Sulla cosiddetta “questione meridionale” sono stati versati fiumi di inchiostro. Non c’è autore, nella tradizione intellettuale più nobile del pensiero italiano… fosse essa di estrazione socialista, liberale, cattolica, anarchica, riformista… che non vi si sia soffermato sopra almeno una volta, con toni ora vibratamente appassionati, ora asetticamente clinici, più spesso critici e sdegnati. Lontanissmi da certo piagnonismo neo-borbonico, che nel suo revisionimo nostalgico e populisteggiante millanta di paradisi perduti, sotto l’illuminata amministrazione di Re Bomba.
Antonio Gramsci e Gaetano Salvemini, insieme alle concause storiche ed economiche, individuano i mali in apparenza atavici del Mezzogiorno d’Italia, nell’assenza di una vera classe intellettuale, dietro una piccola borghesia parassitaria ed impiegatizia, totalmente priva di qualsiasi senso civico (se non di etica) e reale spessore culturale, per un ceto ‘dirigente’, o aspirante tale. Una compagine sociale che Salvemini (da meridionale) non esita a definire “delinquente e putrefatto“, che vivacchia all’ombra del notabilato locale e prospera al servizio degli interessi dei grandi latifondisti e dell’aristocrazia agraria. Soprattutto, critica con ferocia quello che oggi verrebbe chiamato “cetomediume”. Dileggia la tendenza all’autocommiserazione assolutoria della “piccola borghesia parassita ed oziosa che scrive sui giornali e piange sulle miserie proprie, credendole in buona fede miserie di tutta l’Italia meridionale“. E ne demolisce impietosamente le velleità “intellettuali”, che altro non sono se non superficie per l’acquisizione di status sociale, volto al conseguimento di potere e prebende pubbliche…
«Le sue caratteristiche psicologiche fondamentali sono la vuotaggine, la vigliaccheria, il nessun senso di dignità.
[…] Avvezzi, fino dai primi anni, a sentir magnificare la “raccomandazione” come il solo mezzo per andare avanti nella scuola, nel tribunale, nella banca, nel municipio, a Roma, essi non vedono nella vita se non un gioco di protezioni, uno scontrarsi di influenze più o meno efficaci, un prevalere di simpatie o di antipatie capricciose. Per essi non esiste nessuna scala di valori morali obiettivi. Il merito consiste nell’avere un protettore potente.
[…] Andate un pomeriggio d’estate in uno di quei circoli di civili, in cui si raccoglie il fior fiore della poltroneria paesana; ascoltate per qualche ora conversare quella gente corpulenta, dagli occhi spenti, dalla voce fessa, mezzo sbracata, grossolana e volgare nelle parole e negli atti, badate alle scempiaggini, ai non sensi, alle irrealtà di cui sono infarciti i discorsi. E abbiate il coraggio di dire che i meridionali sono intelligenti!»Gaetano Salvemini
“La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia”
La Voce (16/03/1911)
E nel criticarne i vizi lo fa con un giudizio durissimo che, a guardare certe escrescenze dell’oggi, vale benissimo per il presente, nell’intreccio di interessi che ne implica la propagazione persistente nel tempo. Mutabile nella forma, ma sostanzialmente uguale nella sostanza.
«La cosa peggiore è che la piccola borghesia fornisce alla nostra vita politica e amministrativa del Mezzogiorno e del paese, ma anche dei partiti, buona parte del personale politico che fa le leggi e che ci governa.
[…] Gli impiegati non devono badare a servire il pubblico, quanto a trottar di qua e di là per conto della clientela che li ha nominati; favorir questo, taglieggiar quello, fare ostruzionismo a quell’altro, finché non abbia messo giudizio e garantire che voterà ammodo. L’appaltatore può dispensarsi dal fare i lavori appaltati, purché sia sempre pronto a dividere gli utili col sindaco, contribuisca alle spese elettorali, e tenga d’occhio i suoi dipendenti nel gran giorno elettorale. Le rendite della congregazione di carità spariscono in sussidi ai galoppini elettorali, mentre i poveri veri restano a denti asciutti. Le Casse di Risparmio e le banche popolari sono svaligiati, i monti frumentari si volatilizzano.»Gaetano Salvemini
“La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia”
La Voce (16/03/1911)
E intanto sono trascorsi cento anni dall’invettiva di Salvemini, che su certi “rappresentanti” aveva le idee chiarissime…
«I deputati meridionali facevano consistere il loro ufficio nel fare raccomandazioni e procurar favori agli elettori, e per essi una croce di cavaliere aveva più importanza che un trattato di commercio o un progetto di legge per le pensioni.
[…] La vita pubblica si riduce ad una serie continua di strisciamenti vicendevoli, di mercimoni, di servilismi di tutti verso tutti. L’origine dei deputati meridionali sta tutta in questa condizione di cose, la quale è intollerabile per tutti.»
Gaetano Salvemini
“Riepilogo“, in “Movimento socialista e questione meridionale”
Feltrinelli (Milano, 1968)