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TABULA RASA

Posted in Business is Business, Kulturkampf, Masters of Universe with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 1 giugno 2019 by Sendivogius

Quello che vi proponiamo è un articolo risalente al 2017 di Michel Onfray, saggista, filosofo, ed esponente “post-anarchico” della gauche francese, che ha il pregio di rompere l’afasia asfittica delle gabbie semantiche, nelle quali troppo spesso la “sinistra” ama imprigionare se stessa; di fatto negando quelle realtà che non sfuggono assolutamente alla sua comprensione logica, ma che risultano in contraddizione coi nuovi schemini cognitivi mutuati dal politicamente corretto, con tutto il suo stucchevole glossario di ipocrisie polisemiche. La conseguenza è che determinate ‘discordanze’ vanno semplicemente rimosse, per non disturbare la sua narrazione ideologica su conformismo ecumenico, nel terrore di non sembrare abbastanza ‘buoni’, salvo sorprendersi dell’evidente crisi di rappresentatività in un costante scollamento sociale.
 Michel Onfray, con poche ed incisive parole, illustra perfettamente (da sinistra) ciò che a ‘sinistra’ sanno benissimo ma che preferiscono non dire. Ed inserendosi nel solco di un’intelligente revisione critica di certo “multiculturalismo”, che nella migliore delle definizioni si è rivelato un clamoroso errore di valutazione, e che (finalmente!) sta mettendo radici anche a ‘sinistra’, spiega assai meglio di tanti altri zuccherosi commentatori i prodromi all’origine dell’ascesa del sovranismo populista…

«Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, seguita nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica e del blocco dell’Est (riguardo al quale si è poi scoperto che, lungi dall’essere un’implacabile macchina di guerra, altro non era che una scenografia in cartapesta), il capitalismo ha potuto espandersi senza i controfuochi marxisti-leninisti. Ed è allora che si ebbe l’accelerazione atomica della globalizzazione.
Questa globalizzazione – voluta con tanto ardore dal capitalismo liberale più duro – ha trovato un alleato inaspettato nella sinistra liberale e in seguito, ancor più paradossalmente, nella sinistra anti-liberale. Il mercato odia le frontiere, disprezza il locale e ciò che ha messo radici, combatte una guerra spietata contro i paesi, riempie di merda le nazioni, orina contro i popoli, e ama soltanto i flussi multiculturali che abbattono le frontiere, sradicano il mondo, devastano ciò che è locale, spaesano i paesi, fustigano le nazioni, diluiscono i popoli a esclusivo beneficio del mercato, l’unico a contare e a dettare legge – la definizione chimicamente pura del liberalismo.
Il capitale vuole l’abolizione delle frontiere per porre fine una volta per tutte a ciò che nell’ambito delle nazioni e dei paesi è stato ottenuto con secoli di lotta sociale. Lo Stato Tale prevede una sicurezza sociale, offre scuole gratuite, il pensionamento a un’età decorosa, un equo diritto del lavoro, un potere sindacale forte, una sinistra che ha a cuore l’autentico progresso sociale – e non un progresso sociale soltanto ipotetico, il cui orizzonte non oltrepassabile si trova nell’affitto dell’utero di donne indigenti a beneficio di coppie ricche, autentico progetto liberale di commercializzazione dei corpi.
Nel frattempo, lo Stato Talaltro si fa beffe delle tutele sociali e pratica la medicina con due pesi e due misure, o quella dei poveri o quella dei ricchi; dispone di un sistema di istruzione, certo, ma a misura di genitori facoltosi in grado di pagare le rette per la loro progenie e privo di utilità per i genitori indigenti; ignora i limiti dell’orario di lavoro e fa sgobbare i lavoratori tutta la giornata, tutta la settimana, tutta la vita, come ai tempi della schiavitù; non conosce il codice del lavoro e trasforma gli operai, gli impiegati, i salariati, i proletari, i precari, gli stagisti in soggetti sottomessi, che devono sobbarcarsi ogni tipo di corvè.
La Russia che si avvicina agli Stati Uniti che rompono con il Messico. L’Inghilterra che si allontana dall’Europa che riallaccia con l’Africa. Mentre l’Australia diventa una megacolonia cinese. Planetario dei cambiamenti globali con il nuovo inquilino della Casa Bianca
Quel che vuole il capitale, il capitalismo, il liberalismo, nella sua versione di destra come nella sua versione di sinistra, è la diffusione del secondo modello e, a tal fine, la scomparsa del primo. Da qui la sua ideologia che prevede l’abolizione delle frontiere, degli stati, delle tutele di qualsiasi tipo, simboliche, reali, giuridiche, legali, culturali, intellettuali.
Non appena viene meno tutto ciò che protegge i deboli dai forti, questi possono disporre dei deboli a loro piacere e i deboli possono essere terrorizzati dal fatto di trovarsi in costante concorrenza, possono essere sfruttati con posti di lavoro precari, maltrattati con contratti a tempo determinato, imbrogliati con gli stage di formazione, minacciati dalla disoccupazione, angosciati dalle riconversioni, messi kappaò da capetti che giocano anche con i loro stessi posti di lavoro. Il mercato detta legge.
Giocando la carta del liberalismo, la sinistra al governo spinge nella medesima direzione del capitalismo con i suoi banchieri. Giocando la carta dell’antiliberalismo, la sinistra definita radicale spinge nella medesima direzione del capitalismo con i suoi banchieri. Perché il capitalismo vuole l’abolizione delle frontiere affinché si crei un grande mercato libero, nel quale a dettar legge sia solo la “libera concorrenza, non quella fasulla”, una volta con la sinistra liberale, un’altra con la sinistra antiliberale.
Queste due modalità d’azione della sinistra hanno gettato il popolo che io chiamo old school alle ortiche: non ci sarebbero più operai, impiegati, proletari, poveri contadini, ma soltanto un popolo-surrogato, un popolo di migranti in arrivo da un mondo non giudeo-cristiano, con i valori di un Islam che, assai spesso, volta le spalle alla filosofia dei Lumi. Questo popolo-surrogato non è tutto il popolo, ne è soltanto una parte che, però, non deve eclissare tutto ciò che non è.
Ebbene, il proletariato esiste ancora, e così pure gli operai, e anche gli impiegati, per non parlare dei precari, più importanti che mai. La pauperizzazione analizzata così bene da Marx è diventata la vera realtà del nostro mondo: i ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi, mentre i poveri sono sempre più poveri e sempre più numerosi.
Se nell’ambito dell’Europa si pratica l’islamofilia empatica, fuori dalle sue frontiere il liberalismo che ci governa pratica un’islamofobia militare. Al potere, in Francia, la sinistra socialista ha rinunciato al socialismo di Jaurès nel 1983 e in seguito, nel 1991, ha rinunciato al pacifismo del medesimo Jaurès prendendo parte alle crociate decise dalla famiglia Bush, che così ha dato all’apparato industriale-militare che lo sostiene l’occasione di accumulare benefici immensi, conseguiti grazie alle guerre combattute nei paesi musulmani.
Queste guerre si fanno nel nome dei diritti dell’uomo: di fatto, si combattono agli ordini del capitale che ha bisogno di esse per dopare il suo business e migliorarne artificialmente le prestazioni. Usare armi significa poterne costruire e immagazzinare altre, ed è anche l’occasione per i mercanti di cannoni di collaudare a grandezza naturale nuovi armamenti e garantirsene la pubblicità presso i paesi che li acquistano. Infine, muovere guerra significa che gli imprenditori avranno la possibilità di ricostruire i paesi da loro stessi devastati ricavandone introiti smisurati.
Se per caso i diritti umani fossero la vera motivazione alla base degli interventi militari degli americani e dei loro alleati europei, tra cui la Francia, per quali motivi non si dovrebbe dichiarare guerra ai paesi che violano i diritti dell’uomo, come Arabia Saudita, Qatar, Cina, Corea del Nord e tanti altri distintamente citati nei rapporti ufficiali di Amnesty International?
Queste guerre americane sono nuove forme di guerre coloniali che, come quelle che le hanno precedute, prendono a pretesto nobili motivazioni: esportare i Lumi occidentali, tra cui la democrazia, in un mondo che li ignora. Lottare contro l’oscurantismo dei talebani, contro la dittatura di Saddam Hussein, contro la tirannia di Gheddafi: sono tutte motivazioni più nobili che dichiarare chiaro e tondo che si va in guerra per saccheggiare le ricchezze del sottosuolo, per confiscare l’oro del Tesoro di una nazione, per assumere il controllo geostrategico delle basi militari, per perlustrare e tenere d’occhio quelle regioni a fini di intelligence, ma anche per sperimentare armi letali e piani di guerra a grandezza naturale che potrebbero costituire una forma di preparazione della repressione di eventuali insurrezioni urbane nei loro stessi paesi.
Queste false guerre per la democrazia, che di fatto sono vere e proprie guerre coloniali, prendono dunque di mira le comunità musulmane. Dal 1991 hanno provocato quattro milioni di morti – vorrei che si leggesse bene questa cifra: quattro milioni di morti – tra le popolazioni civili dei paesi coinvolti. Come si può anche solo immaginare che l’umma, la comunità planetaria dei musulmani, non sia solidale con le sofferenze di quattro milioni di correligionari?
Di conseguenza, non ci si deve stupire se in virtù di quella che Clausewitz definì la “piccola guerra”, quella che i deboli combattono contro i forti, l’Occidente gregario della politica statunitense si trova adesso esposto alla reazione che assume la forma di terrorismo islamico. La religione continua a essere “l’oppio dei popoli” e l’oppio è tanto più efficace quanto più il popolo è oppresso, sfruttato e, soprattutto, umiliato. Non si umiliano impunemente i popoli: un giorno quei popoli si ribelleranno, è inevitabile. E la cultura musulmana ha mantenuto potentemente quel senso dell’onore che l’Occidente ha perduto.
Alcuni, quindi, ricorrono al terrorismo. Con semplici taglierini acquistati al supermercato, alcuni terroristi riescono a far schiantare due aerei contro le Torri Gemelle, mettendo così in ginocchio gli Stati Uniti, ai quali non resta che ammettere – proprio loro, uno dei paesi più militarizzati al mondo – che la loro sofisticata tecnologia, i loro aerei invisibili e le loro navi, le loro bombe nucleari, nulla possono per fermare tre individui armati di lame taglienti come rasoi e determinati a morire nel loro attentato.
In reazione alla privazione della dignità, altri utilizzano le elezioni: il ritorno del popolo alle urne è una risposta alla bassezza di questo mondo capitalista e liberale che è impazzito. Dalla caduta del Muro di Berlino, le ideologie dominanti hanno assimilato la gestione liberale del capitalismo all’unica politica possibile.
L’Europa di Maastricht è una delle macchine con le quali si impone il liberalismo in maniera autoritaria, ed è un vero colmo per il liberalismo… Negli anni Novanta, la propaganda di questo Stato totalitario maastrichtiano ha presentato il suo progetto asserendo che esso avrebbe consentito la piena occupazione, la fine della disoccupazione, l’aumento del tenore di vita, la scomparsa delle guerre, l’inizio dell’amicizia tra i popoli.
Dopo un quarto di secolo di questo regime trionfante e senza opposizione, i popoli hanno constatato che ciò che era stato promesso loro non è stato mantenuto e, peggio ancora, che è accaduto esattamente il contrario: impoverimento generalizzato, disoccupazione di massa, abbassamento del tenore di vita, proletarizzazione del ceto medio, moltiplicarsi di guerre e incapacità di impedire quella dei Balcani, concorrenza forzata in Europa per il lavoro.
A fronte di questa evidenza, il popolo dà cenno di ritorno. Per il momento si affida a uomini e donne che si definiscono provvidenziali. Il doppio smacco di Tsipras con Syriza in Grecia e di Pablo Iglesias con Podemos in Spagna mostra i limiti di questa fiducia nella capacità di questo o quello di cambiare le cose restando in un assetto di politica liberale. Anche Beppe Grillo e i suoi Cinque Stelle invischiati negli scandali a Roma vivono un flop di egual misura.
La Francia, che nel 2005 ha detto “no” a questa Europa di Maastricht, ha subito una sorta di colpo di Stato compiuto dalla destra e dalla sinistra liberale che, nel 2008, hanno imposto tramite il Congresso (l’Assemblea nazionale e il Senato) l’esatto contrario di ciò che il popolo aveva scelto. Mi riferisco al Trattato di Lisbona ratificato da Hollande e partito socialista e da Sarkozy e il suo partito. Gli eletti del popolo hanno votato contro il popolo, determinando così una rottura che ora si paga con un astensionismo massiccio o con decine di voti estremisti di protesta.
Altri paesi ancora che hanno manifestato il loro rifiuto nei confronti di questa configurazione europea liberale – mi riferisco a Danimarca, Norvegia, Irlanda, Svezia, Paesi Bassi – sono dovuti tornare a votare per rivedere le loro prime scelte. La Brexit è in corso e assistiamo in diretta a una sfilza di pressioni volte a scavalcare la volontà popolare.
A fronte della globalizzazione del capitalismo liberale, alle prese con le guerre neocoloniali statunitensi, davanti ai massacri planetari di popolazioni civili musulmane e a guerre che distruggono paesi come Iraq, Afghanistan, Mali, Libia, Siria, provocando migrazioni di massa di profughi in direzione del territorio europeo; a fronte dell’inettitudine dell’Europa di Maastricht, forte con i deboli e debole con i forti, il popolo sembra deciso a voler fare tabula rasa di tutti coloro che, vicini o lontani, hanno avuto una responsabilità precisa nel creare la terribile situazione nei loro paesi.
Una volta ottenuta questa tabula rasa, non è previsto che ci sia alcun castello nel quale riparare, perché è impossibile che vi resti un castello. A quel punto sembra che non ci resterà che un’unica scelta: la peste liberale o il colera liberale. O il contrario. Trump e Putin non potranno farci nulla. È il capitale a dettar legge. I politici obbediscono e i popoli subiscono

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Oriente e Occidente (III)

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 25 gennaio 2016 by Sendivogius

John Bagnold Burgess -The Meeting of East and West

Per cercare di comprendere l’Altro da ‘noi’, insieme alle diversità di una realtà globalizzata con le sue contraddizioni fluidificate nell’effetto farfalla delle stesse, forse non esiste interprete migliore di colui che, estraneo al contesto occidentale per provenienza, ne assorbe nell’intimo la specificità culturale, rielaborandone i concetti in visione critica e per certi versi maggiormente smaliziata rispetto all’originale. Esenti dal fardello dell’uomo bianco, sono osservatori privilegiati e totalmente immuni dai suoi sensi di colpa. E dal momento che l’esotismo costituisce per loro una categoria dello spirito squisitamente europea, per contro applicabile in senso inverso, non risentono dei retaggi del “buon selvaggio” che riconoscono per l’impostura di ciò che è: una mistificazione consumata nell’ipocrisia del suo razzismo mascherato. Ponti viventi tra culture diverse, ne conducono le antitesi verso una propria sintesi, in una prospettiva spesso più lungimirante e lucida perché non si preoccupa di essere pregiudiziale (e a volte lo è). Così come per loro natura sono Political correctnessrefrattari alle dittature dogmatiche del “politicamente corretto”, ovvero: quella castrazione semantica eletta a simbolo dell’impotenza di un certo ambito intellettuale, che rivisita gli stereotipi più odiosi per trarne una lettura altrettanto ottusa nel suo conformismo linguistico, che non risolve ma nega la sussistenza del problema, nell’anteposizione di un formalismo impotente rispetto alla sostanza.
Vidiadhar Surajprasad Naipaul Dello scrittore anglo-indo-trinidadiano V.H.Naipaul avevamo già parlato [QUI] a proposito della nevrosi primaria del “convertito”, nelle forme psicotiche della sua rottura culturale. Ma in tempi che si vorrebbero di “scontro di civiltà”, la lettura di Naipaul merita di essere riproposta, poiché nel delineare le tracce fondamentali dell’oltranzismo religioso, con la predominanza del “sacro” sul profano, come pochi altri riesce a distinguere la differenza che intercorre tra “stato islamico” e “stato musulmano” (con riferimento nello specifico al Pakistan), nel delineare la nascita di quella neoplasia maligna costituita dal diffondersi (organizzato) del cancro integralista:

Pakistan

«Quell’anno [il 1979 n.d.r], il paese aveva avuto il suo primo assaggio di terrore religioso sotto il generale Zia. Questi aveva fatto impiccare Alì Bhutto, l’uomo Muhammad Zia-ul-Haqdel venerdì festivo; poi era andato alla Mecca per fare il pellegrinaggio minore, non quello completo, ma ciò nonostante era tornato con cento milioni di dollari elargitigli dai sauditi. In Pakistan gli uffici statali avevano l’obbligo di fermarsi per tutte le preghiere prescritte; camioncini di fustigatori islamici venivano mandati in giro a occuparsi dei colpevoli. La gente, intimorita, chinava la testa. Alcuni avevano la sensazione di non essere abbastanza pii; sentivano di doversi impegnare di più, sempre di più; e tutt’intorno a Raiwind, anche dopo le estasi nelle tende dei missionari, si potevano vedere sul ciglio della strada fedeli che continuavano a pregare.
[…]
Fra i pakistani che parlano inglese, i fondamentalisti erano soprannominati “fundos” ed erano ormai una presenza che, ancora dietro le quinte, premeva con forza crescente ed esigeva sempre di più. Il subcontinente indiano era stato sanguinosamente diviso per creare lo Stato del Pakistan. Milioni di persone erano morte, e molte altre erano state sradicate, da un lato e dall’altro delle nuove frontiere. Più di cento milioni di musulmani erano rimasti dalla parte indiana, ma praticamente tutti gli indù e i sikh erano stati cacciati dal Pakistan per dare vita all’entità politica interamente musulmana dell’astratto sogno poetico di Iqbal.

Vultures feeding on corpses lying abandoned in alleyway after bloody rioting between Hindus and Muslims.

Ciò avrebbe dovuto essere sufficiente. Ma i fondamentalisti volevano di più. Non bastava che questa grande fetta dell’antica terra avesse cessato, dopo millenni, di essere India e, come l’Iran, come i paesi arabi, fosse stata infine purgata delle religioni preesistenti. Ora gli abitanti stessi dovevano essere purgati del passato, di tutto ciò che negli abiti, negli atteggiamenti, nella cultura generale potesse collegarli alla loro patria ancestrale. I fondamentalisti volevano che tutti fossero puri e trasparenti, semplici recipienti vuoti in cui travasare la fede. Era impossibile: gli esseri umani non possono mai essere una tabula rasa. Ma i vari gruppi fondamentalisti si proponevano a modello di bontà e purezza. Si presentavano come veri credenti. Affermavano di seguire le regole antiche (soprattutto quelle riguardanti le donne); chiedevano agli altri di essere come loro e, dal momento che non c’era una concordanza assoluta sulle regole, di seguire le norme che loro seguivano.
Jamaat's Hijab DayIl più importante dei gruppi fondamentalisti era la Jama’at-i-Islami, l’Assemblea dell’Islam, fondata da un insegnante e propagandista religioso, Maulana Maudoodi. Prima della divisione del paese, questi si era opposto all’idea del Pakistan per strane ragioni. Quando nel 1930 il poeta Iqbal aveva sostenuto la causa di uno Stato musulmano indiano separato, aveva asserito che tale Stato avrebbe sbarazzato l’Islam indiano da quella «impronta che l’imperialismo arabo aveva dovuto conferirgli». Le aspirazioni di Maudoodi erano esattamente l’opposto. Pensava che uno Stato musulmano indiano sarebbe stato troppo limitato e avrebbe fatto ritenere che l’Islam avesse concluso il suo compito in India, mentre auspicava che l’Islam convertisse e abbracciasse l’India intera e conquistasse il mondo. Iqbal aveva affermato che una ragione importante per la creazione del Pakistan era che, come «forza di aggregazione popolare», l’Islam era stato più efficace in India che in altri paesi. Maudoodi non era d’accordo: a suo avviso, i musulmani del subcontinente e i loro esponenti politici non erano all’altezza di conseguire un obiettivo tanto prezioso quanto uno Stato integralmente islamico. La loro fede non era sufficientemente pura, era troppo contaminata dal passato indiano.
Moulana Maududi a cena coi sauditiMaudoodi morì nel 1979. Ma la Jama’at persisteva nella convinzione che il popolo pakistano e i suoi governanti non fossero all’altezza. Se lo Stato islamico di Iqbal aveva avuto le sue disgrazie, non era colpa dell’Islam, ma di coloro che si definivano musulmani. Secondo il modo di pensare fondamentalista, questo tipo di fallimento si rivelava automaticamente per quello che era: il fallimento di un Islam falso o poco sentito. E la Jama’at poteva sempre sostenere, in un perenne rinnovarsi della causa, che dai tempi antichi l’Islam non era mai stato veramente realizzato e che era giunto il momento di farlo. La Jama’at avrebbe mostrato la via.
Islam[…] Nel 1965 [Guerra indo-pakistana] il mullah che aveva aizzato i membri della sua congregazione mandandoli al fronte armati di bastoni se n’era restato al sicuro nella moschea. Non era compito suo combattere. A lui toccava infiammare gli animi, ricordando ai fedeli con tutta l’eloquenza e la passione di cui era capace il premio che avrebbero ricevuto partecipando alla “jihad” e gli orrori dell’inferno.
zombies islamiciEra come il mullah, di cui avevo sentito parlare da qualcuno, che nel 1977 era stato arruolato, insieme ad altri mullah, per la campagna contro Alì Bhutto. Era basso e grasso, di aspetto per niente attraente, e aveva fama di essere infido, ma non aveva importanza: era un eccellente predicatore, dotato di una voce possente. A quel tempo vigeva il coprifuoco, che però veniva allentato (non poteva essere altrimenti) per le preghiere del venerdì. I fedeli che si recavano nella moschea del mullah non ascoltavano soltanto le preghiere, ma anche le storie edificanti di eroi e martiri dell’Islam, che il predicatore declamava con la sua celebre voce e la splendida arte oratoria. Incitava i presenti a dimostrarsi all’altezza del passato, a intraprendere la “jihad”, a non ignorare le forze del male che li circondavano. «Dite al nemico: ‘Prova le tue frecce su di noi, e noi proveremo il nostro petto contro le tue frecce’». Frasi che sembravano prese da un poema e pertanto suonavano autorevoli, anche se nessuno avrebbe saputo dire da dove erano tratte. In concreto non significavano niente, ma eccitavano gli ascoltatori; e alla fine delle preghiere del venerdì, il coprifuoco del povero Bhutto era di fatto inoperante. I fedeli si disperdevano col cuore gonfio di odio religioso, risoluti a guadagnarsi un altro po’ di merito in cielo spedendo Bhutto all’inferno. Poco contava che il mullah fosse infido e di moralità affatto dubbia. In realtà non si proponeva come guida: il suo compito, in quanto mullah, consisteva nel tenere sulla corda i convertiti e, se c’era bisogno di aizzarli, concentrare la loro attenzione sull’inferno e sul paradiso ricordando che, quando fosse giunta l’ora, solo Allah sarebbe stato il loro giudice. Questo era un aspetto dello Stato religioso (lo Stato creato per i soli convertiti, dove la fede non era una questione di coscienza individuale) che il poeta Iqbal non aveva mai preso in considerazione: questo tipo di Stato era sempre suscettibile di manipolazioni, facile da minare, pieno di pura e semplice disonestà.
Muhammad IqbalMa c’era qualcos’altro di cui Iqbal non aveva tenuto conto: nel nuovo Stato la natura della storia si sarebbe modificata e, indebolendosi il senso storico, la vita intellettuale del paese ne avrebbe inevitabilmente risentito. I mullah avrebbero sempre tenuto banco, limitando il desiderio di conoscenza. Così l’intera storia antica del paese perdeva di importanza. Nei libri scolastici di storia o di «educazione civica», la storia del Pakistan finiva per essere soltanto un capitolo della storia dell’Islam. Gli invasori musulmani, in particolare gli arabi, diventavano gli eroi della storia pakistana, mentre le popolazioni locali figuravano a malapena nel passato della propria terra, o al massimo comparivano come nullità spazzate via dagli agenti della fede. Così si fa scempio della storia. Una simile concezione si spiega solo in quanto rappresenta il punto di vista del convertito. La storia si trasforma in una specie di nevrosi. Troppe cose devono essere ignorate o presentate in maniera tendenziosa e molto è frutto della fantasia. Ma questa fantasia non è presente solo nei libri di scuola: è un fattore che influenza la vita di tutti.
madrassa[…] L’invenzione di un’ascendenza araba divenne ben presto generale. Tutte le famiglie l’adottarono. A sentire la gente, si direbbe che, prima, questa terra grande e meravigliosa non fosse altro che giungla selvaggia, dove non vivevano gli uomini. All’epoca della divisione dall’India tutto ciò è stato amplificato, compresa l’idea di non appartenere alla terra, bensì alla religione.»

V.S. Naipaul
“Fedeli ad oltranza.
Un viaggio tra i popoli
convertiti all’Islam”

Adelphi (Milano, 2001)

“Fedeli a oltranza” è un’opera fondamentale per capire il presente attraverso la conoscenza del passato (recente). Se volessimo ossere ‘retorici’, potremmo consigliarlo come testo scolastico. Più semplicemente ve ne raccomandiamo, se volete, l’acquisto (non potreste spendere meglio il vostro denaro per un costo abbordabilissimo) e ovviamente la lettura resa ancor più piacevole da una pregevolissima traduzione in italiano.

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