“E lasciavamo le porte aperte…”
Quello delle “porte aperte” è un luogo comune particolarmente caro a certa vulgata qualunquista, cementata nella nostalgia di una sorta di “Età dell’Oro” che non è mai esistita, se non nella fantasia dei suoi ostensori. Si tratta di una proiezione fortunata che si perpetua longeva nel tempo, suffragata dalle presunte reminescenze popolari desunte dalla ‘saggezza degli anziani’, tanto da costituire un richiamo mitologico ad un perduto spirito solidale di comunità idealizzate. Un regno fatato di gente felice in casette di marzapane, non più reale di quanto non sia il Gatto con gli stivali, o la “Terra dell’Abbondanza” coi suoi fiumi di latte e miele, ma del quale si parla e si rimpiange come si trattasse di un mondo devastato da infezione aliena. Perché il ‘Male’ è sempre altro da me.
Pertanto è più facile crogiolarsi nel rimpianto di una purezza primigenia, irrimediabilmente violata, e credere alla leggenda di un passato migliore, coltivando il pensierino rassicurante che imputa al monstrum (nell’accezione prodigiosa e perversa del termine) ogni nefandezza possibile. Si segue l’onda emotiva, scivolando sugli umori della folla, e si dimentica che da sempre (oggi come ieri), l’intreccio perverso che lega tra loro Paura, Criminalità, Politica, può condurre ad esiti devastanti, per le finalità di pochi.
“La psiche del demente politico esibito (narcisista a contenuto pseudo-etico) aggranfia il delitto alieno, reale o creduto, e vi rugghia sopra come belva cogliona e furente a freddo sopra una mascella d’asino”
(Carlo Emilio Gadda – Quer Pasticciaccio Brutto de Via Merulana – Garzanti, 1957)
Evidente, nonché emblematica, la vicenda che nella Roma degli anni ‘20 vide, come protagonista, l’innocente Gino Girolimoni il quale si ritrovò coinvolto, suo malgrado, in una storia kafkiana dai risvolti tragici. Bollato col marchio di infamia, Girolimoni è entrato per sempre nell’immaginario collettivo come il “Mostro di Roma”.
Il ‘Caso G.’, pur con le sue peculiarità storiche, dimostra due cose molto semplici: che la ferocia criminale non è una specificità dei nostri tempi; che certe distorsioni degenerative del sistema repressivo non sono appannaggio esclusivo di un’epoca…
Sul “caso Girolimoni” esistono svariate fonti documentali. All’occorrenza, noi ci avverremo (in massima parte) dell’ottimo saggio monografico di Giangiulio Ambrosini, già magistrato di Cassazione, pubblicato nel 1997 sugli “Annali della Storia d’Italia”.
“Sbatti il mostro in prima pagina!”
La storia giudiziaria di ogni Paese è costellata di “mostri”, autori di gravissimi delitti consumati a danno di bambini, di giovani donne, di persone incapaci di difendersi o scelte per puro caso: delitti efferati in cui la componente sadica o sessuale gioca molto spesso un ruolo determinante, collegati fra loro in sequenze ossessivamente ripetitive. Il linguaggio giornalistico ribattezza oggi il “mostro” serial killer, ma la vecchia definizione continua ad avere sicura presa nella coscienza collettiva.
L’idea del mostro colpisce la fantasia popolare, incoraggiata dalla disinvoltura da parte dei media nel sollecitare una sotterranea morbosità da cui non è esente alcuno strato sociale, e autorizza l’opinione comune ad attribuire al soggetto demonizzato persino più delitti di quanti al limite ne abbia potuti commettere. Così può accadere che, quando un mostro venga per avventura catturato, si chiudano in un sol colpo casi che meriterebbero maggiore approfondimento e altri colpevoli ottengano un’insperata impunità.
La creazione del mostro ha il risultato di far accreditare a tutti i costi una persona, non importa se colpevole o innocente (indicata spesso sulla base di esilissimi sospetti dagli organi di polizia), che presenti idealmente i requisiti della “mostruosità” in ragione di qualche anomalia rispetto al sentire comune: avere lo stigma dell’emarginato, ostentare disponibilità superiori alle possibilità concrete, abbigliarsi o acconciarsi in maniera stravagante, condurre una vita poco appariscente e per ciò stesso misteriosa; in ultima analisi avere caratteristiche “diverse”.
(…) Il mostro in fuga non può che “essere tra noi”, quindi tutti si sentono autorizzati a promuovere la cultura del sospetto, verso il vicino di casa, nei riguardi del collega, persino ai danni di uno sconosciuto senza motivo apparente. L’istituto, di assoluta inciviltà, che si definisce “taglia”, può aprire un’autentica lotteria moltiplicando sospettanti e sospetti.
L’ammissione “spontanea” dello squilibrato, la confessione poi riconosciuta estorta con la violenza da disinvolti funzionari di polizia che si prefiggono di ben figurare per aver risolto il “caso”, la lettura frettolosa di indizi apparenti, possono comportare danni irreparabili.
Quando si procede contro un “mostro” individuato e dato per certo, si abbandonano tutte le altre piste.
Se poi il preteso mostro sarà riconosciuto innocente dai giudici (a parte le gravissime conseguenze patite dal soggetto che, suo malgrado ne ha rivestito i panni) le indagini ritorneranno talmente indietro da essere di regola irrimediabilmente compromesse.
(…) L’esigenza di trovare un colpevole coinvolge al tempo stesso investigatori e cittadini. Il colpevole indubbiamente esiste, perché reati sono stati commessi; la necessità di individuarlo a tutti i costi supera ogni ragionevole ipotesi di giustizia.
Se tutto ciò è vero in tempi di democrazia, a maggior ragione lo è quando giustizia, garanzie del cittadino, ricerca della verità, sono beni sacrificabili ad altri valori, di natura eminentemente politica, come il dimostrare l’efficienza di un regime, il simulare la capacità di garantire sicurezza sociale, il pretendere di essere in grado di rendere immediatamente giustizia.
(…) Di fronte al mostro, la cui esistenza non si è potuta celare, diventa necessario impedire la sconfitta nelle indagini e si impone quindi una rapida cattura (possibilmente credibile) e una condanna (eventualmente esemplare).
Il fascismo, nei primi anni di vita, ha avuto a che fare con qualche “mostro”. Uno dei più noti porta il nome di Gino Girolimoni, un uomo qualsiasi, a cui vicenda apparve sin d’allora ed è, riletta a distanza di anni, inquietante.
[ G.Ambrosini ]
“L’incubo di Roma: il Martirizzatore di bimbe”
Tra il 1924 ed il 1927, Roma è sconvolta da una serie di brutali omicidi a sfondo sessuale. Le vittime sono giovanissime bambine che vengono rapite, seviziate, e uccise con raccapricciante ferocia da un maniaco, che agisce indisturbato nel cuore della città e sembra inarrestabile.
Il 31 Marzo 1924, Emma Giacobini (4 anni ancora da compiere) viene rapita in pieno giorno nei centralissimi giardini di Piazza Cavour, approfittando di un attimo di distrazione della madre. La bambina, “con un fazzoletto colorato strettamente legato al collo e segni di violenza sul corpo”, verrà ritrovata poche ore dopo da un gruppo di contadini nei campi a ridosso di Monte Mario, richiamati dalle urla strazianti della piccola. Emma è viva. Viene ricoverata in ospedale e sopravvive. Evidentemente il bruto non ha fatto in tempo a strangolare la vittima. Alcuni testimoni parlano di un uomo anziano e ben vestito, che si allontana in tutta fretta dal luogo dello stupro.
Il 4 Giugno del 1924, a pochi mesi dalla prima violenza, si registra un tentativo di rapimento ai danni di Armanda Leonardi (di appena due anni). La bambina viene afferrata sulla soglia di casa da uno sconosciuto. La piccola grida ed il rapitore, spaventato, fugge lasciandola cadere.
La sorte di Armanda è comunque segnata. Tre anni dopo, il 12 Marzo 1927, il maniaco arriva ad introdursi nella casa della bambina che “viene rapita dal suo letto nella sua abitazione al rione Ponte (…) Il fratellino Francesco si mette a urlare, accorre la madre che prima di svenire riesce a scorgere in fuga un uomo elegante con un cappotto nero e un ombrello. Il mattino successivo il corpo di Armanda viene trovato in un prato ai piedi dell’Aventino. La bambina è stata violentata e strangolata”.
Torniamo al 4 Giugno del 1924, la piccola Armanda è appena scampata al suo primo tentativo di rapimento, ed il ‘mostro’ (evidentemente insoddisfatto) si accanisce su un’altra bambina, Bianca Carlieri (4 anni), rapita in serata a Trastevere. “La polizia e gli abitanti del rione danno vita ad una gigantesca battuta per ritrovare la piccola ed il suo rapitore, indicato come un signore alto, elegante, anziano”. Il corpo di Bianca Carlieri verrà ritrovato il giorno seguente, nei pressi della basilica di S.Paolo fuori le mura, a notevole distanza dal luogo del rapimento. A questo punto, la psicosi del mostro si impossessa della popolazione, sfiorando l’isteria collettiva: “si racconta di un colonnello in pensione che, nei giardini di Piazza Vittorio, aveva giocosamente avvicinato una bambina rischiando il linciaggio”. A dire il vero, le testimonianze oculari sul presunto rapitore della Carlieri, sono diverse e spesso discordanti. Cosa che complica non poco il lavoro (già pessimo) degli inquirenti. Vengono approntati i primi identikit, talmente approssimativi da risultare inutili. “Dell’uomo si sa vagamente che è una persona anziana, snella ed elegante con baffetti a spazzola”. La stampa si scatena in una campagna forsennata che alterna resoconti morbosi sugli omicidi ad attacchi feroci contro l’incompetenza della polizia. Le indagini vengono ulteriormente fuorviate dalle false testimonianze di mitomani e millantatori.
Nel Giugno 1924, Presidente del Consiglio è il cavalier Benito Mussolini; il fascismo in ascesa consolida il suo controllo delle “forze dell’ordine”: Arturo Bocchini diventa Direttore generale della Pubblica Sicurezza. Luigi Federzoni è promosso Ministro degli Interni e il Questore di Roma viene rimosso senza troppi complimenti. La ‘Sicurezza’ diventa un affare politico. “Il numero dei fermati si moltiplica all’infinito (tra gli indiziati ci saranno anche dei suicidi). Viene offerta una prima taglia di diecimila lire”.
08 Luglio 1924. Il Consiglio dei Ministri approva il decreto governativo che pone serie limitazioni alla “Libertà di Stampa”. Niente più notizie sgradite al premier che possano alimentare allarmismi sociali e minare la base del suo imbarazzante consenso.
Il 24 Novembre 1924 scompare un’altra bambina: Rosina Pelli. Questa volta il rapimento avviene addirittura sotto il colonnato di Piazza S.Pietro. La salma di Rosina verrà rinvenuta in aperta campagna (allora), da un fornaciaro al Prataccio della Balduina. Il modus operandi dell’assassino è lo stesso riscontrato nei delitti precedenti. I testimoni, che pure hanno visto, non hanno saputo indicare di meglio che un uomo con cappellaccio scuro e cappotto marrone, ma anche dall’aspetto distinto e ben vestito. Ai funerali della bambina parteciperà persino la regina Elena di Savoia.
Il 30 Maggio 1925 il ‘mostro’ è di nuovo a caccia di giovani prede nel rione Borgo, a ridosso del Vaticano: dopo un primo tentativo di adescamento ai danni della piccola Anna del Signore, che (a conferma dei precedenti indizi) descriverà un uomo elegante, in abiti grigi, cappello scuro e baffi, il serial killer circuirà e ucciderà con le solite modalità una bambina di sei anni, Elsa Berni. Il corpo della piccola verrà rinvenuto in prossimità del fiume, sul Lungotevere Gianicolense.

Il Ministro dell’Interno Federzoni, tramite decreto, dispone una nuova taglia:
“un premio di lire 50.000 a favore di quei privati o confidenti che in qualunque modo, mediante informazioni o indicazioni, riusciranno a far identificare e assicurare alla giustizia il colpevole del truce delitto. Il funzionario o agente che riuscirà nell’eguale scopo otterrà una promozione straordinaria.”
È giunto il tempo per gli sciacalli e per gli arrivisti zelanti.
26 Agosto 1925. L’efferatezza del maniaco si fa sempre più audace. Celeste Tagliaferri, una bimba di appena 17 mesi, viene rapita nella sua stessa culla, poco dopo mezzogiorno. Sempre nel rione Borgo. “Qualcuno è entrato dalla porta aperta dell’alloggio rimasto incustodito”. La bimba viene trovata, ancora vita, da un sarto sulla Via Tuscolana, in un canneto, “distesa su alcuni giornali, con un fazzoletto annodato intorno al collo e una ferita al basso ventre”. Nonostante i soccorsi, Celeste Tagliaferri non sopravviverà.
12 Febbraio 1926. Elvira Coletti, sei anni, viene rapita e violentata sotto Ponte Michelangelo, ma riesce a sfuggire al tentativo di strangolamento.
Nel corso del 1926, sembra che il maniaco abbia adescato altre bambine, ma la censura di regime oramai ha superato il rodaggio iniziale e le notizie vengono taciute o minimizzate; almeno fino al 12 marzo 1927, quando il predatore di bimbe si accanisce nuovamente contro la sfortunatissima Armanda Leonardi. Il suo corpo sarà rinvenuto dalle parti dell’Aventino.
“È l’ultimo delitto del mostro. Mussolini promette la sua cattura (…) Il fascismo non può accettare una sconfitta tanto impopolare. È necessario trovare un responsabile, a qualunque costo, non importa se colpevole o innocente”. (G.Ambrosini)
“Il capro espiatorio”
Il 13 Marzo del 1927, commisariato P.S. di Borgo Pio, l’oste Giovanni Massaccesi, insieme ad altri testimoni suoi dipendenti, riferisce che la sera del delitto di Armanda Leonardi era entrata nel suo locale una bambina del tutto somigliante alla vittima, accompagnata da un uomo sospetto, mancino, con grossi baffi neri. Particolare significativo: l’uomo aveva sul collo un foruncolo sanguinante, che copriva con un fazzoletto. In realtà, si trattava di un operaio, Domenico Marinutti, che era entrato nell’osteria di Massaccesi insieme alla figlioletta. Marinutti, uomo onesto, dopo aver appreso la notizia sui giornali, si era recato spontaneamente al commissariato per rendere la sua deposizione e, pur mostrando la cicatrice rilasciata dal famigerato foruncolo, non era stato creduto.
Poco tempo dopo, nello stesso commissariato si presenta anche l’ing. Pacciarini, denunciando un tentativo di molestie ai danni della sua domestica dodicenne, da parte di uno sconosciuto che gira con una Peugeot di colore verde. Il sospetto viene quindi posto sotto osservazione e pedinato. D’altro canto, il possesso di un veicolo (una vera rarità per quei tempi) spiegherebbe il ritrovamento dei corpi in posti tanto lontani dal rapimento.
A seguito di un presunto tentativo di abbordaggio della giovane domestica, l’uomo viene arrestato. Il suo nome è Gino Girolimoni: trentotto anni e infanzia difficile, scapolo, fotografo amatoriale, di professione “mediatore”. In pratica, Girolimoni “procurava clienti ad agenti di assicurazione e ad avvocati e, grazie alla sua indubbia intelligenza, aveva ottenuto un certo successo economico. Guadagnava dalle 3000 alle 4000 lire al mese. Aveva fama di donnaiolo. E su questa debolezza scivolò (…) Girolimoni venne arrestato il 2 Maggio 1927. Tacque, negò ostinatamente ogni addebito, aggravando in qualche modo la sua posizione”. Soprattutto perché si rifiuta ostinatamente di confessare, rintuzzando con successo le domande dei suoi inquisitori. Si scoprirà poi che Girolimoni aveva intrecciato una relazione adulterina con la signora Pacciarini, la moglie dell’ingegnere, e blandiva la servetta per far pervenire alla signora i suoi bigliettini amorosi. Il galante corteggiatore, durante gli interrogatori di polizia, aveva tenacemente tenuto nascosto il nome della donna per non comprometterla. La denuncia dell’ing. Pacciarini, tutt’altro che disinteressata, era in realtà la vendetta di un marito cornuto.
La stampa, con il permesso del regime, si scatenò inscenando un vero linciaggio mediatico contro “l’immondo carnefice”, dando grande enfasi al fatto che Girolimoni avesse la disponibilità di due case e l’incredibile guardaroba di 12 abiti, degni di un “trasformista” amante dei travestimenti, condendo il tutto con altre argomentazioni deliranti.

Convocato dalla polizia per l’identificazione, l’oste Massaccesi confermò naturalmente il riconoscimento, anche se la descrizione rilasciata in precedenza non corrispondeva affatto col Girolimoni, che peraltro non aveva mai portato i famigerati baffi attribuiti all’assassino e tanto meno risultava essere mancino. Il pagamento della taglia di 50.000 lire contribuì a cancellare ogni dubbio nella memoria più che interessata del Massaccesi.
Vennero inoltre messe agli atti le testimonianze ‘pilotate’ di bambini e piccoli testimoni, enormemente suggestionabili, per certificare le presunte attenzioni del pedofilo Girolimoni (qualcosa del genere è successo in tempi recenti a Rignano Flaminio).
“A Girolimoni vennero dedicate le prime pagine, furono scritti articoli-fiume, insieme a decine di sue fotografie. Cosa che consentì a non pochi cittadini di riconoscerlo”, in una girandola crescente di accuse e calunnie più o meno interessate.
Scrive sempre il giudice Ambrosini:
“L’occasione per invocare il ripristino della pena di morte fu ghiotta, benché il linciaggio apparisse più efficace presso l’opinione pubblica. È troppo pensare che il caso sia stato determinante, ma non passarono molti anni prima che il codice Rocco reintroducesse la pena capitale. Il comunicato ufficiale della polizia, pubblicato sui giornali l’11 Maggio, si esprimeva enfaticamente in questi termini:
Le incessanti indagini per la scoperta dell’autore degli assassini di Leonardi Armanda e di altre bambine, condotte silenziosamente ma tenacemente, sotto la personale direzione del Questore di Roma, sono state coronate da pieno successo. Dopo una lunga serie di appostamenti e osservazioni, l’assassino, raggiunto da un cumulo di elementi di prova, che appaiono irrefragabili, è stato identificato e arrestato. Egli è il mediatore Gino Girolimoni, nato il 1° Ottobre 1889 a Roma, dove ha vari appartamenti (…) Vero tipo di degenerato, si è potuto accertare durante il periodo in cui è stato sottoposto a pedinamento, che ha una abilità davvero eccezionale nell’eclissarsi dopo i tentativi di adescamento, ricorrendo anche al travisamento, come risulta da numerose fotografie rinvenute in uno dei suoi appartamenti. Procedutosi al suo arresto, l’assassino, sottoposto a stringenti interrogatori, ha mostrato il più ripugnante cinismo, negando sempre e dimostrando quell’audacia e quella scaltrezza che aveva già dimostrato nei suoi orribili delitti. Ma contro di lui stanno le prove schiaccianti, e particolarmente gli atti di ricognizione eseguiti con numerose persone che lo avevano precedentemente veduto e che lo hanno riconosciuto senza possibilità di equivoci o di inganno.
La ‘brillante’ operazione che portò all’arresto di Girolimoni, gratificò il capo della polizia (Bocchini), il questore di Roma (Angelucci) e alti funzionari che vennero convocati a Palazzo Venezia per ricevere l’encomio di Mussolini. L’incubo durato per tre anni aveva finalmente avuto fine grazie alla sagacia della polizia. Il caso, per quanto riguardava il potere politico, era chiuso”.
“L’Assoluzione”
Le “irrefragabili” prove della colpevolezza di Girolimoni, supervisionate dal questore in persona “senza possibilità di equivoci o inganno”, ad un più attento esame si rivelarono talmente inconsistenti da crollare miseramente già in corso di istruttoria, senza che si arrivasse nemmeno ad un pubblico dibattimento. Gino Girolimoni viene scarcerato l’8 Marzo 1928 da una magistratura, evidentemente, non ancora asservita alla volontà del regime.
“Il proscioglimento e la scarcerazione di Girolimoni passarono sotto silenzio (…) Non si poteva ammettere una sconfitta così clamorosa, con il rischio di riaprire nella capitale la psicosi del mostro. Si disse comunque che Girolimoni era stato ampiamente indennizzato e che era stato autorizzato a cambiare cognome”.
FALSO. Girolimoni non ricevette mai alcun indennizzo e le sue richieste di poter cambiare cognome vennero sistematicamente ignorate. “Continuò a vivere a Roma circondato dall’ombra del sospetto. Non poté riprendere la sua attività, cessò la vita brillante e, (rovinato economicamente) si mise a fare il ciabattino. Non riuscì a trovare casa perché nessuno era disposta ad affittargliela. Non si sposò”. Morì poverissimo il 19 Novembre del 1961 e venne tumulato nel cimitero del Verano, a spese del Comune.
Il vero martirizzatore di bambine non fu mai trovato.
“I malvagi dormono in pace”
Tra coloro che contribuirono a demolire il castello probatorio costruito contro Girolimoni, va sicuramente ricordato il commissario di P.S. Giuseppe Dosi che, nonostante l’aperta ostilità dei suoi superiori, riuscì probabilmente a identificare il vero colpevole. Dosi incominciò a condurre indagini in proprio e annotò come tutti i rapimenti fossero avvenuti in un area piuttosto ristretta della città, in un raggio di ½ Km intorno alla basilica di S.Pietro. “Rilevò che quando il rapitore era stato scorto da taluno, era stato indicato come una persona alta, distinta elegante, anziana, con baffi curati, e secondo alcuni con accento straniero”. Vestito con abiti grigi o scuri. Da clergyman. Il commissario Dosi annotò altre circostanze: vicino al corpo di Rosina Pelli era stato rinvenuto un fazzoletto con le iniziale R.L. in caratteri gotici; nel caso di Elsa Berni erano stati trovati i frammenti di una lettera scritta in inglese; mentre vicino al cadavere di Armanda Leonardi erano stati repertati i resti di una rivista religiosa, sempre in lingua inglese. Dosi scoprì che, a Roma, coloro che ricevevano tale pubblicazione in abbonamento erano solo tre persone. In particolare, l’attenzione del poliziotto si concentrò su un pastore protestante della Holy Trinity Church, di nome Ralph Lyonel Brydges, ultrasessantenne, ma dal fisico asciutto e con baffetti molto curati. Durante l’arresto di Girolimoni, il religioso si era recato a Capri e, durante il breve soggiorno, si era subito dedicato a quello che sembrava essere il suo passatempo preferito: l’adescamento di bambine. Sorpreso a molestare una bambina inglese di sette anni, Patricia Blakensee, il sacerdote venne fatto pedinare per ordine del podestà dell’isola e successivamente arrestato per atti di libidine violenta, sempre ai danni della stessa Blakensee. Grazie all’intercessione del console britannico, il sacerdote venne prosciolto e dichiarato infermo di mente. Tuttavia, per la determinazione pressoché isolata di Dosi, nell’Aprile 1928 R.L.Brydges venne formalmente incriminato per i delitti del “mostro di Roma” e nuovamente prosciolto, perché impotente. Il pedofilo sembrava infatti godere della protezione della Chiesa Anglicana e, soprattutto, del Vaticano (vizietto antico). Trasferitosi in Sud Africa, pare abbia ripreso la sua attività di ‘serial killer’. “Dal Sud Africa sarebbe poi passato in Canada dove sembra sia morto in un manicomio. Altri lo vorrebbero finito sulla forca in Inghilterra, ma l’evento non ha mai avuto conferme”. Il commissario Dosi venne dapprima trasferito, poi arrestato, e successivamente rinchiuso in manicomio per ‘megalomani’. Liberato dopo la caduta del fascismo, venne reintegrato nella polizia divenendo uno dei massimi dirigenti dell’Iterpol.
Le notizie di queste indagini furono tenute segrete e non approdarono mai alla stampa. Tuttavia, è possibile che di “mostri” in circolazione ce ne fossero addirittura due: in alcuni casi, l’assassino aveva dimostrato un’ottima conoscenza della città e del rione di Borgo Pio, dando prova di sangue freddo e spietata determinazione. Ma in altre circostanze, gli stupri si erano conclusi in maniera frettolosa, nelle immediate vicinanze del luogo del rapimento, e spesso il pluriomicida non aveva trovato il tempo o la forza per strangolare le sue giovani vittime. Ma alla polizia e, soprattutto, al governo il ‘Mostro di Roma’ non interessava più.
DOCUMENTAZIONE :
Giangiulio Ambrosini; Il mostro di Roma: Gino Girolimoni – Annale XII della Storia d’Italia. Einaudi, 1997
Per una panoramica completa e particolarmente curata sull’argomento, potete leggere l’ottimo: “GIROLIMONI (e) IL MOSTRO DI ROMA”