«Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità, ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro.»
Umberto Eco
“Costruire il nemico”
(15/05/2008)
Archivio per Partiti
Hic sunt leopoldi
Posted in Masters of Universe with tags Cesarismo, Costituzione, Democrazia, Destra, Diritto, Elezioni, Governo, Guido Morselli, Italia, Leggi, Leopolda, Liberthalia, Matteo Renzi, Nazione, Nemico, Padroni, Partiti, Partito della nazione, PD, Politica, Post-democrazia, Potere, Rappresentanza, Sindacati, Sinistra, Società, Stato, Stato di diritto, Umberto Eco on 28 ottobre 2014 by Sendivogius“Nessun partito politico è di sinistra dopo che ha assunto il potere.”
In quanto ai “partiti della nazione”, che nei casi più deleteri hanno l’inclinazione a degenerare in “partiti unici”, i precedenti non mancano e non sono dei migliori…
Partito della Nazione
Posted in Muro del Pianto with tags Alfredo Reichlin, Catch-all party, Consenso, DC, Democrazia Cristiana, Generazione Telemaco, Italia, Liberthalia, Matteo Renzi, Otto Kirchheimer, Partiti, Partiti colorati, Partito Comunista, Partito della nazione, Pier Ferdinando Casini, Politica, Post-democrazia, Società on 4 luglio 2014 by Sendivogius
Ultimamente, si sente parlare sempre più spesso e con una certa leggerezza, in conformità con la faciloneria dei tempi che corrono, di “Partito della Nazione”. Si tratta di una scelta semantica funzionale a
definire la catalizzazione del consenso. E di per se stessa si presta a interpretazioni quantomeno dubbiose: se la “nazione” vive politicamente in un partito che ne riflette le scelte e l’animus prevalente, come si dovrebbe definire ciò che ne resta al di fuori per incapacità di omologazione o intrinseca resilienza? Anti-nazionale, e dunque anti-italiano, ‘sovversivo’?!?
Se la scelta delle parole è importante, bisognerebbe saper cogliere anche il presupposto “totalitaristico” di simili definizioni…
Il termine, recentemente evocato dal premier Renzi, è in realtà una vecchia trovata di Pier Ferdinando Casini [QUI]. E con ogni evidenza si ispira a quello che in Italia fu il “partito della nazione” per eccellenza: la Democrazia Cristiana. La riscoperta rende bene qual’è il modello ispiratore e l’approdo ultimo delle attuali fregole “riformiste”, soffritte in salsa liberista.
Ma l’idea di un “partito della nazione” non è certo una novità nello spettro politico, visto che solletica perfino le simpatie di vecchi comunisti in disarmo come Alfredo Reichlin, in una ritrovata visione egemonica ai tempi della post-democrazia.
Sostanzialmente, costituisce una variante rivista e corretta del cosiddetto catch-all party, il “partito pigliatutto”: invenzione non nuovissima, dal momento che il primo ad utilizzare l’espressione fu il prof. Otto Kirchheimer, che ne teorizzò la struttura già a metà degli anni ’60, considerando il fenomeno come la naturale evoluzione dei partiti di massa. Tramite l’adozione di un armamentario post-ideologico, assolutamente flessibile e trasversale, il “partito pigliatutto” si concentra sulla promozione elettorale di interessi specifici e quanto più variegati possibile. Ottimizza il consenso, tanto più condivise sono le tematiche promosse, quanto più è indefinita la visione ideologica d’insieme e liquido il suo elettorato di riferimento. Allargando l’offerta elettorale delle proposte, pesca suffragi nei bacini elettorali più diversi. Si direbbe che più che indirizzare l’elettore, focalizzando l’azione su specifici temi, ne insegua piuttosto gli umori, avvallandone le pulsioni e funzionando come perfette macchine elettorali, per la massimizzazione del consenso in termini di voti.
Il “partito pigliattutto” è stata l’entità prevalente dell’ultimo decennio, con la sua struttura su base personalistica, mutuata dal linguaggio pubblicitario e dal marketing avanzato. Pertanto, si è passati dal partito-azienda, inteso come emanazione proprietaria delle aziende Mediaset, al sedicente “movimento” che pesca a destra e a sinistra, fuori dai vincoli di appartenenza politica nel culto ossessivo del Capo politico di cui è la protuberanza, ma in quest’ultimo caso siamo fuori scala ed è come contare i coliformi in una fogna. Più ordinario è invece il caso di quell’ex contenitore di correnti l’un contro l’altra armate, che è stato fino a poco tempo il partitone democratico, ridotto oramai a coreografia scenica e filiale organizzativa del renzismo dilagante.
Soprattutto, nella loro offerta indifferenziata, i catch-all parties sono prodotti a forte contenuto mediatico, fondati sulla predominanza degli slogan, e costruiti attorno alla personalità eclettica di un leader di cui si mettono al servizio, essendo strumenti più funzionali che sostanziali. E questo ne costituisce anche il limite e la debolezza più evidente, dal momento che la vacuità ideologica, il personalismo verticistico, ed i trasformismi politici, possono degenerare nei casi peggiori, in culto della personalità, incentrato attorno ad un populismo reazionario e improntati alla massima ubiquità.
Come sempre, gli esempi più deleteri ci vengono dalla realtà latinoamericana, rotta a tutte le degenerazioni possibili. In tale ambito, un modello atipico quanto particolare sono i “partidos colorados” di Paraguay ed Uruguay, capaci delle involuzioni e dei contorcimenti politici il più eclatanti (e ripugnanti) possibile.
Tornando invece alla specificità italiana, sopravvalutare la portata dei propri successi (ancor più se elettorali per tornate minori) non è mai un buon metro di giudizio, esattamente come non giova all’azione la prudenza eccessiva.
E questo bisognerebbe ricordarlo all’aspirante “Telemaco” in viaggio per l’Europa. Peraltro, ad essere pignoli, la scelta mitologica è davvero tra le più infelici: Telemaco nel suo girare a vuoto, è uno dei personaggi più inconcludenti dell’Odissea; tutta la sua vita è consacrata alla ricerca del padre assente (che se la spassa come meglio può, passando di letto in letto), al quale demandare la risoluzione di problemi (tipo i proci che gli hanno occupato casa e gli insidiano la madre) che è totalmente incapace di risolvere da
solo. Che siano la dea Atena, che si manifesta con l’aspetto del vecchio Mentore, papà Ulisse (travestito da vecchio), la madre Penelope… Telemaco si appoggia totalmente agli altri, i “vecchi” per l’appunto, senza i quali è perduto. Quando per forza di cose decide da solo, affrancandosi finalmente dall’ombra paterna, inesorabilmente sbaglia e fa una gran brutta fine.
Ecco, parlare di “Generazione Telemaco” non è esattamente una metafora di buon auspicio. Fortunatamente, la gilda di mercanti riunita sotto la finzione di un europarlamento è troppo intenta a tirar di conto sulla pelle dei popoli, per perder tempo a leggere i Classici (non è stato detto che con la Cultura non si mangia?) e dunque non si corre il rischio possa cogliere l’incongruenza. In quanto agli apologeti di casa nostra, che sempre più numerosi si affollano alla destra del Figlio, riuscirebbero a far passare l’ottone per la pietra filosofale.
È curioso che ci si gingilli invece attorno a recipienti dal contenuto variabile come il “partito della nazione”, tanto da non capire quanto siano anacronistici sia l’uno (il “Partito”) che l’altra (la “Nazione”) in un contesto fortemente diversificato. A meno che non si intenda utilizzare il nuovo contenitore come un vaso di decantazione, dove marinare opinioni, divergenze e sensibilità differenti, lasciate in decantazione fino ad elidere ogni sfumatura contraria, nell’illusione di un unanimismo stretto attorno ad un leader che decide in splendida solitudine. Perché se in Italia c’è una cosa che non manca, sono i suoi aspiranti “salvatori”.
REPETUNDAE
Posted in Kulturkampf with tags "Papà Goriot", Amministrazione, Andrea Orlando, Angelino Alfano, Antichità, Cleptocrazia, Concussione, Corruzione, Cosimo Ferri, Cultura, Diritto, Enrico Berlinguer, Enrico Costa, Equites, Giustizia, Governo, Governo Renzi, Honoré de Balzac, Istituzioni, Italia, Ladri, Laguna di Venezia, Leges de pecuniis repetundis, Liberthalia, Lodo Alfano, Matteo Renzi, Mose, Optimates, Partiti, PD, PdL, Peculato, Politica, Populares, Quaestio Repetundarum, Quaestiones perpetuae, Questione morale, Repetundae, Respublica Romana, Roma, Silvio Berlusconi, Società, Stato, Storia on 6 giugno 2014 by Sendivogius«Lo sa come ci si fa strada qui? Brillando per genio o per capacità di corruzione. Bisogna penetrare in questa massa di uomini come una palla da cannone o insinuarvisi come la peste. L’onestà non serve a niente. Ci si piega al potere del genio, lo si odia, si cerca di calunniarlo perché prende senza condividere; ma ci si piega se persiste. In poche parole, lo si adora quando non si è potuto seppellirlo nel fango. La corruzione domina, il talento è raro. La corruzione è quindi l’arma della mediocrità che abbonda, e ovunque ne sentirà la punta acuminata.»
Honoré de Balzac
“Papà Goriot”
(1834)
Si fa presto a parlare di “questione morale”. Con buona pace di Enrico Berlinguer, la corruzione non costituisce una anomalia strutturale in seno alle istituzioni democratiche, con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi. O, quanto meno, così non è più…
Se un tempo ormai remoto erano i ‘partiti’ a condizionare le cosiddette “realtà produttive”, nell’autofinanziamento delle proprie correnti interne e nel consolidamento delle rispettive cosche elettorali, oggi è il mondo degli affari e dell’imprenditoria ad usare la ‘politica’ come un tram per aggirare leggi e vincoli normativi, in nome di un turbo-capitalismo restituito alla sua naturale vocazione predatoria. La denuncia berlingueriana presupponeva, a suo modo, l’esistenza di un “primato della politica”, per quanto distorto e corrotto nella degenerazione dei partiti intesi come sistema di potere e di controllo, incistato sulle camarille clientelari di potentati locali per la gestione del consenso su scala nazionale, con forme organizzate di finanziamento illecito.
Attualmente, il ‘referente politico’ appare più che altro come uno spudorato scroccone che si mette a disposizione, in posizione del tutto subalterna, lucrando prebende e favori da spendere a proprio uso e consumo esclusivo. Sottratto alla dimensione squallidamente parassitaria dei suoi protagonisti, a livello politico (e partitico), il vantaggio è minimo se non inesistente. Tant’è che oggi il fenomeno criminogeno ha una struttura sistemica assolutamente radicata nei poteri stessi dello Stato, inteso come tutore organizzato di interessi particolarissimi per consolidati intrecci criminali.
Dinanzi all’affondamento della Laguna, travolta dalla marea montante degli scandali; di fronte all’immensa greppia costruita attorno all’Expo milanese, alle rapine finanziarie che hanno coinvolto non da ultimi i vertici della Banca Carige, è difficile infatti parlare (solo) di corruzione dei partiti politici, intesi “come macchine di potere e di clientela”, quando il marcio si estende all’intero apparato istituzionale della macchina statale, sedimentata sotto gli strati di melma di una corruzione endemica, che si alimenta di funzionari pubblici, magistrati contabili, imprenditori, procacciatori d’affari e intermediatori, imprenditori, banchieri che perseguono un unico fine: arricchirsi. E farlo a spese pubbliche, usando le proprie cariche come leva di potere finalizzata al profitto personale (a tal punto da mettere in conto persino le spese per la carta igenica!).
Tutto è funzionale alla crapula: istituzionalizzata, depenalizzata, tollerata.. nella prosecuzione degli ‘affari’ con altri mezzi (illeciti), sull’onda lunga della cleptocrazia berlusconiana. Tanto da rasentare la norma, mentre l’eccezione è proprio l’aspetto (im)propriamente ‘morale’, che risulta comunque flessibile, asimmetrico, relativizzato a seconda dell’uso strumentale che se ne fa, nella furia iconoclasta e massimamente effimera del fustigatore di turno, tra i fumi di ritorno della peggior demagogia populista.
Per gusto estremo del paradosso, e tendendo ben presenti le doverose distinzioni, Si potrebbe quasi dire che la corruzione sia il metro di misura delle civiltà complesse…
Il livello di malversazioni, dei pubblici ladrocini e corruttele diffuse, nella sua strutturazione fisiologia in un sistema di corruzione collaudato, quanto persistente nella sua immanenza quasi metafisica fusa con l’apparato amministrativo, la realtà italiana ha forse pochi uguali nell’ambito delle democrazia europee, tanto da costituire il paradigma del nostro declino, ma presenta sconcertanti analogie con la tarda Respublica romana…
Insita nella realtà politica del mondo antico, la corruzione è strutturale all’economia di rapina che ne contraddistingue l’amministrazione statale e gli ambiti ‘produttivi’, caratterizzati dal saccheggio indiscriminato e lo sfruttamento selvaggio della manodopera, insieme all’incapacità di distinguere il patrimonio privato dall’appropriazione indebita dei beni comuni.
Se ogni carica pubblica costituiva infatti un’occasione di illecito arricchimento, era pratica consolidata dei funzionari della repubblica (elettivi) compensare le spese della campagna elettorale, con una congrua cresta a carico dell’erario, che nella fattispecie si esplicava in un ladrocinio istituzionalizzato.
Per porre un freno alle malversazioni ed alle rapine dei funzionari romani ai danni delle popolazioni amministrate, di malavoglia e sotto la spinta dei provinciali derubati, intorno alla metà del II° secolo a.C., la Respublica finì con l’istituire una serie di tribunali permanenti (quaestiones perpetuae), con lo specifico scopo di perseguire i reati di corruzione. E ne esistevano tanti quante erano le fattispecie di reato ascrivibili alle pubbliche funzioni.
Ad esempio, la quaestio de ambitu sanzionava gli illeciti inerenti la gestione della propaganda elettorale: dalla compravendita dei voti al ricorso ai brogli, che erano una pratica comune e universalmente diffusa nelle campagne elettorali.
La quaestio de peculato, come suggerisce il nome stesso, si occupava dei reati di peculato: dall’appropriazione illecita, alla concussione, alle frodi fiscali.
Le numerose Leges de pecuniis repetundis (per la restituzione del maltolto), che istituivano la quaestio repetundae, non si configuravano tanto come un provvedimento dettato dalla volontà di ripristinare la legalità violata e la repressione del crimen repetundarum, ma rientravano nell’ordinaria lotta politica, che a Roma opponeva la fazione degli Optimates a quella dei Populares, e costituivano un mero strumento di pressione per la conquista del potere.
Solitamente, era il mezzo con cui il ceto emergente dei populares cercava di scardinare lo strapotere della vecchia aristocrazia senatoria (optimates) dalla quale provenivano in massima parte i governatori provinciali ed i più importanti funzionari pubblici, avocando a sé la gestione dei procedimenti penali per corruzione, con processi che difficilmente addivenivano ad una sentenza definitiva, ma quasi sempre si concludevano con la fuga del reo in volontario esilio, per sfuggire alla condanna. E conseguente allontanamento (provvisorio) dall’agone politico.
Che poi il giudizio delle corti fosse affidato alla classe degli equites (“cavalieri”): avidi mercanti senza scrupoli, ai quali veniva pure data in appalto la riscossione delle imposte che erano soliti ricaricare illegalmente, trasformando l’esazione in una estorsione, era aspetto assolutamente irrilevante.
Il crimen repetundarum poteva essere “coactum”, ovvero tramite intimidazione e violenza, “conciliatum”, ovvero attuato tramite lusinghe e promesse; “avorsum”, l’appropriazione indebita di fondi destinati all’erario.
E in questo la legge romana non era molto dissimile all’attuale giurisprudenza che distingue la concussione per induzione da quella per costrizione. Se non fosse che l’originale latino era di gran lunga più severo nell’erogazione delle pene, più rapido nelle procedure di giudizio, e persino meglio strutturato dal punto di vista giuridico.
Tra i grandi ‘moralisti’ dell’epoca vale invece la pena di ricordare l’integerrimo Catone che, come advocatus e patronus dei provinciali iberici venuti a Roma (siamo nel 171 a.C.) per denunciare le ruberie del governatore locale, fece di tutto per insabbiare il processo affinché non venissero chiamati a rispondere in giudizio i nobiles ac potentes.
“Fama erat prohibere a patronis nobiles ac potentes compellare”
Tito Livio
(XLIII, 2)
E soprattutto Marco Tullio Cicerone che si costruì una reputazione come implacabile accusatore del governatore siciliano Verre, salvo divenire poi uno dei più fanatici difensori dell’oligarchia senatoria (e delle sue ruberie), dopo esserne entrato a far parte per cooptazione.
Ad ogni modo, il processo per la restituzione della pecunia capta fu il primo procedimento penalmente strutturato contro i fenomeni di pubblica corruzione e le pratiche di concussione. Funzionò? No, altrimenti non staremmo qui a parlare dei medesimi problemi, sotto altra forma per identica sostanza, dopo quasi duemila anni.
P.S. Il Bambino Matteo, il cui recente successo elettorale deve avergli conferito l’inopinata convinzione di essere diventato Augusto imperatore, con l’ennesimo slancio pallonaro che lo contraddistingue ha annunciato indignato:
«Fosse per me i politici corrotti li condannerei per alto tradimento. Chi viene condannato per queste cose non dovrebbe tornare a occuparsi della cosa pubblica, ecco il perchè della mia proposta di ‘Daspo istituzionale’.»
(05/06/14)
Sarà per questo che con quelli già condannati in via definitiva, con sentenza passata in giudicato e interdetti dai pubblici uffici, ci fa le “riforme” (a partire da quella della Giustizia) e ci riscrive insieme pure la Carta costituzionale!
Probabilmente, tra i provvedimenti urgenti sarebbe assai più utile la stesura di un vero ddl anti-corruzione che preveda, tra le molte cose, il ripristino del falso in bilancio, norme più stringenti sulla concussione, insieme ad una legislazione più severa contro il riciclaggio di capitali illeciti, oltre all’allungamento dei tempi di prescrizione per i processi.
Certo è un po’ difficile mettere in agenda simili priorità, specialmente quando ad affiancare l’evanescente guardasigilli Orlando ci sono due nomi che costituiscono una garanzia (per lo statista ai servizi sociali):
Enrico Costa, viceministro alla Giustizia nel Governo Renzi; già relatore per conto del Governo Berlusconi (il pregiudicato interdetto e a processo per sfruttamento della prostituzione minorile) del Lodo Alfano, che bloccava i processi giudiziari nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato. Lodo regolarmente firmato dal Presidente Napolitano e quindi abrogato dalla Corte Costituzionale per manifesta incostituzionalità. Ma all’avvocato Costa si deve anche la stesura del “legittimo impedimento” che prevedeva la sospensione dei processi giudiziari a carico dell’allora Presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi) e ministri, fintanto che avessero mantenuto la carica elettiva. Tra le iniziative legislative dell’onorevole Costa vale la pena ricordare anche l’istituzione del “processo breve”, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati, la rivisitazione al ribasso dei tempi di prescrizione della Legge ex-Cirielli, la sottoscrizione della cosiddetta “Legge Bavaglio” contro la libertà di informazione, e la partecipazione a quasi tutte le leggi ad personam che hanno nei fatti paralizzato la giustizia penale in Italia.
Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia prima con Letta (nipote) e poi (in nome del cambiamento) riconfermato da Renzi. Il sottosegretario Ferri è il tipico magistrato politicizzato che piace al Papi (e non solo). È il grande regista sotterraneo della guerra interna scatenata dal viceprocuratore Alfredo Robledo contro i magistrati della Procura di Miliano. Mai indagato, il suo nome compare però nelle intercettazioni ambientali sull’inchiesta legata alla vicenda P3 ed alle pressioni esercitate sull’Agcom di Innocenzi [QUI], per bloccare le trasmissioni che parlavano dell’inchiesta sui fondi neri Mediaset.
A chiudere la trattativa in gran bellezza, basti ricordare che Angelino Alfano (quello dell’omonimo Lodo) è vicepremier nel Governo Renzi.
PER ULTERIORI LETTURE:
QUI, dove si parla di Andrea Orlando non ancora ministro, e ancor meno turbato, quando parlava di rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale, perché anche all’opposizione il PD rimane un “partito serio e responsabile”.
QUI, dove si parla di mostri giuridici, leggi in deroga e poteri speciali e Grandi Opere e maga-appalti sui viali dorati dell’emergenza perenne.
QUI, dove si accenna al “Consorzio Venezia Nuova” di Giovanni Mazzacurati, ai primi arresti, ad ai sospettabilissimi amici di una disciolta Fondazione…
Matteo stai sereno!
Countdown
Posted in Muro del Pianto with tags Antonio Gramsci, centrodestra, Centrosinistra, Cultura, Enrico Letta, Governabilità, Governismo, Governo, Italia, Liberthalia, Ministri, Nunzia De Girolamo, Partiti, PD, Pensiero, Politica, Sinistra, Stabilità on 17 gennaio 2014 by SendivogiusLa drammatica prosecuzione delle Laide Intese supera il masochismo più estremo e rischia di pesare come una lapide (tombale) su quello che fu il “maggior partito della sinistra italiana”, con tanto di vocazione maggioritaria, e quanto mai prossimo alla tumulazione sotto le macerie di un governissimo, che ogni giorno perde pezzi indecenti dai suoi impresentabili gabinetti ministeriali. Il principale azionista di una maggioranza, prossima più alla demolizione che al capolinea, sembra quasi intento a vergare il proprio epitaffio funebre, nella difesa suicida di una parabola governativa ormai all’epilogo della sua fase discendente. Prigioniero com’è della paralizzante chimera migliorista, il partito bestemmia si contorce nell’incapacità di affrancarsi dal mito autogenerato della Stabilità, che poi è la patologica reiterazione di un “governismo ossessivo compulsivo che tenta di spacciare per Responsabilità”.
Dinanzi allo spettacolo desolante di una “sinistra” istituzionalizzata, che però ha la decenza di non definirsi nemmeno più tale, schiacciata tra (ex) giovani democristiani e giovani turchi allo sbaraglio, in perenne crisi di identità, la non-soluzione è rimessa alla continua ricerca di sempre nuovi padri putativi per supplire alla nascita da una madre incerta. A volte basterebbe rileggere i classici e riscoprire i padri nobili di una Sinistra
che fu grande, prima di farsi “centro”, scoprirsi liberal-liberista, e smarrire senso e sostanza in nome di un riformismo astratto, incapace di andare oltre il vuoto di una retorica fumosa, riducendosi a fare da scendiletto ad imbarazzanti nullità, sciaguratamente elevate a ministro, in ossequio ad una alleanza incestuosa (e vergognosa!) e rapporti innominabili con vecchi satrapi viziosi.
Il Regime dei Pascià
«L’Italia è il paese dove si è sempre verificato questo fenomeno curioso: gli uomini politici, arrivando al potere, hanno immediatamente rinnegato le idee e i programmi d’azione propugnati da semplici cittadini.
[…] i ministri non sono mandati e sorretti al potere da partiti responsabili delle deviazioni individuali di fronte agli elettori, alla nazione. In Italia non esistono partiti di governo organizzati nazionalmente, e ciò significa che in Italia non esiste una borghesia nazionale che abbia interessi uguali e diffusi: esistono consorterie, cricche, clientele locali che esplicano un’attività conservatrice non dell’interesse generale…. ma di interessi particolari di clientele locali affaristiche. I ministri, se vogliono governare, o meglio se vogliono rimanere per un certo tempo al potere, bisogna s’adattino a queste condizioni: essi non sono responsabili dinanzi a un partito che voglia difendere il suo prestigio e quindi li controlli e li obblighi a dimettersi se deviano; non hanno responsabilità di sorta, rispondono del loro operato a forze occulte, insindacabili, che tengono poco al prestigio e tengono invece molto ai privilegi parassitari.
Il regime italiano non è parlamentare, ma, è stato ben definito, regime dei pascià, con molte ipocrisie e molti discorsi democratici.»Antonio Gramsci
(18/07/1918)
L’illusione populista
Posted in A volte ritornano, Kulturkampf with tags Anti-politica, Argentina, Beppe Grillo, Capo politico, Cultura, Democrazia, Europa, Fascismo, FN, FPO, Francia, Fronte Nazionale, Gente, Getulio Vargas, Gustave Le Bon, Italia, Jörg Haider, Juan Domingo Peron, Leader carismatico, Leadership, Liberthalia, Movimenti politici, Pancia della gente, Partiti, People Party, Pierre-André Taguieff, Politica, Popolo, Populismo, Post-democrazia, Referendum, Società, Sudamerica on 3 novembre 2013 by SendivogiusGrillini si connettono al webbé
“Noi parliamo alla pancia della gente. Siamo populisti veri. Non dobbiamo mica vergognarci. Quelli che ci giudicano hanno bisogno di situazioni chiare. Ad esempio prendete l’impeachment di Napolitano. Molti di voi forse non sono d’accordo, lo capisco. Ma è una finzione politica. E basta. Non possiamo dire che ha tradito la Costituzione. Però diamo una direttiva precisa contro una persona che non rappresenta più la totalità degli italiani. Noi siamo la pancia della gente. Abbiamo raddrizzato la situazione, siamo stati violenti per far capire alla gente.
Se andiamo verso una deriva a sinistra siamo rovinati.”Beppe Grillo
(30/10/13)
Circoscritto alla sua dimensione premoderna, il “populismo” propriamente detto è stato un fenomeno limitato, ancorché velleitario, tipico di realtà preminentemente rurali: i narodniki della Russia zarista nella seconda metà del XIX secolo e, alle sue propaggini opposte, il People’s Party negli Stati Uniti di fine ‘800. Entrambi furono pervasi da confuse istanze progressiste, nella loro forma ibrida ancora in evoluzione.
Sostanzialmente, il populismo si configura come una forma di primitivismo politico, che si alimenta di suggestioni e pulsioni emotive.
Come reazione alla modernità, nel trionfo dell’irrazionalismo e nel culto dell’azione nutrito dal mito per la “rivoluzione”, si confonde spesso e volentieri col nazionalismo, contribuendo non poco a concimare il substrato ideologico dei fascismi europei.
In Sudamerica, il populismo si contraddistinguerà come il tratto distintivo dei vari caudillos latinoamericani, dal Brasile di Getulio Vargas al “Partito Giustizialista” nell’Argentina di Juan Domingo Peron. E, con tutte le sue varianti nazional-popolari, fornisce a tutt’oggi la forma di governo predominante nel continente.
Nei sistemi politici maturi, il “populismo” ha sempre costituito un fenomeno marginale, alimentato da insofferenze piccolo-borghesi e ribellismo fiscale. Con ondate regolari, si manifesta ad ogni vento di crisi, spinto dalla marea di un malcontento diffuso ma propositivamente effimero. Nella sua forma ricorrente, rappresenta una cesura polemica tra la rappresentanza elettorale ed il corpo votante, in cerca di rassicurazioni e soluzioni semplificate a problemi complessi. Si muove su una piattaforma trasversale, attingendo tra i delusi della politica tradizionale; oscilla a sinistra, ma quasi sempre finisce per collocarsi a destra lambendone le estreme.
Nell’Europa della post-democrazia, con la crisi della rappresentanza e lo svuotamento progressivo delle libertà costituzionali, il populismo è rapidamente assurto dalla sua posizione irrilevante, confinato com’era nella periferia del tribalismo protestatario, a espressione prevalente ed in rapida ascesa nell’asfittico panorama della politica tradizionale.
«Nati spesso dal nulla come movimenti di protesta, privi di strutture, di quadri e di organizzazione, mossi da un imprenditore politico, i partiti populisti – ma non solo – si identificano innanzi tutto con il loro leader. E nonostante la loro estrema varietà, tutti i populismi hanno almeno un elemento in comune: l’importanza della leadership, al punto che molti di questi movimenti mantengono la loro unità e sopravvivono solo finché perdura il carisma del fondatore.
[…] Il populismo non si riferisce al capo solo come incarnazione dell’autorità: il leader è anche colui che esprime attraverso la sua persona i valori di cui il “popolo” è portatore. Grazie al suo carisma è in grado di mobilitare le energie al servizio del popolo e della nazione.»Yves MENY e Yves SUREL
“Populismo e Democrazia”
Il Mulino (Bologna, 2001)
Per i limiti congeniti alla carica anti-sistemica, solitamente i movimenti populisti non riescono quasi mai ad “istituzionalizzarsi”, finendo con l’esaurire la loro spinta propulsiva per l’impossibilità intrinseca di realizzare la “missione” prefissata. Incentrati esclusivamente sulla figura carismatica del “capo politico”, al quale legano le sorti in un rapporto esclusivo, si dissolvono in fretta con l’eclisse politica del fondatore per difetto di organizzazione.
In una comunità carismatica, l’unico ruolo riconosciuto è quello del leader, che individua e quindi distribuisce le mansioni all’interno del gruppo, avocando a sé la sostanza degli aspetti decisionali ed il controllo delle reti di finanziamento, decidendone le forme e l’indirizzo secondo propria discrezione.
La concentrazione dei poteri in un’unica figura, legittimata dal fascino totalizzante del suo carisma, presuppone una debolezza intrinseca delle strutture organizzative del movimento, funzionali all’esercizio del potere carismatico e non alla creazione di una struttura permanente. L’assenza di ruoli formali distinti da quelli del “Capo”, l’irregolarità del finanziamento, la mancata strutturazione di regole e procedure, con organismi interni di garanzia per la corretta applicazione delle norme, ne costituiscono una conseguenza endemica.
D’altronde un’organizzazione strutturata in forme più complesse è rifiutata a priori, in quanto identificata con l’aborrita forma-partito, e sostituita quindi con la leadership padronale ed il rapporto diretto, quasi messianico, tra il “capo politico” ed il “popolo”, inteso più che altro come collettore omogeneo di messaggi “contro”.
A partire dagli anni ’90 del XX secolo, le nuove paure legate all’immigrazione di massa ed alla globalizzazione selvaggia, hanno gonfiato il bacino elettorale di “movimenti” e partiti populisti, facendoli tracimare dal loro alveo tradizionale, tanto che la loro espansione sembra diventata una peculiarità nei Paesi dell’area mediterranea. In questo, ha trovato fertile terreno soprattutto in Italia, da sempre laboratorio ideale di tutte le degenerazioni politiche e gli avventurismi personalistici…
Nella sua “Psicologia della folla” (1895), Gustave Le Bon attribuiva la tendenza ad una naturale eccitabilità delle folle latine.
“Non essendo la folla impressionata che da sentimenti eccessivi, l’oratore che vuole sedurla deve abusare delle affermazioni violente. Esagerare, affermare, ripetere, e non mai tentare di nulla dimostrare con un ragionamento, sono i procedimenti di argomentazione familiari agli oratori di riunioni popolari.”
Un secolo dopo, in tempi non sospetti, dinanzi al preponderante affermarsi del fenomeno, il
sociologo francese Pierre-André Taguieff concentrò le sue attenzioni sull’insorgenza capillare dell’illusione populista, utilizzando come termine di riferimento per il suo studio: il Front National della famiglia Le Pen ed il “FPO” austriaco del prematuramente scomparso Jörg Haider, nel rapporto tra nazional-populismo e nuova destra.
Nella sua ricerca, Taguieff distingue due tipi di populismo politico: il Protestario e l’Identitario.
E su questi delinea i tratti salienti del fenomeno analizzato nella sua complessità:
«Il populismo politico presuppone una dimensione polemica (essere populista significa innanzitutto “essere contro”). Occorre precisare che entrambe le forme di populismo possono collocarsi a destra o a sinistra, abbinarsi ad un orientamento liberale o ad una posizione conservatrice, mascherare un’ostentata posizione anticapitalista o un appello alla “libertà economica”, al “capitalismo popolare” ecc.
La retorica dei movimenti populisti di destra si caratterizza in particolare per il fatto di sfruttare quelli che alcuni politologi hanno chiamato i “sentimenti antipartitici”, tramite la denuncia del programma e dell’azione di altri partiti – dei “partiti di governo” prima di tutto – o dalla condanna del comportamento di questi ultimi. Questi partiti populisti, collocati a destra o all’estrema destra, si presentano non senza paradosso come “partiti antipartiti”. La traduzione in slogan di questa posizione paradossale è la denuncia del “sistema”, dell’establishment, della “classe politica”, del “sistema dei partiti”, e della “burocrazia”.»Pierre-André Taguieff
“L’illusione populista”
Mondadori, 2003
Il segreto intrinseco per sciogliere la dicotomia di “partito-antipartito” sta nella scelta
semantica del nome, declinato col termine di “movimento”. L’anti-parlamentarismo si traduce come critica alla “democrazia rappresentativa”, a favore di una democrazia “diretta”. Ovvero una democrazia plebiscitaria, dove di “diretto” c’è solo il costante appello al “popolo”, enumerato nel suo insieme come massa anonima ed omogenea.
Secondo Taguieff, la forma decisionale per eccellenza della democrazia populista è il referendum:
«..e più particolarmente il referendum di iniziativa popolare, che permette di aggirare le mediazioni politiche o amministrative, di scavalcare cioè il sistema rappresentativo, dato che sono gli stessi elettori, a certe condizioni, a prendere l’iniziativa della legge. Questa prima forma di populismo politico ha quindi la principale caratteristica di essere incentrata sulla contestazione o sulla critica del sistema di rappresentanza politica e sociale. Un tale tipo di populismo lo si incontra negli atteggiamenti, nei movimenti, o nelle ideologie protestatarie che mettono in atto una funzione “tribunizia”.
[…] L’appello al popolo implica la denuncia del sistema costituito della rappresentanza politica, simbolizzato nel discorso di Jorg Haider dai “vecchi partiti”…. La sua forma di legittimazione più efficace consiste nell’esigere una sempre maggior democrazia. Il 31/08/1994, Haider può così dichiarare: “Non ricostituiremo lo stato di diritto se prima non la faremo finita con il regno dei partiti costituiti. La democrazia rappresentativa è superata”.
[…] A questa domanda talvolta iperbolica di “democratizzazione” si aggiungono altre caratteristiche del discorso populista, che permettono globalmente di collocarlo a destra.
1) L’antintellettualismo, che implica l’esaltazione del sapere spontaneo o della saggezza ancestrale del popolo, il quale sa meglio dei suoi lontani dirigenti che cosa gli conviene.
2) L’iperpersonalizzazione del movimento, attraverso la figura carismatica del leader: Haider in Austria, Le Pen in Francia, Bossi nel Nord Italia, senza dimenticare Berlusconi. Nella maggior parte dei casi viene diffusa una leggenda oleografica ed edificante, che mette in evidenza la vita esemplare e la virilità del leader, il suo successo sociale e perfino la sua “onestà” o “sincerità”…. Del leader viene anche messa in rilievo l’esemplare capacità di contatto o di comunicazione con il popolo, qualità che gli permette di mostrarlo vicino “a chi sta in basso” e di distinguerlo dagli altri uomini politici, trattati come esemplari di un’unica e identica casta lontana dal popolo.
3) La difesa dei “valori del liberalismo economico”, indistinguibile da quella della piccola impresa e della proprietà privata; di qui anche la preferenza per certe categorie sociali: professioni liberali, piccoli e medi imprenditori, contadini ecc. (in realtà le classi definite medie a esclusione dei lavoratori dipendenti). Le altre categorie sociali tendono ad essere stigmatizzate come parassiti (gli impiegati pubblici in primo luogo) o come pericolosi deviati (gli artisti, tendenzialmente drogati e/o omosessuali). Si riconosce qui la tematica del “capitalismo popolare” (presente nel poujadismo ma anche nel lepenismo delle origini), che più o meno si avvicina al protezionismo economico ed è accompagnato da dichiarazioni antimondialiste o antiliberoscambiste. Questo populismo di difesa dei privilegiati specula sulla paura del declassamento sociale e si presenta, secondo l’espressione consueta, come “sciovinismo del benessere”, se non addirittura un “razzismo dei ricchi”.
[…] Un nuovo tipo ibrido è nato: il tribuno-proletario-miliardario.»
A maggior ragione, l’appello diretto al “popolo” del capo carismatico..
«implica non solo la sua intenzione di fare a meno delle mediazioni istituzionali e delle elite intermedie, ma anche di guarirlo contro queste ultime. In tale atto, che è anche l’espressione di un desiderio, si riconosce la dimensione anti-establishment, che può tradursi in una posizione anti-parititica, se non addirittura anti-politica. Di qui l’autodefinizione di una simile forza politica come “movimento”, come raggruppamento popolare incarnato dal leader carismatico e orientato contro il sistema politico, preso di mira nel suo insieme o solo in certe figure. Il Front National si colloca così sia tra i partiti antipartitici che in quelli antisistema.
[…] L’appello diretto al popolo corrisponde a due orientamenti: da una parte, il sogno di un ordine politico privo di mediazioni, liberato dagli astratti e complessi sistemi di rappresentanza, che apre uno spazio utopico in cui il principio della sovranità del popolo si ritraduce in un suo puro autogoverno (la “democrazia diretta”); dall’altra, la cristallizzazione dei sogni di fiducia, trasparenza, purezza e unità fusionale del faccia a faccia idealizzato tra il “capo” ed il “suo” popolo (la democrazia diretta illustra allora il tipo di autorità carismatica, diventando indistinguibile da una democrazia plebiscitaria). L’autenticità del popolo è così costruita attraverso una duplice denuncia di potenze ostili, più o meno invisibili…. Il sogno di trasparenza reso evidente dall’appello alla democrazia diretta (che si riduce a referendum di iniziativa popolare) ha come rovescio il ricorso alla “teoria del complotto”.»Pierre-André Taguieff
“L’illusione populista”
Mondadori, 2003
A soggetti inversi il prodotto non cambia. Si parla dei fascisti del Fronte Nazionale (ed altre deiezioni sparse), ma sembra la descrizione di qualcun altro…
IL POPOLO DEI QUALUNQUE
Posted in A volte ritornano with tags Antipolitica, Borghesia, Ceti medi, Cultura, Democrazia, Fascismo, Folla, Fronte dell'Uomo Qualunque, Gente, Gino Germani, Guglielmo Giannini, Italia, Liberismo, Liberthalia, Messianismo, Movimenti, Partiti, Politica, Popolo, Populismo, Qualunquismo, Resistenza, Società, Sociologia, Tzvetan Todorov, Uomini politici, upp on 9 ottobre 2013 by SendivogiusAnno 1944, mentre infuria la seconda guerra mondiale, metà della Penisola italiana è ancora
sotto il tallone della dittatura nazifascista, e Benito Mussolini è il duce depotenziato di uno stato fantoccio al servizio di Hitler, nell’Italia liberata c’è già chi tuona contro i neonati partiti ed i “professionisti della politica”…
È un fatto che la libertà ritrovata e la restaurazione delle garanzie di diritto sciolgano sempre la favella agli opportunisti ed agli indignati dell’ultima ora che, con ogni evidenza, in ben altri frangenti non avevano avuto proprio nulla da obiettare o di che lamentarsi.
Sul vento mai sopito dell’antipolitica, l’istrione, il narciso egocentrico, trova sempre l’occasione per gonfiare le vele del malcontento popolare e dell’insoddisfazione diffusa, per trasformarle nell’energia propulsiva di movimenti a fortune variabili, con esistenze brevi e volubili come gli umori popolari dai quali attingono il proprio carburante elettorale. Perché come le mammelle avvizzite di una scrofa esamine, nella stragrande maggioranza dei casi, un “sistema” va bene fintanto che può elargire prebende a tutti, nutrendo la sue numerose ed avide cucciolate fino al prosciugamento. Ma si disprezza e si macella quando esaurisce le elargizioni. Allora, nella sua inutilità, diventa “casta” da rinnegare per generale autoassoluzione.
Nell’Italietta del dopoguerra queste istanze vengono riprese e in certo qual modo fatte proprie da Guglielmo Giannini, personaggio eclettico dalla personalità intraprendente. Di padre partenopeo e madre inglese, Giannini è a suo modo un artista ed un improvvisatore. Impresario, drammaturgo, commediografo, sceneggiatore, regista cinematografico, giornalista, scrittore… sperimenta generi diversi: dalla commedia teatrale, alla canzonetta popolare, passando per il genere poliziesco (proibitissimo sotto il fascismo), ai programmi radiofonici… il tutto reinterpretato in chiave conformista e all’insegna della massima leggerezza nel più totale disimpegno, onde riscuotere i successi di un pubblico di bocca buona e non incorrere in noie con la censura. Al regime fascista, Guglielmo Giannini si allinea per mera convenienza personale, ma con poca o nessuna convinzione ideologica. Cosa che gli permette di lavorare a Radio Tobruk ed ottenere i finanziamenti pubblici del Min.Cul.Pop.
La sua massima aspirazione è che non gli si rompa le scatole. Ne farà un paradigma di vita. Tuttavia, Giannini è destinato a legare il proprio nome ad un groviglio confuso di insofferenze e rivendicazioni astratte, demagogie spicciole e revanchismi protestatari; effimeri ma sempre fortunati, che verranno riassunti in un unico termine: qualunquismo.
Nell’inverno del ’44 nasce l’Uomo Qualunque (UQ): pubblicazione settimanale di satira, vagamente liberaleggiante, che guarda alla piccola borghesia impiegatizia e bottegara (che del fascismo fu l’ossatura) rimasta senza più riferimenti politici; strizza l’occhio ai nostalgici, pur prendendo formalmente le distanze dal regime, e trova nell’invettiva il suo punto di forza. L’Uomo Qualunque, di cui ovviamente Giannini è direttore e fondatore, è la sua creatura personale, l’altoparlante (oggi qualcuno direbbe “megafono”) col quale farsi interprete dei malumori della folla (la gente) e dei timori della borghesia (attualmente declinata come “ceto medio”), entrambe nobilitate per le loro meschinerie opportunistiche, la miseria morale e la pusillanimità attendista. Requisiti assurti a titolo di merito ed esibiti in trionfo, nell’eterna orgia auto-assolutoria che declina ogni responsabilità.
A tal proposito, le giaculatorie che Giannini urla dalle paginette del suo giornalino seguono uno schema preciso e sono sostanzialmente concentrate contro le tasse e il fisco, lo Stato e la Politica ritratta come una massa informe di ladri e voltagabbana. Gli strumenti preferiti della sua prosa, che non disdegna le campagne diffamatorie e gli attacchi personali ai limiti dell’infamia, sono l’insulto ed il dileggio di questo o quel personaggio pubblico, reo di non incorrere nelle simpatie dello strambo Savonarola. Il suo pezzo forte consiste nella sistematica storpiatura dei nomi dei suoi avversari. Si tratta di una pratica di derivazione squisitamente fascistoide, ma destinata ad avere grande successo in certo giornalismo d’assalto, molto in voga nelle attuali redazioni anti-ka$ta.
Ovviamente, il bersaglio preferito di Giannini sono i “politici”, che chiama UPP (uomini politici professionali) e contro i quali spara nel mucchio senza alcuna distinzione, nella vacuità fumosa di un termine onnicomprensivo.
«Che importa a noi dei vari upp più o meno personalmente probi e tutti egualmente e politicamente parassitari? Ciò che noi chiediamo, noi gente, noi Folla, noi enorme maggioranza della Comunità, noi padroni della Comunità e dello Stato, è che nessuno ci rompa i coglioni.»
Guglielmo Giannini
“La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide”
Editrice Faro
Roma, 1945.
Il 27/12/1944 il direttore firma l’editoriale di apertura dove illustra le sue soluzioni e, senza falsi pudori, reclama un posto di governo per “un buon ragioniere”, sotto un titolo eloquente: IO.
«Questo giornale non è organo di nessun partito. Le vere forze politiche italiane non si sono ancora rivelate, come non si sono ancora rivelate le ben più importanti e decisive forze politiche europee. Non esistono partiti, ma programmi, ed anche abbozzi di programmi sui quali uomini volenterosi operano per formare dei partiti. Quei programmi son tutti affascinanti; le idee dalle quali nascono son tutte indubbiamente nobili; i propositi in cui si affermano e si concretano appariscono tutti indistintamente degni di lode. Libertà, giustizia, prosperità, sono generosamente promesse da tutti; e in teoria, non c’è che l’imbarazzo della scelta del più virtuoso fra tanti partiti tutti egualmente perfetti. In pratica assistiamo all’ignobile spettacolo di arrivismo spudorato, al brulicare d’una verminaia d’ambizioni, ad una rissa feroce per conquistare i posti di comando dai quali poter fare il proprio comodo ed i propri affari. Questa rissa, cui “L’Uomo Qualunque” non partecipa, si svolge tra gli uomini politici professionali che vivono di politica, che non sanno far altro che politica, e che per ragioni di pentola, hanno trasformato la politica in mestiere. Gli uomini politici professionali costituiscono un gruppetto d’una scarsa decina di migliaia di persone che tengono a soqquadro l’Italia litigando intorno a cinquecento posti di deputato, quasi altrettanti di senatore, circa mille altri cadreghini e canonicati diversi, che vanno da quello di primo ministro a quello di sindaco di centro importante, dell’incarico di ambasciatore alla sinecura di commissario più o meno straordinario.»
Giannini lusinga il suo orrido italiano medio, antropologicamente prevalente come i cretini che rappresenta, tramite una costante distorsione dei fatti e della realtà, giocando su un’ambiguità di fondo, che a tratti si fa ignobile quando parla della resistenza contro la dittatura fascista ed i valori del nascente Stato democratico.
«A causa della guerra fra questi diecimila uomini l’Italia non ha pace: perché alcuni di quei professionisti della politica potessero diventar ministri o altro, milioni d’italiani sono morti: ed altri moltissimi dovrebbero ancora morire perché un altro paio di dozzine di politicanti ottenga onori e prebende. La sproporzione è troppo forte. Da una parte 45 milioni di esseri umani, dall’altra 10000 vociatori, scrivitori, sfruttatori,
iettatori. L’enorme massa dei primi non deve più soffrire per colpa ed a causa della infima minoranza dei secondi. […] Il fascismo, che ci ha oppressi per ventidue anni, era una minoranza. Lo abbiamo combattuto con la resistenza passiva e lo abbiamo logorato, tanto che è andato in frantumi al primo colpo serio che gli anglo-americani gli hanno vibrato. L’antifascismo e il fuoriuscitismo hanno fatto enormemente meno. Salvo la modesta aliquota di illusi e di sinceri che non manca mai in nessun movimento politico – non è mancata e non manca nemmeno al fascismo per cui c’è ancora qualcuno che combatte e si fa fucilare – antifascisti e fuoriusciti erano e sono costituiti da “uomini
politici professionali” avversari e nemici degli “uomini politici professionali” che costituivano il fascismo. Dalle prigioni, dai luoghi di confino, dai grandi alberghi o dalle povere soffitte in terra straniera, questa minoranza non ha fatto, contro il fascismo, che una parte infinitesimale di quanto ha voluto e saputo fare l’Uomo Qualunque rimasto sotto il concreto giogo della tirannide fascista. Ritornati alla vita pubblica d’Italia con la vittoria militare anglo-americana come le mosche tornano alla stalla sulle corna dei buoi, antifascismo e fuoriuscitismo pretendono, come il fascismo, il diritto di fare una epurazione, ossia di sopprimere u.p.p. concorrenti e chiunque altro sia d’impaccio o fastidio. Contestiamo rivendicazione e pretesa: il fascismo ha offeso e ferito tutta la massa degli italiani, non soltanto gli antifascisti e i fuoriusciti. Sono i 45 milioni di esseri umani che hanno il diritto di fare giustizia, non una o più numerosa quota parte dei 10.000 politicanti ansiosi di rifarsi delle delusioni subite e delle occasioni mancate.»
Se ci fosse bisogno di dirlo, i “politici” (gli upp) sono la causa assoluta di ogni male passato, presente e futuro. Da questi ci può salvare solo un “ragioniere”, con vincolo di mandato.
«Dal 1898, ossia da quasi mezzo secolo, nel nostro paese si vive una vita d’inferno a causa della gelosia di mestiere fra i politici di professione. Rivolte, attentati, scioperi, agitazioni, inflazione industriale, caro-vita, interventismo, crisi del dopo-guerra, speculazione sulla crisi, fascismo, aventinismo, fuoriuscitismo, dittatura, guerre per consolidare la dittatura, catastrofe per liberarcene, sono, per tutti gli italiani, conseguenze del rabbioso litigio di 10000 pettegoli. Siamo finalmente rovinati: che cos’altro vogliono da noi gli autori di tutti i mali? Che sopportiamo esperimenti, che altri pazzi provino sulle nostre carni le loro teorie per vedere se son buone o cattive come si trattasse di fare una sigaretta con le cicche, ché tanto, in caso di insuccesso, si possono fumare nella pipa? Noi non abbiamo bisogno che d’essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici. Ci vogliono strade, mezzi di trasporto, viveri, una moneta modesta ma seria, una politica rispettabile che ci renda sicuri dello scarso bene rimasto, e ci incoraggi a crearne dell’altro liberandoci dal timore di potere esserne spogliati da nuovi brigantaggi di stato-partito. Per fare questo basta un buon ragioniere: non occorrono né Bonomi né Croce né Selvaggi né Nenni né il pio Togliatti né l’accorto De Gasperi. Un buon ragioniere che entri in carica il primo di gennaio, che se ne vada al 31 di dicembre, che non sia rieleggibile per nessuna ragione. Siamo disposti a chiamarlo anche re o imperatore: a patto che cambi ogni anno e che, una volta scaduto dalla carica, non possa ritornarvi almeno per altri cinque.»
Con siffatto editoriale, il primo numero è un successone destinato a ripetersi e crescere ad ogni successiva pubblicazione. In varie città d’Italia iniziano a nascere gruppi che si definiscono “Amici dell’Uomo qualunque”, costituiti in un nascente movimento anti-partiti che ha uno slogan originale:
“né destra né sinistra, ma avanti”
Con simili incoraggianti premesse, dinanzi al “grido di dolore” che si leva alto dalla pancia profonda del Paese, Giannini inizia a pensare di scendere nell’agone politico.
“Basta con i partiti! Riprendiamoci il Paese!
Come vogliamo chiamare il movimento? Partito? Unione? Associazione? Lega? Società civile? In qual modo ci proponiamo di raggiungere l’obiettivo di vivere come ci pare senza che nessuno ci scocci l’anima?”Guglielmo Giannini
“Grido di dolore”
“L’Uomo Qualunque”; Anno II, n.25
(08/08/1945)
In anticipo sui tempi, organizza un suo “Staff” e, non disponendo di un blog, invita i suoi lettori a inviargli per iscritto consigli e suggerimenti per la scrittura di uno statuto. L’iniziativa culminerà nella fondazione del “Fronte dell’Uomo Qualunque” (07/11/1945), contraddistinto da una imbarazzante inconsistenza programmatica, fondata tutta sull’antipolitica, la vacuità delle rivendicazioni e le ambiguità ideologiche, nell’assoluta incapacità di costituire un gruppo dirigenziale. Giannini rasenta l’infantilismo, in un susseguirsi di contraddizioni e demagogia. tuttavia pensa in grande e coi primi successi elettorali si monta subito la testa:
«Il solo vero “partito di massa” esistente in Italia è l’Uomo Qualunque, stufo, stanco, sfiduciato dai politici professionali di qualsiasi colore. La borghesia, unica vittima del politicantismo di professione, che nessun partito difende, che nessun sindacato protegge, che tutti sfruttano, che per tutti paga con la vita e con le tasse, che forma la categoria più vasta e più forte, più intelligente e più ricca di risorse, e di capacità di lavoro, ridotta alla disperazione e messa con le spalle al muro, ha finalmente deciso di non lasciarsi uccidere, e solo schierandosi ha rivelato innanzitutto a se stessa la sua forza.»
G.Giannini
“Il Partito dei senza partito”
U.Q. (15/08/1945)
L’Uomo Qualunque comincia ad attrarre vecchi nostalgici, avanzi assortiti di cetomediume, e opportunisti di ogni risma, pescando voti a man bassa nel sottoproletariato urbano (a Roma e Napoli) e tra gli strati più reazionari della plebe meridionale. Nel Sud, alle elezioni del 1946, raggiunge punte del 20% ed oltre, soprattutto in Sicilia (25% a Palermo) ed in Puglia, per sgonfiarsi ancor più in fretta e scomparire in meno di due anni.
Ma si tratta di un fiume carsico, che si nutre di mille rivoli diversi, pompato da un malcontento spesso indefinito ma sempre persistente nel sottobosco dell’italico provincialismo, geneticamente insofferente ai cambiamenti, appagato com’è della sua intrinseca mediocrità. Si alimenta di insofferenze contestatarie e luoghi comuni, in un miscuglio di istanze dalle matrici ideologiche sempre più diluite ma tutte tendenti al nero. Di tanto in tanto rifluisce all’esterno in pozze più o meno estese, scorrendo in parallelo alla fiumana di quello che già Gino Germani indicava come nazional-populismo: bacino nel quale spesso e volentieri confluisce, per gonfiarsi regolarmente ad ogni periodo di crisi.
Il populismo, comunque lo si declini, gioca sulle sfumature, predilige l’iperbole, e preme sulla sua carica anti-sistema in funzione messianica. E d’altronde il “messianismo” di cui si nutre è una forma primitivizzata e irrazionale di ducismo; dunque costituisce una variante del fascismo.
In proposito, Cvetan Todorov, semiologo francese di origine bulgara, pone l’attenzione su come populismo, ultraliberismo, e messianismo, siano ad oggi i nemici più pericolosi e subdoli (perché interni) che le democrazie occidentali abbiano mai affrontato.
Nella fattispecie, il populismo:
«E’ presente ogni volta che si pretende di trovare soluzioni semplici per problemi complessi, proponendo ricette miracolose all’attenzione distratta di chi non ha tempo per approfondire. Può essere sia di destra sia di sinistra, ma propone sempre soluzioni immediate che non tengono conto delle conseguenze a lungo termine. Preferisce semplificazioni e generalizzazioni, sfrutta la paura e l’insicurezza, fa appello al popolo, cortocircuitando le istituzioni. Ma la democrazia non è un’assemblea permanente né un sondaggio continuo.»
Tzvetan Todorov
“I nemici intimi della democrazia”
Garzanti, 2012.
Nella persistenza sistemica della crisi attuale, questi tre elementi (populismo; ultraliberismo; messianesimo) se non contrastati con fermezza, possono provocare un cortocircuito permanente.
Il Giornalismo come missione
Posted in Kulturkampf with tags Benito Mussolini, Capo politico, Comitia, Corsera, Critica, Democrazia, Duce, Fascismo, Gaia, Giornalismo, Informazione, M5S, Media, Milena Gabanelli, Movimento, Parlamento, Partiti, Pierluigi Battista, Potere, Rivoluzione, Stampa on 25 Maggio 2013 by Sendivogius
La Democrazia, ancorché imperfetta, è una cosa maledettamente complicata…
Se non fosse per i partiti politici, per le inutili pastoie burocratiche dei regolamenti parlamentari, per i vuoti formalismi costituzionali, per i vincoli rappresentativi che impediscono ai “cittadini” di partecipare direttamente alle gestione della cosa pubblica, la democrazia funzionerebbe benissimo e senza intoppi.
Perché dunque tergiversare in inutili discussioni, nel confronto di opinioni differenti (e quindi nella mediazione di soluzioni condivise), nella cacofonia critica di più voci divergenti, quando un unico “Capo politico” può parlare a nome di tutti, in un eterno monologo da comizio, senza dover rispondere a domande maliziose o tediose confutazioni?
Si chiamerebbe “dialettica” ed è alla base del pensiero critico, come della logica razionale, ma perché mai bisognerebbe disquisire su ciò che si può rapidamente liquidare con un vaffanculo?
Sono problemi ben noti fin dai tempi più antichi, ai quali molti “capi” dalla visione lungimirante hanno cercato (spesso con successo) di porre rimedio… Non per niente, per appianare le divisioni che avevano dilaniato la Respublica romana, il saggio Ottaviano divenuto ‘Augusto’ si preoccupò subito di abolire collegia e sodalicia che tante noie rischiavano di dare alla libera partecipazione democratica dei cives.
D’altronde, come ci insegnano altre fortunate esperienze in tempi più recenti, piene responsabilità richiedono pieni poteri, poiché:
“Senza i pieni poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira – dico una lira – di economia.
Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di volonterose collaborazioni che accetteremo cordialmente, partano esse da deputati, da senatori o da singoli cittadini competenti.
Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito.”Benito Mussolini
(16/11/1922)
Purtroppo, immemori delle lezioni del passato, a tutt’oggi esistono i ‘Politici’.. il ‘Palazzo’.. la ‘Casta’.. E soprattutto ci sono i ‘giornalisti’, che nel migliore dei casi non comprendono il “cambiamento” in corso, perché sono venduti per definizione, specialmente se si tratta di precari da 5 euro al pezzo. Peggio ancora, sono in malafede e quindi inaffidabili per antonomasia.
«Dopo diversi problemi sorti in proposito intensificheremo la presenza del gruppo comunicazione in Transatlantico e nell’atrio del Palazzo. Non per un’esigenza di controllo, ma a garanzia dei deputati. Invitiamo tutti, poi, a rilasciare le interviste nella stanza grande del gruppo comunicazione, dopo essersi messi in contatto con uno dei componenti. Oltre l’aspetto psicologico del “giocare in casa”, sarà possibile registrare le interviste per ovviare così ai tanti problemi sorti in merito. Invitiamo tutti a declinare le richieste dei giornalisti che si sono già dimostrati inaffidabili se non, addirittura, in malafede.»
Lo “STAFF” del M5S
(22/05/13)
Fortunatamente, ci sono anche i giornalisti seri, che pongono le domande giuste (o non le pongono affatto a chi di dovere), dalla schiena dritta e l’intransigenza senza sconti…
Nel mondo in bianco e nero degli ensiferi, rigidamente diviso in buoni e cattivi, dannati e salvati, pessimi giornalisti sono sicuramente l’ingrata (?) Milena Gabanelli e, su tutt’altro versante, Pierluigi Battista per un suo editoriale sul Corsera, dal titolo sarcasticamente eloquente su prassi e teoria dei 5 Stelle: “La nebbia dietro la liturgia dello scontrino”, in cui pone degli interrogativi legittimi su limiti evidenti.
Nei confronti del vecchio Pigi, noi abbiamo sempre nutrito una cordiale e ben radicata antipatia, che peraltro non ci ha impedito in tutti questi anni di ignorare bellamente i suoi articoli sul Corriere della Sera, previa lettura, senza mai farci rovinare la giornata…
Oscar Wilde, in uno dei suoi più celebri aforismi, sosteneva come le domande non fossero mai indiscrete e come, al contrario, potevano esserlo le risposte.
Nella democrazia diretta dei pentastellati le domande non gradite espongono invece al delitto di lesa maestà, mentre la testa di questo innocuo Battista viene esposta simbolicamente su un vassoio, in una danza sguaiata tra i cachinni degli ensiferi in crisi di nervi:
«Come si può in questo Paese davvero credere nella professionalità e nell’imparzialità dei giornalisti se a due giorni dalle elezioni un noto editorialista del Corriere della Sera, Pierluigi Battista, scrive menzogne sapendo probabilmente di mentire. Sostiene ad esempio che il M5S si sia interessato solo alla rendicontazione e non abbia fatto nulla sui temi della sua campagna elettorale: Reddito di cittadinanza, Imu, Irap ed Equitalia. Elenchiamo qui di seguito alcune delle cose fatte dai deputati e senatori M5S, solo per dimostrare, prove alla mano, come da parte di una certa stampa vi sia malafede e servilismo verso il Potere Unico. E laddove non si trattasse di malafede, allora è incompetenza o ignoranza. Siamo stufi di giornalisti che invece di fare un lavoro certamente più difficile e faticoso, quello di verificare con attenzione e in dettaglio se quel che scrivono corrisponda alla verità, pensano solo a dare notizie superficiali, concentrandosi su casi creati ad arte per avere la scusa di non parlare dei fatti concreti sottostanti. Se i politici, in passato, hanno potuto causare il disastro che ora è sotto gli occhi di tutti è anche grazie a una stampa disattenta, superficiale o forse venduta.»
E’ quanto si può leggere nel comunicato congiunto del gruppo M5S di Camera e Senato, con lo stile piccato di chi, evidentemente avvezzo all’invettiva revanchista, trova difficile scendere nel merito delle questioni sollevate, rispondendo alla critica con l’insulto generalizzato. Come da manuale.
Per questi strani alfieri della democrazia diretta resta assai difficile comprendere che in una qualunque democrazia (se davvero vuole dirsi tale) l’esistenza del dissenso è imprescindibile, insieme alla fastidiosa presenza di chi proprio si ostina a pensarla diversamente da te. D’altro canto, perché intorbidare le acque quando tutto dovrebbe funzionare come un’orchestra armoniosa, volta all’esaltazione dell’unità pur nella diversità di una confraternita guerriera, coesa nell’ubbidienza al Capo politico che si sente in guerra?
Nella democrazia 2.0 del Regno di Gaia, prossimo venturo, non c’è spazio per le divergenze e meno che mai per le domande, che vanno filtrate, controllate, sterilizzate, per ritagliare delle non-risposte proporzionate alla caratura intellettuale di ubbidienti soldatini in plastilina, dove l’azione è rimessa al 100% dei suffragi ed il consenso deve essere totale.
Quando la RiVoluzione trionferà, i media cesseranno di essere tendenziosi e inaffidabili, ergendosi a testimonianza di indipendenza ritrovata e conquistata libertà:
«In un regime totalitario, come dev’essere necessariamente un regime sorto da una rivoluzione trionfante, la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime; in un regime unitario, la stampa non può essere estranea a questa unità.
[…] La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Altrove i giornali sono agli ordini di gruppi plutocratici, di partiti, di individui; altrove sono ridotti al compito gramo della compravendita di notizie eccitanti, la cui lettura reiterata finisce per determinare nel pubblico una specie di stupefatta saturazione, con sintomi di atonia e di imbecillità; altrove i giornali sono ormai raggruppati nelle mani di pochissimi individui, che considerano il giornale come un’industria vera e propria, tale e quale come l’industria del ferro e del cuoio.
Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime; è libero perché, nell’ambito delle leggi del regime, può esercitare, e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione.
[…] Dato il “la”, c’è la diversità che si evita la cacofonia e si fa prorompere invece la piena e divina armonia; oltre agli strumenti, c’è poi la diversità dei temperamenti e degli artisti; diversità necessaria, poiché si aggiunge, elemento imponderabile ma vitale, a rendere sempre più perfetta l’esecuzione. Ogni giornale deve diventare uno strumento definitivo, cioè individualizzato, cioè riconoscibile nella grande orchestra. I classici archi non escludono, nelle moderne orchestre…
[…] Ciò precisato, la stampa nazionale, regionale e provinciale serve il regime illustrandone l’opera quotidiana, creando e mantenendo un ambiente di consenso intorno a quest’opera.
È grande ventura per voi di vivere in questo primo straordinario quarto di secolo: è grande ventura per voi di poter seguire la Rivoluzione fascista nelle sue progredienti tappe. Il destino è stato particolarmente benigno con voi, cui ha concesso di essere giornalisti durante una guerra e durante una rivoluzione, eventi entrambi rari e memorabili nella storia delle Nazioni.
[…] Mi auguro che, quando vi convocherò nuovamente, io sia in grado di constatare che avete sempre più fermamente e fieramente servito la causa della Rivoluzione. Con questa speranza, accogliete il mio cordiale saluto, nel quale v’è una punta di ricordi e di nostalgie.»Benito Mussolini
“Scritti e discorsi” (1927-1928)
Vol. VI; pagg. 250-251