Lo ‘Stato’ completamente disinteressato al benessere dei propri cittadini, che esplica i suoi poteri unicamente come detentore del monopolio della forza e come mero collettore d’imposte, per il finanziamento dei suoi strumenti repressivi, ha ragione d’essere?
Lo ‘Stato’ che non garantisce i servizi essenziali per l’emancipazione civile, e per la promozione sociale della propria cittadinanza, ha senso?
Cosa impedisce ad uno ‘Stato’, incentrato esclusivamente sull’interesse privato e sulla prevalenza del particolare economico, dall’agire come un’impresa in regime di monopolio, dove i cittadini sono ‘azionisti’ con diritti proporzionali alla quota capitale investita?
Soprattutto, nella cooptazione politica e finanziaria di elite tecnocratiche, cosa impedisce ad una società di capitali di farsi essa stessa ‘Stato’ e di sostituire l’amministrazione pubblica con una holding di servizi privati su concessione?
In una entità ‘societaria’ in cui la partecipazione democratica viene sostituita dalla partecipazione azionaria, frazionata nell’anonimato di pacchetti a responsabilità limitata, è chiaro che l’unico “scopo sociale” sia il profitto tramite la massimizzazione degli utili. In tale prospettiva, ogni attività è lecita se funzionale all’incremento dei ricavi…
Pertanto, se il ‘mercato’ è propizio, un’Impresa-Stato può trovare vantaggioso la tratta degli schiavi o il commercio della droga, curando la produzione e lo spaccio all’ingrosso delle sostanze stupefacenti, come fossero una remunerativa diversificazione delle proprie attività commerciali, giacché non deve rispondere ad altra logica se non a quella del profitto e all’incremento dei dividenti da distribuire ai propri azionisti, nell’ambito dell’unica “società” che riesce a concepire: la società di capitali a scopo di lucro.
In fondo è già accaduto; esistono precedenti illustri: ad esempio, le due Guerre dell’Oppio, in virtù del sacrosanto diritto di spacciare droga ai cinesi da parte della Compagnia delle Indie Orientali, in nome della libertà di commercio. Dimostrazione pratica di come per molte aziende il consumatore ideale sia un tossico.
La “Compagnia delle Indie” costituisce uno dei casi più eclatanti, in cui una società anonima per capitali si creò un esercito privato e fondò un Impero militare, appaltandolo alla Corona britannica per la difesa dei propri interessi commerciali.
E, del resto, proprio la storia inglese ci insegna che uno dei modi migliori per controllare uno Stato, dettandone le politiche (e le leggi), consiste nel gestirne il debito, con tutta la fantasia della finanza creativa…
«A cavallo del XVII e XVIII secolo, gli agenti di Borsa londinesi, noti come ‘jobbers’, si aggiravano nei malfamati caffé di Exchange Alley …in cerca di investitori sprovveduti ai quali vendere azioni di società fantasma. Società che fiorivano velocemente alimentate dalla speculazione, per poi fallire altrettanto rapidamente. Delle 93 società attive tra il 1690 e il 1695, nel 1698 ne rimanevano attive soltanto venti.
[…] Nel 1720 il Parlamento inglese, di fronte al proliferare di corporation truffaldine che infestavano Exchange Alley, aveva dichiarato l’istituzione illegale (seppure con alcune eccezioni). A indurlo all’azione fu il famigerato tracollo della South Sea Company.
Costituita nel 1710 per condurre traffici commerciali in esclusiva con le colonie spagnole del Sud America, ivi compreso il commercio degli schiavi, la South Sea Company nacque subito come un grande imbroglio. I suoi amministratori, tra gli esponenti più illustri della società politica dell’epoca, conoscevano ben poco del Sud America, avevano rapporti assai limitati con quel continente (a quanto risulta, il cugino di uno degli amministratori risiedeva a Buenos Aires), e dovevano per forza di cose essere a conoscenza che il re di Spagna non avrebbe concesso loro l’autorizzazione necessaria ad operare nelle colonie sudamericane. Come ammise uno degli amministratori: “A meno che gli Spagnoli non siano totalmente privi di buon senso… e decidano di abbandonare i propri commerci, gettando al vento l’unica fonte di guadagni rimasta loro al mondo e, in breve, ponendo le basi della loro rovina”, non si disferanno mai dell’esclusiva possibilità di commerciare con le loro colonie. Ciò nonostante, gli amministratori della South Sea Company promettevano ai potenziali investitori “profitti favolosi” e montagne d’oro e d’argento attraverso l’esportazione di comuni prodotti britannici come il formaggio del Cheshire, la ceralacca e i sottaceti. Gli investitori accorsero in massa per accaparrarsi le azioni della compagnia, che schizzarono incredibilmente verso l’alto, aumentando di ben sei volte il loro valore in un anno per poi crollare velocemente quando gli azionisti, resisi conto che il titolo era diventato cartastraccia, rivendettero tutto in preda al panico […] La South Sea Company fallì. Intere fortune si volatilizzarono, vite umane furono rovinate, uno degli amministratori della compagnia, John Blunt, venne colpito con arma da fuoco da un azionista incollerito, una folla tumultuosa assediò Westminster e il re dovette tornare precipitosamente a Londra dalla sua residenza di campagna per affrontare la crisi.»Joel Bakan
“The Corporation”
Fandango Libri, 2004
Al principio del XVIII secolo, i vari Stati europei si ritrovano a dover gestire un gigantesco debito pubblico, ereditato da quasi un secolo di guerre su scala continentale. La trovata geniale dei governi dell’epoca risiede nella privatizzazione del debito, attraverso la costituzione di società anonime che ne rilevino la gestione, in cambio di una serie di agevolazioni e del monopolio dei commerci sui nuovi mercati coloniali, con diritti esclusivi di sfruttamento.
Nella fattispecie, nel 1719 il debito pubblico della Gran Bretagna ammontava ad oltre 50 milioni di sterline, 18 milioni dei quali ripartiti in tre grandi gruppi privati:
3,5 milioni alla Banca d’Inghilterra;
3,2 milioni alla Compagnia delle Indie Orientali;
11,7 milioni alla South Sea Company.
In tale ottica, la ‘South Sea Company’, ovvero la Compagnia dei Mari del Sud, nasce con uno scopo preciso: ripagare i debiti della Corona britannica, convertiti in azioni della Compagnia. In cambio della sottoscrizione delle quote sociali, il Governo pagava agli azionisti un tasso fisso del 6%, garantendo alla Compagnia finanziamenti e fondi patrimoniali per dieci milioni di sterline, in cambio di una tariffa sui beni di importazione.
La South Sea Company nasce nel maggio del 1711 da un’idea dell’immaginifico ministro delle finanze, e conte di Oxford, Robert Harley, il quale aveva già provato a rifinanziare il debito dello Stato, attraverso l’istituzione della Lotteria nazionale, gestita in proprio dalla società finanziaria di John Blunt che sarebbe poi diventato uno dei principali amministratori della nuova compagnia.
La South Sea Company in realtà ha un mercato ed un raggio d’azione quasi inesistente: i suoi commerci si limitano ad un solo viaggio all’anno per un unico naviglio nelle colonie spagnole (le autorità iberiche ne boicottano in ogni modo l’attività) e fonda il grosso dei commerci sulla tratta degli
schiavi africani (peraltro sub-appaltata a mercanti olandesi). Deve inoltre affrontare l’alta mortalità del ‘carico’. Peraltro, la South Sea Co. gestisce una quota minima dell’infame commercio, appannaggio quasi esclusivo della Royal African Company che monopolizza i traffici, garantendo la ‘fornitura’ annuale di 4.800 schiavi (secondo le clausole del Trattato di Utrecht del 1713) ai quali aggiunge la manodopera servile smerciata in Giamaica. Inoltre, possiede uffici commerciali in tutti i principali porti dell’America meridionale (Buenos Aires, Cartagena, Caracas), con basi all’Havana e Panama.
Nata per vendere debiti camuffati da azioni al portatore, la Compagnia dei Mari del Sud ha un business puramente aleatorio. Ciò non impedisce però alla compagnia di piazzare in massa i suoi titoli a rendimenti sempre più vertiginosi, innescando una bolla speculativa gonfiata sul nulla che però attrae sempre più investitori. Tutti evidentemente molto entusiasti della solidità finanziaria della Compagnia ed i concreti riscontri nell’economia reale. Gli stessi dirigenti alimentano una speculazione costante sui titoli della Compagnia, fino all’inevitabile esplosione della bolla finanziaria che, insieme alla surreale “Bolla dei Tulipani” in Olanda, ed i crolli pressoché contemporanei delle Compagnie francesi, ingenereranno una delle prime e più gravi crisi economiche della storia europea.

Ma, a tutt’altra latitudine, non andrebbe nemmeno sottovalutata la proficua esperienza nipponica delle Zaibatsu…
«In Giappone, dopo la Restaurazione Meiji del 1868, si sviluppò una forma di capitalismo finanziario che, a tutt’oggi influenza fortemente le società per azioni in questo paese. Paragonabili alle società finanziarie, si formarono delle gigantesche concentrazioni industriali, dette zaibatsu, che divennero la forma dominante nell’organizzazione industriale del settore capitalistico avanzato giapponese. Zaibatsu si può tradurre come “elite finanziaria”: si trattava di società finanziarie che possedevano fondi di investimento in diverse industrie, organizzate sotto il controllo di una famiglia per assicurare la cooperazione tra aziende con interessi potenzialmente divergenti.
[…] Nel novero delle società controllate da ogni zaibatsu, era sempre presente una banca, la quale forniva il capitale per tutto il gruppo. Al vertice della zaibatsu c’era una società finanziaria famigliare che possedeva tutto il capitale e che controllava un gruppo di imprese, nominandone i direttori ed i dirigenti.»Larry Allen
Il Sistema finanziario globale (1750-2000)
Mondadori, 2002.