Archivio per Stati Uniti d’America

TERTIUM NON DATUR

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , on 25 luglio 2016 by Sendivogius

Trumpismo

L’incommensurabile fortuna di non votare alle elezioni presidenziali negli USA comporta il privilegio di non dover scegliere tra un clownesco miliardario cotonato, col suo contorno di Barbie importate dall’Europa orientale, ed una vecchia gallina bollita che pilucca da venti anni nei cortili della White House, intossicata da una sete per il potere inteso come appannaggio dinastico.
bettingoddsCinici, ambiziosi, bugiardi e soprattutto falsi come le loro chiome riverniciate di fresco con tinture all’ingrosso, sono i protagonisti plastificati, i gemelli diversi che si agitano tra i festoni kitsch di una democrazia al silicone, nella grande recita elettorale al teatro degli inganni per l’alchimia del potere.
Non lasciatevi ingannare dalle reciproche provocazioni e dai toni apparentemente esagitati… Tutti e due gli attori fanno parte di una grande famiglia allargata…
Donald Trump ed i coniugi ClintonLa storia americana è piena di esilaranti cialtroni ed imbarazzanti coglioni, pericolosi sociopatici e stralunati minchioni, spesso e volentieri eletti alle massime cariche Wallace for presidentdell’Unione. Né sono mai mancati gli aspiranti tali, nell’abbondanza di materia prima della quale la Terra delle Opportunità eccelle da sempre. Non lasciatevi perciò impressionare dagli exploit fascistoidi di un Trump, che senza le sue sparate cesserebbe di esistere come personaggio mediatico. Se davvero vi preoccupate di questo energumeno con una donnola morta incollata sulla testa, allora non avete mai sentito parlare di George Wallace.
George WallaceAl netto delle sue sbruffonate da duro del Roadhouse che ne marcano la differenza dai suoi omologhi, il miliardario newyorkese non è poi così al di fuori dai canoni classici del pensiero politico americano, che resta lontano anni luce dagli schemi analitici (ed ideologici) degli Europei i quali infatti continuano a guardare al fenomeno con lenti deformate.
Donald Trump In prospettiva, a modo suo, Donald Trump riprende in parte diversi aspetti della visione “jeffersoniana” della democrazia americana, specialmente in quella che è la sua componente più populista, mutuandone la carica isolazionista e la polemica contro i poteri della finanza, se non fosse che le libertà civili non rientrano esattamente tra le preoccupazioni fondamentali di Trump.

Thomas Jefferson«Il jeffersonismo è una tendenza molto particolare della politica americana, non ben compresa all’estero. I suoi seguaci vorrebbero che il resto del mondo diventasse più democratico, ma non si aspettano questo, e soprattutto non pensano che sia compito degli Stati Uniti imbarcarsi in un’impresa così impegnativa per favorire tale processo. Il nucleo di questa dottrina consiste nella celebrazione dei caratteri unici e impareggiabili della società americana, valori che vanno difesi principalmente all’interno, non all’estero.
Essa è in contrasto con la tendenza hamiltoniana e con quella wilsoniana, da sempre predominanti fra i massimi esponenti della politica estera americana; e travalica le frontiere ideologiche e politiche, annoverando fra i suoi sostenitori, ad esempio, sia Ralph Nader che Pat Buchanan. Non è dunque circoscritta alla sinistra, tant’è vero che a livello istituzionale potrebbe trovare il suo più convinto portavoce nel Cato Institute. I jeffersoniani hanno a cuore le libertà civili tenute tradizionalmente in alta considerazione negli Stati Uniti e sono favorevoli a una limitazione dell’intervento pubblico nella vita dei cittadini allo scopo di salvaguardare questi diritti. Né vedono di buon occhio uno stretto rapporto fra grandi imprese e governo sia in politica interna che in quella estera.
[…] I jeffersoniani  sono gli stalinisti della situazione, che puntano sulla «democrazia in un solo paese», poiché ritengono già difficile salvaguardarla in patria, e sono molto scettici sulla possibilità di esportarla con successo all’estero. I jeffersoniani cercano di difendere le prerogative del Congresso in politica estera, poiché guardano con profondo sospetto gli instancabili tentativi dell’esecutivo di espandere i poteri del governo federale. Ma oltre ad essere restii ad assecondare questa tendenza, sono ancor più avversi a cedere la sovranità ad istituzioni internazionali inaffidabili quali l’ONU e la NATO. E sono quasi sempre recalcitranti a firmare trattati che limitino la libertà d’azione dell’America in campo internazionale. Per loro la guerra è un flagello, poiché quasi invariabilmente porta a un’estensione dei poteri del governo federale, spesso per cause di dubbio valore. Onde evitarla, bisogna dunque circoscrivere il più possibile la sfera degli interessi americani, così da limitare al massimo i possibili contenziosi con altri Stati

Limes“Quello che gli europei non capiscono di noi”
di David M. DICKEY e John C. Hulsman
Limes (20/06/2004)

Ma se Donald Trump è pessimo, Hillary Clinton è persino peggiore. O, se preferite, è la versione fotogenica della stessa merda.
I Trump ed i ClintonNella candidata ‘democratica’ si ritrovano tutte le tradizionali tendenze della democrazia wilsoniana, che poi con le sue presunzioni missionarie è una forma di interventismo estremo dalle venature neo-coloniali e solitamente velato da eleganti eufemismi tipo “il diritto all’ingerenza umanitaria”, che nell’Era dei Bush si trasforma più apertamente in “esportazione della democrazia” in ottemperanza a quelle influenze “hamiltoniane” che sono maggioritarie nel neo-conservatorismo repubblicano e che pure ritornano nella politica estera propugnata dai coniugi Clinton.

Alexander Hamilton (1)      «Diversamente da quella jeffersoniana o jacksoniana, la tradizione hamiltoniana è uno dei capisaldi delle teste d’uovo della politica estera americana. Come nel caso delle altre due tendenze repubblicane, i suoi seguaci condividono un punto di vista basato sull’interesse nazionale, nella ferma convinzione che anche gli Stati Uniti devono agire tenendo conto delle loro risorse. E, contrariamente alle due scuole di pensiero sopra menzionate, hanno molto a cuore il benessere del paese, in quanto ritengono che la potenza economica sia almeno altrettanto importante di quella politica e militare. E che gli scambi commerciali e l’interdipendenza creino le condizioni per la pace nel mondo. Al pari dei fondatori dell’Unione, riconoscono che l’umanità è avida e litigiosa e ritengono che un equilibrio di forze, sia pur moralmente difficile da accettare, sia il miglior mezzo per difendere gli interessi americani.
Alekander HamiltonLa loro preoccupazione principale è l’ascesa di una potenza rivale egemone, per cui considerano che i benefici derivanti dagli scambi commerciali internazionali siano un mezzo efficace per far accettare agli altri paesi il predominio americano, condividendo la prosperità economica. Come i wilsoniani, anch’essi sono favorevoli all’uso delle istituzioni internazionali, ma solo perché convinti che ciò consenta all’America di stabilire le regole cui la comunità internazionale dovrà attenersi. Non per caso, furono favorevoli agli accordi che diedero vita alle istituzioni finanziarie di Bretton Woods (come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale), proprio perché furono soprattutto gli americani a formularne gli statuti costitutivi. Per analoghe ragioni, gli hamiltoniani sono fortemente favorevoli alla partecipazione dell’America alla Nato, in quanto essa rimane la forza predominante nel mondo multilaterale, dotata di un costante sostegno da parte degli alleati. Il loro motto è dunque: chi fissa le regole del gioco vince. Anche se rimangono internazionalisti fin tanto che questa posizione torna a vantaggio degli interessi degli Stati Uniti

“Quello che gli europei non capiscono di noi”
di David M. DICKEY e John C. Hulsman
Limes (20/06/2004)

Il supercafone col riporto che pare appena uscito da una spaghettata con Tony Soprano è il Facciatosta assolutamente speculare a questa versione femminile del Dottor Sottile, perché entrambi sembrano usciti da una commedia di Ben Jonson, dove la farsa può declinare rapidamente in tragedia.
trump clintonCome in ogni rappresentazione che si rispetti, serve un villain che non deve essere convincente bensì connivente, coi suoi tratti caricaturali assolutamente esasperati… Insomma una kabukispecie di mascherone kabuki che si agita davanti ai fondali di cartapesta, per impressionare il pubblico ed attirare i “pavoncelli da mettere allo spiedo“. Ma alla fine è il Dottor Sottile che fa la differenza e rende possibile l’inganno…

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THE QUIET AMERICAN

Posted in Masters of Universe, Risiko! with tags , , , , , , , , , , on 6 marzo 2016 by Sendivogius

Freedom

Prendete un idiota di grandi pretese e pompose speranze. Infarcitelo di ideali preconfezionati in hard-discount, da agitare Everybody loves a clownprima dell’uso. Rimpinzatelo di pensierini semplici, a contenuti minimi, che siano basati su dicotomie elementari: bello/brutto; buono/cattivo; bene/male… e non richiedano mai ragionamenti troppo complessi, che possano in qualche modo minacciare quell’innato “diritto alla felicità”, meglio se indotta con massicce somministrazioni di fluoxetina. Perché come diceva il buon Bradbury:

«Se non vuoi un uomo infelice per motivi politici, non presentargli mai i due aspetti di un problema, o lo tormenterai; dagliene uno solo; meglio ancora, non proporgliene nessuno»

Ray Douglas BradburyRay Bradbury
“Fahrenheit 451”
(Mondadori, 1999)

Mantecate il tutto. Spruzzate l’amalgama con abbondanti iniezioni di propaganda. E fate riscaldare il pastone in ignoranza controllata. Al termine della cottura, avrete il classico “Americano tranquillo”, come ebbe a ritrarlo lo scrittore Graham Greene in una delle sue opere più famose, regalandoci la rappresentazione di un pernicioso imbecille dall’ottusità distruttiva, dove ingenuità e presunzione, meglio se ammantate di grandi principi, si fondono in una crosta perfetta di pochissime letture, stucchevoli ipocrisie rigurgitate in salsa patriottarda, e redenzione messianica a raffiche di bushmaster.

Remington ACR 'Bushmaster'«Perché viene così voglia di prendere in giro un ingenuo? Forse solo dieci giorni prima stava ancora passeggiando sul Common di Boston, le braccia piene di libri che aveva letto in anticipo sull’Estremo Oriente e sui problemi della Cina. Non sentiva neppure quello che gli dicevo; era già tutto assorbito nei suoi dilemmi sulla democrazia e la responsabilità dell’Occidente; era determinato, lo imparai molto presto, a fare il bene, non a tutti, ma ad un paese, un continente, un mondo. Bene era nel suo elemento, ora, con l’intero universo da migliorare

The Quiet AmericanGraham Greene
“L’americano tranquillo”
(Mondadori, 1996)

Quando Greene scrisse il suo romanzo, era il 1955 e gli eventi erano ambientati nell’Indocina francese, prima che il conflitto degradasse nella più nota Guerra del I love the smell of napalmVietnam, ma l’immagine del Quiet American, che in realtà “tranquillo” non è affatto e di sicuro è meno che innocuo, col suo bagaglio di buoni sentimenti all’ingrosso e altrettante intenzioni (“Che Dio ci salvi dall’innocente e dal buono!”), descrive un personaggio a prova di invecchiamento, che si rinnova sempre uguale a se stesso negli errori come nella prosopopea retorica. Si tratta di Mietitore33 - L'Arsenale della democraziauna figura farsesca che però scivola sempre nella tragedia. Impermeabile alle circostanze, è riadattabile ad ogni contesto; come la sua idea di “democrazia”, che poi è una miscela tossica di mercatismo mascherato e mistica sciovinista: modello universale che ripropone ad ogni latitudine, con varianti minime e medesime modalità d’azione, salvo farsi ogni volta meraviglia dinanzi alle reazioni che suscitano gli “effetti collaterali” di certe iniziative. Specialmente quando poi ci si accompagna ai personaggi più impresentabili…

antropologia-della-menzogna-del-potere

Niente infatti risulta più incomprensibile a quegli agenti in missione per conto di dio che prevedere per tempo le conseguenze del loro continuo agitarsi, attraverso un caotico spreco di risorse e di energie, ben oltre i semplici errori di valutazione (se così si possono chiamare). 

The Indipendet - Intervista a Osama bin Laden“Il guerriero anti-sovietico dirige il suo esercito sulla via della pace”
The Indipendent
(06/12/1993)

È un mondo imperfetto, dalla lontananza esotica, dove planare a distanza e nel quale i cocci vengono sempre lasciati in conto a chi resta.

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IMPERIUM

Posted in Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 10 ottobre 2015 by Sendivogius

Imperium PSP wall by DeviantSith

Ai circoli straussiani d’Oltreoceano, che in parte animano ancora i think-tank della destra neo-con (quelli che hanno masticato poco e male i classici greco-latini, in una frettolosa rilettura rivisitata ad usum imperii), piace sollazzarsi all’idea di una superpotenza americana, dilatata a dimensione globale nelle sue ambizioni imperiali, mentre rifulge in splendida solitudine alla luce del proprio destino manifesto. Per questo Donald Kagan - La Guerra del Peloponnesosi immaginano ora come una nuova Atene periclea, fondata sull’esclusivismo di una democrazia mercantile in armi; adesso invece come gli eredi ideali di Sparta oppure (a scelta) dell’antica Roma, nel lacerante dubbio su come conciliare la concentrazione cesaristica dei poteri con lo stato minimo di un individualismo estremo, nell’immanenza di un impero che non c’è.
300È il paradosso di una ex colonia dalle tendenze isolazioniste, che in massima parte rifugge da ogni Edward Luttwak - La grande strategia dell'impero romanomentalità imperialista la quale per esistere dovrebbe presupporre l’esistenza di una astrazione intellettuale su fondamenti ideologici. E ciò sarebbe quanto di più lontano possibile da quello strano miscuglio di pragmatismo, armi libere, e millenarismo evangelico, a cui si uniforma la gran parte dei cittadini statunitensi, che spesso e volentieri si muovono per stimoli ad induzione su sollecitazione esterna, convinti però che il resto del mondo non aspiri ad altro che essere plasmato a loro immagine e somiglianza.
Il PunitorePoi, va da sé che per le faccende pratiche di ordine eminentemente strategico i teorici del primato americano continuino ad essere ispirati da una visione geopolitica perennemente in bilico tra l’heartland di Mackinder ed il rimland di Spykman.
heartland_rimlandOvviamente, in tale prospettiva, resta irrinunciabile l’interpretazione atmahan2talassocratica dell’ammiraglio Thayer Mahan, che meglio si presta alle analogie (destinate ad esaurirsi in fretta) con l’Impero Britannico. E più di ogni altra rivela quali sono le vere ossessioni della politica estera statunitense: l’Asia e soprattutto la Cina, contro cui Washington fantastica da almeno venti anni le prossime guerre venture.
HeartlandA dispetto di quanto si possa credere, lo scacchiere mediorientale, che resta un rebus caotico di difficile risoluzione e di impossibile comprensione per un mondo sostanzialmente alieno, non ha mai costituito una vera priorità nell’ambito degli interessi USA, incentrati più che altro sulle forniture di petrolio (affidate all’autocrazia medioevale dell’intrigante ‘alleato’ saudita) e la difesa ad oltranza di Israele (da cui ci si è fatti moderate_rape_beheadings_kerrytroppo a lungo dettare l’agenda politica). L’elemento prevalente è l’improvvisazione e, al di là dei piani strategici e le simulazioni di battaglia, l’incapacità di immaginare il dopoguerra nelle proiezioni future. Figuriamoci la capacità di gestire le transizioni! Da ciò scaturisce tutta una serie di errori madornali dagli effetti catastrofici, che vanno dall’iper-interventismo dell’Era Bush, all’indecisione cronica di un’Amministrazione Obama nell’abulia catatonica che ne contraddistingue l’immobilismo.
Kunduz-map-airstrikesIn compenso, dalle parti di Washington piace dispensare certificati etici, patenti di legittimità democratica e lezioni di umanitarismo spicciolo, tra la pianificazione di un attacco intelligente ed un bombardamento chirurgico, mentre si entra con la grazia di un elefante in cristalleria nelle sfere di influenza altrui e sgomitare come un ubriaco in un campo minato,  facendosi una precipua ragione delle proprie intromissioni.
Moderate RebelsQuello che francamente irrita di più in una certa rappresentazione neo-imperiale non è l’aspirazione egemonica con le sue velleità di potenza, ma la presunzione morale nella pretesa di essere l’incarnazione del “bene assoluto”, incistato su una base manichea non priva di risvolti fondamentalistici George Washingtonche contraddistinguono l’identità di una nazione nata (per dirla con le parole di George Washington) nel solco dei “dettami morali e religiosi”. Il ché presuppone una contrapposizione perenne con il “male”, con l’identificazione costante di un Nemico che abbia una funzione unificante per un paese a identità multiple e in quanto tale costituisce un elemento imprescindibile di coesione nazionale. Di conseguenza, una simile costruzione sistemica si nutre di figure archetipe ed assoluti teorici, tramite semplificazioni estreme e valutazioni “etiche” applicate su scala di misura, senza che una simile visione assoluta ancor prima che totalizzante venga mai increspata dall’ombra di un dubbio o da un minimo di decenza, in un profluvio retorico di patriottume prêt-à-porter per autocelebrazioni da parata.

«La democrazia [americana] è innanzitutto una forza spirituale, costruita su basi spirituali, sulla sua fede in Dio e sull’osservanza di principi morali. Fino ad ora, soltanto la chiesa è stata fornita di simili basi. I nostri padri fondatori conoscevano questa verità e noi non dovremo mai dimenticarla se non a nostro rischio e pericolo

Harry Truman
Public Papers of the President of the United States: H.S. Truman, 1951
U.S. Gov.1966 (pag.1063)

Per inciso, Truman è il presidente che decise la nuclearizzazione di Hiroshima e Nagasaki… Sono gli inconvenienti che possono occorrere, quando ci si crede detentori unici della “legge morale” per divina intercessione.

I grandi imperi del passato avevano quanto meno il merito di non nascondere le loro velleità egemoniche sotto uno spesso strato di ipocrisia, tramite la manipolazione costante dei fatti e delle opinioni. E rivendicavano l’esercizio della violenza come momento cogente del proprio potere, che non doveva essere necessariamente presentato come equanime.
Di solito, la propaganda di stato, che esisteva anche allora e non lesinava l’appello strumentale al “popolo” (per quanto il meccanismo fosse assai meno oliato e non funzionasse per l’orientamento dei flussi di massa), non aveva particolari remore nel mostrare le intenzioni recondite di un potere ritratto nell’essenza della sua natura, riassumendo il tutto in un concetto semplice: “chi è più forte fa quello che è in suo potere e chi è più debole cede” tramite quello che si può definire un ‘diritto naturale’ alla prevaricazione.
Guera dacicaLe migliori esemplificazioni del messaggio si possono ritrovare nelle Historiae di Tacito, che più di ogni altro riesce a tracciare il ritratto dell’imperialismo, colto nella sua più intrinseca essenza…

«Non sono maestro di belle parole e con le armi ho attestato il valore del popolo romano; ma poiché siete tanto sensibili alle parole e valutate il bene e il male non per quello che sono, ma ascoltando le chiacchiere dei sediziosi, ho deciso di dirvi poche parole, parole che sarà più utile per voi aver ascoltato, ora che la guerra è conclusa, che non per me aver pronunciato. Comandanti e imperatori romani sono entrati nella vostra terra e in quella degli altri Galli non per sete di conquista, ma perché implorati dai vostri padri, stremati quasi a morte dai loro conflitti interni.
[…] Sempre nelle Gallie ci sono state tirannidi e guerre, finché non avete accettato le nostre leggi. Noi, benché tante volte provocati, vi abbiamo imposto, col diritto della vittoria, solo il necessario per garantire la pace; infatti, la pace tra i popoli è impensabile senza le armi e le armi non si possono avere senza mantenimento degli eserciti né il mantenimento degli eserciti senza tributi. Per il resto vi abbiamo reso partecipi di tutto

  (Historiae. IV,73-74)

Le parole sono quelle del generale Quinto Petilio Ceriale (secondo la libera trasposizione di Tacito), che in prospettiva aveva mille ottimi motivi per esaltare l’imperium romanorum attraverso l’apologesi di una missione imperiale, che non conosce l’usura del tempo e potrebbe benissimo valere per i suoi omologhi attuali.
Venere di MiloPrecedenti ancor più antichi si trovano invece nelle Storie di Tucidide (V, 84-116) che con asettica freddezza riporta le ragioni (in anticipo sulla realpolitik) con cui la democratica Atene giustificò la conquista di Melos, l’isoletta delle Cicladi che i contemporanei ricordano unicamente per la “Venere di Milo” ignorandone la provenienza, durante la Guerra Peloponnesiaca (431-404 a.C.)…

«La retorica tende a ottenere consenso e pertanto non può che fiorire in società libere e democratiche. Se io posso imporre qualcosa con la forza, non ho bisogno di richiedere il consenso: rapinatori, stupratori, saccheggiatori di città, kapò di Auschwitz non hanno mai avuto bisogno di usare tecniche retoriche. Ma esiste anche una retorica della prevaricazione. Sovente chi prevarica vuole in qualche modo legittimare il proprio gesto e persino ottenere consenso da parte di chi soffre quell’abuso di potere. Uno degli esempi classici di pseudo-retorica della prevaricazione ci è dato dalla favola del lupo e dell’agnello di Fedro.
Lupus et Agnus[…] Però lo stesso Tucidide ci offre un’altra e estrema figura della retorica della prevaricazione, la quale non consiste più nel trovare pretesti e casus belli, ma direttamente nell’affermare la necessità e l’inevitabilità della prevaricazione. Nel corso del loro conflitto con Sparta gli Ateniesi fanno una spedizione contro l’isola di Melo, colonia spartana che era rimasta neutrale. Gli Ateniesi mandano una delegazione ai Meli avvertendoli che non li distruggeranno se essi si sottometteranno. Dicono che non tenteranno di dimostrare che è giusto per loro esercitare la loro egemonia perché hanno sconfitto i Persiani (eppure negandolo lo sostengono), ma invitano i Meli a sottomettersi perché i principi di giustizia sono tenuti in considerazione solo quando un’eguale forza vincola le parti, altrimenti “i potenti fanno quanto è possibile e i deboli si adeguano”. I Meli chiedono se non potrebbero restare fuori dal conflitto senza allearsi con nessuno, ma gli Ateniesi ribattono: “No, la vostra amicizia sarebbe prova di una nostra debolezza, mentre il vostro odio lo è della nostra forza”. In altri termini: scusate tanto, ma ci conviene più sottomettervi che lasciarvi vivere, così saremo temuti da tutti.
MelosI Meli dicono che confidano negli dèi, ma gli Ateniesi rispondono che tanto l’uomo che la divinità, dovunque hanno potere, lo esercitano, per un insopprimibile impulso della natura. I Meli resistono, per orgoglio e senso della giustizia, l’isola viene conquistata, gli Ateniesi uccidono tutti i maschi adulti e rendono schiavi i fanciulli e le donne.
E’ lecito sospettare che Tucidide, pur rappresentando con onestà intellettuale il conflitto tra giustizia e forza, alla fine convenisse che il realismo politico stesse dalla parte degli Ateniesi. In ogni caso ha messo in scena l’unica vera retorica della prevaricazione, che non cerca giustificazioni fuori di sé. Gli Ateniesi semplicemente fanno un elogio della forza. Persuadono i Meli che la forza non ha bisogno di appoggiarsi alla persuasione.
La storia non sarà altro che una lunga, fedele e puntigliosa imitazione di questo modello, anche se non tutti i prevaricatori avranno il coraggio e la lucidità dei buoni Ateniesi

Umberto Eco
(20/05/2004)

Essendo società a prova di consenso, Roma e Sparta (e Atene) non avevano di questi problemi, per giustificare il proprio operato in una diversa concezione di humanitas.
Guerre dacicheE infatti, tanto i Romani quanto i Greci, che pure ‘inventarono’ la civiltà occidentale, gettando i semi del suo futuro sviluppo, e che per primi elaborarono il concetto estensivo di “Libertà” (Libertas/Ελευθερία) prima che il termine venisse trasformato in un brand ad uso politico o marchio registrato in esclusiva USA, non concepirono mai l’idea di qualcosa lontanamente simile alle ingerenze umanitarie, esportazioni democratiche, ad altre apodittiche invenzioni lessicali che invece costituiscono la misura della nostra modernità. E perciò tornano sempre buone per impastoiare un’opinione pubblica, addomesticata con iniezioni costanti di propaganda in un corollario di manipolazioni mediatiche con le quali nutrirne l’immaginario.

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SAND CREEK

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 30 novembre 2014 by Sendivogius

The Birth of a Nation (1915)

Massacri, stragi, etnocidi.. sono elemento ricorrente nella storia dell’umanità, tanto da costituire l’unico aspetto universalmente condiviso su scala globale fin dagli albori dei tempi. Se dovessimo prendere per buone le ipotesi più recenti, persino gli uomini di Neanderthal si sarebbero estinti in seguito ad un deliberato atto di sterminio, praticato con ferocia dal più “evoluto” Homo sapiens: l’umanità gattonava da poco sulla faccia della terra agitando pietre e bastoni, senza nulla sapere della lavorazione dei metalli o dei rudimenti fondamentali per l’agricoltura, che già si produceva nel suo primo genocidio.
In compenso, col tempo e con l’evoluzione, la pratica si è affinata così da estendersi con efficacia su scala di massa ancor maggiore, potendo contare su mezzi e strumenti sempre più sofisticati, fino ai massimi risultati raggiunti nell’età contemporanea…
American Nazi party pickets bookshop in 1962Nel corso dei secoli, qualunque fosse la latitudine, razza, o religione, ogni popolo ha dato il suo fondamentale contributo nell’album delle atrocità, che sono sempre state perpetrate con gusto particolare e consumate con una certa creatività omicida.
Rio Grande  E se la ferocia eliminazionista, ovviamente ammantata delle migliori intenzioni in nome del “progresso”, della “civilizzazione”, o della “sicurezza nazionale”, è stato uno dei tratti distintivi per l’affermazione dei moderni stati-nazione, pochi hanno celebrato le proprie efferatezze, incastonandole in una sorta di cornice epica di compiaciuta esaltazione, come nel caso della grande democrazia americana che ha fatto della dicotomia schmittiana Amico/Nemico l’essenza costitutiva della sua identità ‘nazionale’, parallelamente allo sviluppo di una propria “teologia politica”; per giunta con ampio anticipo sui tempi, rispetto alla formulazione teorica del giurista tedesco.
Nascita di una nazione - La croce ardente del Ku Klux KlanTra gli innumerevoli bagni di sangue che hanno consacrato l’ascesa della nazione americana nella sua compiuta definizione identitaria, in concomitanza coi 150 anni esatti dalla consumazione della strage (29/11/1864), vale la pena di ricordare il massacro di Sand Creek.
Sand Creek massacre by Andy ThomasNel 1864, la guerra civile che oppone i secessionisti della CSA agli unionisti del Nord non è ancora terminata, che già la Federazione guarda con bramosia agli immensi territori dell’Ovest: una sorta di dispensa interna dalle risorse potenzialmente illimitate e tutta da colonizzare, dove convogliare le masse di disperati provenienti da ogni angolo della vecchia Europa. Che poi le terre in questione fossero già occupate, era questo un aspetto del tutto secondario e non certo tale da costituire un problema, per una nazione avviata verso le sorti radiose di un destino manifesto, ovviamente predestinata ad una espansione incontrollata della “razza bianca anglosassone” per volontà divina.
US cavalry and indian scoutPer incentivare la migrazione verso le Grandi Pianure occidentali, nel 1862 il Congresso degli Stati Uniti promulga l’Homestead Act: tutte le terre poste al di fuori dei confini originari delle tredici colonie vengono considerate terreno demaniale da assegnare a chiunque ne faccia richiesta. Ripartiti in lotti di 65 ettari (estensibili), i terreni sono ceduti a titolo gratuito agli assegnatari dopo 5 anni di usufrutto legale. Ovviamente, gli eventuali diritti The Art of Howard Terpning (2)delle popolazioni indigene di cacciatori semi-nomadi, che sulle terre oggetto dell’annessione vivono già da qualche millennio, non vengono minimamente presi in considerazione. Frazionati in clan rivali e gruppi tribali spesso in lotta l’uno contro l’altro, i popoli delle Grandi Pianure (Cheyenne, Dakota, Arapaho..) si ritrovano in poco tempo catapultati dal neolitico all’età moderna, in una società complessa e irriducibilmente aliena che non comprendono e nella quale risulta loro impossibile integrarsi. D’altra parte, i coloni considerano i “pellerossa” poco più che animali e meno che dei selvaggi: un inutile ingombro all’avanzata di sviluppo e progresso.
nativeSecondo il copione classico di ogni espansione coloniale, con gli indigeni vengono siglati “patti di eterna amicizia”, si scambiano doni, si promette assistenza e protezione militare, si definiscono le zone di caccia, si delimitano le rispettive aree di influenza. Sono trattati che vengono blandamente rispettati da ambo le parti, fintanto che non si intensificano gli insediamenti dei colonizzatori.
All’occorrenza, i capitribù vengono ‘invitati’ d’imperio nei forti militari a sottoscrivere contratti capestro (che all’occorrenza vengono violati secondo convenienza), in cui cedono volontariamente la terra. Quindi sono costretti letteralmente a levare le tende e trasferiti di forza in qualche ritaglio di terreno, sempre più ristretto ed il più inospitale possibile, sperando che fame e malattie facciano il resto. Ove ciò non avvenga, provvede l’esercito.
us-cavalry-battle-prairie-dog-creekIl destino riservato alle “selvagge” popolazioni degli Cheyenne e degli Arapaho del Colorado nel 1864 non fu poi molto diverso da quello in cui un paio di anni prima erano incorsi i Dakota del Little CrowMinnesota. In merito, il generale John Pope, al comando della spedizione punitiva del 1862 contro la tribù ribelle di Little Crow, ha le idee chiarissime su come vadano trattati gli oriundi, considerati maniaci e bestie feroci coi quali nessun accordo può essere considerato valido. John PopeIl Gen. Pope istituisce deportazioni in condizioni proibitive. Sollecita impiccagioni di massa, mentre i suoi tribunali militari sfornano condanne in serie, dopo processi sommari che non prevedono alcun diritto alla difesa. Istituisce taglie da 25 dollari, per lo scalpo di ogni indiano sorpreso a gironzolare nel Minnesota.
scalpoTra il 1861 ed il 1864 è la volta dei Navajo e degli Apache dell’Arizona: il capo Mandas, che è cristiano, viene catturato a tradimento, durante un incontro con le autorità militari, torturato con ferri roventi, infine ucciso e decapitato.
CherokeePrima di loro, intorno al 1830, era toccato alle “tribù civilizzate” dei Cherokee del Mississippi, ai Creek ed ai Chickasaw del Tennessee, ai Seminole della Florida… e ancor prima alla confederazione delle nazioni Seminoleirochesi. Incapaci di accantonare le proprie rivalità dinanzi al pericolo comune, in compenso le tribù si lasciano coinvolgere attivamente nelle Guerra d’Indipendenza prima, e in quella di secessione dopo, dividendosi equamente tra lealisti britannici ed indipendentisti, quindi tra confederati ed unionisti, senza ricavarne peraltro alcun beneficio in termini di riconoscimenti e trattati favorevoli.
the-long-shot“Civilizzati” o meno che fossero, i nativi vengono infatti giudicati inassimilabili al nuovo stato ‘democratico’ dalle sorti radiose. La separazione razziale, rigorosamente ammantata di una qualche legittimazione legale, costituirà una preoccupazione costante del legislatore statunitense, ansioso di preservare la purezza originale dei primi coloni wasp, sempre affamati di nuove terre da occupare.
Guerra di IndipendenzaSubito dopo la Guerra d’Indipendenza contro l’Impero britannico, le popolazioni oriunde vengono dapprima tenute separate dalla popolazione bianca, in una sorta di regime di apartheid. Quindi, man mano che aumenta l’interesse e la bramosia verso le loro terre, si ricorre ad una progressiva espropriazione, con la deportazione degli abitanti originari. I popoli autoctoni vengono espulsi in massa, al passo con le requisizioni coatte, e trasferiti in luoghi sempre più inospitali attraverso lunghe marce forzate, che spesso e volentieri si trasformano in vere marce della morte. Le “riserve indiane” verranno istituite solo quando non si troveranno terre ancora ‘selvagge’ dove poter espellere gli indesiderati.
Navajos deportati a Bosque RedondoÈ interessante notare come una delle prime forme scientificamente pianificate e organizzate di “pulizia etnica” in epoca moderna venga messa in pratica da un sistema democratico, costituzionalmente riconosciuto, per motivi squisitamente razziali. I giuristi di Washington parlano di rimozione, così come si fa coi rifiuti ingombranti. La pratica genocida, che per modalità di esecuzione poco differisce con l’eliminazione degli Armeni dell’Anatolia da parte dei Turchi un secolo fa, viene legittimata e protocollata su base legale attraverso l’Indian Removal Act del 1830.
Armenians_marched_by_Turkish_soldiers,_1915Tortura e sterminio vengono considerate come giuste “punizioni” da impartire a scopo deterrente e con severità, perché ogni atto di indulgenza o moderazione si configura sempre come una intollerabile debolezza. Ne va del prestigio nazionale! Va da sé che i peggiori eccidi vengono sempre perpetrati a scopo “difensivo”.
La “democrazia americana” non aveva ancora compiuto 60 anni, che già applicava con disinvoltura la segregazione razziale, la pulizia etnica e lo sterminio degli indiani, la schiavitù dei ‘negri’. Col tempo migliorerà, estendendo le discriminazioni agli immigrati cinesi e asiatici, ai latini e agli ispanici, facendo del linciaggio e delle esecuzioni sommarie a sangue freddo una pratica ordinaria, in una nazione sempre più militarizzata nella sua paranoia securitaria.

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La Conquista del West
Pionieri Nel decennio che va tra il 1851 ed il 1861, vengono intensificati i trattati per regolare la penetrazione delle regioni attraversate dal fiume Platte, stipulando la ripartizione delle terre dal Nebraska al Missouri, fino alle Montagne Rocciose passando per il Colorado. Gli accordi sono semplici: si cedono le terre al governo federale in cambio di “doni”, che spesso e volentieri non arrivano, e ci si trasferisce di forza nelle “riserve” assegnate (e revocabili in qualsiasi momento).
Cercatori d'oroIntorno al 1858, il massiccio afflusso in Colorado di minatori e cercatori d’oro che sconfinano in territorio indiano, insediandosi nei territori di caccia delle tribù, provocano il crescente malumore di Cheyennes e Arapaho, con incidenti sempre più frequenti sulla linea invisibile della frontiera. Attratti dalla corsa all’oro, circa 100.000 coloni in gran parte provenienti dal Kansas si insediano abusivamente nei territori assegnati agli indiani neanche un decennio prima (Trattato di Fort Laramie, 1851) e fondano una propria entità amministrativa indipendente che chiamano Territorio di Jefferson, stabilendo la propria capitale la neonata città di Denver. In tale modo, costituiscono il primo nucleo del futuro stato del Colorado che verrà ufficialmente riconosciuto nel 1861, in violazione di tutti i trattati precedentemente stipulati coi nativi.
Art of Howard TerpningIl 18/02/1861, a Fort Wise, viene stipulato un nuovo accordo bilaterale: gli ‘indiani’ avrebbero rinunciato unilateralmente ai 2/3 delle terre concesse soltanto un decennio prima; tutti i nativi avrebbero dovuto trasferirsi obbligatoriamente in un’ansa ritagliata lungo il fiume Arkansas nel Colorado orientale, in cambio di un’indennità dal valore di 30.000 dollari annui, convertiti in derrate alimentari, sementi per la coltivazione, e attrezzi agricoli. L’esercito si sarebbe impegnato nella “protezione” dei nativi deportati. Il nuovo trattato viene firmato soltanto da una decina di capi tribali, tra i quali Black Kettle (Pentola Nera), Antilope Bianca, e Lean Bear (Orso Magro).
Nel 1864 la situazione precipita ulteriormente, esacerbata dal fatto che il Colorado difetta in difese, dal momento che gran parte della truppa è stata inviata al fronte per combattere nella Guerra di Secessione.
Battle of Bull Run (1861)Nell’Aprile del 1864, dopo l’ennesima razzia ai danni di alcuni rancheros, il generale Samuel Curtis, comandante federale del Dipartimento del Kansas, incarica il colonnello Chivington di provvedere alla difesa del nuovo Dipartimento del Colorado.
Col. John Milton Chivington  John Milton Chivington è un pastore metodista, con ambizioni politiche, che ha fatto carriera nell’esercito. Decisamente anti-schiavista, si è schierato dalla parte dell’Unione, distinguendosi nella Battaglia di Glorieta Pass alla quale partecipa insieme ai volontari del 1^ Reggimento cavalleggeri del Colorado. Il colonnello, investito del suo nuovo comando, si mette subito all’opera spingendo le sue rappresaglie oltre i confini della riserva indiana, attaccando indistintamente tutti i gruppi coi quali si imbatte.
The-Battle-of-Glorieta-PassIl 16/05/1865 una compagnia di cento soldati al comando del tenente Earye attacca l’accampamento della tribù di Orso Magro (Lean Bear), uno dei pochi capi che ha accettato il Trattato di Fort Wise, uccidendolo a freddo mentre disarmato agita una copia dell’accordo, reclamando il rispetto delle clausole sottoscritte appena tre anni prima.
Black HillsLa mancata corresponsione delle indennità promesse, la violazione dei diritti di transito e la distruzione delle mandrie di bisonti, provocano la feroce reazione degli indiani. In un crescendo di violenze sempre più efferate, gruppi armati di Cheyennes e Kiowas assaltano le fattorie isolate, trucidandone gli abitanti; attaccano i convogli di carri diretti verso la California; saccheggiano le Dog soldierproprietà dei coloni. A distinguersi negli attacchi, sono le spietate bande guerriere degli “uomini-cane” (i Dog Soldiers), che sfuggono ad ogni controllo dei capi moderati e si muovono autonomamente sul territorio, sotto il comando di Roman Nose (Naso Romano).
The Art of Howard Terpning (1)Il 05/07/1864, allarmato dalle notizie di una imminente rivolta generale, e dai raid sempre più cruenti che ormai si spingono fino ai sobborghi di Denver, il John Evansgovernatore John Evans promulga la legge marziale con la sospensione delle garanzie costituzionali. Dinanzi alla ferocia dei Dog-Soldiers, a Denver viene indetto lo stato d’assedio. Quindi si procede all’arruolamento di un nuovo corpo di volontari, con la creazione del 3^ Reggimento Cavalleria del Colorado.
Cavalleggeri del ColoradoIl nuovo reggimento di cavalleggeri è composto da 1150 effettivi su ferma trimestrale (per l’esattezza 100 giorni), mentre gli ufficiali vengono eletti su indicazione George L. Shuop da giovanedelle truppa. La neo-costituita unità di cavalleria viene posta sotto il comando del 28enne George L. Shoup: un subordinato del colonnello Chivington, con cui a combattuto a Glorieta Pass contro i confederati. Descritto dopo i fatti di Sand Creek come la feccia del Colorado, il 3^Reggimento in realtà arruola il meglio della buona società di Denver: commercianti, uomini di affari, impiegati di banca, avvocati, insegnanti, ingegneri e piccoli proprietari terrieri…
Colorado-3rd-Regiment-Recruiting-Poster-August-1864Si tratta di civili senza un vero addestramento militare, volontari armati scarsamente professionalizzati, traumatizzati dalle incursioni delle bande di Naso Romano.
Henry Roman NoseAl contempo però, oltre alla mobilitazione militare, si cerca di addivenire ad un nuovo accordo con i capi Cheyenne più accomodanti.
Edward W. Wynkoop, in Denver, Colorado Territory, Appx. 1865 Il 28/09/1864, il maggiore Edward W. Wynkoop, che detiene il comando della guarnigione di Fort Lyon attorno al quale si sono raccolte le tribù non ostili, scorta a Denver una delegazione dei capi Cheyenne e Arapaho che avevano a loro tempo sottoscritto il trattato di Fort Wise nel 1861, per addivenire ad una nuova intesa che li garantisca da eventuali rappresaglie armate.
Denver il 28 settembre 1864In quella che viene chiamata “Conferenza di Fort Wise”, partecipano il governatore Evans ed il comandante Chinvington, Black Kettle (Pentola Nera)oltre ai capi indigeni Pentola Nera (Black Kettle) e Antilope Bianca, senza che peraltro si raggiunga alcun accordo definitivo. Chivington telegrafa al suo diretto superiore, il gen. Curtis, per ricevere istruzioni. Lapidario, il generale boccia ogni possibile trattiva:Non voglio alcuna pace finché gli indiani non soffriranno di più.
John M. Chivington at Camp Weld with Black Kettle and his menPertanto, i clan di Black Kettle e White Antelope e gli Arapaho di Mano Sinistra (Left Hand) vengono considerati “tribù ostili”. Nonostante questo, viene permesso loro di continuare ad accamparsi a due miglia da Fort Lyon, come era stato loro ordinato appena un paio di mesi prima dal governatore Evans.
Fort LyonAgli indiani vengono fornite razioni per dieci giorni, secondo quanto prestabilito peraltro da tutti i precedenti trattati ancora in vigore. Motivo per il quale il maggiore Wynkoop, comandante del forte, verrà rilevato dal comando e messo sotto indagine disciplinare.
Major Anthony Al suo posto, viene insediato il maggiore Scott Anthony, la cui massima preoccupazione è come “punire gli indiani”. Il maggiore Anthony intima alle tribù di Pentola Nera e Antilope Bianca di accamparsi in prossimità del fiume Sand Creek, in piena Riserva, ad una sessantina di km dal forte, ed invia persino un carro ambulanza col soldato David Louderback che poi diventerà uno dei testimoni d’accusa della mattanza.
sandcreek-mapQuindi informa il comando del colonnello Chivington che un migliaio di nativi ostili si sono accampati a meno di 30 miglia dal forte, chiedendo l’invio di immediati rinforzi.
Chivington ed Anthony con ogni evidenza si rifanno alla filosofia del generale Philip Sheridan, secondo cui un buon indiano è sempre quello morto. In particolare, Chivington, con spirito evangelico come si addice ad un presbitero della Chiesa Metodista, è convinto che si debba ‘ucciderli tutti’ a scopo preventivo, compresi i bambini, perché le uova di pidocchio diventeranno pidocchi.

arapaho

Eventuali “danni collaterali” che all’epoca non venivano nemmeno contemplati rientravano nella ricerca ossessiva di una “punizione” collettiva. Come ebbe a dire lo stesso generale Sheridan:

Philip Sheridan  «Se un villaggio viene attaccato e donne e bambini muoiono nel corso dell’attacco, la responsabilità di queste morti non deve ricadere sull’esercito, ma sulla gente che ha causato l’attacco stesso con i propri crimini

Che poi è quanto Tsahal va predicando ininterrottamente da settant’anni, mettendo in pratica le sue rappresaglie contro i palestinesi tutti e indistintamente. Sorvegliare e soprattutto punire.
Cavalleggeri US (1)Il 28 Novembre giunge al forte il contingente di cavalleria al comando del colonnello Chivington, che viene accolto con entusiasmo dal maggiore Anthony. Quest’ultimo si unisce alla spedizione con altri 125 soldati e quattro obici di artiglieria da montagna, per un totale di circa 800 uomini. Con loro, ci sono infatti i cavalleggeri del 1^ Rgt del Colorado, i volontari del 1^ Rgt del New Mexico, e quelli del 3^ Rgt del Colorado al comando del George L. Shoupcolonnello fresco di nomina George Shoup, che in seguito farà una sfolgorante carriera politica diventando il primo governatore dello stato dell’Idaho (1889) e poi senatore degli Stati Uniti.
John Milton Chivington Chivington, che vuole sfruttare l’occasione per potere vantare una grande vittoria militare contro gli indiani, le cui bande combattenti finora hanno continuato a sgusciargli via tra le mani, scalpita per lanciare l’attacco contro l’accampamento che formalmente sarebbe sotto la ‘protezione’ dell’esercito, per giunta nel territorio di assegnazione, e nonostante le rimostranze di alcuni ufficiali del primo reggimento che non condividono le ragioni dell’attacco: il capitano Silas Soule, coi tenenti Joseph Cramer e James Connor.
Cavalleggeri USAll’alba del 29 Novembre 1864 i volontari della milizia del Colorado, affiancati dai soldati regolari dell’esercito federale, Pentola Nerapiombano sull’accampamento di Black Kettle e Antilope Bianca, che vengono colti totalmente di sorpresa non aspettandosi alcuna minaccia. Sulla tenda di Black Kettle, posta al centro dell’accampamento, sventola una vistosa bandiera americana sotto la quale iniziano a raccogliersi le donne ed i bambini del campo, aspettandosi una qualche immunità, mentre i soldati, smontati da cavallo, circondano l’accampamento cominciando a sparare all’impazzata e avanzando in disordine nel caos più totale.
White Antelope Tra i primi a venire falciati dalla scarica è Antilope Bianca che, gravato dai suoi 75 anni di età, viene abbattuto, mentre incredulo e sdegnato avanza disarmato verso il colonnello Chivington. I soldati faranno scempio del cadavere del vecchio capo, tagliando via naso, orecchi, e testicoli, dopo averlo scalpato. Sorte che peraltro viene riservata alla quasi totalità dei caduti.
Con le sacche testicolari pare siano stati ricavati dei porta tabacco a souvenir dell’impresa, mentre le vagine ascisse alle donne vengono usate come ‘decorazioni’ per i cappelli.
SandCreekMassacreAlcuni dei soldati erano completamente ubriachi, il coordinamento pessimo, tanto che finirono con lo spararsi addosso gli uni con gli altri. Ma la cosa permise a Black Kettle e molti altri nativi di mettersi in salvo, sfuggendo così alla mattanza e provocando la delusione del maggiore Anthony: il comandante di Fort Lyon che aveva accordato la sua protezione agli indiani.
Come ebbe a testimoniare il Capitano Cree:

sand-creekIl Maggiore Anthony, dopo la battaglia al Sand Creek disse che avevamo fatto una buona cosa a uccidere gli Indiani. Voleva che li inseguissimo per poterne uccidere di più.

Celebrato come una grande vittoria militare, il massacro di Sand Creek diventerà presto oggetto di inchiesta in sede penale, più come manovra per stroncare le ambizioni politiche di John Chivington che per senso di giustizia.
Suoi principali accusatori saranno il maggiore Edward W. Wynkoop, estromesso a suo tempo per essersi mostrato troppo morbido coi nativi, e gli ufficiali che maggiormente si erano opposti al raid, suscitando l’ira del loro comandante.
sandcreekIn proposito, il tenente James Connor ebbe a dichiarare:

«Tornato sul campo di battaglia il giorno dopo non vidi un solo corpo di uomo, donna o bambino a cui non fosse stato tolto lo scalpo, e in molti casi i cadaveri erano mutilati in modo orrendo: organi sessuali tagliati a uomini, donne e bambini; udii un uomo dire che aveva tagliato gli organi sessuali di una donna e li aveva appesi a un bastoncino; sentii un altro dire che aveva tagliato le dita di un indiano per impossessarsi degli anelli che aveva sulla mano; per quanto io ne sappia John M. Chivington era a conoscenza di tutte le atrocità che furono commesse e non mi risulta che egli abbia fatto nulla per impedirle; ho saputo di un bambino di pochi mesi gettato nella cassetta del fieno di un carro e dopo un lungo tratto di strada abbandonato per terra a morire; ho anche sentito dire che molti uomini hanno tagliato gli organi genitali ad alcune donne e li hanno stesi sugli arcioni e li hanno messi sui cappelli mentre cavalcavano in fila

Robert Bent Rober Bent, la guida meticcia che era stata costretta con la forza ad accompagnare le truppe verso il campo indiano, testimoniò:

«Vi erano circa trenta o quaranta squaws che si erano messe al riparo in un anfratto; mandarono fuori una bambina di sei anni con una bandiera bianca attaccata a un bastoncino; riuscì a fare solo pochi passi e cadde fulminata da una fucilata. Tutte le squaws rifugiatesi in quell’anfratto furono poi uccise, come anche quattro o cinque indiani che si trovavano fuori. Le squaws non opposero resistenza. Tutti i morti che vidi erano scotennati. Scorsi una squaw sventrata con un feto, credo, accanto. Il capitano Soule mi confermò la cosa. Vidi il corpo di Antilope Bianca privo degli organi sessuali e udii un soldato dire che voleva farne una borsa per il tabacco. Vidi un squaws i cui organi genitali erano stati tagliati.
Vidi una bambina di circa cinque anni che si era nascosta nella sabbia; due soldati la scoprirono, estrassero le pistole e le spararono e poi la tirarono fuori dalla sabbia trascinandola per un braccio. Vidi un certo numero di neonati uccisi con le loro madri

John S. Smith, commerciante ed interprete, ospite dell’accampamento, parla di massacro indiscriminato:

«Ho visto i corpi di coloro che erano distesi a terra venir tagliati a pezzi, incluse le donne. Si è trattato delle peggiori mutilazioni che abbia mai visto prima. Venivano tagliati coi coltelli, scalpati, i cervelli buttati via… bambini di due o tre mesi, gente di tutte le età, dai poppanti ai guerrieri

Il colonnello Shoup, comandante del 3^ Rgt Colorado indiziato delle atrocità peggiori, dichiarerà che lui era troppo distante per poter aver visto bene.
Black Kettle, sopravvissuto all’eccidio, dopo aver ricevuto un indennizzo irrisorio per lo spiacevole equivoco, verrà poi internato di riserva in riserva, costretto a sottoscrivere trattati di volta in volta abrogati o violati, salvo finire ammazzato quattro anni dopo nel Massacro di Washita, stavolta ad opera del 7^ Cavalleggeri del generale Custer.
custerIl capitano Silas Soule, che si era distinto nella battaglia di Glorieta Pass combattendo contro i confederati, venne deferito dal colonnello Chivington alla corte marziale con l’accusa di vigliaccheria per essersi rifiutato di sparare contro le donne in fuga.

Capitano Silas Soule (1)Non posso concludere il mio rapporto senza dire che la condotta del Capitano Soule, Compagnia D, 1° Cavalleria del Colorado, fu riprovevole, dal momento che disse di aver ringraziato Dio per non aver ucciso Indiani e altre espressioni che lo fanno sembrare più in simpatia con gli Indiani che con i bianchi.

Rapporto al Gen. Curtis del Col. J.M.Chivington
Denver, 16/12/1864.

Capitano Silas Soule Ad ogni modo, Soule ne divenne l’ccusatore implacabile. Tuttavia non riuscì mai a testimoniare davanti alla commissione d’inchiesta militare, dal momento che alcuni mesi dopo venne ammazzato in una sparatoria a Denver da un certo Charles Squire, il quale riuscì poi ad evadere fortunosamente di prigione facendo perdere ogni traccia.
Ovviamente, a parte qualche nota di biasimo ed una condanna puramente formale, non il colonnello Chivington né alcuno dei responsabili dell’eccidio di Sand Creek ebbe mai a patire noie o conseguenze particolari per i loro atti, che non dettero luogo ad alcuna vera incriminazione e tanto meno ad una condanna.
IndiansProprio come oggi a Ferguson in Missouri o nel Cermis (Italia, 1998). Ma l’elenco è potenzialmente infinito… Specialmente quando c’è di mezzo un “destino manifesto”..!

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Grandi Problemi e Piccole Democrazie

Posted in Masters of Universe, Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 1 agosto 2014 by Sendivogius

KILLZONE

A forza di occuparci dell’aspirante dittatorello di casa nostra, già condito a puntino e pronto per essere bollito entro Natale, rischiavano di tralasciare le questioni serie, trascurando le relazioni internazionali.
 Se la situazione non fosse tragica, ci sarebbe quasi da ridere ripensando al Nobel preventivo per la pace, accordato sulla fiducia al più grande piazzista di armi del pianeta e principale sponsor della peggior ciofeca mai uscita prima dagli hangar della Lockheed-Martin (l’economico aeroplanino F-35). Parliamo del pur volenteroso Barack Obama, presidente di belle speranze e nessuna sostanza, impantanato alla Casa Bianca, ostaggio com’è di una politica come quella americana che si nutre di suggestioni imperiali, pulsioni reazionarie e capitalismo selvaggio, senza possibilità di deroghe o eccezioni ad un corso considerato immutabile. E questo vale per qualsiasi amministrazione USA, a prescindere dal colore politico, che poi la scelta pur tenendo conto delle doverose (e ininfluenti) eccezioni si traduce in ben poca cosa: i nazi-fondamentalisti del Partito Repubblicano ed i liberal-fascisti di quello Democratico, con compressione delle estreme e convergenza al ‘centro’ nel raggiungimento di un equilibro di compromesso, secondo il più classico dei paradossi elettorali formulato a suo tempo dal Marchese de Condorcet.
Ad essere perfidi, parliamo in fondo di una nazione composta per i 2/3 da nevrotici compulsivi, ossessionati dall’accumulazione di denaro, e bigotti bambinoni semi-analfabeti con un culto malato per le armi ed una passione perversa per le esecuzioni capitali.
Ku Klux KlanNell’ambito dell’autoproclamata “grande democrazia americana”, quello che più disturba non è tanto l’aspirazione egemonica per volontà di potenza, ma l’insopportabile presunzione ‘morale’ di una timocrazia fondata sulla disuguaglianza, a cui fa da contraltare quell’ininfluente accozzaglia di oligarchie censitarie, confederate in una gilda mercantilista che chiamano UE, e che alcuni erroneamente confondono con l’Europa, unita nella sovranità del ‘Mercato’ sui popoli.
TroikaSu più vasta scala, il Grande Fratello americano si distingue per O'Bananaattivismo e pretese, intimamente convinto che il pianeta sia una sua proprietà esclusiva, graziosamente concessa in comodato d’uso presso terzi ed in ogni momento reclamabile come propria. In questo, O’Banana è irresistibile quando, impermeabile ad ogni ipocrisia come i suoi imperiali predecessori, blatera qualcosa a proposito di violazione del “diritto internazionale” e “disprezzo della vita umana”, denunciando sdegnato “l’incombente catastrofe umanitaria”. Ovviamente, non allude all’immane mattatoio in corso a Gaza (come sparare fucilate in un recinto di elefanti); certamente non alla Libia, dopo l’immenso casino nel quale è stato precipitato il paese, in seguito alla frettolosa rimozione dell’amico Gheddafi; meno che mai a solide democrazie alleate come il Pakistan o l’Afghanistan o l’Arabia Saudita, oppure l’Iraq liberato a suon di bombe intelligenti…
Perché come ebbe a dire Henry Kissinger a proposito della bestiale dittatura di Anastasio Somoza in Nicaragua, con le sue bande di baby torturatori addestrati a cavare occhi con un cucchiaio: è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana.
Quando parla di crimini e violazioni, Mr President infatti si riferisce alla Russia del gelido Putin: il cattivone storico che da sempre costituisce il villain preferito dei supermen tutti strips & stars. E proprio non si capacita sul perché mai, per esempio, il solito orso russo abbia preso così a male l’idea di farsi piazzare a ridosso dei suoi confini, e direttamente puntati Star Warssotto al proprio naso, batterie missilistiche THAAD nell’ambito di follie come lo SDI e in flagrante violazione del Trattato ABM (per poco e per molto meno Kennedy e McNamara nel 1962 non scatenavano la terza guerra mondiale!). Quindi nella reiterazione della provocazione, si schiera senza se e senza ma col nuovo amichetto di turno: quella consolidata democrazia ucraina che si avvale dei paramilitari neo-nazisti di Pravy Sektor, da utilizzare come milizie ausiliarie per le operazioni sporche di pulizia etnica nei distretti orientali; si tratta di un’organizzazione talmente marginale da aver potuto esprimere un ministro della difesa nella nuova Ucraina democratizzata previo colpo di stato, per la pacificazione dell’Est a stragrande maggioranza russa.
WMD_Missile_Defense_lgPer motivazioni identiche ma su posizioni diametralmente opposte, USA e Europa hanno dapprima sostenuto lo smembramento della ex Jugoslavia e poi la guerra per la secessione del Kossovo dalla Serbia (storico protettorato russo).
Con ogni evidenza, le ragioni cambiano a seconda delle convenienze della realpolitik. Coerentemente, un secondo dopo l’abbattimento del jumbo malese sui cieli di Donetsk, il Dipartimento di Stato statunitense ha subito stabilito che ad abbattere l’aereo sono stati i “filo-russi”, invocando sanzioni e provvedimenti esemplari. Questa volta, dopo la figuraccia internazionale della smoking gun irachena, l’amministrazione statunitense non s’è nemmeno disturbata a produrre uno straccio di ‘prova’ ancorché fumosa. Ci SA-7 Grailsi è resi infatti conto che con i lanciarazzi a spalla di cui i “ribelli” certamente dispongono (i Grail-Strela) e coi quali abbattono i mastodontici elicotteri Hind di Kiev, difficilmente si può colpire un aereo di linea in alta quota, pertanto il missile dovrebbe provenire (quasi) sicuramente da una batteria anti-aerea di missili Buk-M1: postazioni talmente piccole e poco invasive da passare inosservate. Sono armamenti in dotazione standard dell’esercito ucraino (escluso a priori), ma non nella disponibilità degli insorti. E quindi il missile non può che essere stato sparato dai russi. Il che può essere ipotesi plausibilissima, che necessita però di essere provata fuori da ogni dubbio. E questo interessa molto meno a chi ha già decretato la sentenza di condanna a prescindere.
Buk-M1La strage di civili ad Odessa, linciati e bruciati vivi dai nuovi trawniki della ‘democrazia’ ucraina (a cui sono stati subito concessi sull’unghia e senza garanzie crediti sempre negati alla martirizzata Grecia), o i bombardamenti indiscriminati contro la popolazione civile di Sloviansk invece sono stati prontamente archiviati dalle cancellerie occidentali e frettolosamente dimenticati. Non sono infatti funzionali alla nuova propaganda di guerra.
L'intervento della TroikaIn fondo a Donetsk come a Gaza, in Siria come a Bengasi, è tutta una questione di prospettive…
Don Vito CorleoneCome diceva qualcuno che di relazioni pericolose e proposte che non si possono rifiutare se ne intendeva: “it’s just a business”. Sono soltanto affari. Per tutto il resto si tratta di semplici “danni collaterali”.

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ACCADDE DOMANI

Posted in Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 4 gennaio 2010 by Sendivogius

  Con la lucida lungimiranza che da sempre ne contraddistingue gli affari esteri, gli Stati Uniti si preparano ad aprire l’ennesimo fronte di guerra, stavolta nello Yemen, con un perverso gusto per le ‘incompiute’ (Somalia, Iraq, Afghanistan) e la tendenza a scegliersi l’alleato peggiore nel posto sbagliato…
Come l’ennesimo “bombardamento chirurgico” riuscirà a cogliere di sorpresa i presunti terroristi accampati tra le pietraie yemenite, e debellare gli emuli di Al-Qaeda nella regione dell’Hadramout, è un segreto noto solo ai cervelloni dell’intelligence ed ai mastini del Pentagono. Infatti, con largo anticipo sul blitz, l’imminenza dell’attacco statunitense è ormai chiara anche al più ottuso tra i guerriglieri tribali, che quindi avrà tempo e modo di levare le tende, ben prima dello strombazzato arrivo del 7° Cavalleggeri giunto a castigare il cattivone di turno.
Senza essere un fulmine di guerra, chiunque abbia un minimo di conoscenza della sanguinosa ‘Arte’ sa che requisiti fondamentali per la riuscita di una operazione militare sono: Sorpresa; Velocità; Coordinamento.
Per neutralizzare l’effetto ‘sorpresa’ basta sintonizzarsi sulla CNN.
Sulla ‘velocità’ di attivazione, la gigantesca macchina da guerra americana ha i tempi di reazione e la visibilità di un brachiosauro. E dunque è prevedibile.
Sul ‘coordinamento’ invece ci si aspetterebbe una maggiore collaborazione tra agencies, impegnate piuttosto a nascondersi informazioni a vicenda.
Invece, a funzionare benissimo è la propaganda securitaria nella sua variante bellico-patriottica. Questo perché i governi in calo di consenso restano convinti che un popolo spaventato sia più docile all’obbedienza. Anche perché alla comprensione dei problemi e delle dinamiche geopolitiche si preferisce l’entusiasmo bambinone di una “superpotenza” che, sul campo, dalla Corea in poi, non vince più una guerra vera!
 Di sicuro, la ricca dose di “missili intelligenti”, e relativi collateral damages, contribuiranno moltissimo a rafforzare il regime yemenita, instillando commossi sentimenti di gratitudine nella popolazione, beneficiata in modo così esplosivo. Più che mai, il preannunciato raid riuscirà a prosciugare i consensi attorno alla propaganda wahabita, abbondantemente annaffiata dai petrodollari sauditi (ma di questo è meglio tacere), alla base del terrorismo jihadista.
Eppure, a volte, basterebbe poco capire che esistono vespai nei quali è d’obbligo muoversi con estrema cautela, ovvero non entrarvi affatto! Basterebbe fare tesoro delle esperienze passate… Cosa che per esempio non è avvenuta in Afghanistan: la scabrosa disfatta strategica da nascondere sotto il tappetino dell’informazione mediatica; la rachitica piantina morente da innaffiare di tanto in tanto con un po’ di retorica celebrativa. Che la missione in Afghanistan sia un fallimento è ormai evidente persino ai suoi più accesi fautori; per questo se ne parla il meno possibile. E ci si riferisce ad un Paese dove il tempo sembra trascorrere immutabile, in un ciclo perennemente avvitato su sé stesso. Cambiano i protagonisti, ma circostanze e problematiche restano invariate nel corso dei secoli, quasi fossero ascritte in un limbo atemporale. Tant’è che un osservatore dell’800 troverebbe poche differenze con la situazione attuale: 
 a) L’assenza di un governo centrale, abbastanza forte da accentrare su di sé i pieni poteri ed il controllo sui riottosi signori della guerra locali;
 b) Il conflitto endemico tra i vari gruppi etnici in un continuo attrito di forze contrapposte, secondo gli equilibri mutevoli di fragili alleanze siglate sulla necessità del momento… Gli Hazara sciiti, fieramente opposti agli Aimak sunniti. I Tagiki del Badakhshan. Gli Uzbeki e le popolazioni turcomanne del nord-ovest. L’etnia dominante dei Pashtun (o Afghan), che costituisce la maggioranza del Paese al quale dà il nome e che i coloniali britannici chiamavano “Phatan”.  
 c) La costante pressione destabilizzante verso la turbolenta Peshawar.
 d) Una ostilità endemica con l’Iran (Persia).
 e) La funzione strategica che l’Afghanistan ha rivestito, come ridotta di contenimento per l’espansionismo russo (zarista prima e sovietico poi) e per le ambizioni persiane. In quanto cuscinetto ideale a difesa dell’India, ha costituito la valvola di sfogo ideale, tramite interposizione di forze, per le tensioni imperiali delle grandi superpotenze: Impero Britannico nell’800 e USA nel ‘900 versus il gigante chiamato Russia. 
 f) I disastrosi fallimenti che hanno caratterizzato ogni tentativo di invasione e di occupazione diretta del territorio.

Un illustre precedente
 Sorvolando sulla disfatta sovietica negli anni ‘80, durante il XIX sec. i britannici si impegnarono in Afghanistan in tre distinte campagne di guerra, a distanza di 40 anni l’una dall’altra: 1839-1842; 1879-1880; 1919. Evidentemente, le esperienze passate (e gli errori) hanno insegnato poco…
Particolarmente sfortunata è la prima guerra anglo-afgana, che comportò la distruzione di un intero corpo d’armata coloniale durante una disastrosa ritirata: 6 reggimenti di fanteria, in massima parte fucilieri indigeni del Bengala; un reggimento di cavalleggeri ed un altro di artiglieria ippotrainata.
Fu una disfatta che per molti versi ricorda quella subita dalle legioni romane di Publio Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo (9 d.C.).
Riportiamo le fasi salienti dell’episodio nella prosa scorrevole e accattivante di Stefano Malatesta, nella sua opera dedicata all’avventurosa vita del generale borbonico Paolo Avitabile.
Si tratta di una lettura assai evocativa… 

   Una gelida mattina del gennaio 1842, regnando graziosamente la regina Vittoria non ancora imperatrice, un ufficiale medico dell’esercito coloniale inglese, di nome Brydon, comparve stremato alla porta principale di Jalalabad, un forte dell’Afghanistan vicino alla frontiera indiana, lungo la pista tra Kabul e il Khyber Pass. Fino a pochi minuti prima lui stesso aveva creduto di non potercela mai fare. Inseguito tra le alture coperte di neve da un gruppo di cavalieri afghani e oramai quasi circondato, aveva già spezzato la sciabola perché non finisse intatta nelle mani di chi l’avrebbe tra poco sgozzato senza pietà, come aveva visto fare innumerevoli volte durante quella spaventosa ritirata da Kabul, fossero donne, uomini o bambini. Improvvisamente gli afghani erano spariti e nello stesso tempo l’ufficiale medico si era trovato di fronte le mura di fango di Jalalabad, dove sventolava la Union Jack. Aveva allora raggiunto lentamente il forte senza sapere ancora di essere l’unico superstite di una delle più umilianti sconfitte che avessero mai subito le truppe britanniche, avviate a conquistare un glorioso, ma effimero impero.
(…) Tutto era cominciato nel 1839 con l’occupazione di Kabul, allora come adesso circondata da un altopiano inospitale e privo di vegetazione, abitata da una popolazione di cui si sapeva poco, e quel poco doveva bastare per tenersi alla larga. Gli afghani potevano essere vivaci, coraggiosi, persino amichevoli, ma una tradizione consolidata li presentava come di animo estremamente mutevole, pronti a trasformarsi in bande assai temibili di traditori e assassini. Non solo odiavano qualsiasi straniero osasse mettere piede nel paese, per una ragione o per l’altra, ma erano incessantemente in guerra tra loro, uno dei popoli più naturalmente portati a cercare e a trovare nel combattimento la soluzione di tutti i problemi.
La divisione in grandi clan tribali, i Durrani, i Ghilzai, i Barakzai, con i loro usi, costumi, lealtà particolari, che venivano in parte ereditati dagli innumerevoli sotto clan, a loro volta divisi tra loro, pronti ad allearsi come a diventare nemici per molto poco, rendevano l’Afghanistan un paese estremamente difficile da capire e assolutamente impossibile da governare. Già allora la sua fama era tale che quando arrivò a Londra la notizia, quattro o cinque mesi più tardi, che
Lord Auckland, governatore generale dell’India, aveva mandato una spedizione a Kabul, una parte dell’establishment, quella più informata della situazione nel lontano oriente come i direttori della East India Company, aveva commentato che entrare in Afghanistan poteva essere facile, uscirne vivi sarebbe stato molto più difficile. Ma Palmerston, ministro degli Esteri del governo Wigh, aveva appoggiato l’iniziativa, come faceva sempre quando c’era da tenere alto l’onore britannico servendosi dei cannoni. Anche perché Auckland si era mosso dopo aver saputo della presenza di inviati russi alla corte del re afghano Dost Mohammed, che apparteneva all’ultima tra le otto casate reali alternatesi in mezzo secolo: erano le prime avvisaglie di un magno confronto imperiale, The Great Game o il Grande Gioco, (come sanno tutti quelli che hanno letto Kim di Kipling) paradossalmente basato su falsi presupposti, ma che terrà desta e pronta a intervenire l’Inghilterra durante tutto l’Ottocento.
È quasi impossibile rendersi conto oggi della paranoia che attraversava l’opinione pubblica inglese e i circoli governativi ad ogni mossa nei russi in Asia. Dai primi del Settecento l’impero degli zar non aveva fatto che espandersi dagli Urali verso Oriente e ora gli inglesi cominciavano a temere per l’India, l’inestimabile gioiello senza il quale le colonie britanniche erano solo dei litorali selvaggi, come pezzi gettati alla rinfusa di un mosaico privato nel motivo centrale. Di volta in volta la Persia, l’Egitto, la Turchia, persino i Balcani erano stati considerati dagli strateghi di Londra come la chiave per il loro amato possedimento e più tardi e a lungo anche la frontiera montagnosa del Nord-Ovest, che si rivelerà assolutamente invalicabile da eserciti.
Ma il primo, se non il più classico Great Game verrà giocato tutto nell’Afghanistan, che nell’ottica della geopolitica britannica doveva avere un ruolo di Stato cuscinetto. Poi, nel 1837, un agente inglese era stato a Kabul e aveva trovato conferma della presenza dei russi, e anche se nessuno sapeva cosa erano venuti a fare, i coloniali britannici erano entrati in fibrillazione, immaginando gli squadroni della cavalleria cosacca risalire al galoppo il Khyber Pass. Passando le informazioni agli uffici governativi di Simla, dove il governatore generale andava a risiedere durante l’estate, trasferendosi dalla bollente Calcutta alle alture pre-himalayane, l’agente aveva raccomandato di considerare Dost, con tutti i suoi possibili flirt con i russi, come un potenziale alleato e un personaggio ragguardevole. Auckland lo riteneva invece un uomo assolutamente infido e dando l’ordine a 9500 soldati della Corona e della East Indian Company di marciare su Kabul, aveva anche spedito un sostituto alla poltrona regale,
Shah Shuja, un elegante vegliardo totalmente inetto, famoso unicamente per essere stato il proprietario del diamante Koh-i-nor, la Montagna di Luce, che oggi riposa negli scrigni del tesoro reale inglese. Shuja si era portato dietro circa seimila sepoys e un paio di squadroni di autentici predoni, gli “Yellow Boys”, che insieme con gli altri formavano quella che pomposamente venne chiamata “L’Armata dell’Indo”.
Come operazione militare, l’invasione si rivelò un pieno successo. Presi di sorpresa gli afghani tardarono a reagire e la più minacciosa fortezza di tutto il paese, Gazhni, fu catturata con un abile e coraggioso colpo di mano di un ufficiale,
Henry Durant, uno degli eroi prototipi dell’epopea coloniale, come Gordon nel Sudan, il tenente Manners Smith tra i Dardi del Karakorum, i soldati sopravvissuti all’attacco dei battaglioni zulù a Rorke’s Drift, tutti decorati con la Victoria Cross. Dost era fuggito, andando a mettersi incautamente nelle mani dell’emiro pazzo di Buchara, l’aveva poi scampata, rientrando in Afghanistan alla testa di un contingente di irriducibili, ma per ragioni che non sono mai state spiegate con chiarezza, e meno di tutti dagli afghani, si era arreso agli inglesi ed era stato mandato in India sotto scorta. Così i rappresentanti di Lord Auckland, dopo aver trasformato il paese in un protettorato britannico, si erano assicurati con un trattato firmato da Shuja appena salito al trono la permanenza per un tempo indefinito delle truppe anglo-indiani, sicuri di costringere i riottosi guerrieri tribali a cooperare alternando la minaccia di usare la forza alla corruzione dei capi tribù. Questa sicurezza era solo un’illusione, derivata dalla non conoscenza dell’indole degli afgani. Intanto alcuni gruppi, come i fondamentalisti islamici chiamati Ghazi, e gli uomini della tribù Ghilzai, che controllavano i principali passi di montagna per l’India, non avevano mai accettato la presenza occidentale e continuavano a muoversi in modo turbolento. Ma anche degli altri apparentemente sottomessi c’era pochissimo da fidarsi, considerando che la simulazione aveva sempre avuto nei costumi tribali uno status paragonabile a quello del coraggio.
A questo punto ci furono due errori di Auckland, uomo di intelligenza modesta e di scarsa immaginazione: pensando che non fosse più necessario mantenere tanti soldati accampati scomodamente intorno d Kabul, aveva fatto ritirare oltre il Khyber buona parte della truppa, lasciando una divisione di fanteria, un reggimento di cavalleria e una batteria di cannoni. E al posto del
generale Keane, il comandante dell’armata che si era mosso con abilità tra le montagne afghane e che ora rientrava anche lui in India, aveva nominato una nullità paragonabile a quell’altra nullità che era il re: il maggior-generale William Elphinstone, un imbambolato reduce di Waterloo, indeciso a tutto. Nessuno di questi ultimi due si era reso conto di quanto il protettorato inglese rendesse furibondi tutti gli afghani, e che il loro intuito politico fosse vicino allo zero fu chiaro quando il linciaggio del residente britannico da parte di una folla inferocita li colse completamente impreparati.

[Ad essere fatti a pezzi furono il capitano Alexander Burnes ed il suo attendente William Broadfoot, entrambi trucidati insieme alla loro piccola scorta indiana. A.Burnes era uno scozzese entrato giovanissimo nella Compagnia delle Indie Orientali. Avventuriero, esploratore, poliglotta, interprete, è uno dei primissimi occidentali a visitare in incognito Kabul e la città di Bukhara dominata con pugno di ferro dal sanguinario emiro Nasrallah. È Burnes l’agente infiltrato in territorio afgano. È sempre lui che si preoccupa della logistica e dei contatti diplomatici, dopo aver invano caldeggiato il sostegno a Dost Mohammed, presso l’ottuso lord Auckland.]

Quasi di colpo, tutto quello che sembrava andare favorevolmente, ora aveva preso un andamento negativo, tra fatti grandi e fatti piccoli, tra i quali si contavano una caduta da cavallo di Elphinstone, diventato ancora più indeciso e anche un po’ suonato, e l’arrivo sulla scena di un formidabile leader della rivolta, Akhbar Khan, il figlio di Dost.
Alla fine del 1841 la situazione era tale per cui le truppe di occupazione, fino a poche settimane prima sicure di controllare gli irriducibili guerriglieri delle montagne, ora si sentivano assediate e non pensavano che andarsene via da quell’orribile paese. Volevano solo la garanzia di non venire ammazzati come cani infedeli lungo la strada di ritorno e una deputazione guidata dal rappresentante del governatore generale andò a chiederla a Akhbar, che aspettava vicino Ghazi. Come risposta e perché non ci fossero equivoci sulla fine prevista per tutti, i componenti della deputazione furono sgozzati e l’Inviato – questo era il suo titolo – ucciso dallo stesso Akhbar.

[È il baronetto William Hay Macnaghten, l’agente politico che aveva convinto il governatore britannico a sostenere le pretese al trono del debole Shuja. Tra le altre cose, sir Macnaghten era il diretto superiore di Burnes, che già aveva provveduto a fare una pessima fine.]

Il 6 gennaio del 1842 quello che rimaneva dell’Armata dell’Indo cominciò la ritirata, la più tremenda della storia militare inglese. La colonna, sparpagliata per una lunghezza di una quindicina di chilometri e composta di oltre sedicimila profughi di cui settecento europei e quasi quattromila soldati indiani, sarebbe stata al sicuro a Jalalabad, distante solo centocinquanta chilometri. Ma era inverno, la strada saliva fino a passi ricoperti di neve e sulle montagne erano in agguato trentamila afghani che cominciarono ad attaccare a piccoli gruppi, come animali da preda. I primi ad essere eliminati furono tutti quelli incapaci di difendersi, la parte più debole della massa fluttuante che seguiva ovunque l’esercito inglese. I resoconti dell’epoca parlano di centinaia di donne indiane spogliate, violentate e sgozzate, i cui corpi venivano lasciati a imputridire lungo la pista. Poi fu la volta dei servi – ogni ufficiale inglese ne aveva da sei a dieci a disposizione – dei portatori semplici e di quelli che trasportavano l’acqua, dei maniscalchi, dei sellai, dei fabbri, dei sarti, degli uomini che pulivano gli ottoni, o che tiravano su le tende, dei cuochi e degli stallieri, dei pastori e dei macellai: tutta l’infinita varietà dei lavoratori che stavano alle dipendenze dell’esercito più viziato che ci fosse, a partire dal tenente in su. Furono massacrati inesorabilmente. I loro padroni non fecero una fine migliore. La ritirata durò sei giorni e durante questo tempo andarono avanti trattative che si risolvevano in altre trappole e altri tradimenti, consumati con gusto dagli afghani, che non vedevano nulla di disonorevole nel non tenere fede alla parola data a un nemico. Disonorevole sarebbe stato non essere riusciti a ucciderlo.
Convocato al comando di Akhbar, il generale Elphinstone venne trattenuto come ostaggio e non se ne seppe più nulla. Un gruppo di soldati inglesi che era riuscito miracolosamente a raggiungere un paese a venticinque chilometri da Jalalabad, fu ospitato con segni di amicizia dai paesani e trucidato di notte.

[Sono i soldati inglesi del 44° Rgt dell’Essex. O meglio, è ciò che ne rimane: 20 ufficiali ed una cinquantina di fanti (sui 670 unità alla partenza). Arrivati a Gandamak, gli inglesi vengono totalmente sopraffatti. Si salvano in 4.]

Qualche giorno più tardi al forte inglese arrivò un lugubre omaggio mandato da Akhbar: era il corpo del povero Elphinstone, avvolto in erbe aromatiche e seguito dal suo valletto, risparmiato per poter accompagnare il comandante inglese nell’ultimo viaggio di ritorno. Degli altri protagonisti della vicenda, il re burattino Shuja fu naturalmente eliminato, ma anche Akhbar morì qualche anno più tardi, probabilmente avvelenato.
Lord Auckland, dopo aver scritto che la catastrofe era stata per lui totalmente incomprensibile, invece di passare il resto dei suoi giorni a meditare delle umane sorti in qualche villa del Surrey, diventò Primo Lord dell’Ammiragliato: una di quelle eccentricità di cui gli inglesi sono stati maestri. Le forze britanniche ritornarono in Afghanistan l’anno successivo, facendo saltare il bazaar di Kabul come inutile intimidazione, perché non riuscirono mai a normalizzare, come si dice, la regione e quarant’anni più tardi furono trascinati in un’altra guerra.”

  STEFANO MALATESTA
  “Il napoletano che domò gli afgani”
  Neri Pozza Editore;
  Vicenza 2002

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