ragazze cristiane (che avevano rifiutato di convertirsi) presso la città di Malatia nel vilayet di Karput (Mamuretül-Aziz).
Invero, secondo altri testimoni dell’efferatezza, le ragazze vennero sì trucidate, ma non crocifisse: furono infatti impalate
(per via vaginale), secondo una pratica che nell’Europa cristiana del XVI secolo veniva riservata ai valdesi. Ma in questo caso le ragazze erano tutte rigorosamente vestite, per non offendere la ‘morale’ islamica con sconce nudità esibite in pubblico. Quando la realtà supera la finzione!
Al contrario, durante la Guerra di Algeria (1954-1962) i soldati francesi non si ponevano di questi problemi…
Per quei paradossi della storia, nel 1915 crocifissioni di donne in effetti ve ne furono…
Ma ad opera dell’esercito austro-ungarico, nelle sue rappresaglie contro i contadini serbi.
E ciò, se ve ne fosse bisogno, dimostra come la crudeltà sia universalmente diffusa, senza limiti di religione o di “razza”.
In merito allo sterminio degli Armeni, tra i numerosi testimoni dell’epoca, i soldati tedeschi presenti nell’Impero Ottomano furono tra i primi a rendersi conto dell’entità e della reale natura dei massacri…
Il tenente colonnello August Stange (Stanke Bey), che assiste agli sgomberi di Erzurum, riferisce:
«L’ordine di evacuazione è stato eseguito nel modo più brutale. La gente è stata buttata fuori di casa e ripartita in piccoli gruppi. La maggior parte non ha avuto neanche il tempo di prendere le cose più necessarie. Sotto gli occhi dei gendarmi, la popolazione locale si è impadronita dei beni abbandonati, di quelli rimasti nelle case, e spesso anche delle cose che gli armeni si volevano portare dietro. Il tempo era inclemente, ma i deportati hanno dovuto deportare all’addiaccio e si sono potuti procurare un po’ di cibo e di acqua solo distribuendo ricche mance ai gendarmi.»
Il 17/06/1915, il barone tedesco Hans von Wangenheim, ambasciatore a Costantinopoli e che pure ha sollecitato i militari tedeschi alla ‘collaborazione’, si vede comunque costretto a riferire a Berlino che avvalla tutta l’operazione:
«È evidente che l’espulsione degli armeni non è motivata solo da esigenze militari. Il ministro dell’interno, Talaat, ha infatti recentemente dichiarato che la Sublime Porta intende approfittare per farla finita in modo radicale [gründlich aufzuraümen] coi suoi nemici interni, senza essere disturbata da interventi diplomatici stranieri.»
Il Gen. Otto von Lossow, plenipotenziario tedesco dell’Ambasciata germanica, che nel Novembre del 1923 sventerà il Putsch di Monaco aprendo il fuoco contro i nazisti, secondo un giudizio ampiamente condiviso dai suoi colleghi, ebbe a dire:
«Sulla base di tutti i rapporti e le notizie a me pervenute, non vi può essere alcun dubbio che i turchi stiano puntano al sistematico sterminio delle poche centinaia di migliaia di armeni ancora in vita.»
Il Gen. Liman von Sanders si oppone fermamente alle deportazioni nelle città di Smirne e Costantinopoli, ma nelle province orientali la situazione è ben diversa…
Gli Armeni vengono rastrellati ovunque sia possibile e radunati nelle piazze delle città e dei villaggi, quindi incolonnati dalla gendarmeria ottomana lungo i sentieri che si inerpicano per gli altipiani, o attraverso il deserto, verso i centri di smistamento predisposti ad Aleppo che dista centinaia di chilometri, fino alla marcia finale in pieno deserto siriano verso Deir ez-Zor.
Oscar Heizer, console statunitense a Trebisonda sul Mar Nero, non lascia adito a dubbi:
«L’ordine di deportazione è stato annunciato nelle strade il 26 Giugno e giovedì primo luglio è stato fatto eseguire dai gendarmi con le baionette inastate. Gruppi di vecchi, donne e bambini carichi di fagotti sono stati ammassati in una stradina laterale vicino al consolato. Non appena un gruppo raggiungeva il centinaio di persone, veniva avviato sulla strada di Erzerum, nel caldo torrido. Quelli che restavano, estenuati dalla fatica, venivano finiti a colpi di baionetta e gettati nel fiume. I corpi discendevano così fino alla foce, nei pressi della città, dove sono rimasti abbandonati sulle rocce e nella battigia, a imputridire sotto lo sguardo inorridito di chi passava nella zona.»
E rapporti ancor più allarmati vengono stilati per il
Dipartimento di Stato dall’ambasciatore Henry Morgenthau, che parla apertamente di una “campagna di sterminio razziale” e che sarà tra coloro che più si attiveranno concretamente per arginare la marea degli eccidi e tra i più implacabili nel denunciarli:
«Il vero scopo della deportazione fu rapina e distruzione; in realtà rappresentava un nuovo metodo di massacro. Quando le autorità turche hanno dato gli ordini per queste deportazioni, stavano semplicemente dando la condanna a morte ad una intera razza; hanno capito bene questo, e, nelle loro conversazioni con me, non hanno fatto particolari tentativi per nascondere il fatto.»
Henry Morgenthau
“Ambassador Morgenthau’s Story” (1918)
A sua volta, il rapporto di Morghenthau si basa sui dispacci dettagliatissimi che Leslie Davis, console statunitense a Karput, fa pervenire all’Ambasciata per tutta la metà del 1915.
Per sfoltire il numero dei deportati, la gran parte della popolazione maschile armena viene trucidata subito, fin dai primi rastrellamenti. Nei distretti di Trebisonda, Erzurum, Bitlis, e nella piana di Muş, i prigionieri vengono rinchiusi nei fienili o nelle chiese e bruciati vivi, oppure vengono legati e caricati a forza su barconi che poi vengono affondati in mezzo ai fiumi. Per gli
sterminatori si apre però il problema dei bambini e degli infanti abbandonati negli ospedali e negli orfanotrofi. A questi pare provveda una squadra di medici assai solerti, che somministrano iniezioni letali di morfina, secondo le istruzioni impartite dal dottor Nazim Bey, uno dei capi dell’Organizzazione speciale addetta allo sterminio.
L’opera di pulizia etnica e di soppressione è così solerte, che Giovanni Gorrini, console generale d’Italia, a proposito degli Armeni di Trebisonda già in estate (25/08/1915) scriverà:
«Degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati, infatti, deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati […] Il passaggio delle squadre degli armeni sotto le finestre e davanti la porta del consolato, le loro invocazioni al soccorso senza che né io né altri potessimo fare nulla per loro, la città essendo in stato d’assedio, guardata in ogni punto da 15mila soldati in pieno assetto di guerra, da migliaia di agenti di polizia, dalle bande dei volontari e dagli addetti del Comitato Unione e Progresso; i pianti, le lacrime, la desolazione, le imprecazioni, i numerosi suicidi, le morti subitanee per lo spavento, gli impazzimenti improvvisi, gli incendi, le fucilate in città, la caccia spietata nelle case e nelle campagne; i cadaveri a centinaia trovati ogni giorno sulla strada dell’internamento, le giovani donne ridotte a forza musulmane o internate come tutti gli altri, i bambini strappati alle loro famiglie o alle scuole cristiane e affidati per forza alle famiglie musulmane, ovvero posti a centinaia sulle barche con la sola camicia, poi capovolti e affogati nel mar Nero o nel fiume Dére Méndere, sono gli ultimi incancellabili ricordi di Trebisonda, ricordi che, ancora, a un mese di distanza, mi straziano l’anima, mi fanno fremere»
La seconda ondata di deportazioni si abbatte invece sugli Armeni della Cilicia che vengono annientati nelle marce della morte, lontano da occhi indiscreti dopo le proteste tedesche e americane, tra i monti dell’Anatolia e nei deserti della Siria. Chi rimane indietro, viene ucciso dai gendarmi; tutti gli altri vengono lasciati in balia degli attacchi dei Muhajir, delle bande dei circassi, dei predoni arabi, delle unità di cavalleria irregolare curda, e soprattutto degli assassini a contratto (gli Tchettè) della Techkilat i Mahsousse, ovvero l’Organizzazione speciale del CUP (il partito di governo).
Nelle sue memorie, l’ambasciatore Morgenthau traccia una descrizione efficace:
«Durante circa sei mesi, dall’aprile all’ottobre del 1915, quasi tutte le grandi vie dell’Asia Minore erano intasate da queste orde di esiliati. Si poteva vederle affollare le valli, o scalare i fianchi di quasi tutte le montagne, marciando e marciando sempre senza sapere dove, se non che ogni sentiero conduceva alla morte. Villaggi dopo villaggi, città dopo città, furono spogliati della loro popolazione armena, in condizioni simili. Durante questi sei mesi, da quanto si può sapere, circa 1.200.000 persone furono indirizzate verso il deserto della Siria.
[…] Avevano appena abbandonato il suolo natale che i supplizi cominciavano; le strade che dovevano seguire non erano che dei sentieri per muli dove procedeva la processione, trasformata in una ressa informe e confusa. Le donne erano separate dai bambini, i mariti dalle mogli. I vecchi restavano indietro esausti, i piedi doloranti. I conduttori dei carri trainati dai buoi, dopo avere estorto ai loro clienti gli ultimi quattrini, li gettavano a terra, loro e i loro beni, facevano dietrofront e se ne tornavano ai villaggi, alla ricerca di nuove vittime. Cosí, in breve tempo, tutti, giovani e vecchi, si ritrovavano costretti a marciare a piedi; e i gendarmi che erano stati inviati, per cosí dire, per proteggere gli esiliati, si trasformavano in
veri carnefici. Li seguivano, baionetta in canna, pungolando chiunque facesse cenno di rallentare l’andatura. Coloro i quali cercavano di arrestarsi per riprendere fiato, o che cadevano sulla strada morti di fatica, erano brutalizzati e costretti a raggiungere al piú presto la massa ondeggiante. Maltrattavano anche le donne incinte e se qualcuna, e ciò avveniva spesso, si accovacciava ai lati della strada per partorire, l’obbligavano ad alzarsi immediatamente e a raggiungere la carovana. Inoltre, durante tutto il viaggio, bisognava incessantemente difendersi dagli attacchi dei musulmani. Distaccamenti di gendarmi in testa alle carovane partivano per annunciare alle tribú curde che le loro vittime si avvicinavano e ai paesani turchi che il loro desiderio finalmente si realizzava. Lo stesso governo aveva aperto le prigioni e rilasciato i criminali, a condizione che si comportassero da buoni maomettani all’arrivo degli armeni. Cosí ogni carovana doveva difendere la propria esistenza contro piú categorie di nemici: i gendarmi di scorta, i paesani dei villaggi turchi, le tribú curde e le bande di tchettè o briganti. Senza dimenticare che gli uomini che avrebbero potuto proteggere questi sfortunati erano stati tutti uccisi o erano stati arruolati come lavoratori, e che i malcapitati deportati erano stati sistematicamente spogliati delle armi.
A qualche ora di marcia dal punto di partenza, i curdi accorrevano dall’alto delle loro montagne, si precipitavano sulle ragazze giovani e, spogliandole, stupravano le piú belle, come pure i bambini che piacevano loro, e rapinavano senza pietà tutta la carovana, rubando il denaro e le provvigioni, abbandonando cosí gli sfortunati alla fame e allo sgomento.»
Nel vilayet di Bitlis opera Mustafa Abdülhalik, che è anche il cognato dello spietato Talaat pascià, il Ministro degli Interni. E siccome i massacri sono ormai una faccenda di famiglia all’interno del “Triumvirato della morte”, per sradicare la comunità armena, Abdülhalik si fa aiutare dal tenente colonnello Halil, che comanda il nucleo locale dell’Organizzazione speciale ed è imparentato con Enver pascià, il fanfaronesco Ministro della Guerra.
Nel vilayet di Diyarbekir e nell’Hakkari, i programmi di sterminio vengono estesi alle comunità cristiane degli Assiro-Caldei. Le deportazioni e gli eccidi si estendono ai distretti di Harput, Mardin, e Viranşehir, Midyat, Nisibi, Jazirah… secondo le solite modalità. Stessa sorte tocca ai villaggi assiri nei pressi della città di Diyarbekir, che vengono attaccati da bande di briganti curdi: Cherang, Hanewiye, Hassana, Kavel-Karre… Secondo le cifre riportate nel 1918 dal Patriarcato siro-ortodosso, nella sola provincia di Diyarbakir, sono 77.963 gli Assiro-Caldei trucidati nella repressione (molti dei quali bruciati vivi) e 278 i villaggi distrutti.
Ad indirizzare ed aizzare i massacri ci sono i funzionari inviati dal Ministero dell’Interno, per conto di Talaat pascià che è tra i massimi pianificatori dello sterminio.
Soprattutto, a guidare le operazioni sul luogo vi è il governatore Mehmed Reshid, meglio conosciuto come il Macellaio di Diyarbakir.
Come molti dei principali responsabili del genocidio, Reshid Bey è un medico ed ha partecipato alla fondazione del Comitato dell’Ittihad (CUP). Soprattutto, discende da una famiglia di profughi circassi fuggiti dalla Cecenia.
Durante il suo mandato Reshid Bey fa massacrare circa 150.000 persone, spazzando via il 95% della popolazione cristiana nella sua provincia più popolosa. Chi si oppone viene rimosso o peggio… Hilmi bey, prefetto di Mardin, viene rimpiazzato da Chefiq bey che verrà destituito quasi subito per le stesse ragioni (troppo ‘morbido’). Viene sospettato per l’omicidio di Hussein Nesimi Bey e Sabit Bey, sottoprefetti di Lice e Sabit, insieme a quello di Nadji bey sottoprefetto di Bechiri e originario di Baghdad, che disgustati dalla sua crudeltà avevano provato a porre un freno alle stragi. E per questo viene convocato a rendere conto al comitato centrale. Quando, Mithat Sukru Bleda, il segretario generale del partito, che nonostante tutto non condivide il massacro dei cristiani, gli domanda come un medico possa uccidere o giustificare l’entità di simili massacri e quale ricordo lascerà il suo nome nella storia, Reshid bey sembra abbia obiettato:
“Non è forse il dovere di un medico quello di uccidere i microbi? Lasciate che altre nazioni scrivano su di me qualunque storia vogliano, non me ne può fregare di meno.”
Nella vicina provincia di Van imperversa invece Djevdet Bey, cognato di Enver pascià, e detto anche “Il Maniscalco” per la sua abitudine di far ferrare le piante dei piedi dei prigionieri, come fossero gli zoccoli di un cavallo, e quindi costringerli a marciare. Djevdet organizza raid terroristici contro gli insediamenti armeni attorno al capoluogo eponimo e continue provocazioni ai danni della comunità urbana. Durante le fasi di repressione e deportazione, ordina che chiunque presti aiuto agli Armeni
sia ucciso sul posto e la sua casa bruciata. Tra le sue disposizioni, c’è anche l’eliminazione di tutti i maschi al di sopra dei dodici anni, mentre le donne vengono ridotte in schiavitù e vendute come bottino di guerra. I villaggi cristiani distrutti sono oltre 800. I massacri si concentrano in 20 settimane, da Febbraio ad Aprile 1915. E questo prima ancora che vengano promulgati gli ordini di deportazione.
Tra i testimoni delle stragi vi è pure Rafael de Nogales Mendez, un mercenario venezuelano e ufficiale di artiglieria, al comando di un distaccamento della gendarmeria ottomana, il quale raccoglierà le sue esperienze nella propria opera autobiografica: “Quattro anni sotto la Mezzaluna”.
La repressione si estende anche oltre confine, con l’invasione della Persia dove molti dei profughi Armeni ed Assiro-Caldei hanno trovato rifugio e protezione. Ad Urmia e Tabriz la popolazione musulmana insieme alla gendarmeria persiana ed un pugno di consiglieri militari svedesi, supportata da una brigata di cosacchi, si unisce con determinazione ai profughi cristiani per respingere gli attacchi della III Armata ottomana.
Dopo lo sgomento iniziale, ovunque possono, gli Armeni
combattono, come a Mussa Dagh, in Cilicia al confine tra Siria e Turchia, dove per quaranta giorni di assedio, asserragliati sui monti, in 5.000 riescono a resistere contro una forza turca preponderante, prima di essere portati in salvo via mare da una flottiglia francese giunta in soccorso.
Una macchina imperfetta
La macchina di sterminio avviata dal governo dei “Giovani Turchi” in realtà non fu mai quel perfetto meccanismo di distruzione di massa, che tendenzialmente si sarebbe portati a credere. La posizione dell’Ittihad (il Comitato per l’Unione e Progesso), da cui provenivano i principali pianificatori dei massacri, era tutt’altro che universalmente condivisa.
Allo stesso modo, l’esecuzione degli ordini e delle disposizioni ministeriali fu tutt’altro che unitaria ed unanimemente applicata. E ciò avveniva nonostante la minaccia di ritorsioni ed il deferimento ai tribunali militari, in caso di mancato ottemperamento. In alcuni settori, e specialmente nelle grandi città, i provvedimenti repressivi vennero ‘reinterpretati’, applicati blandamente, oppure bellamente ignorati. In molti casi, governatori militari e funzionari civili, messi alle strette dalle pressioni del governo, si dimisero in segno di protesta piuttosto che essere costretti ad eseguire ordini che non condividevano affatto e giudicavano inumani.
Insieme alla disapplicazione delle normative, furibonde proteste ufficiali furono levate alla volta di Costantinopoli dal vali di Aleppo, Celal bey, che fintanto fu governatore della città si rifiutò sempre di perseguitare gli Armeni. La stessa ferma opposizione si ebbe ad opera di Hasan Mazhar bey, governatore di Ankara, e di Suleiman Nazif, governatore turco di Baghdad. Altri funzionari imperiali come Sabit bey e Nesim bey vennero per questo assassinati da sicari del ministro Talaat.
Per questo, per facilitare le operazioni, vengono inviati nelle province commissari ministeriali con funzioni ispettive ed ampio potere di delega, al fine di denunciare le infrazioni agli ordini impartiti dal governo. I funzionari più recalcitranti vengono costretti alle dimissioni e sostituiti con esponenti dei “Giovani Turchi” di comprovata fedeltà al partito.
La stessa politica di sterminio messa in atto dal CUP non ebbe affatto il consenso pieno della gente comune, specialmente quella più urbanizzata, che spesso ne era inorridita.
Furono tutt’altro che rari i casi in cui le famiglie musulmane offrivano nascondigli ai loro vicini armeni, prendendone in custodia i beni e opponendosi ai saccheggi. E soprattutto vengono nascosti i bambini. La cosa doveva essere piuttosto diffusa perché le autorità militari ebbero a lamentarsene.
Il 10/07/1915, dal suo quartier generale di Tartum nel vilayet di Erzurum, il generale Mahmud Kâmil stilò una nota ufficiale in cui deplorava il comportamento di parte della popolazione civile e dei suoi stessi soldati, rivolgendosi ai governatori dei vilayet interessati dalla deportazione:
«Apprendiamo che in certe località, la cui popolazione viene mandata verso l’interno, certi elementi della popolazione musulmana offrono riparo presso di sé agli armeni. Essendo ciò contrario alle decisioni del governo, i capifamiglia che tengono presso di sé o proteggono armeni devono essere messi a morte davanti alle proprie case ed è indispensabile che queste siano incendiate. Quest’ordine dev’essere trasmesso come si conviene e comunicato a chi di competenza. Controllate che nessun armeno non deportato possa rimanere e informateci della vostra azione. Gli armeni convertiti dovranno ugualmente essere inviati. Se quelli che cercano di proteggerli o mantengono rapporti amicali con loro sono dei militari, dopo avere informato il loro comando bisogna immediatamente rompere i loro legami con l’esercito e portarli in giudizio. Se si tratta di civili, è necessario licenziarli dal loro lavoro e spedirli davanti alla corte marziale affinché siano processati.»
Le defezioni, che furono varie e numerose, non erano sempre dettate da motivi propriamente umanitari o ragioni disinteressate…
Negli ambienti di governo si discuteva sull’utilità dello sterminio. Molti esponenti politici, e soprattutto i notabili locali, facevano notare che una eliminazione indiscriminata degli Armeni privava l’impero di una preziosa classe media di professionisti, che nel caso delle province orientali dell’Asia Minore costituiva la quasi totalità dei medici, degli artigiani più esperti, e degli investitori commerciali.
Le tribù curde, che pure ebbero un ruolo determinante nei massacri, finirono col venirne a noia o più semplicemente, nell’opera di assimilazione forzata all’elemento turco, incominciarono a sospettare di essere i prossimi. Alcuni capi tribali obiettarono cinicamente che lo sterminio degli Armeni li avrebbe privati di una vantaggiosa fonte di reddito, dal momento che nessuno avrebbe più corrisposto loro il tributo in termini di forniture di cereali e pagamento della ‘protezione’: aspetti molto più vantaggiosi sul lungo periodo, rispetto al saccheggio di una popolazione già duramente prostrata.
Nel vilayet di Diyarbekir, dove spadroneggia Reshid bey e la sua “Brigata macellaia”, l’agha curdo di Sirnak, Rachid Osman pone la sua banda a difesa dei 500 Armeni di Harbol.
E lo stesso fa un altro capo curdo, Murtula beg, che mette sotto la propria protezione armata tutti i villaggi che può difendere attorno a Mogkh nel vilayet di Van, schierandosi contro il governatore e contribuendo alla salvezza di quasi 5.000 armeni.
Spesso le sopravvivenza di singoli individui o comunità era rimessa ad un puro capriccio del caso, determinato dalla località di residenza, l’appartenenza sociale, il livello di istruzione e le doti intellettuali, il sesso e l’età, nonché la bellezza fisica.
«Ragazzine o giovani donne istruite, che parlavano preferibilmente il francese o l’inglese, che suonavano il piano o il violino erano particolarmente concupite dai funzionari dei “Giovani Turchi”, che desideravano fondare con loro famiglie turche “moderne”. Questa categoria di armene, che ne conta qualche migliaio, forma un primo gruppo di superstiti, sposate
contro la loro volontà ai loro “salvatori”. Una seconda categoria di scampate, sempre collocata nel gruppo delle giovani femmine e che consiste questa volta in decine di migliaia di persone, è stata resa schiava da notabili locali, semplici soldati, funzionari civili, capi tribali di tutte le origini (turche, curde, arabe, beduine), anche contadini o più spesso ancora loro vicini: rapite o comprate sulla via delle deportazioni, senza motivo ideologico, esse avevano la vocazione di arricchire gli harem, a trasformarsi in oggetti sessuali, ad alimentare i bordelli organizzati dalle autorità ottomane. Non di meno sono state salvate. Certune hanno anche fondato delle famiglie con i loro aguzzini, dopo essersi convertite. Una parte di loro, alla fine della Prima guerra mondiale, è stata ritrovata nei rifugi creati per la loro riabilitazione. Molte, impregnate di un forte senso di colpa, hanno preferito rimanere con i loro “salvatori”.
I bambini, dei due sessi, di età inferiore ai 5 anni nel 1915 hanno formato la categoria più numerosa fra i superstiti. Il loro salvataggio dipende tuttavia da situazioni molto diverse fra loro. Coloro che erano considerati più “sani” sono stati fatti oggetto di un traffico diretto ad allargare la famiglia di coppie senza figli, soprattutto nelle città come a Costantinopoli o Aleppo, in maggioranza “turche”, di ceti sociali elevati – dell’orbita dei giovani turchi o dei notabili di provincia, talvolta divenendo i cocchi di queste famiglie.
La grande maggioranza di questi bambini tuttavia s’è ritrovata in ambiente rurale, in famiglie curde, arabe o beduine modeste, dove è vissuta in condizioni di
schiavitù venendo talvolta abusata sessualmente. Una piccola minoranza è stata perfino accolta negli orfanatrofi creati dallo Stato-Partito a fine di farne i “nuovi Turchi”. Non di meno sono stati salvati. Molti sono stati raccolti da gruppi di ricerca organizzati dalle istituzioni armene all’indomani dell’armistizio di Moudros.
Giovani donne e bambini molto piccoli di età formano le due categorie principali di armeni salvati, se così si può dire, da un aspetto ideologico del piano genocidario che consisteva nello schiavizzare una parte del gruppo vittima e integrarlo nel progetto di costruzione di una nazione turca.»
Raymond Kévorkian
“La resistenza ai genocidi.
Atti diversi di salvataggio”
(Parigi – Dicembre 2006)
Un tentativo di salvataggio riuscito con successo riguarda invece le studentesse armene del Collegio americano di Bitlis. Che riescono a sfuggire alla deportazione ed ai matrimoni forzati, grazie all’intervento di Mustafa bey, responsabile dell’ospedale militare. Mustafa è un medico arabo di origine siriana, che si è specializzato in Francia e Germania. Riesce a far passare le ragazzine armene come infermiere e personale specializzato, indispensabile per il buon funzionamento dell’ospedale, finché queste non vengono fatte espatriare in USA dagli insegnanti statunitensi della scuola.
«Più a ovest, in Anatolia, dove delle colonie armene fiorivano da secoli in ambiente turco, la situazione era molto meno tesa che all’Est. Il vilayet di Angora aveva inoltre la particolarità di ospitare una popolazione armena a stragrande maggioranza di rito cattolico, oltretutto turcofona (ma scrivente in caratteri armeni), la quale aveva una reputazione di essere troppo poco politicizzata e perfettamente inoffensiva. Il vali, Hasan Mazhar bey, in carica dal 18 giugno 1914, era per lo meno così convinto di quanto precede da resistere agli ordini di deportazione rivoltigli dal ministero degli Interni. La risposta di Istanbul è stata rivelatrice. A inizio del 1915, il Comitato centrale dei “Giovani Turchi” ha inviato ad Angora uno dei suoi membri più eminenti, Atıf bey, del quale conosciamo il ruolo ricoperto in seno alla direzione politica della Techkilat-ı Mahsusa [l’Organizzazione speciale] in qualità di delegato. Su suo intervento diretto, il ministro degli Interni pone immediatamente fine alle funzioni del vali Mazhar l’8 luglio 1915 e nomina vali ad interim il delegato del partito Atıf bey, che porrà in atto lo sterminio degli armeni della regione.
Nel sangiaccato di Ismit, vicino a Istanbul, tutti gli armeni sono stati deportati nell’agosto 1915 con l’eccezione di quelli di Geyve il cui sottoprefetto, Said bey (in carica dal 19 settembre 1913 al 21 agosto 1915) si è rifiutato di applicare gli ordini e di conseguenza è stato destituito e sostituito da Tahsin bey (in carica fino al 5 settembre 1916), un militante dei “Giovani Turchi”.
Eppure, tutti questi fatti evidenziano atti di coraggio che non hanno realmente permesso di salvare armeni. Diversamente è andata a Kütahya, una prefettura a ovest di Angora, la cui popolazione armena non è mai stata deportata. il mutesarif Faik Ali bey non ha eseguito gli ordini di deportazione senza tuttavia essere destituito. Secondo il giornalista Sébouh Agouni, che dopo la guerra gli ha personalmente domandato come fosse riuscito a mantenere gli armeni della regione nelle proprie case, sembra che la popolazione turca locale si sia fermamente opposta alla deportazione degli armeni, spinta da due famiglie di notabili, i Kermiyanzâde e gli Hocazâde Rasık Gli armeni dei sangiaccati vicini di Aydin e di Denizly hanno beneficiato dell’azione di un funzionario locale, il comandante della gendarmeria di Aydin Nuri bey.
[…] Nel sud, a Adana, il vali Ismail Hakkı bey, un albanese considerato moderato, sembra aver resistito alle pressioni del CUP locale, che gli chiedeva di eseguire gli ordini di deportazione. Senza opporsi apertamente a essi, in qualche caso egli è riuscito a ritardare la partenza dei convogli o a farli tornare indietro.
Al nord del vilayet di Adana, nel sangiaccato di Hacın, la missionaria americana Edith Cold segnala che il mufti della città si è rifiutato di appoggiare le deportazioni e ha perfino preso possesso dei beni di uno dei suoi amici armeni affinché non siano depredati.
[…] Noi potremmo aggiungere, per completare il nostro studio del comportamento degli alti funzionari locali, che certi prefetti o sottoprefetti, soprattutto nelle regioni che ospitavano i campi di concentramento, hanno salvato armeni o li hanno risparmiati dalla deportazione in cambio di somme enorme, mentre altri riscuotevano effettivamente un riscatto continuando a inviare alla morte i “donatori”. La sfumatura fra questi due tipi di comportamento non si può negare. Con l’esperienza, certe famiglie in grado di pagare per avere salva la vita avevano del resto trovato una sorta di risposta a questi comportamenti cinici, utilizzando delle lettere di cambio che erano firmate dagli interessati solo ogni mese. Questo sistema di ripartizione mensile ha permesso ad alcuni di sopravvivere per più di un anno o almeno fino a esaurimento del budget.»Raymond Kévorkian
“La resistenza ai genocidi.
Atti diversi di salvataggio”
(Parigi – Dicembre 2006)
Operazione Nemesi
Con la fine della prima guerra mondiale e la catastrofica sconfitta della Turchia che vede dissolversi il suo impero, i responsabili del genocidio, avvenuto tra l’altro sotto gli occhi di tutti ed alla luce del giorno, vengono messi sotto processo e condannati in contumacia, poiché nel frattempo hanno avuto modo di riparare all’estero, soprattutto in Germania che rifiuta ogni richiesta di estradizione.
Pertanto, in risposta alla cappa di impunità che si è andata condensando attorno agli sterminatori, la “Federazione rivoluzionaria armena” del Dashnak organizza la cosiddetta “Operazione Nemesi”, affidata a squadre di giustizieri che hanno il compito di colpire i colpevoli ovunque si nascondano.
In pochi anni, tra il 1921 ed il 1922 vengono colpiti i principali pianificatori del genocidio, a partire dal “Triumvirato della morte”, il direttorio che ha guidato con pugno di ferro la Turchia durante gli anni della guerra.
Mehmed Taalat pascià, l’ex ministro dell’Interno e poi Gran Vizir, viene ucciso a Berlino il 15 marzo del 1921. Stessa sorte tocca a Jemal pascià, ministro della Marina; all’ex primo ministro Said Halim, tra i massimi dirigenti dei “Giovani Turchi”; al dott. Behaeddin Chakir, responsabile dell’Organizzazione Speciale, a Gemal Azmi, prefetto di Trebisonda…
Molti altri esponenti dei “Giovani Turchi” provarono a riciclarsi nel nuovo governo nazionalista di Mustafà Kemal Ataturk, finendo successivamente giustiziati per aver tentato un nuovo colpo di stato.
Ovviamente i massacri non cessarono, ma si estesero dilatati ad una nuova dimensione che avrebbe riguardato le popolazioni elleniche presenti in territorio turco, in una delle più grandi pulizie etniche della storia moderna, estesa dall’Albania al Caucaso, nel corso del devastante conflitto che oppose la Grecia e la Turchia tra il 1919 ed il 1922: la più tragica dimostrazione di quali livelli di brutalità e ferocia può raggiungere l’idiozia della febbre sciovinista.
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Riepilogo delle pubblicazioni precedenti:
1) Profondo rosso
2) Medz Yeghern
Homepage
Medz Yeghern
Posted in Kulturkampf with tags Abdul Hamid II, Ahmed Niyazi, Anatolia, Armenia, Behaeddin Chakir, Comitato per l’Unione e il Progresso, Costantinopoli, Cultura, Dashnaktsutiun, Djemal Pasha, Eliminazionismo, Genocidio, Genocidio degli Armeni, Grande Guerra, Impero Ottomano, Impero Russo, Ismail Enver, Ittihad Ve Terakki Comyeti, Jamal Pascià, Liberthalia, Mahmud Sevket, Medz Yeghern, Mehmed Talat, Nazim Bey, Organizzazione speciale, Prima Guerra Mondiale, Pulizia etnica, Raphael Lemkin, Recep Tayyip Erdoğan, Storia, Techkilat i Mahsousse, Turchia on 17 aprile 2015 by Sendivogius“Avrei potuto espellere 100.000 armeni,
ma finora non l’ho ancora fatto”
Recep Tayyip Erdoğan
(15/04/2015)
Il presidente turco Erdogan, quando non blatera di cospirazioni straniere ed altre amenità complottarde, non è nuovo a certe uscite pubbliche che ricordano vagamente il “Discorso del bivacco” di Mussolini.
D’altra parte, questo pigmeo islamofascista in ribollita ultra-nazionalista, con un’altra delle sue sparate che tanto l’hanno reso famoso all’estero, ci aveva già elucubrato le sue perle di saggezza a misura di un’altezza che non supera i tacchi dello statista:
“Se fosse stato un genocidio, come potrebbero esserci ancora armeni nel nostro Paese?”
(29/04/2015)
Provate soltanto ad immaginare se un cancelliere tedesco pronunciasse una simile frase a proposito dello sterminio degli ebrei…!
Ordunque, che cos’è esattamente un “genocidio”?
Raphael Lemkin a cui si deve l’elaborazione originaria del concetto, ne delineò le linee fondamentali nel 1944:
«Generalmente parlando, un genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una nazione, ad eccezione di quando viene effettuato eliminandone tutti i membri. È da intendersi piuttosto come un ‘piano coordinato’, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo.»
Per la cronaca, gli Armeni censiti ufficialmente in Turchia sono meno di 25.000 (dei circa due milioni di fine ‘800) e risultano più rari dei panda.
Evidentemente, il presidente Erdogan dev’essere uno di quelli convinti che la sola presenza di un sopravvissuto, tra milioni di morti, possa escludere l’effetto genocida della pratica eliminazionista.
Non per niente gli Armeni, a scanso di equivoci, usano il termine “Medz Yeghérn” (il Grande Male), ma la sostanza rimane la stessa.
D’altronde, lo sterminio messo in atto nel 1915 dal governo nazionalista dei “Giovani Turchi” non era che la prosecuzione in chiave moderna (e per questo più ‘efficiente’) delle stragi del ventennio precedente, per la soluzione finale della “questione armena”. Né le persecuzioni, che avevano raggiunto il loro acme coi “massacri hamidiani” del 1894-1896, erano mai cessate, continuando a fasi alterne ed intensità variabile anche negli anni successivi, fino al loro ultimo epilogo…
Dopo un tentativo di insurrezione a Sassun nel 1904, gli scontri con gli Armeni che ormai si sono organizzati militarmente sotto la guida dell’Hunchakian e del Dashnak proseguono sporadicamente fino al 1908, secondo le solite modalità di azione. E non riuscendo ad avere ragione militarmente degli insorti, l’esercito regolare e le milizie ausiliarie al suo seguito rivolgono le loro rappresaglie terroristiche contro la popolazione civile.
I Giovani Turchi
Le repressioni continuano fino all’estate del 1908, quando (il 24/07/1908) la III Armata di stanza a Salonicco, ispirata dall’esempio del maggiore di origini albanesi Ahmed Niyazi, si solleva contro il sultano Abdul Hamid II, chiedendo il ripristino della Costituzione del 1876 e l’indizione di libere elezioni. A guidare la rivolta militare è una eterogenea alleanza di ambiziosi ufficiali di formazione europea e piccoli funzionari della burocrazia imperiale, di ispirazione liberale e progressista, ma soprattutto nazionalista, che si fanno chiamare “Giovani Turchi” sulla falsariga della “Giovine Italia” di Mazzini.
«Il golpe del 1908 segna l’ingresso in scena dei cosiddetti “Giovani Turchi”, eredi dei “Giovani Ottomani” che nel 1876 erano stati la spina dorsale del movimento costituzionalista. I Giovani Turchi sono una galassia di gruppi uniti da alcuni obiettivi comuni, che vanno dalla difesa dell’integrità territoriale dell’Impero alla instaurazione di un regime democratico-parlamentare. Auspicano uno stato laico e puntano al primato della cultura e dell’etnia turca in un paese modernizzato. All’interno di questo quadro generale di riferimento convivono però due tendenze divergenti: una liberale in politica, liberista in economia, e favorevole ad una evoluzione dell’impero in senso federalista; l’altra invece favorevole all’instaurazione di un regime autoritario, ultranazionalista e fortemente accentrato.
È questa seconda concezione che predomina nell’Ittihad Ve Terakki Comyeti (Comitato per l’Unione e il Progresso), che ha guidato la rivoluzione di luglio e raccoglie adesioni soprattutto tra i giovani ufficiali superiori che ne costituiscono lo zoccolo duro.»
Sergio De Santis
“Il genocidio degli Armeni”
(Marzo, 1996)
In un primo momento, gli Armeni salutano con entusiasmo l’avvento del nuovo regime costituzionale, tanto che alla coalizione aderiscono anche i socialrivoluzionari armeni del Dashnaktsutiun, che stilano una piattaforma comune di riforme da condividere con l’Ittihad.
Il 13 Aprile del 1909 il governo costituzionalista deve fronteggiare un ultimo tentativo di restaurazione ad opera del vecchio sultano Abdul Hamid che, secondo una tattica già collaudata in passato, impiega gli studenti (taliban) delle scuole coraniche della capitale, come forza d’urto per ripristinare il suo potere assoluto (di natura califfale) ed il ritorno alla piena applicazione della sharia. Al contempo, soffiando sui rancori ed i pregiudizi degli strati più arretrati della popolazione rurale, i sostenitori del sultano aizzano la plebaglia delle campagne contro i soliti Armeni, i quali vengono investiti dallo spaventoso pogrom di Adana, che si estende ben presto a tutta la Cilicia in una esplosione di violenza primordiale. Dei circa 30.000 Armeni periti nella mattanza, molti vengono impalati, squartati, o spellati vivi.
Il 24 Aprile, il tentativo controrivoluzionario è già fallito, con l’intervento del generale Mahmud Sevket che al comando
dell’Armata di Macedonia occupa Costantinopoli e costringe il sultano Abdul Hamid II ad abdicare, a favore del suo imbelle fratello (Mehmet Raschid) che assume il nome di Maometto V.
Tuttavia, il fatto che l’esercito regolare, inviato a sedare i disordini, si unisca invece ai massacratori nella loro caccia selvaggia, contribuisce non poco a pregiudicare in fretta i rapporti tra i partiti armeni e l’Ittihad, che si guastano in un clima di profonda diffidenza fino all’inevitabile rottura del 1911.
Ad aggravare la situazione interna e la tenuta di governo, contribuisce inoltre l’annessione della Bosnia Erzegovina all’Impero asburgico e l’esito disastroso della prima guerra balcanica (che tanto contribuiranno all’incidente di Sarajevo), unitamente alla guerra italo-turca per il possesso della Libia. Sono eventi che, insieme all’ampio ricorso ai brogli elettorali, contribuiscono a minare profondamente la legittimazione ed il sostegno popolare verso l’esecutivo liberaldemocratico, dove la componente autoritaria e militarista diventa sempre più preponderante. Tra i più oltranzisti, si distinguono i colonnelli Enver e Jemal, nonché il funzionario delle poste Mehemed Talaat.
E ciò avviene in un Paese profondamente traumatizzato e confuso che, nella sua sindrome di accerchiamento, teme la dissoluzione, mentre al contempo vede affluire al suo interno milioni di profughi musulmani in fuga dai nuovi regni balcanici, dove sono oggetto di una vendetta feroce soprattutto ad opera di Serbi e Bulgari.
«La nuova situazione geopolitica dell’impero ottomano provoca una svolta sociale anche sul piano interno. Fallita la promessa di salvaguardare l’integrità dell’impero, arenata la politica di riforme, ed entrato in crisi anche il sistema democratico-parlamentare va sempre più rafforzandosi nell’Ittihad l’ala militare ultranazionalista.
La rottura avviene il 23/01/1913 con “l’incidente della Sublime Porta”: Enver Bey alla testa di un drappello di militari irrompe nel palazzo imperiale, abbatte a colpi di rivoltella il Ministro della Guerra, Nazim Pascià, e costringe il gran visir (cioè il primo ministro) a cedere l’incarico al generale Sekvet. Ma anche Sekvet dura poco: il 21 Giugno di quello stesso anno viene assassinato e la carica di gran visir passa al presidente dell’Ittihad, il principe egiziano Said Halim.
Il potere reale si concentra in realtà nelle mani di Talat (ormai Talat Pascià), segretario generale dell’Ittihad e membro eminente del Djemiet, il circolo ristretto che controlla il vertice del partito. Talat torna ad occupare il Ministero dell’Interno (dove già era passato fuggevolmente durante il governo Sekmet) e nel giro di pochi mesi insedia i suoi allievi Enver e Jemal (anche essi elevati al rango di pascià), rispettivamente al Ministero della Guerra e a quello della Marina. Così, nel Febbraio del 1914 si insedia al potere il cosiddetto “Triumvirato” che resterà in sella fino alla fine della prima guerra mondiale, nel 1918.
Il potere è ormai nelle mani di un gruppo di fanatici del “governo forte” che punta verso la creazione di uno stato ultracentralizzato nel quale non c’è più posto per ‘millet’ autonomi.»Sergio De Santis
“Il genocidio degli Armeni”
(Marzo, 1996)
Il Triumvirato della morte
Soprannominati i “tre pascià”, Enver, Jemal e Talaat sono gli esponenti di una nuova generazione di quarantenni e uomini forti del regime. Stipuleranno un’alleanza suicida con la Germania e porteranno il paese alla disfatta della prima guerra mondiale.
Il nuovo gruppo dirigente si riconosce in un’ideologia panturca, per la creazione di uno Stato identitario ed etnicamente omogeneo. L’obiettivo di questo progetto politico è la fondazione di una nazione basata sul primato esclusivo della componente turca (dagli azeri, ai tatari, ai turcomanni dell’Asia centrale), attraverso l’omogeneizzazione etnica dei territori dell’Anatolia e l’assimilazione forzata delle minoranze.
Djemal (Jamal) Pascià, il cui vero nome è Ahmed Gamal, coi suoi 42 anni è il più anziano del terzetto. È nato il 06/05/1872 sull’isola di Lesbo ed è il figlio di un medico militare. Seguendo le orme avite intraprende
la carriera militare e frequenta le migliori accademie; diventa geniere ed inaugura una brillante carriera. I suoi nemici (e ne ha parecchi) insinuano che l’origine dei suoi successi sia da ricercarsi nei favori, che come mignon ha dispensato a pascià dai gusti particolari…
Versatile, efficiente, è un organizzatore nato, esperto in questioni di logistica. Sono tutte doti che gli torneranno utile nella pianificazione e realizzazione degli omicidi di massa, che persegue con spietata determinazione. Assertore del darwinismo sociale e fanatico sostenitore della superiorità razziale del ceppo turco, lui che probabilmente turco non è mai stato, ha fama di macellaio. È ossessionato da complotti e tradimenti che vede ovunque. Durante il suo mandato in Siria e Libano si distingue per i rastrellamenti e le esecuzioni sommarie. Egalitarista, non fa torto a nessuno: sciiti, alawiti, cristiano maroniti, assiro-caldei, armeni, arabi sunniti… tutti salgono sui patiboli che allestisce ovunque mette piede. Ma lui si definisce uno ‘statista’ ed un grande riformatore.
Mehmed Talat (1874-1821) è nato ad Edirne (l’antica Adrianopoli) e discende da una famiglia bulgara convertita, di origine pomaka (allevatori di bufali e pastori delle montagne). Come si conviene per le sue origini, è un uomo rude e dai modi spicci, piantato su un fisico imponente, da lottatore, e la faccia da pugile suonato. Inizia la sua carriera pubblica come impiegato per la società dei telegrafi. Per ragioni disciplinari viene trasferito a Salonicco, dove fa il postino e si avvicina al movimento dei “Giovani Turchi”. Come tutti i mediocri, trova una ragione di vita nel partito, facendo una sfolgorante carriera politica. All’interno del triumvirato, è l’unico che non possa vantare trascorsi militari. E la cosa gli pesa alquanto. Però è intelligente, freddo e metodico. Ha gusti semplici e vive in maniera spartana. Ama ostentare una certa bonomia, persino più minacciosa dei suoi scatti d’ira.
In qualità di Ministro agli Interni prima e Gran Visir poi, è il principale artefice dello sterminio degli Armeni, che persegue con lucida determinazione, animato com’è dalla convinzione ideologica ed il rancore per le persecuzioni patite dai musulmani nei Balcani.
Ismail Enver è il più giovane del terzetto (è nato il 22/11/1881 a Costantinopoli). Ha praticamente combattuto su tutti i fronti di guerra ai quali gli è stato fisicamente possibile partecipare. Si conquista sul campo i gradi di colonnello, combattendo contro gli Italiani in Libia e tenendo peraltro una condotta sempre impeccabile, specialmente coi prigionieri di guerra, che gli farà guadagnare il rispetto del comando italiano. Tornato in Europa, combatte contro Bulgari, Serbi, Greci, Romeni, Russi… Respinge l’avanzata bulgara verso Costantinopoli, riconquista Edirne e l’entroterra tracico, guadagnandosi il titolo di pascià.
Si crede una specie di eroe romantico ed in patria è considerato un’icona nazionale, ma l’ostentazione marziale del suo elàn guerriero sono in controtendenza col suo aspetto. Ha un fisico minuto, i lineamenti morbidi e quasi efebici, con mani piccole e affusolate. Peggio ancora è terribilmente basso e compensa la cosa con tacchi rialzati e colbacco fuori ordinanza, per sembrare più alto in parallelo con la sua vanità. Però è dotato di un ego smisurato e trova la sua naturale prosecuzione in politica. Durante la sua permanenza a Salonicco si avvicina al “Comitato per l’Unione ed il Progresso” e nell’ambito del partito incarna l’ala destra e più oltranzista. Si reputa una grande condottiero e ricerca la collaborazione dei tedeschi, che invece lo reputano un incompetente totale. Di conseguenza, dopo il colpo di stato, diventa Ministro della Guerra, porta la Turchia nel grande mattatoio della prima guerra mondiale e, come comandante generale, va incontro ad una disfatta dietro l’altra, delle quali ovviamente incolpa gli Armeni.
È un sostenitore della laicità dello stato, per questo proclama la “guerra santa” e costituisce un suo personale “Esercito dell’Islam”. Avverso al potere del sultano, sposa una principessa imparentata con la casa reale degli Osmanli, che gli conferirà la qualifica di “genero all’ombra di Allah in terra”…
«…un titolo di cui si glorierà fino alla morte. È ambizioso, arrogante e magalomane. Nel suo studio tiene i ritratti di Federico il Grande e Napoleone. E “Napoleonik lo hanno soprannominato per dileggio i suoi numerosi nemici. È stato attaché militare a Berlino ed è tornato in patria con una sconfinata ammirazione per l’esercito e la disciplina prussiani.»
Sergio De Santis
(1996)
Dopo la caduta del regime dei “Giovani Turchi”, condannato in contumacia, Enver ripara all’estero e si reinventa agente segreto per conto della Repubblica di Weimar. Traffica in armi; viaggia in Russia dove si avvicina ai bolscevichi. Cerca di rientrare in Turchia e di accordarsi con l’uomo forte del momento, Kemal “Ataturk”, che non l’ha mai potuto soffrire. Nel Novembre del 1921 Lenin lo invia in Turkestan a combattere contro le armate bianche; quindi Enver passa dai bolscevichi ai “controrivoluzionari”, per cercare di unire tutte le popolazioni turco-islamiche in una grande “federazione caucasico-caspiana”. È talmente convincente che il suo esercito personale si defila alla svelte ed Enver praticamente si suicida in una carica di cavalleria, contro un battaglione armeno dell’Armata rossa che lo tira giù con un paio di fucilate.
La Razza Panturanica
Della modernità europea nell’architettura del nuovo stato, i “Giovani Turchi” riprendono il darwinismo sociale e tutta l’accozzaglia di dottrine razzialiste, che vanno per la maggiore nel più civile Occidente.
Per dare una base scientifica ai deliri identitari, ci si affida a due medici organici al partito…
«Il Triumvirato infatti, aizzato da una coppia di fanatici dell’ideologia razzista, il dottor Nazim ed il dottor Behaeddin Chakir, ha cominciato ad accarezzare un ambizioso sogno destinato a esorcizzare la triste realtà quotidiana del declino ottomano: quello di unire in un nuovo impero panturanico (dall’antico termine “turan” usato per indicare le steppe dell’Asia centrale) tutti i popoli turchi, omogenei per lingua, etnia, cultura, dai Dardanelli a Samarcanda»
Marco Buttino
(1992)
Il dottor Behaeddin Chakir, fautore di una politica di aperta discriminazione razziale e di eliminazione, è stato uno dei principali ispiratori del “Comitato di Unione e Progresso”. A lui si deve la creazione della struttura operativa dell’Ittihad, conosciuta come “organizzazione speciale”. È il famigerato Techkilat i Mahsousse (da distinguere dall’omonimo servizio segreto istituito da Enver Bey), che avrà un ruolo fondamentale nelle operazioni di sterminio su scala di massa. Si tratta di un organismo paramilitare costituito nel Luglio del 1914 sotto la supervisione del Ministero dell’Interno (e quindi di Talat pascià). L’Organizzazione speciale è guidata da un direttorio composto da due membri politici, dei quali si distingue il dottor Nazim, e due ufficiali militari con funzioni operative: Aziz Bey (capo dei servizi di sicurezza) e Djevad Bey (comandante della guarnigione di Costantinopoli). Il dott. Chakir si occupa della direzione del centro operativo di Erzerum, dal quale coordina tutte le operazioni, supervisionando i commissari politici inviati nelle province.
Agli omicidi di massa ed alle stragi, provvede invece una manovalanza di 30.000 energumeni reclutati nelle prigioni, tra i criminali comuni e gli irregolari albanesi. Sono i Tchetté e si occupano di svolgere il lavoro sporco.
Il dottor Nazim dirige invece il Comitato centrale dell’Ittihad ed è il Ministro dell’Educazione. Da bravo medico, per lui la questione armena è soprattutto un problema di profilassi e di “microbi”. E le minoranze non turche sono la componente batterica che infesta il corpo sano della nazione.
«Ad eccezione dei Turchi, tutti gli altri elementi devono essere sterminati, senza badare a quale religione appartengano. Questo paese deve essere ripulito da elementi stranieri ed i Turchi devono effettuare la pulizia.»
Zadeh Riflat
“The Inner facet of the turkish revolution”
(1968)
Nazim Bey è originario di Salonicco ed ebbe a patire duramente l’occupazione greca della città nel 1912. Il suo caso costituisce un tipico esempio di come una vittima possa trasformarsi facilmente in carnefice, una volta mutati i rapporti di forza. Ma Nazim è anche animato da un odio non comune contro gli Armeni. Le sue conclusioni sono semplici: il problema armeno si estingue con la scomparsa della “razza maledetta”.
Dopo il 1918, Nazim praticamente sfugge alla condanna a morte, alla vendetta armena e ad ogni altra spiacevole conseguenza. Ma finisce giustiziato nel 1926 per aver tentato di assassinare Kemal Ataturk.
L’Interludio
C’è da dire (e ribadire) che l’eliminazione di massa delle minoranze, al di là dei suoi postulati teorici, e di documenti molto contestati non solo in ambito turco, almeno nell’immediato non ebbe alcuna applicazione pratica di una qualche rilevanza. Così come moltissime furono le resistenze e l’elusione delle disposizioni all’interno dello stesso apparato amministrativo e militare, che pure avrebbe dovuto occuparsi materialmente delle eliminazioni. E che il passaggio di consegne e la loro esecuzione non fu così diretto ed immediato come solitamente si vuole far credere.
Sullo sterminio degli Armeni, troppo spesso, ci si concentra sugli aspetti “sensazionalistici” e orripilanti che, ovviamente, hanno più facile presa sull’immaginario collettivo e sono tesi ad impressionare con le loro evocazioni terrifiche.
Ma ci si dimentica con altrettanta facilità, senza nulla voler sminuire o negare del crimine genocida, che all’inizio del XX secolo le deportazioni forzate, i campi di internamento, le marce della morte, gli omicidi di massa… non erano una rarità né un eccezione. E gli anni successivi dimostreranno fino a che livelli possa spingersi la volontà genocida, sulla spinta dell’odio e della paura…
Inoltre, in Turchia veniva vissuta come un’intollerabile sperequazione il silenzio con cui le potenze occidentali (anche se in realtà denunce ve ne furono eccome), sempre solerti nel condannare la barbarie ottomana, accoglievano i massacri (che furono numerosi e non meno feroci) consumati nei territori occupati dai Serbi, dai Bulgari, e dagli stessi Greci, che meriterebbero una trattazione a parte ed in altra sede. Il ché non giustifica assolutamente, ma aiuta a comprendere la spirale di vendette, di ritorsioni e di rappresaglie, che si innestarono con lucida follia omicida su un disegno criminale ben più grande e pilotato, alla cui realizzazione infame contribuì non poco lo scoppio del primo conflitto mondiale, quando sugli Armeni cominciò a gravare pure l’accusa di tradimento in tempo di guerra.
«Quanto accadde nel 1915 seguì in parte le dinamiche sociali e politiche che ormai ci sono note: il riaccendersi del conflitto etnico in forme cruente, un intervento dall’esterno in funzione di detonatore degli scontri, il connotarsi quindi di uno schieramento musulmano contrapposto a uno cristiano. Nel 1915 vi fu indubbiamente una differenza di intensità rispetto al passato: le province armene furono a lungo campo di battaglia tra l’esercito turco e quello turco; la comunità armena si organizzò anche militarmente; Costantinopoli fu la più decisa a voler eliminare tutti gli armeni dalla regione; i curdi furono i più spietati.»
Marco Buttino
(1992)
Per gli Armeni, già sospettati di intesa col nemico russo, in seguito all’entrata in guerra dell’Impero ottomano, le cose precipitano drasticamente a partire dall’inverno del 1914.
Accantonato ogni scrupolo di tipo laico, il 16 Novembre del 1914 il Triumvirato induce le autorità islamici ad indire la jihad contro gli infedeli, col risultato di scatenare una sorta di isteria collettiva contro i non musulmani, in un paese già eccitato dalla propaganda di guerra.
Il 18 Dicembre, Enver pascià, che ha assunto il comando diretto della III Armata, in pieno inverno e con equipaggiamenti inadeguati, lancia un’offensiva sulle montagne del Caucaso contro i reparti russi che aspettano un nemico semi-assiderato e affamato, restando trincerati nelle loro solide posizioni difensive, supportati da una Legione di volontari armeni che accorpa circa 8.000 combattenti. Per i turchi è un disastro: il generalissimo Enver perde 75.000 effettivi e riesce a sopravvivere a stento, pare, soccorso proprio da un soldato armeno. E, se fosse vero, mal gliene incolse!
La Grande Purga
Il 25/02/1915, Enver pascià emana una direttiva a tutti i comandi militari in cui ordina il disarmo dei soldati armeni all’interno dell’esercito imperiale, giudicati inaffidabili, e dispone il loro accorpamento in piccoli reparti del Genio, da impegnare in lavori lontano dalla linea del fronte. Si tratta di almeno 300.000 uomini tra i 16 ed i 60 anni, che costituiscono il grosso della popolazione maschile più valida della comunità armena. E quindi il nucleo principale su cui intervenire subito e mettere in condizioni di non nuocere. Le singole compagnie di genieri vengono condotte alla spicciolata nelle retrovie e fucilate in blocco.
Nel frattempo, per contenere la controffensiva di primavera dell’esercito russo, lo stato maggiore turco mobilita una nuova armata rinforzata dalle milizie irregolari dei curdi e mercenari turcomanni reclutati nella provincia persiana dell’Azeirbaijan ad est del vilayet di Van e nell’Hakkari, dove è forte la presenza degli Assiro-Caldei che vengono investiti dalla rappresaglia.
Come d’abitudine, ogni volta che l’esercito turco non riesce a contrapporsi militarmente ai suoi nemici, infierisce sulla popolazione locale, molto meglio se indifesa, che dopo il ripiegamento dei Russi viene sottoposta ad ogni atrocità possibile.
Purgato l’esercito ed ogni possibilità di sollevazione, nel mese di Aprile la comunità armena viene decapitata del suo ceto dirigente, con l’arresto di tutti gli intellettuali, professori universitari, medici, liberi professionisti, esponenti politici e persino deputati, presenti a Costantinopoli, che vengono dapprima imprigionati e successivamente assassinati in carcere o giustiziati in pubbliche esecuzioni.
A questo punto, è la volta del grosso della comunità, che inizia a capire bene qual’è il destino che le è stato riservato….
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PROFONDO ROSSO
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Ad un secolo di distanza, parlare della grande mattanza degli Armeni non si può e non si deve, a meno che non si voglia urtare la suscettibilità della Turchia… Basti pensare alla reazione spropositata del governo di Ankara, ogni qualvolta viene evocata la parola proibita: “genocidio”.
In alternativa, si può incorrere nel rischio concreto di venire oscurati da qualche solerte hacker, in vena di vendicare l’onore nazionale così ferito nella sua identità villipesa.
Che lo si voglia chiamare genocidio oppure no, lo sradicamento e la distruzione delle comunità armene dell’Anatolia non fu un fatto sporadico e nemmeno isolato, giacché l’opera di annientamento interessò quasi tutte le minoranze non musulmane (percepite come una minaccia alla stabilità) presenti all’interno dei territori imperiali… Un trattamento non dissimile fu riservato infatti alle popolazioni assiro-caldee, distribuite tra gli altipiani del Taurus Orientale fino alle province di Diyarbakir e Hakkari (regione curda attualmente incastonata al confine tra Iraq e Iran). E di grazia esteso anche agli sventurati Yazidi del Sinjar, tanto per non farsi mancare proprio nulla al ricco carniere delle repressioni.
Soprattutto, le persecuzioni degli Assiro-Caldei (cristiani nestoriani), degli Armeni (monofisisti), dei Greci del Ponto (ortodossi), che si intensificano in epoca moderna dopo secoli di relativa convivenza, segnano un torbido spartiacque nel difficile periodo di transizione dall’Impero alla Repubblica
nazionale, sull’onda lunga della prima guerra mondiale e dei suoi stravolgimenti geo-politici, con la creazione dell’attuale Stato turco, se non etnicamente omogeneo (cosa peraltro impossibile), sicuramente omologato in un’unica matrice etnico-culturale. La predominanza dell’elemento nazionalista, il primato del potere militare sulla vita pubblica e politica, l’asfissiante censura e la repressione poliziesca di uno stato dai forti richiami autoritari, sono gli elementi che (in negativo) condizionano la moderna Turchia e ne contraddistinguono le prese di posizione ogni volta che, nolente, è costretta a fare i conti con le ombre del proprio passato.
C’è pure da dire che agli albori del XX secolo il fragile Impero Ottomano non era politicamente attrezzato per fronteggiare le spinte verso il cambiamento e le rivendicazioni dei movimenti
indipendentisti, né il Sultano della Sublime Porta sembrava più davvero in grado di disinnescare con efficacia la minaccia delle forze centrifughe che rischiavano di sbriciolare il suo impero, sotto i colpi e la pressione sempre costante dell’Impero russo ai suoi confini, con lo zar che amava atteggiarsi a gran protettore dei cristiani ortodossi.
Dopo la Guerra turco-russa (1877-1878), l’Impero Ottomano deve rinunciare alla quasi totalità dei suoi territori europei e negli anni successivi (1881-1882) perde anche gran parte delle suoi possedimenti mediterranei (Tunisia ed Egitto); costretto ad arretrare ovunque, ripiega in una crisi profonda.
Dinanzi all’insorgenza dei nazionalismi ottocenteschi ed agli irredentismi dei millet (le comunità etnico-religiose in seno all’impero), spesso e volentieri fomentati dalle potenze coloniali europee tutt’altro che disinteressate, il sultano Abdul Hamid II reagisce come può, ricorrendo a ciò che gli riesce meglio: una repressione brutale e spietata, ovunque si accendano focolai di rivolta. Perché gli autocrati quando fondano la loro autorità su un potere incerto non sono mai magnanimi.
In questo contesto già ampiamente compromesso, a farne le spese furono soprattutto gli Armeni che, a torto o a ragione, vennero identificati come una sorta di “quinta colonna” ostile, che operava nelle retrovie d’intesa con il nemico straniero, agendo dall’interno dei territori imperiali.
Con una considerevole presenza nelle grandi città di Smirne e Costantinopoli, dove si concentrano gli elementi più dinamici e più istruiti della borghesia armena, il grosso della comunità è distribuita in Cilicia (Piccola Armenia), vanta un insediamento importante a Trebisonda sul Mar Nero, e soprattutto si concentra nelle regioni interne dell’Anatolia sud-orientale. Le province (vilayet) col maggior numero di Armeni sono sei: Bitlis, Erzerum, Van, Diyarbakir (Diabekir), Sivas, e Karput.
«Gli Armeni rappresentano la più grande tra le varie minoranze non-turche presenti nella regione anatolica (greci, circassi, curdi, ebrei). Sono circa due milioni su una popolazione di oltre 15 milioni, ma la percentuale cresce nei vilayet della Grande Armenia pur senza raggiungere la maggioranza in alcun luogo. Come composizione sociale, gli Armeni sono per l’80% contadini poveri cui si aggiunge una modesta, piccola borghesia provinciale urbana, composta da artigiani e negozianti. La classe dirigente si concentra nella capitale e nelle città più importanti, e comprende una ricca oligarchia bancaria e mercantile, e una vivace elite intellettuale.»
Sergio De Santis
“Gli Armeni” (1996)
Ben più precaria è la condizione di chi vive nelle regioni interne dell’Anatolia, lungo il massiccio del Tauro, dove gli Armeni, che sono in massima parte contadini sedentari e chiusi in comunità
rigidamente endogamiche come sovente avviene per le minoranze emarginate, devono affrontare una difficile convivenza con le tribù di pastori seminomadi che vivono sull’altipiano e coi quali si contendono lo sfruttamento delle terre e dei corsi d’acqua. Soprattutto, devono subire la piaga endemica del banditismo curdo, con le sue bande di predoni che taglieggiano le popolazioni stanziali delle pianure, ai quali si aggiunge la rapacità dei funzionari ottomani e dei governatori provinciali (vali).
In quanto “infedeli”, gli Armeni, insieme a tutte le altre comunità non musulmane, sono tenuti al pagamento di una sovrattassa per la ‘protezione’, come prevede la legge islamica, e tenuti in una pesante condizione di inferiorità giuridica che ne pregiudica i diritti e le tutele, né li salvaguardia dagli abusi e dalle violenze.
Le prime tensioni erano già esplose in tutta la loro terribile violenza tribale già nella metà del XIX secolo, quando le comunità armene ed assiro-caldee della provincia di Diyarbakir, pessimamente consigliate dai loro intriganti patriarchi ecclesiastici, s’erano lasciati coinvolgere nelle beghe di potere dei sangiaccati autonomi dei signorotti curdi in lotta tra loro per la secessione dall’Impero ottomano, col risultato di trovarsi esposti alle rappresaglie degli uni e successivamente a quelle delle truppe ottomane inviate nella regione per reprimere la rivolta, che senza troppe distinzioni si scatenarono soprattutto contro le popolazioni cristiane (le più ‘ricche’ da depredare), in un primo devastante assaggio (stimato in 50.000 morti) delle mattanze che sarebbero avvenute in seguito.
Ad esasperare ulteriormente i rapporti, contribuisce inoltre l’arrivo dei profughi balcanici e soprattutto dal Caucaso, i circassi (ceceni), che il governo ottomano reinsedia in massa nelle regioni armene a scopo di contenimento. E che in concreto porta ad un intensificarsi delle scorrerie a danno degli Armeni e dei cristiano-caldei.
È la prima concreta risposta che il sultano Abdul Hamid fornisce alle ingiunzioni delle potenze occidentali e dell’Impero russo che gli intimano di “realizzare senza alcun ritardo i miglioramenti e le riforme rese necessarie dalle esigenze locali nelle province abitate dagli armeni”, come prevede l’Art.61 del Trattato di Berlino (1878) e che il sultano interpreta come un’offesa personale ed un’indebita ingerenza al suo potere assoluto.
Per rintuzzare la minaccia russa ai confini orientali del suo impero e tenere sotto controllo gli Armeni, nel 1891 il sultano Abdul Hamid istituisce dei nuovi reggimenti di cavalleria
leggera ad imitazione di quelli dei cosacchi e che vengono chiamati in suo onore “Hamidiye”. Già che c’è, pensa pure a risolvere in un sol colpo anche il problema del banditismo, reclutando i nuovi cavalleggeri tra le bande di predoni curdi, circassi e turcomanni, ai quali pone a capo un ufficiale turco. Per il mantenimento degli squadroni irregolari di “Hamidiye” viene istituzionalizzata una doppia tassazione ovviamente a carico di Armeni e Assiri, in aggiunta alle grassazioni già abbondantemente praticate. Tutte le unità vengono formalmente poste sotto il comando di Zekki pascià, maresciallo generale dell’impero, vengono rifornite dall’esercito regolare unicamente di munizioni e fucili a ripetizione, con la fornitura occasionale di tuniche grigie come uniforme. Per il resto, ogni squadrone di cavalleria si auto-finanzia con i frutti dei saccheggi e delle requisizioni arbitrarie, godendo di una libertà d’azione quasi illimitata.
Nel frattempo anche gli Armeni, animati da un nuovo ceto intellettuale che spesso si è formato all’estero nelle università europee, iniziano ad organizzarsi spingendo per un nuovo corso politico.
Nel 1887 un gruppo di studenti in esilio fondano a Ginevra una organizzazione politica, l’Hunchakian (la “Campana”), o Hintchak; di orientamento marxista, è vicino alla socialdemocrazia russa da cui sostanzialmente riprende l’impronta socialrivoluzionaria e lo spirito anti-zarista. Pochi anni dopo, nel 1890, viene costituito in Georgia la “Federazione Rivoluzionaria Armena”: il Dashnaktsutiun (Dashnak). È un partito di ispirazione socialista, ma dai riferimenti ideologici più bakuniani (anarchismo) che marxisti. Nati per chiedere il ripristino della Costituzione del 1876, promulgata e subito abrogata dal sultano Abdul Hamid, entrambi i partiti condividono molti elementi in comune col populismo russo della Narodnaja volja ed avranno un ruolo di primo piano, nell’organizzare la resistenza armata contro lo sterminio degli Armeni.
«Sulla carta i due partiti puntano soprattutto al “Tanzimat” (cioè alle riforme) e si propongono come obiettivo più la liberazione di un popolo che di un territorio: in realtà entrambi sognano di ripetere l’esperienza bulgara, vale a dire l’inizio di una guerriglia capace di provocare prima un’insurrezione popolare, poi un intervento straniero, e infine l’indipendenza nazionale su pressione internazionale.
La prima rivolta dei guerriglieri della Federazione (i cosiddetti “fedais”) avviene a Sassun. La repressione lascia sul terreno 8.000 morti ed è così selvaggia da provocare una commissione d’inchiesta internazionale.
I fedais si illudono di aver messo in movimento il meccanismo della liberazione nazionale, senza rendersi conto che la loro posizione è estremamente debole. Il popolo armeno infatti non dispone di un solo “focolare” ben definito, ma si trova sparpagliato in tutta l’Anatolia e mescolato ad altre etnie; manca di un appoggio internazionale “forte” (salvo quello sello zar, che però a molti non fa meno paura del sultano), e non dispone neanche di collegamenti organici coi i grandi centri della cristianità, dato il carattere scismatico del Patriarcato apostolico armeno.
Inoltre (e non è cosa da poco), sia l’Hintchak sia il Daschnak destano sospetti per il loro orientamento rivoluzionario, non solo presso la Russia ma anche presso le grandi potenze liberali dell’Occidente.»Sergio De Santis
(1996)
L’eccidio di Sassun in Cilicia (agosto/settembre 1894) è solo il preludio di una più vasta azione di repressione, che viene messa in atto dall’esercito turco con l’apporto determinante degli irregolari curdi arruolati negli Hamidiye e che sono comunemente ricordati come “massacri hamidiani”.
Il 30/09/1895 i movimenti armeni indicono una manifestazione pacifica a Costantinopoli, in duemila si riuniscono per presentare una petizione e chiedere il ripristino delle garanzie
costituzionali del 1876. La risposta del sultano non si fa attendere… dopo aver disperso i manifestanti, una folla aizzata dalla gendarmeria si scatena contro i quartieri armeni della capitale che vengono messi a sacco. Rapidamente, la repressione si estende in tutti e sei i vilayet popolati da Armeni, dalla Cilicia ai distretti nord-occidentali dell’Anatolia, con una simultaneità che lascia supporre l’esistenza di un piano ben preordinato, tramite una serie di violenze ininterrotte che si estendono indiscriminatamente contro tutte le popolazioni cristiane e si susseguono per quattro mesi, fino al gennaio del 1896. Le stragi di massa dei cristiani sollevano lo sdegno delle
cancellerie europee. Ma oramai il sultano ottomano ha mangiato la foglia e non se ne prende troppa pena. I fatti gli danno ragione… Mentre il Regno d’Italia mantiene una posizione più defilata, la Gran Bretagna, la Francia, gli USA, e perfino il piccolo Belgio minacciano di intervenire militarmente se non cesseranno, ma alla fine non andranno oltre una mera condanna formale e la compilazione di libri colorati (bianco..blu..azzurro..giallo) dove vengono riepilogate le consuete gallerie degli orrori: dagli scuoiamenti di Ezrerum ai 3.000 cristiani rinchiusi e bruciati vivi nella cattedrale di Urfa…
Attilio Monaco, console italiano nella città di Erzerum, ebbe
modo di apprendere delle modalità di sterminio, parlando direttamente con i soldati turchi implicati negli eccidi, attraverso la testimonianza di tal Mustafà Ali-Oglù, ed inviare regolari rapporti all’Ambasciata d’Italia a Costantinopoli:
«I Curdi erano quasi tutti armati d’eccellenti fucili e ricevevano le munizioni dalle truppe. Di queste il comando effettivo l’aveva Tewfik bey, e Ismail bey era rappresentante del “muscir”: fu Ismail che lesse alle truppe il firmano imperiale, che ordinava la distruzione dei villaggi ribelli. Egli [Ali-Oglù] ha raccontato il modo come i villaggi armeni furono attaccati e distrutti, ripetendo i particolari dati dagli altri due soldati: erano i curdi che mettevano fuoco alle case e che s’occupavano specialmente del saccheggio, portando via le donne giovani, mentre i soldati, benché qualche volta prendevano anche loro, s’occupavano più specialmente di dar la caccia agli abitanti, uccidendo quanti incontravano, uomini o donne, vecchi o bambini. Egli vide in Ghelié-Guzan un soldato uccidere barbaramente un bambino e alcuni altri che sventrarono una donna incinta e le estrassero il feto… Nelle uccisioni, e soprattutto nella caccia che si dava alla gente pei monti e nelle boscaglie, non era risparmiato nessuno e solo le donne giovani erano portate via.»
Attilio Monaco
(16 Maggio 1895)
Spesso e volentieri, sono i mullah delle moschee ad infervorare la folla coi loro sermoni infiammati e scatenarli nei linciaggi, che si traducono in veri e propri pogrom col supporto dell’esercito che interviene unicamente per reprimere le sacche di resistenza armene.
Se il sultano ha interesse a presentare i massacri come una reazione spontanea ed incontrollata di folle inferocite, al di fuori di ogni coordinamento militare o indirizzo ideologico, tuttavia, in qualità di testimone oculare, il 30/10/1895 il console Monaco comunica all’Ambasciata:
«Senza alcuna provocazione da parte degli Armeni, il massacro è cominciato in tutta la città alla stessa ora, come a un segnale convenuto, quando i musulmani uscivano dalla preghiera di mezzodì. Quello che la plebaglia turca ha commesso è affatto secondario, giacché tutto, uccisioni, saccheggio, devastazioni, incendi, è stato perpetrato dai soldati, in potere dei quali la città è letteralmente rimasta. Coi miei propri occhi sono stato spettatore di tutto ciò, e la stessa sera e il giorno seguente quando ho potuto percorrere i mercati non ho incontrato che soldati, che nelle case e nelle botteghe devastate dai loro compagni cercavano il resto»
A proposito della “questione armena”, il diplomatico riportava nelle sue osservazioni che:
«È soprattutto in questi ultimi dieci anni che questa quistione armena è entrata nello stato acuto con una serie continuata di oppressioni, che, deve credersi, abbia fatto sperare al governo turco, che il modo migliore di risolvere il problema era quello molto semplice di sopprimere gli Armeni o con l’esilio, o con la prigionia o con lo sterminio. A parte questa triste politica, da diciassette anni che è stato firmato il trattato di Berlino nessuna pratica e seria iniziativa è stata presa da parte del governo, come aveva promesso, per salvaguardare la sicurezza degli Armeni contro le ruberie dei Curdi e le persecuzioni degli impiegati turchi.»