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Finanza Creativa (IV)

Posted in Business is Business, Masters of Universe with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 9 giugno 2012 by Sendivogius

TODO MODO

In una Europa sempre più impotente, avvitata in una spirale recessiva senza soluzione, ci mancava davvero l’inutile strigliata di Barack Obama, the President of United States, che in evidente amnesia dissociativa vorrebbe attribuire tutte le responsabilità della crisi economica alle inerzie del vecchio continente, ignorando che le ristrettezze dell’attuale congiuntura europea sono l’effetto e non la causa di un contagio esploso in ben altre latitudini a lui più familiari…
Il sopravvalutatissimo Obama è infatti alle prese con la propria rielezione presidenziale, sulla quale pesa l’ipoteca di un rilancio occupazionale ben al di sotto delle aspettative e di una ripresa che non decolla. Così, con ampio ritardo, si è accorto che il tracollo monetario dell’Unione e l’eventuale contrazione depressiva delle economie europee non giova certo al rilancio della crescita e meno che mai alle esportazioni statunitensi. Ora che l’incendio innescato da Wall Street nelle province europee (dove è stato alimentato impunemente da una finanza incontrollata) minaccia direttamente il centro dell’Impero, Mr President è alla disperata ricerca di un comodo capro espiatorio, il più lontano possibile, da additare all’intelligenza bovina di masse elettorali irretite dalla propaganda integralista dei Tea-Party. E, per la bisogna, cosa c’è di meglio se non la “Vecchia Europa”?!?
Evidentemente, O’Banana deve essere un altro dei tanti che a colazione mangia pane e volpe nella convinzione di diventare più furbo…
Nonostante le belle (o balle?) promesse degli esordi, con tutta l’ipocrisia di un politicante consumato, si tiene gli onori e declina gli oneri che una grande responsabilità comporta. Non che la UE ed i suoi governanti non abbiano le loro enormi magagne… tutt’altro! Ma le colpe non sono affatto esclusive di un’unica parte.
Barack Obama finge di non sapere che l’attuale febbre globale si diffonde nei primi mesi del 2007 con l’esplosione della bolla immobiliare USA e la crisi dei famigerati mutui subprime, con l’immissione di milioni di “titoli tossici” confezionati in CDO (tuttora in circolazione), e la cascata di fallimenti bancari a catena. Tali simpatici eventi (frettolosamente rimossi) hanno svelato al mondo dei profani le alchimie creative della “finanza derivata” che ingrassa le speculazioni degli squali di Wall Street, secondo un giochino diffuso che abbiamo in parte analizzato QUI e che rasenta gli estremi della truffa [QUI].
Di conseguenza, le grandi banche d’affari, coinvolte nel gigantesco crack a catena da loro stesse innescato, vengono prese in carico dalle casse statali che rimpinguano i caveau con la bellezza di 4.500 miliardi di euro. Per intenderci, ne sarebbero bastati meno di 300 per salvare la Grecia.
Al contempo, data l’inerzia statunitense (quando non tracima in netta opposizione), ogni proposta anche in ambito europeo di regolamentazione dei mercati finanziari rimane lettera morta su carta. Nulla viene fatto per porre un freno alle operazioni OTC. Ancor meno viene fatto per responsabilizzare i mercati finanziari, regolamentando l’immissione di prodotti derivati.
Per esempio, non vengono vietate (se non per periodi limitati) le cosiddette vendite allo scoperto, che permettono di speculare sul rendimento dei titoli borsistici, senza detenerne il possesso e soprattutto senza rischiare un solo centesimo.
Non viene messa al bando l’immissione di quell’autentica bomba ad orologeria che sono i CDS: vere scommesse speculative a tempo sulla bancarotta degli Stati, eventualmente sostenute dalle operazioni di short selling.
Viene inoltre bocciata ogni ipotesi di introduzione di una “Tobin Tax”, escludendo categoricamente qualsiasi tassazione, anche nelle sue forme più blande, sulle grandi transazioni finanziarie.
Capita l’antifona, le banche d’investimento utilizzano i finanziamenti pubblici ricevuti per continuare come e peggio di prima le loro attività speculative, distribuendo mastodontici bonus alla loro dirigenza di predatori in gessato. Naturale che questi trovino molto più conveniente speculare sulla tenuta dei ‘debiti sovrani’, piuttosto che finanziare l’economia reale.
Di converso, le banche di risparmio sono alle prese con la loro disperata ricapitalizzazione, dopo essere state folgorate dalle scosse incontrollate della schock economy, chiudendo i rubinetti dei prestiti alle imprese, con le immediate ripercussioni che la contrazione del Credito ha su occupazione e sviluppo.
In sostanza, secondo Mr President, la soluzione consisterebbe nel finanziare a fondo perduto (o quasi) gli istituti di credito coinvolti nella crisi, abbassando i tassi di interesse (già sotto l’1%). Evidentemente ignora i rischi impliciti di cadere nella “Trappola della liquidità”; mentre l’Europa egemonizzata dalla Germania di Merkel rischia di far precipitare il continente in uno scenario simile alla Seconda Recessione del 1937.
Altresì, O’Banana finge di ignorare che dietro le grandi manovre speculative, finalizzate al tracollo dell’euro ed al collasso dei titoli del tesoro europei, c’è l’intero mondo finanziario anglosassone (e specificatamente statunitense), lasciato sostanzialmente intonso da ogni ristrutturazione di sistema.
Ci sono le famigerate agenzie di ratings, Moody’s, S&P, Fitch, che si passano la staffetta con le loro valutazioni al ribasso e aprono la strada al cannoneggiamento degli speculatori finanziari.
Ovvero gli hedge funds, i grandi fondi di investimento, prevalentemente USA, tra i quali troneggia l’onnipotente BLACKROCK che, insieme al suo alter ego BLACKSTONE, si spartisce il controllo del private equity e dei servizi finanziari globali, in un intreccio di partecipazioni azionarie, controlli societari, gestione patrimoni e risparmio bancario, nel più gigantesco conflitto di interessi di tutti i tempi. Naturalmente, la Blackrock Inc (insieme al Vanguard Group ed al Capital World Investment) è tra i principali azionisti dei succitati “Signori del Rating”, che pertanto vengono pagati e controllati dalle medesime società per le quali stilano pagelle di valutazione.
E statunitensi sono pure le Fabulous Big Four Banks: Bank of America; Citigroup; Wells Fargo, JPMorgan. A queste andrebbero aggiunte inoltre quella specie di Soprano’s della finanza organizzata, come la Morgan Stanley e l’onnipresente Goldman Sachs: specializzate nello spaccio mondiale di ‘derivati’ e ‘titoli tossici’.

 LA SCIABOLETTA DI OBAMA. Quanto a Obama, dopo aver avvicinato il più possibile la politica a Wall Street, dopo avere affidato l’economia agli uomini di fiducia della grande finanza, dopo non aver portato alla sbarra neppure uno dei finanzieri colpevoli di ampie scorrettezze e di veri reati, adesso agita qualche sciaboletta di cartone contro le degenerazioni della finanza e fa il cavaliere dei deboli. Nella speranza che un numero sufficiente di americani, turbati dalle rodomontate repubblicane, voti per lui. Agli americani, nel frattempo, la verità la raccontano assai meglio vari giornalisti e qualche economista (una netta minoranza nella professione, ma comunque sufficienti) che non un presidente troppo furbo per essere credibile.

  Mario Margiocco
(24/01/2012)

Tuttavia, i prodromi della Grande Crisi erano già impliciti nella revisione degli accordi di Bretton Woods, sotto la presidenza di Bill Clinton, con la nefasta abolizione della separazione tra banche d’affari e banche commerciali, culminata nell’abrogazione in USA del Glass-Steagall Act. Si tratta della legge del 1933 nata in risposta alla crisi del 1929 a regolamentazione dell’attività bancaria, con l’istituzione di depositi di garanzia e rigidi controlli sulla solvibilità bancaria. La legge istituiva una netta divisione tra le operazioni d’investimento e le attività tradizionali di credito e deposito risparmi. L’abrogazione della Glass-Steagall è coincisa, guarda caso, con la sovraesposizione dei crediti bancari e l’invenzione di nuovi strumenti di speculazione finanziaria, alla base del flusso dei derivati e dell’attuale crisi economica. Dimostrazione provata (se ancora ce ne fosse bisogno) che i “Mercati”, se lasciati completamente liberi, si comportano come uno psicopatico incapace di controllare le proprie pulsioni distruttive.
Inoltre, con una certa malizia, ci sarebbe da aggiungere che certi ‘autorevoli’ punzecchiamenti richiederebbero piuttosto una buona dose di prudenza…
Nel Nov.2011 il debito degli Stati Uniti ha toccato la mostruosa cifra di 15.033 miliardi di dollari, equivalente al 99% del PIL. I dati sono stati forniti dal Dipartimento del Tesoro, ma si tratta di cifre per difetto dal momento che gli USA hanno un vero e proprio debito nascosto, legato alla copertura dei titoli spazzatura emessi da un sistema bancario marcio fino al midollo, scorporato dalla contabilità del bilancio federale, al quale andrebbero aggiunti i disavanzi dei singoli Stati dell’Unione. Non male per un paese dal welfare quasi inconsistente ed una spesa pubblica per politiche sociali praticamente inesistente.

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RICORSI

Posted in Business is Business, Masters of Universe with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 15 agosto 2011 by Sendivogius


«Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo. Bene, ora si divora da solo.»

Charles Bukowski
“Il capitano è fuori a pranzo”
Feltrinelli, 2003

Nei corsi e ricorsi della Storia, i processi regressivi sono una costante delle sequenze temporali, con la ciclica riproposizione di un passato-presente nell’ineluttabilità di un tempo sospeso. E non sempre è facile distinguere la tragedia dall’immanenza della farsa
In tempi di crisi economica, mentre gli arcani della finanza sembrano essere entrati a far parte nel lessico del linguaggio comune, a più di un secolo dalla sua pubblicazione, capita così di (ri)scoprire un classico del pensiero critico d’ispirazione liberal-democratica. Pubblicato nel 1902, “L’Imperialismo” di J.A.Hobson è un saggio fondamentale sulle storture economiche e le patologie sociali dell’imperialismo britannico, che l’Autore analizza nelle sue dinamiche e confuta attraverso una disanima sul capitale finanziario.
 John Atkinson Hobson (1858-1940), saggista d’avanguardia, studioso razionalista, editorialista di successo e autore prolifico (43 opere pubblicate), fu considerato un “eretico” per il suo approccio critico alla dottrina economica classica e per il suo talento polemico impegnato a smontare i miti dell’intera economia politica anglosassone, tanto da essere ostracizzato dagli ambienti accademici ortodossi, che mal digerivano la sua prospettiva umanistica, e sociologica, applicata in ambito scientifico.

Hobson non fu mai un economista nel senso stretto del termine: la teoria economica lo interessò soltanto in relazione al funzionamento del sistema economico reale che intendeva modificare; divenne economista perché aveva una ispirazione politica riformatrice e non viceversa.
(Luca Meldolesi; introduzione all’edizione italiana del 1996 per la Newton Compton)

In questa prospettiva, “L’Imperialismo” è probabilmente l’opera più famosa di Hobson che, nella sua impostazione liberale e non marxista, è destinata ad avere un’influenza enorme sull’articolazione del dibattito storiografico sulle politiche imperiali delle grandi potenze coloniali d’inizio ‘900 e sulle implicazioni economiche di una struttura politica.
Al riguardo, l’analisi di Hobson si articola in polemica con la nuova visione imperialista della Gran Bretagna, soprattutto in reazione al secondo conflitto anglo-boero in Sudafrica.
John A. Hobson interpretò l’imperialismo come un fenomeno di natura economica, ma dai risvolti fortemente politici, connesso ai cicli di produzione e di investimento su scala internazionale. Spogliato delle sue valenze psicologiche, della componente razzistico-sciovinista e delle implicazioni socio-politiche, l’imperialismo scaturisce da un eccesso di risparmio sul saggio dei profitti privati, ai quali non corrisponde un rilancio degli investimenti produttivi sul territorio nazionale, né una redistribuzione dei redditi con adeguamenti salariali per i lavoratori, volta ad incrementare i consumi interni.
L’accumulo di grandi ricchezze finanziarie, ulteriormente beneficiati da politiche fiscali agevolate, generano una eccedenza di capitali al risparmio che, sotto la spinta del potere finanziario, viene stornato verso i potenziali mercati esteri, con la creazione di una “finanza imperialista” ma transnazionale (cosmopolita). Sotto la pressione di gruppi industriali legati alle grandi commesse pubbliche, i governi nazionali attraverso un incremento di spesa (e del debito pubblico) favoriscono tali investimenti con politiche di sostegno e con interventi mirati di tipo militare, volti alla conquista armata di nuovi mercati di investimento insieme allo sfruttamento economico delle risorse naturali e della manodopera locale a bassissimo costo, correlata a fortissime sacche di disoccupazione.
Il sostegno, o il disinteresse, dell’opinione pubblica viene manipolato attraverso il sostanziale controllo dei mezzi di informazione da parte dei grandi gruppi economici; le posizioni dei politici vengono ammorbidite con l’erogazione di doni anche illeciti (ovvero ‘mazzette’), e le eventuali rimostranze etiche delle autorità religiose vengono ammansite tramite l’esenzione dalla tassazione e l’aumento degli aiuti alle scuole della Chiesa.

Hobson prende in esame il sistema britannico, ma le sue investigazioni sembrano dilatate all’intero mondo anglosassone con preveggente attenzione all’incipiente ascesa della superpotenza USA agli albori del ‘900. Le sue considerazioni tengono in debito conto le concentrazioni monopolistiche (con la costituzione dei grandi trust), le politiche protezionistiche e creditizie (coi relativi saldi commerciali) dell’epoca.

«La capacità produttiva di un paese come gli Stati Uniti può crescere così in fretta da eccedere la domanda del suo mercato interno.
[…] Fu chiaramente questa improvvisa domanda di mercati esteri per le merci e per gli investimenti la responsabile dell’adozione dell’imperialismo come politica e come pratica da parte del partito repubblicano, al quale appartenevano appunto i grandi capitani d’industria e i grandi finanzieri e che era da essi controllato.
[…] Essi avevano bisogno dell’imperialismo perché volevano usare le risorse nazionali del loro paese per trovare un utilizzo conveniente per i loro capitale che altrimenti sarebbe risultato superfluo. In realtà non è certo necessario possedere un paese per commerciare con esso o per investirvi dei capitali; e, senza dubbio, gli Stati Uniti avrebbero potuto trovare qualche sbocco per la loro produzione e per il loro capitale in sovrappiù nei paesi europei. Ma questi paesi erano per la maggior parte capaci di pensare a se stessi […] I grandi produttori e finanzieri americani dovevano così guardare alla Cina, al Pacifico e al Sudamerica per cercare occasioni più profittevoli; protezionisti per principio e per pratica, essi insistettero per procurarsi il più stretto monopolio possibile di questi mercati; e la concorrenza della Germania, dell’Inghilterra di altre nazioni commerciali li spinse a stabilire relazioni politiche speciali con i mercati a cui tenevano maggiormente.»

 J.A.Hobson
 L’Imperialismo
 Newton Compton; Roma, 1996.

L’analisi economica di Hobson, che non è affatto esente da debolezze teoriche (a partire dal cosiddetto “paradosso del risparmio”), presenta tuttavia una curiosa attinenza con certe situazioni attuali…
Come in una crime story d’antan, ricorrono tutti i personaggi tipici dell’intreccio classico, ma con i nomi aggiornati alle realtà odierne:
Provate a sostituire la parola “imperialismo”, col suo cosmopolitismo impersonale, al termine “globalizzazione” coi suoi mercati internazionali;
“guerre” con “missioni umanitarie” armate (dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Somalia alla Libia..);
“speculazioni dei mercati del denaro” con gli attuali strumenti della finanza derivata;
“magnati della borsa”, “i re della finanza” e “le grandi case finanziarie”, con le grandi banche d’affari e le società di intermediazione finanziaria specializzate in asset management, fino alle moderne agenzie di rating
Sono i nuovi dei del mercato unico globale, che decretano il fallimento degli stati e ne determinano le loro politiche sociali. Soprattutto, drenano le ricchezze concrete dei comparti produttivi, verso la fumosa volatilità di titoli speculativi nelle alchimie dei flussi d’interessi correlati, tra i micidiali arcani degli straddle ed il cappio letale degli strangle.

Nel corso del tempo, i protagonisti della speculazione borsistica si sono evoluti ed hanno affinato le tecniche della grande rapina globale, ma la sostanza con i rapaci antenati del passato è rimasta immutata. Nel suo saggio, J.A.Hobson attribuiva loro un nome assai evocativo quanto assolutamente calzante:

I PARASSITI ECONOMICI DELL’IMPERIALISMO
 Se è vero che l’imperialismo degli ultimi 60 anni è chiaramente da condannare come politica economica, perché, a prezzo di grandissime spese, ha procurato un aumento di mercati scarso, di cattiva qualità e insicuro, e perché ha messo in pericolo l’intera ricchezza nazionale suscitando un forte risentimento in altre nazioni, dobbiamo allora domandarci: «come mai la nazione britannica è spinta ad imbarcarsi in una politica così irragionevole?» L’unica risposta possibile è che gli interessi economici del Paese nel suo insieme sono subordinati a quelli di certi interessi particolari che usurpano il controllo delle risorse nazionale e le usano per il loro profitto privato. Questa non è un’accusa né strana né mostruosa: è la malattia più comune di tutte le forme di governo. Le famose parole di Sir Thomas More sono tanto vere ora, come quando le scrisse: «Ovunque vedo una cospirazione di uomini ricchi che cercano il proprio vantaggio sotto il pretesto ed il nome di bene comune».

Sebbene il nuovo imperialismo sia stato un cattivo affare per il nostro Paese, è stato un buon affare per certe classi e certi commerci all’interno della nazione. Le grandi spese per armamenti, le guerre costose, i gravi rischi e le difficoltà della politica estera, i freni imposti alle riforme sociali e politiche interne, benché abbiano portato grave danno alla nazione, sono servite molto bene ai concreti interessi economici di certe attività e professioni.


[…] Senza dubbio a ogni scoppio di guerra non solo l’uomo della strada ma anche l’uomo in divisa è spesso ingannato dall’astuzia con cui motivazioni aggressive e avidi propositi si vestono con abiti difensivi. Infatti si può affermare con sicurezza che non vi è una sola guerra che si ricordi che, per quanto scopertamente aggressiva possa apparire allo storico spassionato, non sia stata presentata alla gente che era chiamata a combattere come una necessaria politica di difesa. 

[…] Qual’è dunque il risultato economico dell’imperialismo? Un grande dispendio di denaro pubblico per equipaggiamenti e forniture militari, che cresce e produce enormi profitti quando ci si trova di fronte ad una nuova guerra o ad un allarme di guerra; nuovi prestiti pubblici e fluttuazioni significative nelle borse interne e in quelle estere.
[…] Così alcuni interessi economici e professionali specifici, che prosperano sulla spesa imperialistica o sulle conseguenze di tale spesa, si contrappongono all’interesse comune e convergono istintivamente su di una stessa meta.

 Né Hobson, nel sottolineare la natura strettamente parassitaria di un simile potere finanziario, perdeva occasione di ribadire il distacco tra produttori e speculatori, tralasciando il ruolo della finanza organizzata e dei mercati globalizzati:

II. Il fattore economico di gran lunga più importante per spiegare l’imperialismo riguarda gli investimenti. Il crescente cosmopolitismo del capitale è stato il principale cambiamento economico degli ultimi decenni. Ogni nazione industrialmente avanzata ha puntato a collocare una parte sempre maggiore dei suoi capitali al di fuori della sua area politica, in paesi stranieri, o nelle colonie, e a ricavare un reddito crescente da queste fonti. […] Mentre le classi dei produttori e dei commercianti ricavano poco dai nuovi mercanti e pagano, forse senza nemmeno saperlo, molto più in tasse di quanto non guadagnino col commercio, per gli investitori è tutta un’altra cosa….

III. Se è probabile che gi interessi particolari dell’investitore si scontrino con l’interesse pubblico e portino ad una politica rovinosa, ancor più pericolosi sono a questo riguardo gli interessi particolari del finanziere, cioè di chi compra e vende i titoli di investimento. Infatti un gran numero di piccoli investitori, per ragioni di affari e per politica, si comportano in larga misura come pedine delle grandi case finanziarie, che usano titoli e azioni non tanto come investimenti per ricavarne un interesse, quanto come strumenti di speculazione nel mercato del denaro. I magnati della borsa trovano il loro guadagno nel maneggiare grandi quantità di titoli e azioni, nel lanciare nuove società, nel manipolare le fluttuazioni dei valori dei titoli. Questi grandi interessi finanziari – le operazioni bancarie, quelle di intermediazione, il risconto, il lancio dei prestiti, la promozione di nuove società – formano il nucleo centrale del capitalismo internazionale. Uniti dai più forti legami organizzativi, sempre nel più stretto contatto l’uno con l’altro e pronti ad ogni rapida consultazione, situati nel cuore della capitale economica di ogni Stato, […] questi grandi interessi finanziari sono in una posizione unica per manipolare la politica delle nazioni. Non è possibile utilizzare rapidamente una grande quantità di capitale se non con il loro consenso, tramite le loro agenzie finanziarie.

[…] Ogni grande atto politico che implica un nuovo flusso di capitali, o un grande fluttuazione nei valori degli investimenti esistenti, deve ricevere il benestare e l’aiuto concreto di questo piccolo gruppo di re della finanza. Questi uomini, che tengono la loro ricchezza e il loro capitale di esercizio prevalentemente in titoli e azioni, hanno un duplice interesse da un lato come investitori, dall’altro, ed è questo l’interesse prevalente, come finanzieri.
[…] Come speculatori o finanzieri, esso costituiscono il più grave fattore specifico dell’economia dell’imperialismo. Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare costantemente notevoli fluttuazioni del valore dei titoli, sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività. Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica e li getta dalla parte dell’imperialismo.
[…] La politica di questi uomini non porta necessariamente alla guerra; quando la guerra porterebbe un danno troppo grande e duraturo alla struttura industriale, che rappresenta il fondamento ultimo ed essenziale di ogni attività speculativa, essi usano la loro influenza in favore della pace…
Ma, a parte ciò, ogni aumento della spesa pubblica, ogni oscillazione del credito pubblico, ogni impresa rischiosa in cui risorse nazionali possano diventare la garanzia di speculazioni private, è vantaggiosa per chi presta grandi quantità di denaro e per lo speculatore. La ricchezza di queste aziende finanziarie, l’ampiezza delle loro operazioni e l’organizzazione cosmopolita, fa di loro i principali determinanti della politica imperialista. Essi hanno gli interessi maggiori negli affari economici dell’imperialismo e hanno anche i mezzi per piegare al proprio volere la politica delle nazioni.

In tale contesto, la tassazione, con i meccanismi di prelievo fiscale da parte dello Stato, svolge un ruolo importante nella strutturazione indiretta di quella che Hobson chiama “finanza imperialista”:

Le classi industriali, finanziarie, o professionali, che formano il nucleo principale dell’imperialismo, hanno usato il loro potere politico per estorcere ingenti somme alla nazione in modo da migliorare i loro investimenti all’estero e aprire nuovi campi di impiego del loro capitale e trovare mercati più convenienti.
[…] L’imperialismo tende ovunque ad aumentare la tassazione indiretta: non tanto per ragioni di convenienza, quanto per nascondere le cose.
[…] È raro che un governo, anche nel mezzo di gravi fatti di emergenza, sia in grado di imporre un’imposta sui redditi; d’altra parte, anche le imposte sulla proprietà sono generalmente evase quando riguardano la proprietà mobiliare; e sono generalmente impopolari.

Naturalmente, il riferimento a persone e fatti reali è assolutamente intenzionale.

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