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The Fine Art of Propaganda

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , on 14 marzo 2023 by Sendivogius

«La propaganda si basa sui simboli per raggiungere il suo fine: la manipolazione degli atteggiamenti collettivi.
Sono così grandi le resistenze psicologiche alla guerra nelle nazioni moderne, che ogni guerra deve apparire come una guerra di difesa contro un aggressore minaccioso e omicida. Non ci deve essere ambiguità su chi il pubblico debba odiare. La colpa e l’innocenza devono essere stabilite geograficamente. E tutte le colpe devono essere dall’altra parte della frontiera.
Una regola utile per suscitare odio è, se all’inizio non si adirano, usare un’atrocità. È stata impiegata con successo invariabile in ogni conflitto conosciuto dall’uomo. A differenza del pacifista, che sostiene che tutte le guerre sono brutali, la storia delle atrocità implica che la guerra è brutale solo se praticata dal nemico

Harold Dwight Lasswell
“Tecniche di Propaganda nella Prima Guerra Mondiale” (1927)

  La Propaganda, e massimamente la propaganda di guerra, è uno strumento di manipolazione psicologica a cui un potere organizzato e strutturato ricorre, per convincere le persone comuni a fare ciò che normalmente non farebbero mai.
Soprattutto, è uno strumento flessibile che si adatta alle circostanze per veicolare i suoi messaggi, adattandoli alla sensibilità del pubblico per meglio permearne la dimensione emotiva.
La Propaganda non interpreta la realtà, la destruttura per creare una narrazione parallela. E lo fa, tramite l’iniezione costante e crescente di stimoli primari, onde divellere le eventuali resistenze critiche, o inibire la confutazione empirica. Genera costrutti emozionali e non si preoccupa di doverli dimostrare: se funzionano si persiste nella riproposizione martellante degli stessi, altrimenti se ne inventano di nuovi. Nel suo complesso, la Propaganda pone in essere una serie di distorsioni cognitive eterodirette, volte a plasmare l’immaginario collettivo attraverso una rappresentazione caricaturale della realtà, senza mai entrare nella sostanza. Se sottoposta a revisione critica, non regge il confronto. Per questo aborre la complessità, pur essendo essa stessa un organismo complesso nella variabilità delle tecniche di condizionamento.
Per la Propaganda, nessuna falsità messa in circolazione sarà mai tanto grande da sembrare assurda, se funzionale allo scopo da raggiungere. Più è grande la bugia, più estesa sarà la rete di falsificazioni collaterali, per un’opera capillare di destrutturazione dell’elemento fattuale, reso irrilevante ai fini dell’efficacia del messaggio. Più ramificata sarà la menzogna e più risulterà convincente in assenza di contestazione. E proprio in questo si misura la sua efficacia: non quanto essa sia credibile, ma quanto pervasiva risulterà essere la sua diffusione, tanto da sembrare ‘vera’. La pubblica credulità è la dimensione del suo essere; l’auto-referenzialità è l’impalcatura sulla quale si regge; il ricorso alla mistificazione sistematica è la misura della sua amoralità.
Non è nemmeno un’invenzione recente. Forme di propaganda, o comunque riconoscibili come tale, sono sempre esistite fin dall’antichità, probabilmente ancor prima della Guerra del Peloponneso narrata nelle pagine magistrali di un Tucidide, rivelandosi spesso impresa retorica di raffinatissimo impatto intellettuale. Ma è essenzialmente con l’avvento dell’Età Contemporanea, che la propaganda assurge alle forme strutturali che le sono consone e con le quali viene di solito identificata, per metodologia e prassi, nelle sue espressioni più sguaiate e volgari, seguendo spesso un’iperbole parossistica volta ad alimentare una sorta di isteria diffusa su eccitazione di massa, per la propagazione del messaggio.

“Le guerre offrono un ambiente ideale per i media: gli istinti più bassi come l’odio e la violenza che sono normalmente repressi possono essere facilmente liberati e stimolati. Pertanto, la sete di sensazioni della stampa si unisce all’obiettivo del governo di mobilitare il fronte interno e influenzare i paesi neutrali. L’impatto della propaganda commerciale è alto poiché le storie di atrocità si vendono bene in tempo di guerra. Giornalisti e intellettuali spesso sostengono le istituzioni ufficiali di propaganda. Quindi la propaganda non funziona solo dall’alto verso il basso, ma viene anche potenziata dal basso verso l’alto.
[…] La propaganda alleata si è concentrata su questo diffondendo e illustrando “storie dell’orrore” di donne violentate e civili brutalmente assassinati che erano adatte a demonizzare i tedeschi. Così, i poster delle atrocità alleate ritraevano i tedeschi come bestie, mostravano scene estreme di violenza così come soldati tedeschi stupidi e maligni che si muovevano attraverso i paesi, saccheggiando, bruciando e uccidendo.
[…] I motivi di molti manifesti e caricature francesi erano assetati di sangue o avevano caratteristiche pornografiche. Le immagini di donne violentate e bambini mutilati sono il risultato di un’ossessione per la violenza e la sessualità diffusa dalla fine del XIX secolo. Tali rappresentazioni delle vittime, tuttavia, derivavano principalmente dalla fantasia dei contemporanei, poiché principalmente gli uomini erano le vittime.”

Steffen Bruendel

Se le sue espressioni ‘moderne’ iniziano a prendere corpo e sostanza secondo il tessuto attuale già durante la Guerra di Crimea (1853-1856), è con la Prima Guerra Mondiale che la propaganda raggiunge il suo apice nell’uso spregiudicato e più truculento della stessa, divenendo vera e propria “scienza” con tanto di tecniche specifiche ed uffici specializzati per la sua inoculazione velenosa, come esemplarmente illustrato dal barone Arthur Ponsonby nella sua opera più famosa, “Menzogne in tempo di guerra” (1928), dove viene riportata un’ampia casistica di falsità che furono messe in circolazione durante la prima guerra mondiale dagli organi di propaganda delle potenze alleate (Russia, Francia, Italia, Gran Bretagna ed USA) contro gli Imperi Centrali. Perché senza bugie e falsificazioni che esacerbino ad arte gli animi, non vi sarebbe alcuna ragione né volontà a proseguire il conflitto, alimentando l’odio.
Per infiammare le masse alla guerra ed al contempo negare ogni responsabilità nella stessa, è necessario “rappresentare il nemico come un pericoloso disturbatore della pace e il più terribile nemico dell’umanità”.

«Se riduci la menzogna a un sistema scientifico, mettila su spessa e pesante; con grande sforzo e finanze sufficienti…. puoi ingannare a lungo intere nazioni e spingerle al massacro per cause verso le quali on hanno il minimo interesse. Lo abbiamo visto a sufficienza durante l’ultima guerra, e lo vedremo nella prossima.
[…] In guerra, il ricorso alla menzogna viene riconosciuto come un’arma estremamente utile. Ed ogni paese la usa per ingannare piuttosto deliberatamente il proprio popolo, per attrarre quanti si professano neutrali, e per ingannare il nemico. Le masse ignoranti ed innocenti di ogni paese non hanno alcuna consapevolezza di come vengano ingannati sul momento. E solo quando sarà tutto finito, qua e là le menzogne verranno scoperte e denunciate. Come è sempre avvenuto in passato, una volta raggiunto l’effetto desiderato, non ci saranno problemi ad indagare sui fatti ed a ristabilire la verità.
[…] Le autorità di ogni paese fanno, e anzi devono, ricorrere a questa pratica per, in primo luogo, giustificarsi dipingendo il nemico come un criminale puro; e in secondo luogo, per infiammare la passione popolare, abbastanza da assicurarsi reclute per la continuazione della guerra.
Non possono permettersi di dire la verità. In alcuni casi, bisogna ammetterlo, nell’immediato non sanno nemmeno quale sia la verità

Arthur Ponsonby
Falsehood in War-Time: Propaganda Lies of the First World War

In prospettiva, la cosiddetta “propaganda delle atrocità” costituisce infatti un ottimo surrogato di sicura efficacia, nell’estetica necrofila dell’orrore, elevato a voyeurismo pornografico di guerra.

«La Press House era l’infaticabile geyser che sputava incessantemente falsi rapporti di guerra e notizie fittizie dalle retrovie e dal davanti, le calunnie più vili e brutali degli avversari, le stupefacenti finzioni di atti infami loro attribuiti. Il veleno insidioso ma efficace così diffuso ha ingannato e infettato una schiera di persone ben intenzionate ma non sofisticate… Durante la guerra la menzogna divenne una virtù patriottica. Ci è stato imposto dal governo e dal censore, e per il pericolo di perdere la guerra considerata una necessità; inoltre, mentire era redditizio e spesso pubblicamente onorato. Inutile negare il successo della menzogna, che utilizzò la Stampa come il miglior mezzo di una diffusione estesa e rapida. Gli sforzi maggiori sono stati fatti per bollare ogni parola dei nemici come menzogna e ogni nostra menzogna come verità assoluta


Ovviamente al Nemico, meglio se disumanizzato nella sua irriducibile alterità fuori dal consesso della Civiltà e del Diritto, non può essere riconosciuta alcuna attenuante né giustificazione, perché nulla deve incrinare la narrazione bellica nella sua manichea rappresentazione, altrimenti verrebbero meno le ragioni per poter proseguire il conflitto stesso. Ogni ragione concessa al “nemico” viene vissuta come un intollerabile cedimento del fronte interno. E dunque non è ammissibile, altrimenti si solleverebbero dubbi sull’azione stessa di quei governi che hanno perseguito l’opzione bellica, come se fosse l’unica possibile, sabotando ogni negoziazione per la sospensione del conflitto.

«Un governo che abbia deciso di intraprendere la via terribile e pericolosa della guerra…. non può permettersi di ammettere, e in nessun caso di riconoscere, neanche la minima ragione o diritto al popolo che ha deciso di combattere. I fatti devono essere distorti, le circostanze rilevanti nascoste, e la rappresentazione del nemico a tinte fosche persuaderà la gente che il proprio governo è senza colpe, la propria causa è giusta, e che l’indiscutibile malvagità del nemico è stata dimostrata oltre ogni dubbio. Un momento di riflessione direbbe a qualsiasi persona ragionevole, che un pregiudizio così evidente non può assolutamente rappresentare la verità. Ma nell’immediato la riflessione non è consentita; le bugie vengono diffuse con grande rapidità. La massa irriflessiva le accetta e con la sua eccitazione influenza gli altri. La quantità di sciocchezze che passano sotto il nome di patriottismo in tempo di guerra in tutti i paesi è sufficiente a far arrossire tutte le persone oneste

Per lo stesso motivo, onde non incrinare lo sforzo bellico e la volontà di proseguire la guerra (sia essa per procura o meno),

 «Non si deve mai permettere alle persone di perdersi d’animo; quindi le vittorie devono essere esagerate e le sconfitte, se proprio non possono essere non nascoste, almeno minimizzate, e lo stimolo dell’indignazione, dell’orrore e dell’odio deve essere assiduamente e continuamente pompato nell’animo pubblico mediante la “propaganda”.
[…] Qualsiasi tentativo di dubitare o negare anche la storia più fantastica deve essere condannato immediatamente come antipatriottico, se non traditore. Ciò consente campo libero per la rapida diffusione delle menzogne. Se fossero usate solo per ingannare il nemico nel gioco della guerra, non varrebbe la pena di preoccuparsene. Ma, poiché lo scopo della maggior parte di esse è quello di alimentare l’indignazione e indurre il fiore della giovinezza del paese a essere pronto al sacrificio supremo, diventa una cosa seria. Parlarne, dunque, può essere utile, anche se la guerra è terminata, a svelare l’inganno, l’ipocrisia e l’imbroglio da cui tutte le guerre traggono linfa vitale, e a rivelare gli espedienti esasperati e volgari che da tempo sono adoperati, per impedire che la povera gente ignorante sia consapevole del vero significato della guerra

Lord Ponsonby scriveva circa un secolo fa, ma le sue considerazioni possono essere benissimo valevoli per il presente, in tutta la loro sconcertante ancorché desolante attualità, nella reiterazione dei medesimi meccanismi di manipolazione e disinformazione, insieme alla compiacenza e soprattutto alla complicità interessata di un intero sistema mediatico, allineato a precise dinamiche di potere delle quali è parte integrante.
Riprendendo le tesi espresse da Arthur Ponsonby, in tempi assai più recenti (2001), Anne Morelli, storica e ricercatrice italo-belga, ne ha sintetizzato le osservazioni per ricavarne “dieci principi elementari”, analizzando e mettendo in luce i principi ricorrenti, alla base delle tecniche essenziali della propaganda di guerra.

1. Non vogliamo la guerra
(stiamo solo difendendo noi stessi!)

Arthur Ponsonby aveva già notato che gli statisti di tutti i paesi, prima di dichiarare la guerra o nel momento stesso di tale dichiarazione, assicuravano sempre solennemente in via preliminare che non volevano la guerra.
La guerra non è mai desiderata, raramente è vista come positiva dalla popolazione. Con l’avvento delle nostre democrazie, il consenso della popolazione diventa essenziale, quindi non bisogna volere la guerra ed essere pacifisti nel cuore. A differenza del Medioevo, quando l’opinione della popolazione aveva poca importanza e la questione sociale non era sostanziale.
[…] Se tutti i capi di stato e di governo sono animati da un simile desiderio di pace, ci si può naturalmente chiedere innocentemente perché, a volte (e anche spesso), le guerre scoppiano tutte uguali? Ma il secondo principio risponde a questa domanda.

2. La parte avversa è l’unica responsabile della guerra

Questo secondo principio deriva dal fatto che ogni parte sostiene di essere stata costretta a dichiarare guerra per evitare che l’altra distrugga i nostri valori, metta in pericolo le nostre libertà o addirittura ci distrugga completamente. È dunque l’aporia di una guerra per porre fine alle guerre. Ci porta quasi alla mitica frase di George Orwell: “La guerra è pace”.
Così, gli Stati Uniti sono stati “costretti” ad andare in guerra contro l’Iraq, il che non ha lasciato loro altra scelta. Stiamo quindi solo “reagendo”, difendendoci dalle provocazioni del nemico che è interamente responsabile della guerra che verrà.
Così, Daladier nel suo “appello alla nazione” – ignorando le responsabilità francesi nella situazione creata dal Trattato di Versailles – assicurava il 3 settembre 1939: la Germania aveva già rifiutato di rispondere a tutti gli uomini di cuore le cui voci si erano alzate negli ultimi tempi in favore della pace mondiale. Siamo in guerra perché ci è stata imposta.
Ribbentrop giustificò la guerra contro la Polonia in questi termini: “Il Führer non vuole la guerra. Lo farà solo a malincuore. Ma la decisione per la guerra o la pace non dipende da lui. Dipende dalla Polonia. Su alcune questioni di interesse vitale per il Reich, la Polonia deve cedere e soddisfare richieste alle quali non possiamo rinunciare. Se si rifiuta di farlo, la responsabilità di un conflitto ricadrà su di lei, non sulla Germania”.
Durante la guerra del Golfo, Le Soir del 9 gennaio 1991 affermava anche: “La pace che tutti vogliono più di ogni altra cosa non può essere costruita su semplici concessioni a un atto di pirateria. (…) La palla è essenzialmente, va detto, nel campo dell’Iraq. 
Lo stesso vale per la guerra in Iraq. Prima dell’inizio della guerra, Le Parisien ha pubblicato un titolo il 12 settembre 2002: “Come Saddam si prepara alla guerra”.

“Ci si dichiara costretti a fare la guerra a causa dell’avversario che non ha rispettato i trattati, o ha aggredito un paese. È il nemico che deve portare l’intera responsabilità del conflitto.”

3. Il leader del campo avversario ha il volto del diavolo (o “il brutto”)

“Non si può odiare un gruppo umano nel suo insieme, anche se viene presentato come un nemico. È quindi più efficace concentrare questo odio del nemico sul leader avversario. Il nemico avrà così un volto e questo volto sarà ovviamente odioso”.
“Il vincitore si presenterà sempre (vedi Bush o Blair recentemente) come un pacifista che ama la conciliazione ma è spinto alla guerra dal campo avverso. Questo campo avverso è naturalmente guidato da un pazzo, un mostro (Milosevic, Bin Laden, Saddam Hussein, …) che ci sfida e dal quale l’umanità deve essere liberata”.
La prima operazione di una campagna di demonizzazione è dunque quella di ridurre un paese a un solo uomo. Agire come se nessuno vivesse in Iraq, come se solo Saddam Hussein, la sua “temibile” Guardia Repubblicana e le sue “terribili” armi di distruzione di massa vivessero lì.
Personalizzare il conflitto in questo modo è molto tipico di una certa concezione della storia, che sarebbe fatta da “eroi”, opera di grandi personaggi.
[…] Così, l’avversario è qualificato da tutti i mali possibili. Dal suo aspetto fisico alle sue abitudini sessuali…. Questo tipo di demonizzazione non è usato solo per la propaganda di guerra (come tutti gli altri principi).
Per esempio, Pierre Bourdieu ha riferito che negli Stati Uniti, alcuni professori universitari, stufi della popolarità di Michel Foucault nei loro college, hanno scritto una serie di libri sulla vita intima dell’autore. Così, Michel Foucault, l’”omosessuale masochista e pazzo” aveva pratiche “innaturali”, “scandalose” e “inaccettabili”. In questo modo, non c’è bisogno di discutere il pensiero dell’autore o i discorsi di un politico, ma di confutarlo sui giudizi morali sulle cosiddette pratiche dell’individuo.

“Il nemico deve avere un volto e questo volto sarà quello del capo avversario chiaramente ributtante. La guerra sarà dunque contro il volto di Saddam, di Milosević, di Ahmadinejad, di Gheddafi … Occorre dimostrare che questo personaggio è immondo, un folle, un barbaro, un criminale, un macellaio, un perturbatore della pace, un nemico dell’umanità, da lui deriva tutto il male possibile.”

4. Stiamo difendendo una nobile causa, non interessi particolari
(la nostra causa è nobile e disinteressata)

Gli obiettivi economici e geopolitici della guerra devono essere mascherati da valori ideali, moralmente giusti e legittimi.
[…] Infatti, nelle nostre società moderne, a differenza di Luigi XIV, una guerra può essere condotta solo con un certo consenso della popolazione. Gramsci aveva già mostrato come l’egemonia culturale e il consenso siano indispensabili per il potere. Questo consenso sarà facilmente acquisito se la popolazione crede che la sua libertà, la sua vita, il suo onore dipendano da questa guerra.
Gli obiettivi della prima guerra mondiale, per esempio, possono essere riassunti in tre punti:

per schiacciare il militarismo
per difendere le piccole nazioni
per preparare il mondo alla democrazia.

Questi obiettivi molto onorevoli sono stati poi copiati quasi alla lettera alla vigilia di ogni conflitto, anche se hanno poco o niente a che fare con i suoi obiettivi reali.
“Dobbiamo convincere l’opinione pubblica che noi – a differenza dei nostri nemici – facciamo la guerra per motivi infinitamente onorevoli”.
“Nel caso della guerra della NATO contro la Jugoslavia, troviamo la stessa discrepanza tra gli obiettivi ufficiali e non dichiarati del conflitto. Ufficialmente, la NATO è intervenuta per preservare il carattere multietnico del Kosovo, per impedire il maltrattamento delle minoranze, per imporre la democrazia e per mettere fine al dittatore. È difendere la sacra causa dei diritti umani. Alla fine della guerra, non solo si vede che nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto, che siamo lontani da una società multietnica e che la violenza contro le minoranze – questa volta serbi e rom – è un fatto quotidiano, ma anche che gli obiettivi economici e geopolitici della guerra, che non erano mai stati menzionati, sono stati raggiunti”.
Questo principio implica il suo corollario, il nemico è un mostro assetato di sangue che rappresenta la società della barbarie.
Il nemico provoca consapevolmente atrocità, e se noi commettiamo errori è involontariamente
Le storie di atrocità del nemico sono una parte essenziale della propaganda di guerra. Questo non vuol dire, naturalmente, che le atrocità non avvengano durante le guerre. Al contrario, omicidio, rapina a mano armata, incendio doloso, saccheggio e stupro sembrano essere piuttosto – purtroppo – ricorrenti nella storia delle guerre. Ma far credere che solo il nemico commette tali atrocità, e che il nostro esercito è amato dalla popolazione, è un esercito “umanitario”.
Ma la propaganda di guerra raramente si ferma lì, non accontentandosi degli stupri e dei saccheggi esistenti, è più spesso necessario creare atrocità “inumane” per incarnare nel nemico l’alter-ego di Hitler (Hitlerosevic, …). Possiamo quindi affiancare diversi passaggi di guerre diverse senza trovare grandi differenze.
[…] Il quinto principio della propaganda di guerra è che solo il nemico commette atrocità, la nostra parte può solo commettere “errori”.
Durante la guerra contro la Jugoslavia, la propaganda della NATO ha reso popolare il termine “danni collaterali” e ha presentato come tali i bombardamenti sulle popolazioni civili e sugli ospedali, che, secondo le fonti, hanno causato tra 1.200 e 5.000 vittime. Il bombardamento dell’ambasciata cinese, di un convoglio di rifugiati albanesi, o di un treno che passa su un ponte è stato quindi un “errore”. Il nemico non sbaglia, ma commette consapevolmente il male.
Per concludere con una citazione di Jean-Claude Guillebaud: “Eravamo diventati, noi giornalisti, senza volerlo, una specie di mercanti dell’orrore e i nostri articoli dovevano commuovere, raramente spiegare.”

6. Il nemico usa armi non autorizzate

Questo principio è il corollario del precedente. “Non solo non commettiamo atrocità, ma facciamo la guerra in modo cavalleresco, rispettando – come se fosse un gioco, certamente duro ma virile! – le regole”.
Così, durante la prima guerra mondiale, la controversia infuriò sull’uso del gas asfissiante. Ogni parte ha accusato l’altra di aver iniziato ad usarli. Anche se entrambe le parti avevano usato il gas ed entrambe lo avevano studiato, era un riflesso simbolico della guerra “inumana”. È quindi opportuno dare la colpa al nemico. È in un certo senso l’arma “disonesta”, l’arma degli ingannatori.

7. Noi subiamo poche perdite, quelle del nemico sono enormi

Con rare eccezioni, gli esseri umani preferiscono generalmente unirsi alle cause vittoriose. In guerra, il sostegno pubblico dipende quindi dal risultato apparente del conflitto. Se i risultati non sono buoni, la propaganda dovrà nascondere le nostre perdite ed esagerare quelle del nemico”.
Già durante la prima guerra mondiale, dopo un mese dall’inizio delle operazioni, le perdite ammontavano a 313.000 morti. Ma lo stato maggiore francese non ammise mai la perdita di un cavallo e non pubblicò la lista dei nomi dei morti.
Ne è un esempio la recente guerra in Iraq, dove è stata vietata la pubblicazione di foto delle bare dei soldati americani sulla stampa. Le perdite del nemico, d’altra parte, sono enormi, il loro esercito non resiste. “Da entrambe le parti questa informazione ha sollevato il morale delle truppe e ha persuaso l’opinione pubblica dell’utilità del conflitto.

8. Artisti e intellettuali sostengono la nostra causa

Nella prima guerra mondiale, con poche eccezioni, gli intellettuali hanno sostenuto in modo schiacciante la propria parte. Ogni belligerante poteva in gran parte contare sull’appoggio di pittori, poeti e musicisti che sostenevano la causa del loro paese con iniziative nel loro campo.
[In Kosovo] I caricaturisti furono messi al lavoro per giustificare la guerra e ritrarre il “macellaio” e le sue atrocità, mentre altri artisti lavoravano, macchina fotografica alla mano, per produrre documenti edificanti sui rifugiati, sempre accuratamente presi dalle file albanesi, e scelti per assomigliare il più possibile al pubblico a cui si rivolgevano, come questo bel bambino biondo dallo sguardo nostalgico, che doveva evocare le vittime albanesi. Possiamo quindi vedere i “manifesti” svilupparsi ovunque. […] Questi “collettivi” di intellettuali, artisti e uomini di spicco cominciarono così a legittimare l’azione del potere politico in carica.

9. La nostra causa è sacra

Questo criterio può essere preso in due sensi, sia letteralmente che in senso generale. In senso letterale, la guerra è quindi una crociata, quindi la volontà è divina. Non si può sfuggire alla volontà di Dio, ma solo realizzarla. Questo discorso ha riacquistato grande importanza dall’arrivo al potere di George Bush Jr. e con lui tutta una serie di ultraconservatori fondamentalisti. Così la guerra in Iraq è stata vista come una crociata contro l’”Asse del Male”, una lotta del “bene” contro il “male”. Era nostro dovere “dare” la democrazia all’Iraq, essendo la democrazia un dono della volontà divina. Così fare la guerra è realizzare la volontà divina. Le scelte politiche assumono un carattere biblico che cancella ogni realtà sociale ed economica. I riferimenti a Dio sono sempre stati numerosi (In God We Trust, God Save the Queen, Gott mit Uns, …) e servono a legittimare senza appello le azioni del sovrano.

10. Chi mette in dubbio la nostra propaganda è un traditore

Quest’ultimo principio è il corollario di tutti i precedenti: chiunque metta in discussione uno qualsiasi dei principi di cui sopra è necessariamente un collaboratore del nemico. Così, la visione dei media è limitata ai due campi sopra menzionati. Il campo del bene, della volontà divina, e il campo del male, dei dittatori. Così, si è “per o contro” il male.
[…] Sta quindi diventando impossibile sollevare un’opinione dissidente senza essere linciati dai media. Il pluralismo d’opinione non esiste più, è ridotto a niente, ogni opposizione al governo è messa a tacere e screditata da argomenti fasulli. Questo stesso argomento è stato applicato di nuovo durante la guerra in Iraq, anche se l’opinione internazionale era più divisa, quindi era meno sentito. Ma essere contro la guerra è essere per Saddam Hussein… Lo stesso schema è stato applicato in un contesto completamente diverso, che era il referendum sulla costituzione europea: “essere contro la costituzione è essere contro l’Europa!

Ora, applicate i Dieci Principi alla situazione attuale… Non vi sarà affatto difficile notare come questi aderiscano alla perfezione all’attuale guerra in Ucraina, per un copione già visto, assolutamente replicabile e sovrapponibile nella sua inquietante complementarità. E quanto nefasta sia questa grottesca coazione a ripetere.

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Cattivissimo Me

Posted in Muro del Pianto, Ossessioni Securitarie with tags , , , , , , , , on 6 dicembre 2020 by Sendivogius

Che gli italiani non fossero brava gente (anche se a loro piace credere il contrario), è una di quelle evidenze nascoste sotto lo strato degli stereotipi assolutori di una folla solitaria, più massa che popolo, schiumata nella “gente”, che del proprio passato non sa nulla. Vive (o per meglio dire, consuma) solo il presente, come eterni bambini mai cresciuti. Ed è incapace di pensare il futuro, se non come un’estensione indeterminata del proprio presente senza tempo.
Il mito degli “italiani brava gente” è innanzitutto una leggenda fortunata, di quelle dure a morire, come il mostro di Loch Ness, l’autostoppista fantasma, l’uomo falena, la fatina dei dentini, Babbo Natale, l’immacolata concezione, Luigi Di Maio ministro degli Esteri (ah no, quello è reale!), gli Illuminati (o chi per loro) che controllano il mondo, le sirene, i vaccini che fanno venire l’autismo… E come tale è falso.
Che gli italiani non sarebbero usciti migliori dalla pandemia di Covid-19 era nell’ordine delle cose… Che non sarebbe andata affatto bene, una conseguenza naturale, nonostante le sciroppose paternali a cura del Min.Cul.Pop di governo e di gentismo spiccio a fondo perduto. Insomma, il processo di involuzione antropologica in corso dura da almeno cinque lustri. Troppi per pensare di invertire la tendenza. Né era difficile prevedere quale effetto avrebbe avuto rinchiudere un branco di scimmie spaventate e arrabbiate nella gabbia dello stato d’eccezione.
A giudicare dal ritratto che annualmente ne fa il CENSIS, gli italiani visti allo specchio già facevano abbastanza schifo di loro, ma alla vigilia del 2021 sembra siano percolati in qualcosa di ancora peggio, imprigionati in un loop di quello che il rapporto chiama vero e proprio “sovranismo psichico”; che surroga aspirazioni e realizzazione personale, in un “egolatrico compiacimento dei consumi”

 DOPO IL RANCORE, LA CATTIVERIA
«Al volgere del 2018 gli italiani sono soli, arrabbiati e diffidenti. La prima delusione ‒ lo sfiorire della ripresa ‒ è evidente nell’andamento dei principali indicatori economici nel corso dell’anno. La seconda disillusione ‒ quella del cambiamento miracoloso ‒ ha ulteriormente incattivito gli italiani. Così, la consapevolezza lucida e disincantata che le cose non vanno, e più ancora che non cambieranno, li rende disponibili a librarsi in un grande balzo verso un altrove incognito.
Gli italiani sono ormai pronti ad alzare l’asticella: sono disponibili a un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, perfino a un salto nel buio, se la scommessa è quella poi di spiccare il volo. È quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vinca sull’attuale. È una reazione pre-politica che ha profonde radici sociali, che hanno finito per alimentare una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Un sovranismo psichico che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata, ma non più espressa nelle manifestazioni, negli scioperi, negli scontri di piazza tipici del conflitto sociale tradizionale.
[…]  La dimensione culturale della insopportazione degli altri sdogana ogni sorta di pregiudizio:

Il 43,2% degli italiani non vuole convivenze tra persone non sposate.

Il 37,1% è paladino della tradizionale divisione dei ruoli (l’uomo al lavoro e la donna in casa con i figli).

il 22,7% è convinto che le faccende domestiche debbano sempre e comunque essere in capo alle donne, che lavorino fuori casa o meno (lo pensa anche il 19,7% delle donne stesse).

Le diversità dagli altri sono percepite come pericoli da cui proteggersi: il 69,7% degli italiani non vorrebbe come vicini di casa rom, zingari, gitani, nomadi, il 69,4% persone con dipendenze da droghe o alcol, il 24,5% persone di altra etnia, lingua o religione. Sono i dati di un cattivismo diffuso ‒ dopo e oltre il rancore ‒ che erige muri invisibili, ma non per questo meno alti e meno spessi. Il 52% dei cittadini è convinto che si fa di più per gli immigrati che per gli italiani, quota che raggiunge il 57% tra le persone con redditi bassi.
[…]
Con tutta la loro potenza iconoclasta, internet e i media digitali personali sono diventati le tecnologie dell’immaginario dominanti. E abbiamo finito per sacrificare ogni mito, divo ed eroe sull’altare del soggettivismo, potenziato nei nostri anni dalla celebrazione digitale dell’io

Ed era solo il 2018. Quindi si è passati ad una società ansiosa, macerata dalla sfiducia per “il furore di vivere”, che nel vissuto quotidiano si tradurrebbe in:

“Stress esistenziale, disillusione e tradimento originano un virus ben peggiore: la sfiducia, che condiziona l’agire individuale e si annida nella società. Il 75,5% degli italiani non si fida degli altri, convinti che non si è mai abbastanza prudenti nell’entrare in rapporto con le persone.”

Poi per fortuna è arrivato il fatale 2020, quello che secondo Giuseppi Conte doveva essere una anno bellissimo, e che nei fatti si è rivelato essere:

“L’ANNO DELLA PAURA NERA”
Meglio sudditi che morti

Sono soddisfazioni grosse, perché come conseguenza diretta:

a) il 57,8% degli italiani è disposto a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, lasciando al Governo le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personale;

b) il 38,5% è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni.

La paura pervasiva dell’ignoto porta alla dicotomia ultimativa: “meglio sudditi che morti”. E porta a vite non sovrane, volontariamente sottomesse al buon Leviatano. Cresce allora il livore della logica “o salute o forca”.

il 77,1% degli italiani chiede pene severissime per chi non indossa le mascherine di protezione delle vie respiratorie, non rispetta il distanziamento sociale o i divieti di assembramento;

il 56,6% vuole addirittura il carcere per i contagiati che non rispettano rigorosamente le regole della quarantena e dell’isolamento, e così minacciano la salute degli altri;

il 31,2% non vuole che vengano curati (o vuole che vengano curati solo dopo, in coda agli altri) coloro che, a causa dei loro comportamenti irresponsabili o irregolari, hanno provocato la propria malattia;

il 49,3% dei giovani vuole che gli anziani siano curati dopo di loro.

Non sorprende, quindi, che persino una misura assolutamente indicibile per la società italiana come la pena di morte torni nella sfera del praticabile: quasi la metà degli italiani (il 43,7%) è favorevole alla sua introduzione nel nostro ordinamento (e il dato sale al 44,7% tra i giovani).

Ora, la fotografia che ne viene fuori è quella di una società più incanaglita che incattivita, dove meschinità e miserie congenite, hanno dato la stura alla pusillanimità diffusa di un gregge chiassoso di aspiranti servi frustrati, che sembra aver smarrito ogni valore morale nella totale assenza di ideali.
I ‘giovani’ (e sopratutto i diversamente tali, nella sovrabbondanza di peter pan in crisi di mezza età) ne escono malissimo: sono infinitamente più reazionari e gretti dei loro genitori; in piena regressione civica, ancor prima che sociale; indifferenti alla “Libertà”, intesa come valore civile e non come pretesa di “fare quello che mi pare”. Ciò che spicca è l’amore per la roba nel cumulo compulsivo della stessa; per il (proprio) incondizionato “benessere economico” questa variante post-industriale da Basso Impero del figliol prodigo venderebbe pure il culo (della madre).
Il quesito più annoso per simile gente?
Dove trascorrere le vacanze.
Le conseguenze più terribili dell’epidemia da Covid?
Rinunciare all’aperitivo.
A completare il quadro clinico, spicca il gusto sadico per la punizione, nel compiacimento verso il patibolo, come si conviene a tutte le plebaglie agghindate a festa durante le esecuzioni, quali occasione di intrattenimento pubblico.
O almeno questa è l’impressione miserrima che se ne ricava.
Da un punto di vista schiettamente sociologico, sembrano proprio delle egocentriche teste di cazzo: la peggior generazione di gente di merda mai cagata al mondo negli ultimi cento anni.
Si salvano gli anziani (che per fortuna sono la maggioranza), e che però hanno pure generato le medesime teste di cazzo in oggetto.
Ovviamente, è tutta colpa dei negri.
Insomma, comunque vada, andrà malissimo.

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SLIDESHOW

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 17 ottobre 2015 by Sendivogius

Renzi Slides

Ne è passata di acqua (lurida) sotto i ponti da quando, nel lontano 1928, Edward Bernays elaborò per la prima volta in forma ‘scientifica’ le tecniche della comunicazione politica, tramite l’unione di psicologia (era nipote di Freud) e marketing pubblicitario, e le condensò nella sua opera più famosa dal titolo inconfondibile…
PROPAGANDA   Come ben ricorderanno i nostri Lettori più attenti, dell’argomento avevamo già parlato in dettaglio QUI. Tuttavia, date le circostanze, repetita iuvant.
Per Bernays, il prodotto politico è indistinguibile da quello commerciale: in entrambe i casi si tratta di promuovere una merce destinata al consumo di massa, veicolando il messaggio attraverso quella che lui chiama “ingegneria del consenso”. Vale a dire: la strutturazione di campagne mirate alla formazione delle coscienze, con un miscuglio ben dosato di bugie strumentali, distorsioni, e connessioni emozionali legate non alla natura del prodotto in promozione, bensì alle aspettative ed alle suggestioni che questo è in grado di evocare in un pubblico (disattento) di potenziali consumatori. 

edward-bernaysIn altre parole, per Bernays le opinioni vanno costruite attorno ad una “verità” prestabilita da una precisa cabina di regia che orienta il consenso. E che in tal modo agisce sull’immaginario di quella che viene definita “mente collettiva”. Il modo migliore per pervenire al risultato desiderato consiste nella manipolazione costante dei fatti, finalizzata alla determinazione controllata delle opinioni; ovverosia: una serie di stereotipi strutturati su scala di massa e volti alla massima semplificazione di concetti minimi, per la fruizione allargata degli stessi in forma eterodiretta.
W.LippmannIl ricorso allo “stereotipo” peraltro non è originale, perché Bernays prende in prestito il concetto da Walter Lippmann il quale, per quanto fosse elitaria la sua visione da aristocratico illuminato, non approverà mai la collateralità dell’intrigante austriaco con quello che qualche decennio dopo un sociologo come Charles Wright Mills, nel suo Elite del potere, chiamerà industrial-military complex, facendo propria la definizione del presidente Eisenhower.
Lippman considerava lo ‘stereotipo’ come un’immagine mentale, che nel suo insieme non permetteva di comprendere la realtà ma offriva una visione parziale dei fatti, visti in una prospettiva distorta dall’interpretazione spesso fuorviante e affidata a quelle che lui definiva “autorità cognitive”.
Bernays ne piega invece l’utilizzo ad uso e consumo di quell’apparato industriale (e militare) che agisce con precise finalità politiche, indirizzando l’orientamento di massa con modalità di persuasione appositamente studiate.
Joseph Goebbels Tra i suoi estimatori vi fu certamente Joseph Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich, che più di ogni altro ne metterà a frutto le tecniche con un certo successo. E sempre a Goebbels vengono attribuiti i ‘famosi’ “11 principi della propaganda”. Almeno così come ebbe a riassumerli il prof. Leonard William Doob, dapprima in Propaganda and Public Opinion (1949) e quindi in Goebbels’ Principles of Propaganda (1950)…

1. Principio della semplificazione e del nemico unico.
E’ necessario adottare una sola idea, un unico simbolo. E, soprattutto, identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali.

2. Principio del metodo del contagio.
Riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo.

3. Principio della trasposizione.
Caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco. Se non puoi negare le cattive notizie, inventane di nuove per distrarre.

4. Principio dell’esagerazione e del travisamento.
Trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave.

5. Principio della volgarizzazione.
Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria.

6. Principio di orchestrazione.
La propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze. Da qui proviene anche la frase: “Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità”.

7. Principio del continuo rinnovamento.
Occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi (anche non strettamente pertinenti) a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose. Le risposte dell’avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse.

8. Principio della verosimiglianza.
Costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i cosiddetti palloni sonda, o attraverso informazioni frammentarie.

9. Principio del silenziamento.
Passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l’avversario.

10. Principio della trasfusione.
Come regola generale, la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali.
Si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi.

11. Principio dell’unanimità.
Portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità.

Nazi-GrilloNegli Anni ’50 i medesimi “principi” verranno poi rielaborati in dettaglio da Jean-Marie Domenach, intellettuale francese e cattolico progressista, che ne espliciterà la sostanza in La propaganda politica.
Oggi che propaganda e politica si mischiano insieme, fino a confondersi nell’indistinguibilità del messaggio, dove a prevalere non è il contenuto, ma la fruizione promozionale dello stesso, il modello prevalente è la televendita. E ciò avviene tramite campagne massive affidate a consulenti di immagine ed agenzie pubblicitarie, in un tritato indistinto di concetti e di idee, frullati per il rapido consumo su lancio pubblicitario degli stessi. Noterete che, in ordine sparso, gli 11 punti di Doob (o Goebbels, o Bernays, o Domenach che dir si voglia) sono perfettamente applicabili alle principali formazioni politiche del momento, che non mutuano un ideale nella comunicazione di un pensiero, bensì piazzano un prodotto i cui termini di vendita si misurano in termini di ritorno elettorale, attraverso la spettacolarizzazione di un messaggio mercificato. Ne consegue che i contenuti sono intercambiabili, in quanto funzionali ad intercettare l’attenzione e le aspettative più ampie possibili dell’elettore (consumatore) medio. L’offerta (politica) si adegua alla domanda. E per questo non può che essere generalista e volta alla massima diffusione, visto che risponde ad esigenze commerciali, inseguendo i sensazionalismi mediatici del momento. Il consenso è equivalente al profitto.
ClownSarà per questo che in una politica ridotta oramai a spettacolo, scandito da continui intervalli pubblicitari, l’iniziativa è rimessa a bolsi pagliacci che recitano la parte. Non per niente, il loro luogo d’elezione non è più la “piazza”, ma il pubblico selezionato di una platea al chiuso di un teatro, dove meglio possono imbastire i loro spettacolini ed al contempo piazzare il pentolame in svendita promozionale ai grandi saldi elettorali.

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Mercanti in fiera

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , on 28 Maggio 2015 by Sendivogius

Mercante in fieraA giudicare dall’offerta politica a disposizione, alle volte, si ha quasi l’impressione di trovarsi dinanzi ad una fiera campionaria, nell’esposizione circolare di prodotti a ciclo costante per l’identica riproposizione dei medesimi su ricambio stagionale. A guardarli bene, sono sempre gli stessi, opportunamente rispolverati e tirati a lucido nel corso degli anni, come in una sorta di feticismo vintage spalmato di keep calmmodernità. Alla lunga, ci si rende conto di come si tratti di un’offerta riciclata ancorché avariata, al netto della componente ideologica (negata e sublimata al ribasso) e la ridefinizione su scala partitica, attraverso la semplificazione del messaggio. Tanto più sfumati sono gli obiettivi tanto più indefiniti sono i contorni dei contenitori, sempre più vuoti, delegati alla rappresentanza in tempi di post-democrazia avanzata. In proposito, la antiche suddivisioni in “destra, sinistra, centro”, lungi dal costituire categorie dello spirito, finiscono col ridursi a meri contenitori di comodo, per Movimento dei Forconiconvogliare l’offerta elettorale nella liquidità del mercato politico e dei suoi empori, al di fuori dei quali monta il magma convulso dei movimentismi populisti nella maionese impazzita di un protestarismo minimalista che riduce la soluzione dei problemi in slogan ad effetto, per la lunghezza di un tweet tramite un profluvio di istanze più o meno fascistoidi.
salvini-calimeroOppure, nella migliore delle ipotesi, si ha a che fare con degli irrecuperabili deficienti…

grillino idiota

In fin dei conti, niente che non si sia già visto in tempo di crisi con la riedizione degli stessi copioni aggiornati ai gusti del tempo presente.
Political_Man Nella definizione delle basi sociali della politica, il sociologo Seymour Martin Lipset, tracciando le differenze ideologiche dei movimenti di massa ebbe a soffermarsi sulla sulla permeabilità delle società contemporanee alle pulsioni estremiste e reazionarie; il ruolo della “classe media” in risposta ad una modernità percepita come disgregante nell’incapacità di gestire le crisi di sistema, tramite la correlazione esistente tra sviluppo economico e tenuta democratica di una società.
hydra_wallpaper_by_viperaviatorLipset scriveva alla fine degli Anni ’50, ma parte delle sue analisi valgono benissimo anche per l’oggi. E noterete come certe analogie, certi ‘ritorni’, siano ancor più disarmanti che inquietanti come una sorta di meccanismo psicologico, che scatta ogni volta per pulsione auto-indotta in automatico. Per praticità semantica, si può parlare di “fascismo” in una sorta di definizione onnicomprensiva che ricomprenda anche i suoi attuali derivati. A voi il gusto di associare alla descrizione nomi e volti dell’attualità politica, in un gioco tutto al ribasso…

Neofascism«La tesi secondo cui il fascismo sia essenzialmente un movimento della classe media che rappresenta una protesta contro il capitalismo e contro il socialismo, contro la grande impresa e contro i grandi sindacati, è ben lungi dall’essere originale.
[…] L’economista David Saposs l’ha egregiamente formulata in questi termini: “Il fascismo è l’estrema espressione del medio-classismo o populismo… La fondamentale ideologia della classe media è il populismo… Il suo ideale è una classe di piccoli proprietari indipendenti, fatta di commercianti, artigiani e agricoltori. Questo elemento sociale, che ora viene designato col termine di classe media, ha fatto un sistema di proprietà privata, di profitto e di concorrenza, fondato su basi del tutto diverse su quelle accolte dal capitalismo… Fin dal suo primo sorgere, tale classe si è opposta alla ‘grande impresa’, o a tutto ciò che ora si intende per capitalismo.
[…] Il populismo oggi è più forte che mai. E la classe media è più che mai vigorosa”.
SmokingE nonostante che qualcuno abbia cercato di giustificare l’appoggio fornito al nazismo dalla classe media in base alle particolari difficoltà economiche degli anni trenta, lo studioso di politica Harold Lasswell, scrivendo in piena depressione, afferma che l’estremismo della classe media scaturiva da tendenze connaturate nella società industriale, le quali avrebbero continuato a far sentire la loro influenza anche se la situazione economica fosse migliorata: “L’hitlerismo, considerato come una disperata reazione delle classi medie più povere, continua un movimento che cominciò verso la fine del XIX° secolo. Da un punto di vista puramente materiale… non è che si trovassero in condizioni economiche peggiori che un cinquantennio prima.
[…] L’impoverimento psicologico di tale classe aggravò il senso di insicurezza fra i suoi membri più influenti, preparando così il terreno ai vari movimenti di protesta di massa, attraverso i quali le classi medie potevano sperare in una rivincita.”
[…] Non deve perciò sorprendere se i piccoli uomini d’affari, in presenza di certe condizioni, si rivolgono a movimenti politici estremisti, come il fascismo o il populismo antiparlamentare, che in un modo o in una altro esprimono condanna per la democrazia parlamentare.
[…] I movimenti estremisti hanno molto in comune. Essi fanno appello agli scontenti, a quelli che psicologicamente sono senza fissa dimora, ai falliti, a coloro che sono socialmente isolati, agli economicamente insicuri, agli ignoranti, a coloro che mancano di maturità, e alle persone autoritarie di qualsiasi grado sociale.
Friedrich Engels […] Già negli anni immediatamente successivi al 1890, Engels descriveva gli individui che “affollano la classe operaia” come “coloro che non hanno niente da sperare dal mondo ufficiale o che non sanno ormai cosa fare di esso: avversari delle vaccinazioni, sostenitori del proibizionismo ad oltranza, vegetariani, antivivisezionisti, guaritori, predicatori di comunità libere che si sono ridotte a nulla, autori di nuove teorie sull’origine dell’universo, inventori senza successo o senza fortuna, vittime di ingiustizie reali e immaginarie… onesti semplicioni e imbroglioni disonesti”.
Spesso sono proprio uomini di tali origini che conferiscono un carattere estremista e fanatico a questi movimenti e costituiscono il loro centro propulsore

Seymour Martin Lipset
“L’uomo e la politica”
Edizioni di Comunità
(Milano, 1963)

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L’OPINIONE PUBICA

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 13 Maggio 2015 by Sendivogius

public propagandaLa chiamano “storytelling”: l’arte di creare storie, incastonate nella propedeutica pedagogica della finzione narrativa, attraverso la semplificazione del messaggio nella fruizione del medesimo, per presupposizione dialogica su funzione proiettiva. Per essere convincente, lo storytelling deve ‘sembrare’ vero, fornendo un “ritratto realistico” (e quindi convincente) di ciò che si intende illustrare. Tuttavia, la sua plausibilità non risponde necessariamente ad un presupposto oggettivo e confutabile con elementi logici, ma ad una principio di realtà che sposta la realizzazione di effetti e benefici nell’indefinitezza di un tempo presunto.
storytellingQuando viene applicato alle tecniche di “management”, lo storytellig si trasforma in format pubblicitario, secondo i meccanismi promozionali che sono propri della comunicazione integrata e che si fondano sulla condivisione di immagini a valenza simbolica, interiorizzate su base emozionale, nella reiterazione del messaggio meglio se strutturato secondo postulati sillogici.
zombiesA livello molto più prosaico, in “politica”, e ancor più quando questa si riduce a marketing elettorale per pubblicitari di successo, l’intera faccenda ha un nome ben preciso…
Si chiama ‘propaganda’.
PropagandaIl concetto era già chiarissimo agli albori del XX° secolo e si sviluppa di pari passo con l’affermazione della società di massa, dove il massiccio ricorso alle tecniche della propaganda è speculare alla costruzione del consenso, per la strutturazione (e mantenimento) del ‘potere’ dipanato nelle sue varie articolazioni sistemiche, che si traduce nella capacità di controllare (ed indirizzare) l’opinione pubblica su larga scala, tramite il filtraggio e la manipolazione delle informazioni con campagne mediatiche mirate.
E.Bernays Lo sapeva benissimo un creativo come Edward Bernays che intuì subito la correlazione esistente tra pubblicità e comunicazione politica: ogni cittadino è un potenziale consumatore che va indirizzato nelle sue scelte, stabilendo una “connettività emozionale” col prodotto che si intende promuovere. E poiché le masse sono sostanzialmente irrazionali, se ne possono manipolare le opinioni e orientarne i gusti, agendo sull’inconscio collettivo, tramite la stimolazione delle paure e dei desideri. Pertanto la contraffazione dei fatti e delle informazioni, attraverso una distorsione cognitiva della realtà è sempre funzionale al raggiungimento del risultato, che poi si traduce nel vantaggio soggettivo di una ristretta oligarchia. Non per niente, Bernays parla senza eufemismi di “manipolazione delle coscienze”, nell’entusiastica conservazione dello statu quo fondato sulla supremazia del Mercato.
Edward BernaysSu presupposti simili, ma per considerazioni completamente diverse, Walter Lippmann ebbe a sottolineare come ciò che l’individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa, Sandmanma su immagini che egli si forma o che gli vengono date. E siccome la maggior parte delle persone vivono in uno “pseudoambiente” dove, in assenza di esperienza diretta, i fatti vengono più ‘pensati’ che ‘vissuti’, la conoscenza di ogni individuo si fonda “su immagini che egli si forma o che gli vengono date”. Pertanto, si tratta di “immagini mentali” in grado di suscitare “sentimenti” contrastanti a seconda delle prospettiva con cui queste vengono inquadrate.
pitture rupestriDi conseguenza, per Lippmann la ‘propaganda’ è lo sforzo di modificare le immagini a cui reagiscono gli individui, di sostituire il modello sociale con un altro.
La scarsità di conoscenze a propria disposizione, unita ai limiti delle proprie esperienze dirette ad alla necessità di semplificazione, conduce alla formazione di “stereotipi” che si configurano come un risparmio di energia mentale e si consolidano nel rassicurante conformismo da cui scaturiscono.

walter lippmann«Nella grande fiorente e ronzante confusione del mondo esterno scegliamo quello che la nostra cultura ha già definito per noi, e tendiamo a percepire quello che abbiamo trascelto nella forma che la nostra cultura ha stereotipato per noi […] Perciò gli stereotipi sono fortemente carichi dei sentimenti che gli sono associati. Costituiscono la forza della nostra tradizione e dietro le loro difese possiamo continuare a sentirci sicuri della posizione che occupiamo»

Walter Lippmann
L’opinione pubblica
Donzelli (Roma, 1995)

In pratica, per Lippmann gli stereotipi sono immagini parziali (e spesso distorte) che gli individui desumono dal “cerchio ristretto” delle proprie conoscenze; ovvero: dalla condivisione puzzlecollettiva dei frammenti si struttura la collettività, che si conforma alla prospettiva di maggioranza secondo un’ottica comune. I contatti con il mondo esterno, fuori dalla portata di un’esperienza empirica e diretta, vengono mantenuti e filtrati in immagini emozionali da una serie di autorità cognitive, dalle quali il ‘cittadino’ riceve gli stimoli cognitivi ed affettivi e su questi costruisce le proprie opinioni. Le “autorità cognitive” (media, personaggi pubblici, organizzazioni) contribuiscono alla formazione di una volontà comune, in cui si distinguono capi e seguaci.
Walter Lippmann - DemocracyVa da sé che la cosiddetta “opinione pubblica” non è mai un soggetto con cui relazionarsi, ma un oggetto da manipolare ai propri fini.

«I capi spesso fingono di aver semplicemente scoperto un programma che esisteva già nelle teste del loro pubblico. Quando lo credono, di solito si ingannano. I programmi non nascono contemporaneamente in una moltitudine di cervelli. E questo non perché una moltitudine di cervelli siano necessariamente inferiori a quelli dei capi, ma perché il pensiero è la funzione di un organismo, e una massa non è un organismo.
Questa realtà non appare chiaramente perché la massa è costantemente esposta a suggestioni. Non legge le notizie, bensì le notizie avvolte in un’aurea di suggestione, indicante la linea di azione da prendere. Ascolta resoconti non oggettivi come sono i fatti, ma già stereotipati secondo un certo modello di comportamento. Così il capo apparente scopre che il capo reale è un potente proprietario di giornali.
[…] Nella prima fase, il capo dà voce alle opinioni prevalenti della massa. Si identifica con gli atteggiamenti comuni del suo pubblico, talvolta sbandierando il suo patriottismo, spesso toccando una rivendicazione. Stabilito che ci si può fidare di lui, la moltitudine che stava vagando qua e là può incanalarsi verso di lui. Ci si aspetterà allora che esponga un piano d’azione, ma egli non troverà questo piano negli slogan che esprimono i sentimenti della massa. Questi slogan spesso non lo indicheranno nemmeno. Dove la politica incide molto alla lontana, quello che è essenziale è che il programma all’inizio si riallacci verbalmente ed emotivamente a quello a cui la moltitudine ha già dato voce. Gli uomini che riscuotono fiducia possono, sottoscrivendo simboli accettati, fare molta strada per conto loro senza spiegare la sostanza del loro programma

Walter Lippmann
L’opinione pubblica
Donzelli (Roma, 1995)

Lippmann scriveva nel 1922, ma le sue parole potrebbero valere benissimo anche per l’oggi.
La comunicazione di massa, opportunamente veicolata ed eterodiretta, si fa portatrice di quel carico di suggestioni, fungendo da cassa di risonanza, riducendo la partecipazione a fruizione passiva di un messaggio appositamente confezionato per il consumo allargato. In proposito, il sociologo Robert K. Merton parlava di “disfunzione narcotizzante” dei mass-media.
GOEBBELSSi parva licet componere magnis, la piccola narrazione renziana, rapportata al contorno di tribuni e capetti politici variamente assortiti, non fa eccezioni. Ne persegue le medesime matrice lungo le direttive di una retorica propagandistica, tutta imperniata sul mantra salvifico delle “riforme” che, per l’appunto, hanno ormai sostituito l’inconsistenza sostanziale del “programma”, stimolando l’immaginario di un’opinione destrutturata a dimensione pubica.

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GLOBALISMO

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , , , , , , , , , , on 5 gennaio 2015 by Sendivogius

Immortal ad vitam

Teorico della “società del rischio” (da cui il nome della sua opera più famosa), Ulrich Beck è stato uno dei massimi studiosi dei processi della globalizzazione nelle moderne società di massa delle quali ha analizzato le dinamiche e teorizzato gli effetti, attraverso la “pluralizzazione conflittuale dei rischi” e della loro definizione. Seguendo l’incidenza dei mutamenti su una società sempre più in bilico tra individualizzazione ed atomizzazione, ha contribuito a delinearne i profili.
Beck,-Ulrich-(R.-Schmeken) Nell’ambito della critica sociologica, Ulrich Bech, pur pervaso da un inguaribile ottimismo e con l’occhio sempre attento alla peculiarità tedesca, è stato uno dei più lucidi interpreti della “modernità” della quale ha saputo tracciare le nuove prospettive in un mondo globalizzato, che sapeva investigare come pochi. Ne ha rilevato le trappole concettuali, fornendo sempre nuove chiavi di lettura per potersi orientare in una realtà convulsamente asimmetrica. Distinguendo nettamente tra “globalismo” e “globalizzazione”, mette in discussione la “metafisica del mercato mondiale” con la sua mistica neo-liberale, rivendicando la politicità di una società cosmopolita e policentrica nella sua multidimensionalità su scala mondiale.
Con la scomparsa di Herr Bech, perdiamo una finestra affacciata sulla complessità degli eventi.

helmetMetafisica del mercato mondiale

«Il globalismo riduce la nuova complessità della globalità e della globalizzazione ad un’unica dimensione – quella economica – che viene anche pensata in maniera lineare, come tutto ciò che dipende permanentemente dalle regole del mercato mondiale. Tutte le altre dimensioni (globalizzazione ecologica, glocalizzazione cultura, politica policentrica, il sorgere di spazi e di identità transnazionali) vengono generalmente tematizzate solo presupponendo il dominio della globalizzazione economica. La società mondiale viene così ridotta e contraffatta nella società mondiale del ‘mercato’. In questo senso, il globalismo neo-liberale è una manifestazione del pensiero e dell’agire “unidimensionali”, un’espressione della visione del mondo “monocasuale”, cioè dell’economicismo. Fascino e pericolo di questa nient’affatto nuova metafisica della storia del mercato mondiale traggono origine da un’unica fonte: il bisogno, anzi la smania di semplificare, per orientarsi in un mondo divenuto indecifrabile.
Quanto questa metafisica del mercato mondiale renda ciechi lo si vede nelle discussioni sulla riforma delle pensioni.
[…] Quando, in economia e in politica, i neoliberali sostengono che il sistema pensionistico è antieconomico, poiché lo stesso denaro potrebbe essere investito in modo più redditizio in fondi pensione privati, essi dimostrano una volta di più che del significato politico-culturale di queste cose capiscono quanto i sordi della musica. Infatti, da un lato le pensioni assicurano anche quelli che non pagano contributi per esse, come gli altri membri della famiglia (moglie e figli), e dall’altro i datori di lavoro sono fatti partecipare ai costi.
Wolfgang Schäuble[…] Quel che c’è di spregevole quando si parla delle pensioni come di un “sistema collettivo di coercizione” (Wolfgang Schäuble) è che con ciò viene diffamato e sacrificato un pezzo di solidarietà sociale, e proprio da parte di quelli che più di tutti lamentano la perdita dei valori tradizionali.

Il cosiddetto libero mercato mondiale

Il globalismo leva un inno al libero mercato mondiale. Si sostiene che l’economia globalizzata sia destinata ad aumentare il benessere in tutto il mondo e con ciò ad eliminare situazioni sociali insostenibili. Anche nella tutela dell’ambiente, così si dice, si possono ottenere progressi tramite il libero mercato, poiché il meccanismo della concorrenza contribuirebbe alla protezione delle risorse e indurrebbe ad un rapporto non aggressivo con la natura.
Con ciò viene tuttavia trascurato intenzionalmente il fatto che viviamo in un mondo infinitamente lontano da un modello di libero mercato fondato sui vantaggi che possono derivare dalla comparazione dei costi à la David Ricardo. L’alta disoccupazione nel cosiddetto terzo mondo e nei paesi postcomunisti d’Europa costringe i governi di questi paesi a praticare una politica economica orientata alle esportazioni a spese degli standard ecologici e sociali. Con basse retribuzioni, spesso con condizioni di lavoro pessime ed estromettendo di fatti i sindacati, questi paesi concorrono l’un contro l’altro e con i ricchi paesi dell’Ovest per assicurarsi capitale straniero.
L’affermazione per cui il mercato mondiale rafforza la competizione e porta ad un abbassamento dei costi, del quale alla fine tutti approfittano, è notevolmente cinica. Non si dice che ci sono due modi di abbassare i costi: o tramite un’accresciuta redditività (miglior tecnologia, organizzazione, ecc.) oppure tramite l’abbassamento degli standard di produzione e lavoro umani. Le aziende ricavano di più, ma solo grazie ad una caduta della qualità dei prodotti e dei servizi offerti.

Drammaturgia del rischio

[…] Anche la pretesa di insediare sua maestà il marco tedesco sul trono dei rapporti sociali è tutt’altro che nuova….
Il globalismo trae il suo potere solo in piccola parte dal suo effettivo verificarsi. Il potere del globalismo deriva per lo più dalla messa in scena della minaccia: domina il “potrebbe essere”, il “dovrebbe essere”, il “se…allora”.
Ciò da cui le imprese transnazionali traggono il loro potere è dunque una specie di società del rischio. Non il “malaugurato verificarsi” dell’effettiva globalizzazione economica, come ad esempio il completo trasferimento di posti di lavoro in paesi dai bassi salari ma, prima ancora, la di minaccia di ciò: il gran parlare che se ne fa provocano paure, spaventano e costringono infine gli antagonisti politici e sindacali a fare ciò che la “disponibilità agli investimenti” richiede, per evitare qualcosa di ancora peggiore. L’egemonia semantica, la paura del globalismo fomentata pubblicamente è una fonte di potere, dalla quale il sistema industriale ricava il suo potenziale stretegico.

Assenza di politica come rivoluzione

Il globalismo è un virus che ha colpito ormai tutti i partiti, tutte le sedi, tutte le istituzioni. Il principio su cui si base non ha a che vedere solo con la politica dei profitti, ma sul fatto che tutti e tutto – politica, scienza, cultura – sono sottomessi al primato dell’economico.
[…] Una sorta di setta religiosa i cui seguaci e profeti non distribuiscono volantini alle uscite della metropolitano, ma annunciano la salvezza del mondo ad opera del mercato.
Il gloabalismo neoliberale è a tale riguardo una manifestazione altamente politica, che si esprime però in modo completamente impolitico. Mancanza di politica come rivoluzione! L’idea di questo globalismo è: non si agisce ma si ubbidisce alle leggi del mercato mondiale, le quali costringono a ridurre al minimo lo Stato (sociale) e la democrazia

Ulrich Beck
Che cos’è la globalizzazione
Carocci Editore Roma, 1999.
(Pagg 142-146)

cartoon_globalization1Era il 1997 e la grande depressione del XXI secolo non esisteva nemmeno nelle ipotesi di scuola.
Helghast SenatusL’Europa non s’era ancora trasformata in un moloch tecnocratico dalle pulsioni sempre più totalitarie… L’euro non era ancora stato posto in gestazione (ad immagine e somiglianza del marco tedesco), mentre al suo posto circolava un famigerato prototipo chiamato ECU: come surrogato, fu un mezzo disastro a precorrimento dei successivi sviluppi…

Suora

Il Telemaco di Firenze probabilmente sgambettava ancora in braghette di tela nel cortile dell’oratorio, mentre l’allora centrosinistra si suicidava sotto le fragile fronde dell’Ulivo… Il papi fanfaroneggiava di milioni di posti di lavoro…. Ed il peggio era ancora da venire.

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Rivoluzionari da Oratorio

Posted in Business is Business, Muro del Pianto with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 4 Maggio 2014 by Sendivogius

Le suorine di Clovis Trouille

Nel suo consueto rapporto annuale, dedicato al decubito della società italiana, il CENSIS conferma i referti clinici precedenti e raddoppia la dose omeopatica con spruzzate di cauto ottimismo, compensando la formula della felicità (connettività mutualistica tra soggetti sociali diversi) con la scoperta dell’acqua calda: con la crisi crescono le disuguaglianze sociali; “chi più aveva, più ha avuto”.
Ovvero, in Italia la recessione economica si è rivelata una formidabile occasione di arricchimento per i già ricchissimi, che hanno visto un incremento esponenziale dei loro patrimoni, a discapito di tutto il resto della popolazione, che nella scala della promozione sociale retrocede qualche dozzina di caselle indietro.
Scrupoloso come sempre, il Censis ci aggiorna che:

«I 10 uomini più ricchi d’Italia dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500.000 famiglie operaie messe insieme. Poco meno di 2.000 italiani ricchissimi, membri del club mondiale degli ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a 169 miliardi di euro (senza contare il valore degli immobili): cioè lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella del 4,5% della popolazione totale.
[…] L’1% dei “top earner” (circa 414mila contribuenti italiani) si è diviso nel 2012 un reddito netto annuo di oltre 42 miliardi di euro, con redditi netti individuali che volano mediamente sopra i 102mila euro, mentre il valore medio dei redditi netti dichiarati dai contribuenti italiani non raggiunge i 15mila euro. E la quota di reddito finita ai “top earner” è rimasta sostanzialmente stabile anche nella fase di crisi

E se per qualcuno è Natale tutto l’anno, per molti altri il tempo di Quaresima sembra non finire mai…

«Sono quasi 6 milioni gli occupati che nell’ultimo anno si sono trovati a fare i conti con una o più situazioni di instabilità e precarietà lavorativa. Un’area di disagio che rappresenta il 25,9% dei lavoratori e che può essere riconducibile all’instabilità lavorativa (che interessa una platea di 3,5 milioni di persone tra lavoratori a termine, occasionali, collaboratori e finte partite Iva) e alla sottoccupazione (relativa ai 2,8 milioni che vorrebbero lavorare più di quanto non facciano, ma non riescono per motivi che non dipendono da loro: tra questi vi sono 2.219.000 part-time involontari, ma anche cassaintegrati). Una situazione di precarietà e incertezza che va sempre più diffondendosi tra i lavoratori, considerato che tra il 2007 e il 2012 mentre il numero totale degli occupati è diminuito (-1,4%), quello di quanti si trovano in una delle condizioni descritte è invece cresciuto dell’8,7%.»

“47° Rapporto sulla situazione sociale del Paese”
CENSIS; rapporto annuale 2014 (Cap.IV)

Tear Dinanzi ad un corpo sociale spossato dalla crisi, che chiede soltanto la garanzia di un reddito dignitoso da lavoro sicuro (e possibilmente stabile), il governo rivoluzionario del Bambino Matteo, coi suoi pucciosi chierichetti da chiostro fiorentino, non poteva certo restare insensibile, con tutta la propensione al dialogo che contraddistingue questa saccente nidiata di boy-scout. Da segnalare, nell’ambito del cerchio magico, il pragmatismo del nuovo responsabile economico, Filippo Taddei, professore americano non abilitato in Italia. Il problema più grande della fuga dei “cervelli” (?) all’estero è che prima o poi ritornano… Sempre!
pucciosoOvviamente, l’esecutivo dei miracoli col suo Mosé in testa non interviene sulle tutele e sulla stabilizzazione lavorativa; meno che mai sui livelli salariali e sulla giungla contrattuale delle collaborazioni mascherate.
moseRecependo appieno le richieste dei lavoratori, e massimamente quelle dei lavoratori flessibili, il solito provvedimento blindato (che ormai il Parlamento è inutile ed il Senato da abolire) istituisce per decreto la precarietà a vita, onde non alimentare false speranze ed inutili aspettative che poi gli schiavi si montano la testa.
coniglio darkoPertanto, giusto in concomitanza con la “festa dei lavoratori”, dal cilindro di fuffa e di governo ecco spuntare l’ennesima bozza, peggiorata e corretta, del mitologico Jobs Act. In pratica, la traduzione anglofona dello “Statuto dei lavori”, tanto caro a quel Maurizio Sacconi (ovviamente promosso a presidente della Commissione lavoro al Senato), che infatti è parte integrante di quest’ennesimo “governo del fare”: dai papi-boys ai papa-boys.
Abolito da tempo ogni straccio residuo dell’Art.18, nei fatti svuotato di senso e di sostanza, il gabinetto di salute pubblica nell’ordine stabilisce:
a) L’eliminazione di ogni causale circa i motivi del ricorso dei contratti a termine; che poi alle “risorse umane” si spremevano troppo le meningi, giacché nella soprannaturale ipotesi di un controllo di verifica sarebbe difficile dimostrare come “l’assunzione temporanea derivante dall’incremento delle attività di produzione” si verifichi quasi sempre in concomitanza coi turni festivi, notturni, scioperi, o campagna di prepensionamenti.
b) L’introduzione di una multa pecuniaria, e soprattutto irrisoria visto che difficilmente supererebbe i 5.000 euro e subito verrebbe condonata, per ogni violazione contrattuale e che peraltro va corrisposta all’erario e non al lavoratore precarizzato, che non ha alcuna contropartita.
c) Il ricorso abnorme all’apprendistato, che è un modo perfetto per sottrarsi agli oneri contributivi ed erogare salari al di sotto del minimo contrattuale, senza nemmeno la certezza di stabilizzazione per i più ‘meritevoli’ (il 20% della quota di apprendisti) alla fine del periodo di sfruttamento legalizzato. La stabilizzazione è rimessa alle aziende con oltre 50 dipendenti, dove la stragrande maggioranza delle mansioni generiche alle quali vengono destinati gli ‘apprendisti’ non richiede requisiti ed abilità, tali da non essere acquisite in una dozzina di giorni di lavoro.

receptionist_monkey

L’assoluta assenza di ogni riferimento salariale, adeguamento retributivo e sostegno al reddito da lavoro (a parte la marchetta elettorale degli 80 euri mensili, per giunta a corto di coperture), con le dinamiche salariali rimesse all’azione miracolistica di un mercato saggiamente guidato dalla mano invisibile della provvidenza, ricordano per molti versi la Legge bronzea dei salari di David Ricardo, clamorosamente riportata in auge dagli economisti neo-classici che ispirano il modello liberista vigente. Legge di bronzo, come le facce di chi la sottende, che può essere riassunta nelle parole che Emile Zola mette in bocca al nichilista russo Souvarine in Germinal:

«Aumentare il salario, che forse si può? Una legge di ferro lo fissa allo stretto necessario; all’indispensabile, perché l’operaio possa mangiare pane e sputo e procreare dei figli. Se il salario scende sotto quel livello, l’operaio crepa; e la richiesta di nuovi operai lo fa risalire. Se supera quel livello, cresce l’offerta di manodopera e lo fa calare. È l’altalena delle pance vuote, la condanna a vita alla galera della fame

 Emile Zola
“Germinal”
 Einaudi, 1951

Per capire l’impianto ispiratore della contro-riforma e lo spirito che ne ispira l’essenza, basta leggere le dichiarazioni di Angelino Alfano, il kazako alla destra del Kazzaro:

Angelino AlfanoAbbiamo dovuto vincere alcune resistenze della sinistra post comunista, e devo dire che la collaborazione con la sinistra che non è comunista guidata da Matteo Renzi sta dando davvero ottimi frutti. Abbiamo smontato la Legge Fornero (che già faceva schifo di suo!) e abbiamo inserito tanto Marco Biagi. Vuol dire meno vincoli, meno regole, più libertà per gli imprenditori e regole più semplici per chi fa le assunzioni. Il nostro obiettivo è semplificare la vita.”

Poi certo bisogna vedere a chi viene semplificata la vita ed a quali altri viene resa impossibile…
Indubbiamente, questo è uno dei capolavori migliori nel mazzo del riformatorio targato Renzi, che sceltosi bene gli amici (Alfano, Cicchitto, Formigoni, Sacconi, Berlusconi..) non ha alcun problema ad attaccare i nemici: i “sindacati” in primis ed uno in particolare (la CGIL), ma anche i “professoroni” (termine che contiene in nuce tutto il disprezzo che solo il populismo fascistoide ha per gli intellettuali), e ovviamente la “sinistra” (e non solo la pletora di rottami in stato catatonico a manca del partito bestemmia).

Grillo-Renzi-Berlusconi ipnosi

Tuttavia, nell’Italietta abulica dei ducetti allo sbaraglio, il panorama è desolante per una scelta politica sostanzialmente inesistente, se non circoscritta alle tifoserie da fanclub.
Dinanzi al livello crescente di insofferenza ed assenteismo elettorale, nel distacco sempre più marcato tra cittadinanza e rappresentanza, viene in mente la secessione della plebe romana sul Monte Sacro… Parodiando il celebre apologo di Menenio Agrippa, qui non ci troviamo di fronte ad uno stomaco che tutto fagocita e poi (non) ridistribuisce.
Il NullaNel caso attuale, abbiamo due mani completamente separate dal corpo che gesticolano a vuoto, digitando tweet, con una bocca perennemente ridente che si profonde in proclami e scadenze.
Alle sue spalle, in più bassi anfratti, una sacca biliare che rigurgita livori gastrici a getto continuo, che nella sua crassa ignoranza intestinale sproloquia in peti e si produce in grappoli emorroidali.
Davanti a vista, la protuberenza oscena e circoscritta nella sua impotenza da neoplasia prostatica; penoso e penale, nelle sue pene da postribolo basso imperiale.
É la variante oscena del mostro politico a tre teste di invenzione ciceroniana… Nella fattispecie abbiamo un’Idra tricefala, innestata su di un unica cloaca e che si nutre dei medesimi liquami.

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L’Idiota in politica

Posted in Muro del Pianto with tags , , , , , , , , , , , , , , on 21 marzo 2014 by Sendivogius

Cobra wants you - by Mcarson

Speculare al concetto di Civiltà, la nobile arte della Politica ha origini antichissime, quando un gruppo di cittadini con parecchio tempo libero a disposizione scoprì che per curare gli interessi propri e quelli della comunità di appartenenza era molto più pratico riunirsi in assemblee deliberanti, più o meno allargate, piuttosto che sfidarsi in combattimenti all’ultimo sangue, dando la stura a faide tribali tra clan rivali. In sostanza è un metro di misura, indice di “urbanità”. Ovviamente le cose non migliorarono. Semplicemente mutarono. Ed i vecchi clan familiari si costituirono in fazioni in lotta per l’egemonia. La gestione del potere divenne dunque una faccenda alquanto sofisticata. Per sua stessa natura, la Politica è strettamente connessa con l’amministrazione della “Polis” (la città) e si interessa da sempre alla “res publica” (la cosa pubblica), con risultati mutevoli come l’animo dei contendenti.
idiot-clown-looking-for-soldiersNata in contrapposizione all’imbelle insipienza degli “idioti” (coloro che pensano ai fatti propri nel loro esclusivo vantaggio), specialmente se rapportata al caso italiano, la Politica ha finito per privilegiare l’interesse di questi ultimi sopra ogni altro aspetto, tanto che tra “politica” ed “idioti” la differenza risulta attualmente minima se non indistinguibile. A tal punto che più che mai si può parlare di predominanza dell’idiota in politica.
Forse ciò avviene perché la “folla”, nell’anomia massificata e opportunisticamente canalizzata nei rituali formali del voto organizzato, nell’immagine amplificata dell’idiota tende a riconoscere se stessa e che in fondo costituisce una figura rassicurante. Adora i Re Travicello e ignora (come giustamente è stato fatto notare) che dopo questi arrivano sempre le serpi.
Sostanzialmente incapace di analisi strutturali dalla minima complessità, che vadano oltre il piagnisteo familista e l’invettiva da bar sport, l’italiota medio è perennemente in bilico tra integrati e apocalittici, a seconda del tornaconto personale che il “sistema” è in grado di garantirgli o meno…
Chiusi nel pantano di una politica più desiderante che deliberante, tra imbonitori politici e venditori di sogni in saldo elettorale, per capire meglio la situazione nostrana, a volte è utile rimettersi allo sguardo clinico e stupido dell’osservatore straniero avvezzo alle cose di casa nostra.
È il caso dell’antropologa francese Lynda Dematteo, che rielaborando la sua tesi di laurea, nel 2007 pubblica il suo saggio più famoso (L’idiota in politica), strutturato come uno studio etnografico, interamente dedicato ad Umberto Bossi ed alla sua Lega Nord.
In proposito, è curioso notare come certe considerazioni incentrate sulla specificità leghista siano perfettamente sovrapponibili al M5S ed alle sparate del suo truce e_guru virtuale. Si parla di Umberto Bossi, ma sembra Beppe Grillo.
Trova le differenzeD’altronde non è un mistero che i fascisti digitali della setta pentastellata abbiano assorbito il grosso dell’elettorato leghista, tanto che ad oggi il moVimento sembra, per linguaggio e modalità, esserne l’erede più diretto. La chiave del successo di questo ennesimo partito antisistema, nella medesima pretesa “rivoluzionaria”, probabilmente risiede nell’aver proiettato il suo revanchismo protestatario oltre i miti neo-völkisch dell’etnonazionalismo padano, introiettando l’inestirpabile qualunquismo italiano con il suo substrato fascistoide, in tutta la sua carica poujadista dilatata su scala nazionale. La componente stalinista-giacobina degli Enragés anti-casta non è altro che una sua integrazione. jean-paul-marat-aroused-hatred-in-the-hearts-of-the-paris-mobsTutto il resto, dalle menate mistico-esoteriche di Casaleggio, al ruolo salvifico del webbé, sono poco più che folklore coreografico, per impressionare i neofiti della setta. Perché è noto che più che gli apprendisti stregoni ad impressionare l’immaginario collettivo degli italiani solitamente sono i buffoni con le loro mirabolanti promesse. E, in genere, più sono volgari e analfabeti, più piacciono; giacché lo spirito dell’ineffabile italiota sembra incapace di elevarsi al di sopra delle propria cintola, mentre circola con la patta aperta…

L'Idiota in politica«Nei confronti di chi li governa gli italiani hanno un atteggiamento di disincanto e di distacco, che denota un rapporto molto particolare con la dimensione politica. In tale contesto il gioco dell’idiozia risulta terribilmente efficace poiché, pur generando un’inevitabile disapprovazione, suscita una forma di divertita indulgenza.
[…] (Bossi/Grillo?) È il giullare che non rispetta niente e nessuno, nemmeno il papa; può dire tutto poiché viene ritenuto non responsabile delle proprie affermazioni e, in genere, i suoi attacchi sono particolarmente irriverenti perché indirizzati verso temi o persone che godono di rispetto. Come il tradizionale buffone, opera sul registro dell’ambiguità. Il suo obiettivo fondamentale è insinuare il dubbio in chi lo ascolta, impedendogli di cogliere i veri fini o la natura del suo discorso, per poterlo circuire meglio

  Lynda Dematteo
L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord
Feltrinelli (2011)

In fondo, si tratta del solito “teatrino” politico, tanto stigmatizzato a parole quanto prediletto nei fatti. Non v’è tragedia in questo, perché la preminenza risiede tutta nella farsa…

«La strategia comunicativa del leader corrisponde alle tradizionali modalità d’azione della Commedia dell’Arte. Con lui la pratica politica perde qualsiasi significato, si riduce ad una serie di effetti prodotti da dichiarazioni, minacce, pernacchie, promesse tanto inopinate quanto impossibili da mantenere: si tratta essenzialmente di spettacolo.
Anche se le dichiarazioni di Jean-Marie Le Pen rievocano talvolta le provocazioni del leader della Lega, i francesi non ridono di Le Pen come fanno gli italiani di Bossi, poiché quest’ultimo non incute alcun timore, suscita solo compassione.»

Tuttavia, il palcoscenico più congeniale a simili rappresentazioni è più che altro il palco dei cabaret; la sua modalità d’azione preferita sono i siparietti di avanspettacolo.
La SalmaIn questo, almeno dall’ascesa di Mussolini in poi, l’Italia ha sempre fatto da precursore per lo sdoganamento dei personaggi più improbabili e dei fenomeni più beceri nell’ambito della rappresentanza politica, personalizzata a misura di cialtrone (Bossi, Berlusconi, Grillo…), in una degenerazione generale della Democrazia tanto preoccupante da sembrare irreversibile.

«Come può una persona che detiene il potere essere tanto ignorante quanto irresponsabile? E che cosa comporta questo in termini di rappresentazione politica? Peraltro, si tratta di un fenomeno non circoscritto unicamente alla situazione italiana: George W. Bush è stato ridicolizzato in tutto il pianeta per la sua idiozia nel corso dei suoi due mandati presidenziali. Ci troviamo forse di fronte ai sintomi di un provincialismo che si sta progressivamente facendo largo in Europa e negli USA, poiché l’Occidente non è in grado di reggere le conseguenze della globalizzazione di cui pure è stato promotore?»

G.W.Bush

A tal proposito si potrebbe parlare di trionfo universale dell’idiota, tanto il fenomeno sembra radicato ed in piena espansione…

«L’uso della parola “idiota” impone qualche precisazione. Idiota, in senso etimologico, significa “uomo del luogo” ed è un termine la cui radice greca vuol dire “particolare”. Per gli antichi greci idiota era colui che non aveva accesso alla dimensione universale, quello che viveva ancora nella caverna, o meglio, nella sua caverna. Secondo gli ateniesi, i più stupidi erano i loro vicini più prossimi, quelli che abitavano ai margini della polis. Il termine fu appositamente coniato per definire quei soggetti, tuttavia gli ateniesi sapevano di avere degli “idioti” anche all’interno della loro città: i cinici.
Idiota è dunque il soggetto votato alla più irriducibile autoctonia e al ripiego identitario. Quando un simile soggetto valica i confini del proprio universo culturale, si comporta spesso in modo improprio e grottesco. Preso singolarmente o all’interno della cerchia più o meno ampia dei familiari, nessuno è idiota; i problemi cominciano fuori, quando si passa da un universo simbolico noto a un universo poco, o per nulla, conosciuto. Quando mancano i codici che governano questi mondi, si adottano comportamenti che risultano sconvenienti, se non addirittura fuori luogo. In un certo senso la dimensione dell’idiozia ci riguarda un po’ tutti. Entrando in contatto con mondi e universi diversi dal suo, l’antropologo ne fa addirittura una professione; la sua abilità dipende proprio dalla capacità di uscirne. Al contempo è “misurandosi con la propria idiozia” che riesce a cogliere il suo oggetto di studio.
Di fronte alla nostra idiozia possiamo adottare due atteggiamenti: possiamo ridurla mostrando empatia nei confronti degli altri, oppure possiamo “fare gli idioti”, chiudendoci in noi stessi, contro tutti e contro qualsiasi sollecitazione proveniente dall’esterno

La Setta dei Pentastellati

In una commistione costante di linguaggi e registri stilistici, è la Darth Vader condomcacofonia parolaia del “Capo” a prevalere sui contenuti, fino a sostituirsi ad essi, senza alcuna preoccupazione per il mantenimento di una coerenza narrativa o una logica costruttiva misurata nel tempo. Si recita a soggetto, con la maschera più funzionale al momento.
Nel brano si parla di Umberto Bossi, ma potrebbe benissimo essere un Grillo…

«Nella tradizione italiana, a definire la maschera è il linguaggio: ogni maschera ha i suoi precisi connotati linguistici che le danno immediata riconoscibilità. Le performance di Umberto Bossi sono deplorevoli, ridicole, scandalose. Per la maggior parte degli italiani è il “tipico italiota” della scena politica. È l’iniziatore di una vera e propria “rivoluzione del linguaggio” destinata a disintegrare il “politichese” e a segnare il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Fino a oggi gli analisti italiani non hanno sviscerato in profondità i discorsi del leader della Lega Nord. La maggior parte ritiene che la forma dequalifichi il significato, ma si tratta di una lettura un po’ troppo superficiale delle sue performance stilistiche. Umberto Bossi non è un tribuno nel senso classico del termine: i suoi discorsi contravvengono a qualsiasi regola di ars oratoria, assolvono principalmente alla funzione dello “sfogo”. La violenza del linguaggio è l’esatta misura del discredito in cui è piombata la classe politica italiana a partire dagli anni ottanta. I suoi comizi sono improntati sulla diatriba. Le sue rocambolesche ricostruzioni storiche contengono accuse inverosimili; il suo discorso è privo di sviluppo, è fatto di digressioni legate le une alle altre da parole d’ordine scandite in alcuni precisi momenti per inculcare il messaggio nella testa delle persone.
Il linguaggio di Bossi pretende di essere naturale e viscerale, ma suscitando emozioni genera l’effetto di annullare qualsiasi distanza critica. Presenta registri molto diversi: discorsi filosofici, considerazioni ingenue e insulti. L’obiettivo è anzitutto fuorviare l’uditore: incoerenze, trovate strampalate, rimproveri inattesi suscitano il riso a dispetto della veemenza dei contenuti.
[…] La sua inventiva contribuisce a determinarne il successo. Più che il contenuto è la forza delle immagini evocate a trasmettere le sue convinzioni, ed è lo stesso Bossi ad attribuire una funzione pedagogica al suo strano linguaggio: “Con la gente devi semplificare e caricare, devi fare brillare i colori”. Coinvolge spesso il suo uditorio per fargli capire meglio gli intrighi del “Palazzo” in cui lui, uomo del popolo, è riuscito a introdursi. Spiegando le dinamiche del “Palazzo” in modo completamente fantasioso è riuscito a trascinare persone che non avevano mai fatto politica

Oggi il “Palazzo” è stato sostituito col termine altrettanto ondivago ed onnicomprensivo di “Casta”, ma la sostanza rimane invariata.
VaderÉ un inseguimento al ribasso degli umori delle folle. Linguaggio, tempi, interventi, sono calibrati unicamente verso la cooptazione del consenso puro e semplice, senza una reale prospettiva d’intenti, secondo un susseguirsi di luoghi comuni e stereotipi improntati alla massima semplificazione.

«Si tratta infatti di un linguaggio semplice e concreto, radicato nella quotidianità dell’italiano medio, usato per risultare immediatamente comprensibile, pieno di stereotipi tanto linguistici quanto sociali. Le dicotomie semantiche impiegate tratteggiano un mondo manicheo in cui i “nemici” sono chiaramente identificati. L’uso dei luoghi comuni rappresenta il punto di forza della propaganda leghista, poiché permette di stabilire un legame immediato con quanto gran parte delle persone già pensa e dice senza rifletterci.
Talvolta, è difficile seguire gli sviluppi delle argomentazioni di Bossi. I suoi discorsi evocano la glossolalia di alcuni malati di mente che costruiscono un idioma personale sulla base di neologismi organizzati secondo una sintassi rudimentale. Molti italiani credono che Bossi utilizzi parole a caso senza conoscerne il senso o attribuendogli un significato che solo lui conosce. La dimensione infantile di alcune espressioni completa il quadro clinico. L’aspetto delirante dell’insieme confonde il tenore del messaggio ideologico: il personaggio che asserisce simili assurdità con un linguaggio così insolito non può essere preso sul serio.»

In questo, la maschera è funzionale al successo di personaggi caricaturali, prossimi al giullare, persi nei frizzi dialettici di in un eterno carnevale: destabilizzante eppur rassicurante nella sua finzione scenica consacrata al trionfo delle mediocrità…

«Nei “riti di inversione di status”, generalmente la maschera riveste una funzione ben precisa: incute paura (non eccessiva) per accelerare il cambiamento e dissolvere le tensioni che attraversano la società

La metamorfosi così intrapresa, la fusione con la “maschera” indossata è tale che il Capo stesso…

«..si comporta come una maschera che trasgredisce le norme e che, realizzando un rovesciamento di status, permette a persone marginalizzate, provenienti da gruppi sociali e/o politici diversi, di ricrearsi un’immagine positiva di sé affermando la propria padanità contro il sentimento della maggioranza degli italiani. Realizza un riscatto

Sostanzialmente, è l’appagamento effimero del mediocre che non sa elevarsi oltre i limiti della propria ignoranza, elevata a motivo di vanto ed esibita senza vergogna, in un sostanziale vuoto di proposte e di argomentazioni per deficienza congenita…

«Gli attacchi personali sono sistematici e ad essere messa in discussione non è mai la politica dell’avversario, bensì l’avversario stesso. La vita politica italiana si riduce allora a relazioni di potere tra persone e diventa un teatrino.
[…] Irridendo i suoi avversari, nega loro qualsiasi valore in quanto dirigenti politici. A differenza dell’ingannatore che cerca di trarre vantaggio dalla sua vittima, lo sbeffeggiatore afferma la propria superiorità, gratuitamente e semplicemente per il piacere di sentirsi superiore. Questa forma attenuata di violenza in genere è l’arma dei deboli.
[…] I suoi discorsi sono spesso logorree noiose e penose che, senza alzate di voce, senza insulti di carattere sessuale o scatologico, farebbero fuggire i fedeli

  Lynda Dematteo
“L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord”
Feltrinelli (2011)

Ed in questo gli allievi superano nettamente i (pessimi) maestri, giacché al peggio sembra non esserci mai fine…

MASS-ATTACK!

Posted in A volte ritornano, Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 6 marzo 2014 by Sendivogius

LUKAS

In un’epoca all’apparenza complicata come la nostra, dove (tra società liquida, post-democrazia, tecnocrazia, mediocrazia, iper-democrazia…) i neologismi si sprecano, per spiegare ciò che nella sua polverizzazione semantica sfugge ad una catalogazione certa, in abbondanza di interpretazioni, forse è il caso di (ri)dare la parola ad un Autore che ‘complicato’ lo fu davvero. Non foss’altro perché nella poliedricità del suo pensiero, le etichettature gli vanno sicuramente strette, con tutta la banale semplificazione che ciò sempre comporta. Il riferimento è allo spagnolo José Ortega y Gasset: sincero liberaldemocratico ed icona del pensiero conservatore; ostensore del primato della ‘tecnica’, ma raffinato umanista e filosofo (che di competenza scientifica non ne aveva alcuna). Elitista e vagheggiante propugnatore di una nuova aristocrazia dello spirito, è un individualista convinto, ma impermeabile ad ogni forma di discriminazione. Intriso di idealismo tedesco, spazia dal razionalismo scientifico alla metafisica (senza dimenticare Cartesio), passando per lo storicismo, per approdare ad una originale sintesi sincretica tra esistenzialismo e vitalismo nietzschiano. Ammiratore del liberalismo anglosassone e avverso ad ogni dispotismo (specialmente se di matrice ‘statalista’), si ispira quanto mai alle opere di un fiero reazionario (ma non razzista) come Oswald Spengler, con la sua statolatria autoritaria, ed alla filosofia dell’ermetico Martin Heidegger, con le sue simpatie naziste ed il sedimentato antisemitismo.
Ortega y GassetIn sommi capi, secondo Ortega y Gasset, per avere una visione quanto più organica possibile della realtà, è necessario mettere insieme e collegare le diverse prospettive individuali, onde delineare i contorni di uno schema concettuale unitario, tanto più completo quanto più ampia è la sommatoria delle diverse prospettive e tutte degne di interesse.
Con ampio anticipo, quello che il filosofo iberico paventa è un’iperdemocrazia ostaggio della superficialità umorale delle masse, consegnate nell’anonimato della loro mediocrità (e ignoranza) alla manipolazione emotiva attraverso stimoli indotti, nella costante riduzione dei problemi ad una estrema semplificazione su base puramente emotiva. E in questo individua subito il vero protagonista dell’età contemporanea…

«C’è un fatto che, bene o male che sia, è il più importante nella vita pubblica europea dell’ora presente. Questo fatto è l’avvento delle masse al pieno potere sociale. E siccome le masse, per definizione, non devono né possono dirigere la propria esistenza, e tanto meno governare la società, vuol dire che l’Europa soffre attualmente la più grave crisi che tocchi di sperimentare a popoli, nazioni, culture. Questa crisi s’è verificata più d’una volta nella storia. La sua fisionomia e le sue conseguenze sono note. Se ne conosce anche il nome. Si chiama la ribellione delle masse

  José Ortega y Gasset
La ribellione delle masse
Il Mulino (1962)

È quella “massa”, intesa come folla anonima e frenetica, che spesso e volentieri viene impropriamente chiamata “popolo” quando invece è plebe, coi suoi istinti elementari e pulsioni primarie. Popolo e plebe sono Grilloi due termini che sovente vengono confusi, nell’incapacità di distinguerne l’intrinseca differenza. E il “popolo” diventa il feticcio ideologico pronto uso, per ogni lestofante che voglia ammantarsi dell’aurea messianica del condottiero di folle, adibite a strumento coreografico e di pressione per i propri personalismi.

«Il concetto di moltitudine è quantitativo e visivo. Traduciamolo, senza alterarlo, nella terminologia sociologica. Allora troviamo l’idea della massa sociale. La società è sempre una unità dinamica di due fattori: minoranze e masse. Le minoranze sono individui o gruppi d’individui particolarmente qualificati. La massa è l’insieme di persone non particolarmente qualificate. Non s’intenda, però, per masse soltanto, né principalmente, “le masse operaie”. Massa è l’uomo medio.»

Nell’impazzimento generale del tempo presente, tra rigurgiti populisti e neo-fascismo di ritorno, tra nuove elite tecnocratiche e oligarchie timocratiche, dove la figura dominante è tornata ad essere il Capo (“politico” o meno che sia) in tutta la sua immanenza tribunizia e decisionista, sia essa la salma inceronata del papi nazionale, o il profilo ridanciano di un Renzi, o il muso barbuto di un Grillo che tra purghe interne e atti di sottomissione grugnisce qualcosa a proposito di “iperdemocrazia e partecipazione diretta” (certificata dal fantomatico Staff), nella sua profondità preveggente, il pensiero di Ortega y Gasset riconquista una freschezza ed una attualità insospettabili.

«Oggi assistiamo al trionfo d’una iperdemocrazia in cui la massa opera direttamente senza legge, per mezzo di pressioni materiali, imponendo le sue aspirazioni e i suoi gusti. È falso interpretare le nuove situazioni come se la massa si fosse stancata della politica e ne devolvesse l’esercizio a persone «speciali». Tutto il contrario. Questo era quello che accadeva nel passato, questo era la democrazia liberale. La massa presumeva che, in ultima analisi, con tutti i loro difetti e le loro magagne, le minoranze dei politici s’intendevano degli affari pubblici un po’ più di essa.
Adesso, invece, la massa ritiene d’avere il diritto d’imporre e dar vigore di legge ai suoi luoghi comuni da caffè [oggi diremmo “da bar” n.d.r.]. Io dubito che ci siano state altre epoche della Storia in cui la moltitudine giungesse; a governare così direttamente come nel nostro tempo. Per questo parlo d’iperdemocrazia.»

Ortega y Gasset parla di “ribellione delle masse” ad ogni forma di coinvolgimento realmente analitico e responsabilizzazione individuale, che vada oltre i colori cangianti degli umori che si agitano sulla superficie delle società massificate.
Mars AttacksNe contesta la pretesa universalistica nelle sue assolutizzazioni ideologiche; la sua aspirazione all’unanimità, che poi è insofferenza verso ogni forma di dissenso o comportamento discrepante dalla volontà della maggioranza. Soprattutto non tollera l’uso che della volgarità le masse (ed i suoi demiurghi) fanno, elevandola a titolo di merito di una semplificazione estrema, rivendicando una sorta di genuinità primigenea nell’arroganza tipica di chi fa dell’esibizione della propria ignoranza un vanto…

«Se gl’individui che affollano la massa si ritenessero particolarmente dotati, avremmo non più che un caso d’errore personale, non già un sovvertimento sociologico. Il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia d’affermare il diritto della volgarità e lo impone dovunque.
La massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia come “tutto il mondo”, chi non pensi come “tutto il mondo” corre il rischio di essere eliminato. Ed è chiaro che questo “tutto il mondo” non è “tutto il mondo”. “Tutto il mondo” era normalmente l’unità complessa di massa e minoranze discrepanti, speciali.
Adesso “tutto il mondo” è soltanto la massa.»

Ne denuncia il primitivismo e la presunzione di chi, pretendendo di sostituirsi agli ordinamenti vigenti, non è minimamente in grado di garantirne il funzionamento o costruire una valida alternativa…

“L’uomo-massa attuale è, effettivamente, un primitivo, che dalle quinte è scivolato sul palcoscenico della civiltà.”

Ed è curioso che le sue osservazioni sugli eccessi della iperdemocrazia giungano in un periodo in cui l’intera Europa è sconquassata dall’avvento dei totalitarismi, cogliendo nella contraddizione l’intima connessione tra le degenerazioni di una gigionesca ipertrofia democratica, che finisce per essere una parodia della stessa nella distorsione delle forme partecipative, e la sua intrinseca negazione in senso autoritario…

«Noi viviamo sotto il brutale impero delle masse. Esattamente: già abbiamo chiamato due volte “brutale” quest’impero, già abbiamo pagato il nostro tributo al dio dei luoghi comuni; e adesso, con il biglietto alla mano, possiamo allegramente entrare nel tema, osservare di dentro lo spettacolo.»

In questo Ortega y Gasset, con la sua diffidenza verso l’avvento di masse amorfe dalla matrice unidimensionale e facilmente influenzabili, ripercorre il solco già tracciato da autori come Georges Sorel o Gustave Le Bon, ma anche Sigmund Freud e Robert Musil.
GROSZ - MetropolisNella sua opera più famosa, La Ribellione delle masse, che poi è una raccolta di articoli pubblicati nell’arco del 1929 in piena depressione economica e durante la crisi della Repubblica di Weimar, come una serie di nodi irrisolti, estrapolati dal loro specifico contesto storico e sociale, si potrebbero quasi riconoscere le analogie con la situazione attuale (dall’Europa alla crisi della rappresentanza democratica), tanto numerose sono le affinità a tal punto da non riuscire sempre a distinguere con sicurezza passato e presente.
Nell’ambito prospettico da lui stesso enunciato in merito all’analisi sociale, quella di Ortega y Gasset costituisce dunque una prospettiva di pensiero dal notevolissimo spessore, che merita di essere riproposta come una sorta di variante parodistica ai cicli vichiani. Oppure, per fare il verso a Friedrich Nietzsche (che influenzò non poco il pensiero del filosofo spagnolo), come un ennesimo richiamo alle suggestioni dell’eterno ritorno

Grosz«Nel nostro tempo domina l’uomo-massa; è lui che decide. E non si dica che questo era quello che accadeva già all’epoca della democrazia del suffragio universale. Nel suffragio universale non decidono le masse; ma la loro funzione è consistita nell’aderire alla decisione dell’una o dell’altra minoranza. Ciascuna di queste presentava il suo “programma” vocabolo eccellente. I programmi erano, in realtà, programmi di vita collettiva. In essi si invitava la massa ad accettare un progetto di decisione.
Oggi avviene una cosa assai differente. Se si osserva la vita pubblica dei paesi dove il trionfo delle masse s’è spinto innanzi sono i paesi mediterranei sorprende di notare che in essi sì vive politicamente giorno per giorno. Il fenomeno è oltremodo strano. Il Potere pubblico si trova nelle mani di un rappresentante di masse. E queste sono tanto potenti, che hanno annullato ogni possibile opposizione. Sono padrone del Potere pubblico in forma tanto incontrastabile e assoluta, che sarebbe difficile trovare nella Storia situazioni di governo tanto prepotenti come queste. E tuttavia, il Potere pubblico, il Governo, vive alla giornata; non si presenta come un avvenire franco, non significa un chiaro annunzio del futuro, non appare come l’inizio di qualcosa il cui sviluppo o evoluzione risulti opinabile. Insomma, vive senza programma di vita, senza progetti. Non sa dove va, perché, a rigore, non avanza, non guarda a un cammino prefisso, a una traiettoria segnata in anticipo. Quando questo Potere pubblico cerca di giustificarsi, non allude per nulla al futuro, ma, al contrario, si reclude nel presente e dice con perfetta sincerità: «Sono un modo anormale di governo che è imposto dalle circostanze». Cioè dall’urgenza del presente, non per calcolo del futuro. Da qui il fatto che la sua estrinsecazione si riduca a schivare il conflitto di ogni ora; non a risolverlo, ma ad eluderlo provvisoriamente, impiegando tutti i mezzi, qualunque essi siano, a costo anche di accumulare con il loro ricorso maggiori conflitti sul prossimo avvenire. Così è stato sempre il Potere pubblico, quando lo esercitarono direttamente le masse: onnipotente ed effimero. L’uomo-massa è l’uomo la cui vita manca di programma e corre alla deriva. Per questo non costruisce mai, sebbene le sue possibilità, i suoi poteri, siano enormi.»

È passato quasi un secolo dalla sua stesura originale, ma sembra il ritratto sputato dell’Italia contemporanea con le sue pastoie burocratiche e governi di “larghe intese”.
Con singolare preveggenza, l’elitarismo aristocratico e nostalgico di Ortega y Gasset, la cui visione idealizzata delle elite liberali ottocentesche non è del tutto scevra da spunti più che reazionari, nel denunciare il livellamento dal basso, tiene conto anche della tipologia dominante dell’anti-politico, ritratto nel suo narcisismo auto-referenziale e nell’insipienza della sua mediocrità elevata ad elemento dominante del suo agitarsi ‘movimentista’.

Silvione lo Zozzone«L’uomo-massa si sente perfetto. Un individuo di selezione, per sentisi perfetto, ha bisogno di essere particolarmente vanitoso, e la pretesa nella sua perfezione non è essenzialmente legata alla sua natura, non è genuina, ma gli deriva dalla sua vanità, e perfino lui stesso serba un carattere fittizio, immaginario e problematico. Per ciò il vanitoso ha bisogno degli altri, cerca in loro la conferma dell’idea che vuole nutrire di se stesso. Sicché nemmeno in questo caso morboso, neppure se “accecato” dalla vanità, l’uomo selezionato riesce a sentirsi veramente completo. Invece, all’uomo mediocre dei nostri giorni, il nuovo Adamo, non capita affatto di dubitare della sua plenitudine.
La propria fiducia in sé è, al pari di Adamo, paradisiaca. L’ermetismo formatosi nella sua anima gl’impedisce d’intuire quella che sarebbe la prima condizione per scoprire la propria insufficienza: paragonarsi ad altri individui. Paragonarsi significherebbe uscire un istante da se stesso e trasferirsi nell’ambito del prossimo. Però l’anima mediocre è incapace di trasmigrazioni – attività suprema.
Noi c’incontriamo, allora, con la stessa differenza che eternamente esiste fra l’ignaro e il perspicace. Quest’ultimo si sorprende sempre a un pelo d’essere ignaro; perciò fa uno sforzo per sfuggire all’imminente ignoranza, e in questo sforzo risiede l’intelligenza. L’ignaro, invece, non si sospetta neanche: si ritiene avvedutissimo, e da qui l’invidiabile tranquillità con cui l’ignaro s’abbandona e si conferma nel suo torpore.
Il MerdoneCome quegl’insetti che non si sa come estrarre dal nido dove abitano, non c’è neanche il modo di sloggiare l’ignaro dalla sua insipienza, di portarlo un po’ più in là della sua cecità e obbligarlo a mettere a fuoco la sua torbida visione abituale con altri punti di vista più sottili. L’ignaro lo è a vita e senza respiro. Per questo diceva Anatole France che un imbecille è più funesto d’un malvagio: perché il malvagio qualche volta si riposa, l’imbecille mai.
Ma non si tratta che l’uomo-massa sia ignaro. Al contrario, l’attuale è più pronto, possiede maggiore capacità intellettiva di qualunque altro di altre epoche. Però questa capacità non gli serve a nulla; a rigore, la vaga sensazione di possederla gli serve soltanto per chiudersi di più in se stesso e non usarla. Una volta, per sempre egli consacra dentro la propria coscienza l’assortimento di luoghi comuni, pregiudizi, parvenze d’idee, o, semplicemente, vocaboli vacui che il caso ha ammucchiato nel suo intimo, e, con una audacia che si spiega soltanto con l’ingenuità, li imporrà dovunque.
Questo è ciò che nel primo capitolo indicavamo come caratteristica della nostra epoca: non già che l’uomo volgare creda d’essere eccellente e non volgare, ma è ch’egli stesso proclami e imponga il diritto della volgarità, o la volgarità come un diritto.»

  José Ortega y Gasset
La ribellione delle masse
Il Mulino (1962)

È quasi inquietante notare come la descrizione fenomenologica di Ortega y Gasset sembri calzare alla perfezione sulle deprimenti macchiette nostrane che, lungi dal costituire un unicum nazionale, costituiscono piuttosto un ideal-tipo predominante nei periodi di crisi in tutta la sua funesta evanescenza.

«L’uomo medio si trova con “idee” dentro di sé, però manca della funzione di pensare. Non sospetta neppure qual è l’elemento sottilissimo in cui le idee possono vivere. Vuole opinare, però non vuole accettare le condizioni e i presupposti dello stesso pensare. Da qui procede che le sue idee non siano effettivamente se non appetiti rivestiti di parole […] L’uomo-pirlacchionemassa si sentirebbe perduto se accettasse la discussione, e d’istinto ripudia l’obbligo di rispettare questa istanza suprema che si trova al di fuori di lui. Perciò il “nuovo” è in Europa “finirla con le discussioni”, e si detesta ogni forma di convivenza che per se stessa implichi rispetto di norme oggettive, dalla semplice conversazione fino al Parlamento, passando per il territorio della stessa scienza. Questo vuol dire che si rinunzia alla convivenza della cultura, che è una convivenza al riparo di norme, e si retrocede a una convivenza barbara.
[…] Bisogna ricordare che in ogni tempo, allorché la massa, per questo o quel motivo, ha agito nella vita pubblica, lo ha fatto in forma di “azione diretta”. È stato sempre, invero, il modo di operare naturale alle masse. […] Ogni convivenza umana va precipitando sotto questo nuovo regime in cui si sopprimono le istanze indirette. Nella pratica sociale si sopprime la «buona educazione». La letteratura, come “azione diretta”, si affida all’insulto.
Parla con me[…] Civiltà vuol dire, anzitutto, volontà di convivenza. Si è incivile e barbaro nella misura con cui ciascuno non senta il rapporto reciproco con gli altri. La “barbarie” è soprattutto tendenza alla dissociazione. E così tutte le epoche barbare hanno costituito sempre una dissipazione umana, un pullulare di gruppi minimi e tra loro separati e ostili.
[…] La massa non desidera la convivenza con ciò che non s’identifica con essa. Odia a morte ciò che non è essa stessa.
Orellana sfiduciato[…] Ci sono istituzioni morte, valori e stime che sono pure Matteo Renzisopravvivenza e ormai prive di significato, soluzioni indebitamente complicate, norme che hanno rivelato la loro insufficienza. Tutti questi elementi dell’azione indiretta, della civiltà, richiedono un’epoca di slancio semplificatore. L’abito di gala e lo sparato romantici sollecitano una vendetta per mezzo dell’attuale déshabillé e dello stare “in maniche di camicia”

  José Ortega y Gasset
“La ribellione delle masse”
Il Mulino (1962)

Sembra quasi di ritrovarsi allo specchio, seppur ritrovato in soffitta tra i cimeli di famiglia…
Mala tempora currunt sed peiora parantur.

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Il Gruppo del Non-Pensiero

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 29 gennaio 2014 by Sendivogius

Beppe Grillo

A.GramsciTutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà” 
Antonio Gramsci
  (Q28, III)

Ogni mattina un cretino si sveglia e sa che dovrà far correre la lingua più veloce del cervello, se vuole sperare di raggiungere le turbominchiate del Grullo ed entrare nell’Oltreverso degli iper-dementi.
Ogni giorno, l’idiota d’ordinanza sa che dovrà sparare qualche baggianata ancor più grossa dei rutti del Grullo, in un crescendo di provocazioni continue, se non vuole che la gggente si accorga che il moVimento è politicamente morto nella totale irrilevanza delle sue non-proposte.
bimbiminkiaStavolta è il turno di Giorgio Sorial, ma poteva benissimo essere un Fraccaro, un Di Maio, un Di Battista… Il nome è irrilevante: i bimbiminkia dell’asilo autogestito a 5 stelle sono intercambiabili come i pannoloni impregnati di stronzate, che si divertono a lanciare a rotazione nelle aule di Camera e Senato, ansiosi come sono di lasciare un segno del loro inutile passaggio e ricordare al mondo di quali infantili minchioni si componga il M5S. Uno vale l’altro: l’importante è muovere la giostra del bersaglio preventivamente certificato dal Grullo, seguendo la rotazione dei preferiti: Giornalisti-Napolitano-Boldrini-PD, e ovviamente la “Ka$ta” (ovvero tutti coloro che non si abbeverano alla fogna del Grullo). Il catramoso Silvione invece no: agli ensiferi va benissimo, tant’è che condividono le stesse iniziative. Con la Lega poi l’intesa è totale.
Ed il bello è che per questo li pagano pure, tanto ancora non riescono a capacitarsi del miracolo che li ha catapultati dagli onanismi informatici della loro cameretta agli scranni parlamentari.
BalillaIn un ventennio, siamo così passati dagli azzimati bambocci clonati in serie dagli studi di Publitalia, agli spocchiosi balilla della Grillo-Jugend usciti dai casting della Casaleggio Associati. È il trionfo del replicante digitale; il registratore di cassa del Capo-Grullo, con ripetitore vocale incorporato.
So proprio nu bello cazzone!In tale prospettiva, se si ha una pelliccia di muflone sullo stomaco per resistere all’infausta visione, le performances del Dibba in collegamento virtuale al (dis)Servizio Pubblico della premiata ditta Santoro-Travaglio, esperta in indignazione telecomandata a portata di zapping, è uno di quegli spettacoli che segnano lo squallore di un’epoca, coi due “giornalisti dalla schiena dritta” azzerbinati al cospetto dell’inviato dall’oracolo del webbé. Trattasi del tipico esempio di giornalismo d’inchiesta, con tanto di domande concordate e alcun contraddittorio, al cui confronto un Augusto Minzolini primeggia come un eroe della libera informazione. Tra le olas plaudenti della claque in delirio, Alessandro Di Battista recita con zelo la lezioncina digerita faticosamente a memoria; si sforza di mantenere il tono di voce impostato, mentre sbircia gli appunti come uno scolaretto alla prova d’esame, mantenendo il contatto telepatico coi personal-trainers della Casaleggio Associati, e gli auricolari che gli pendono vistosamente dai lobi. Venti minuti di eccezionale esercizio retorico, dove il Nostro riesce a parlare senza dire assolutamente NULLA, in una raffica ipercontrollata di non-sense in perenne contraddizione tra loro.
ZerbinoLa strategia è certificata: si discute di qualcosa di rilevante?!? Che sia la riforma elettorale o la legge di stabilità, il noto movimento non ha quasi mai nulla da dire. O più semplicemente non ha la più pallida idea e la minima competenza su cosa si vada discutendo.
Qual’è la soluzione migliore per farsi comunque notare in qualche modo?
Buttarla in caciara, come un petulante gruppo di bambini viziati in cerca di attenzioni. ‘Loro’ non partecipano ai giochi perché (sia mai!) rischiano di “contaminarsi”. In compenso, fanno di tutto per boicottare il normale svolgimento di qualsiasi partita in sede istituzionale.
Se provi a coinvolgerli in qualche modo, ti rispondono che hanno il loro “programma”: le quattro paginette, frettolosamente stilate dal capo politico sotto ispirazione etilica e scolpite nelle tavole della legge sul sacro blog. Che non è negoziabile e che va preso con tutto il pacchetto a scatola chiusa. E per essere più convincenti e diplomatici nella trattativa, prima ti insultano e poi ti ci mandano pure.
Se malauguratamente recepisci parte delle loro querimonie, ti rispondono che gli hai copiato il “programma”; che è come dire che Einstein ha copiato la teoria della relatività dagli appunti di fisica di un babbuino in calore. E comunque, in ogni caso, loro non partecipano ad alcuna iniziativa altrui, riservandosi di applicare alla lettera gli hadith del Grullo profeta quando avranno il 100% dei voti. Cioé MAI.
Se non te li fili di pezzo, dicono che li boicotti e giocano il ruolo che riesce loro peggio: il vittimismo; tanto più insopportabile, quanto più stucchevole è la pantomima inscenata da questa sguaiata scolaresca di narcisi frustrati in piena sindrome di Peter Pan.
tettoAl massimo, quando non sono impegnati a miagolare sui tetti, a intralciare l’attività di pronto soccorso negli ospedali con le loro telecamerine, a discettare di scie chimiche e complotti massonici volti a nascondere l’esistenza delle sirene (che manco ‘na puntata di Kazzinger arriva a tanto!), devono pur dimostrare di fare qualcosa, per giustificare i loro 8.000 e rotti euro scroccati in qualità di citrullo cittadino nominato “onorevole”. Altrimenti il Capo politico non li ricandiderà.
Non sapendo nemmeno da dove cominciare, ci sono per fortuna i mini sondaggi confezionati in casa dal webmaster di “Beppe” e a discrezione degli Associati, dove 30.000 utenti “certificati” (a tanto ammonta il sacro popolo del Profeta) può decidere o meno di sottoscrivere qualcosa già deciso altrove, da uno che è più uguale degli altri e decide per tutti.
grillofascistaChe ha ben vedere, sembra una versione aggiornata ai tempi dei social-network della retorica mussoliniana:

Duce: “Questa è la vostra giornata, la vostra grande giornata, e col vostro coraggio, col vostro sacrificio, con la vostra fede, avete dato un impulso potente alla ruota della Storia. Ora io vi domando: desiderate degli onori?
Poppppolo: Noooooooooooooo!
Duce: “Delle ricompense?”
Poppppolo: Noooooooooooooo!
Duce: “La vita comoda?”
Poppppolo: Noooooooooooooo!
Duce: “Esiste per voi l’impossibile?”
Poppppolo: Noooooooooooooo!
Duce: “Quali sono le tre parole che formano il nostro dogma?”
Poppppolo: Credere! Obbedire! Combattere!
Duce: “Ebbene Camerati, in queste tre parole fu, è, e sarà il segreto di ogni vittoria.”

  (26/03/1939)

Grillo il fascista

E c’è da chiedersi che fine abbiano fatto i tanto strombazzati Meet-up e la “piattaforma web” tanto strombazzata e sempre rinviata (proprio come l’impicciamento di Napolitano).
In questo strambo miscuglio di messianesimo transumanista, cialtronismo organizzato e incompetenze assolute, entusiasmo puerile e furore sanculotto dalla provincia con squallore, le autarchiche fanfaronate della setta pentastellata degli ensiferi ricordano curiosamente un sottospecie di parodia demenziale dei Borg, già visti nella serie di Star Trek.
W3 AR3 T3H BORG. W3 PWNZ J00.Nell’ambito della sociologia dei gruppi e della psicologia sociale, prevale invece l’associazione delle dinamiche interne al moVimento con quelle del “pensiero di gruppo” (Groupthink). E ancora una volta siamo nell’ambito delle psico-patologie più o meno aggravate, come fenomeno dai risvolti politici [QUI e anche QUI].
Elaborato dal sociologo e urbanista William H. Whyte negli anni’50 e successivamente elaborato dallo psicologo Irving Janis, il concetto di “Groupthink” viene solitamente utilizzato per misurare il livello di conformismo all’interno dei gruppi, onde misurarne il deterioramento analitico delle capacità di analisi e decisionali, in termini di efficienza e percezione della realtà circostante.
Il Gruppo-Pensiero si caratterizza per la presenza ed il condizionamento, intimidatorio o comunque psicologicamente vincolante, di una figura carismatica di riferimento, di un leader dominante che Janis definisce senza mezzi termini “boss”, ovvero capo (politico o meno che sia).
borgNel Groupthink, la pressione a conformarsi agli standard richiesti dall’adesione al gruppo, onde rafforzarne la coesione interna, finisce col condizionarne inevitabilmente ed in peggio l’analisi dei problemi e cortocircuita il processo decisionale. L’ossessione per la coesione del gruppo prevale sulla creatività individuale e sul pensiero indipendente dei singoli a favore dell’uniformità dell’insieme. Il gruppo di pensiero così strutturato tende a sovrastimare il proprio potere e la sua effettiva capacità di influenza; si connota per una spiccata chiusura mentale, nella presunzione di essere apportatore di una moralità superiore. Per salvaguardare e garantire l’unità interna, il Groupthink tende ad operare una selezione preventiva delle informazioni, arrivando non di rado a manipolare o mistificare dati oggettivi, o non prendendo in considerazione alcuna notizia che possa essere in contrasto con le decisioni operative e le opinioni del gruppo, secondo una proiezione idealizzata che prescinde dalla realtà dei fatti. Sono i cosiddetti “paraocchi etici”, nella convinzione che ogni azione del gruppo (anche se riprovevole) è legittima perché “morale”. Tali paraocchi trovano il loro fondamento nel costante ricorso a “stereotipi”; ovvero ad uno schema che non si adegua agli eventi, ma resta sostanzialmente impermeabile ai fatti nuovi.
Spesso, attraverso un processo di “razionalizzazione” interna, si procede a minimizzare i riscontri negativi, onde poter giustificare gli esiti deludenti di una determinata linea di condotto, senza rimettere in discussione i propri comportamenti o la propria strategia.

imagesIn tal mondo, ogni appartenente al gruppo si sente vincolato dall’obbligo di evitare obiezioni o critiche che possano essere percepita come causa di conflitto interno o pregiudicare l’unità.
La lealtà al gruppo richiede che i suoi membri non sollevino domande imbarazzanti, non attacchino argomentazioni deboli, non contrappongano la realtà dei fatti a sciocche opinioni.”
Pertanto, tra i requisiti fondamentali del Pensiero di Gruppo, si possono distinguere una serie di aspetti ricorrenti:

1) Una forte coesione di gruppo, vale a dire una interdipendenza tra i membri centrata su norme e valori, ma anche su un sentimento di appartenenza molto accentuato: ingroup vs outgroup.

2) Scarsa attenzione a opzioni alternative, con una indiscussa credenza nella “moralità” e sulla “veridicità” delle opinioni di gruppo, per cui non ci si interroga in alcun modo sulle conseguenze delle decisioni adottate.

3) Conseguente emarginazione, quando non autocensura del o dei membri devianti e non allineati, che subiscono pressioni perché desistano dalle loro posizioni dissidenti e si integrino nel punto di vista dominante.

4) Supervalutazione della unanimità e paura della diversità e del conflitto.

5) Un leader generalmente molto direttivo, che domina la scena e orienta la discussione, favorendo o inibendo la partecipazione, a seconda se in linea o dissidente.

“Psicologia dei gruppi. Teoria, contesti e metodologie d’intervento”
A cura di Barbara Bertani e Maria Manetti
(Edizioni Franco Angeli 2007)

In un simile ambito, esistono una serie di precedure standard che il “gruppo di pensiero” tende a mettere in pratica:

a) Con ogni probabilità un gruppo molto coeso esercita pressioni sui dissidenti, pressioni sia implicite ma più spesso veicolate dal leader o da altri membri: chi non si sottomette rischia l’emarginazione.
b) conformismo significa sovente ritenere che il giudizio dei più, della maggioranza, coincidano con la “verità”. Il fatto che tutti concordino rischia di far credere che il proprio punto di vista sia l’unico, senza alternative.
c) conseguenza del punto precedente, per cui non esistono altre opinioni oltre le proprie, è la costruzione di stereotipi negativi sugli outgroup.

L’immagine che emerge è quella di un gruppo monolitico, tetragono al confronto con l’esterno, convinto della propria correttezza e dell’inferiorità di altri punti di vista.

Watchers Per la bisogna, il Leader può avvalersi ai fini del controllo di uno speciale “staff”: una sorta di corpo pretoriano di “guardiani” e “controllori”, che Janis chiama mindguards ed ai quali è demandato il compito di controllare e vigilare sul rispetto dell’ortodossia del gruppo, affinché non venga messa in dubbio da critiche o informazioni contrastanti col verbo ufficiale.

«La prima vittima del gruppo-pensiero è il pensiero critico. Sia in un gruppo terapeutico sia in un meeting dei consiglieri del Presidente, le dinamiche del gruppo-pensiero sono le stesse. In genere il discorso è limitato ad alcuni modi di agire, mentre viene ignorata un’intera gamma di possibili alternative.
[…] Nessuno consulta informazioni qualificate che potrebbero offrire una valida stima delle perdite dei guadagni: i fatti che contraddicono la scelta iniziale vengono ignorati. Il gruppo si aspetta di aver successo, e non prepara piani contingenti per affrontare un errore.
[…] La lealtà al gruppo richiede che i suoi membri non sollevino domande imbarazzanti, non attacchino deboli argomentazioni, non contrappongano la realtà dei fatti a sciocche opinioni.
Soltanto agli schemi comodamente condivisi viene lasciata piena libertà di espressione

 Daniel Goleman
“Menzogna, autoinganno, illusione”
 Rizzoli (Milano, 1998)

Secondo Goleman, un’organizzazione di gruppo così strutturata tende a coltivare una sorta di “illusione di invulnerabilità”; è convinta di essere predestinataria di una “missione” speciale destinata a sicuro successo; si connota per le forme euforiche di auto-esaltazione, tanto che ogni membro del nuovo gruppo farebbe qualsiasi cosa pur di non rompere l’euforia del gruppo e si autocensura imponendosi di non vedere le falle perchè anche una critica oggettiva verrebbe vista dagli altri come un attacco al collettivo.
Di conseguenza, ciò comporta l’illusione dell’unanimità e la soppressione dei dubbi personali, come forma di autocensura:

«La fede o le decisioni adottate dal gruppo vengono ritenute da tutti come valide a prescindere. I membri stessi prevengono le divergenze e insieme al loro leader focalizzano la loro attenzione e il loro impegno solo dove c’è convergenza sacrificando l’esplorazione di tutte le possibili decisioni o la ricerca di dati che potrebbero rovinare l’unanimità. in pratica se nessuno esprime una critica allora viene da sè ritenere che si sia tutti assolutamente d’accordo ma ciò non è necessariamente vero, magari qualcuno avrebbe delle critiche che non esprime

Pensa positivo! Pensa in gruppo.
Perché arrovellarsi la mente in faticose valutazioni analitiche, quando le nubi che si addensano tra le incertezze del dubbio possono essere dissolte nel rassicurante empireo delle idee assolute?

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