Interpellato sulle politiche del lavoro e di contrasto al precariato non più crescente, ma dilagante, così parlò il Conte Paolo Gentiloni Silveri, nobile di Filottrano, Cingoli e Macerata, alias il Churchill del “centrosinistra italiano” (notare l’ossimoro) nelle faide del post-renzismo:
“Il Decreto Dignità?! Lasciamo perdere…”
Ecco, bravo ciccino, lascia perdere che è meglio. Ritorna pure a sgranocchiare le tartine al tartufo nei buffet di Cernobbio, prima che si irrancidiscano, insieme agli amichetti di Confindustria: veri ghost-writers di quel capolavoro di tutele e diritti (crescenti nell’azzeramento dei presistenti), chiamato “jobs-act”.
Il cosiddetto “Decreto Dignità” ha, almeno nelle intenzioni, il pregio di reintrodurre un minimo di equità, dopo la liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro e la cancellazione di ogni garanzia occupazionale.
Il minidecreto non è nemmeno originalissimo, perché in realtà recepisce parte dell’allora “pacchetto lavoro” presentato a suo tempo da Cesare Damiano per limitare, almeno in parte, le storture del “job act” e subito bocciato dalla sua stessa maggioranza, secondo il rotato giochino del “poliziotto buono vs poliziotto cattivo” a cui ci ha abituato la minoranza piddì ai tempi allegri della rottamazione, gettando fumo negli occhi del suo stesso elettorato, tramite una recita condivisa.
Un tempo i provvedimenti contenuti nel decreto pomposamente (e con troppo ottimismo) chiamato “dignità”, si sarebbero definiti di natura socialista, e neppure dei più rivoluzionari. O forse, più semplicemente, di buonsenso. Adesso l’iniziativa è stata invece bollata come “demagogica”, “boomerang per i precari” (?) “incostituzionale” (??), “peronista”, e (figuriamoci se poteva mancare) “cannonata populista”, provocando una crisi di nervi tra quell’avanguardia proletaria di professorini bocconiani e sacerdoti del turbocapitalismo, improvvisamente preoccupatissimi per le sorti dei lavoratori, dopo aver contribuito a cancellare un secolo di conquiste sociali in nome della TINA, in parallelo con la riduzione dei costi attraverso la contrazione dei salari e dei diritti. Per loro, il modello ideale per la crescita competitiva probabilmente sarebbe stata la reintroduzione dello schiavismo, ma per il momento si sono dovuti accontentare…
In concreto, il decreto pone una stretta sul ricorso dei contratti a termine, introducendo una serie di clausole di salvaguardia, che pongano un limite al lavoro precario e soprattutto rendano più stabile e sicuro quello a tempo determinato, spostando di un minimo la bilancia a favore dei lavoratori ingiustamente licenziati.
I contratti a termine non possono durare più di 24 mesi e dopo i primi 12 devono essere giustificati dalle causali temporanee e oggettive o per esigenze sostitutive, connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria per picchi e attività stagionali.. Il limite massimo si riduce quindi da 36 a 24 mesi, non sarà più possibile effettuare 5 proroghe, ma si scende a 4 ed ad ogni rinnovo il costo dei contributi da versare da parte dei datori di lavoro sale dello 0,5%.
L’indennizzo per il licenziamento senza giusta causa passa da un minimo di 6 mensilità a un massimo di 36 mensilità. In caso di licenziamento illegittimo, l’indennizzo per il lavoratore viene aumentato del 50%.“Fatti salvi i vincoli derivanti dai trattati internazionali, le imprese italiane ed estere operanti nel territorio nazionale che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio decadono dal beneficio medesimo qualora l’attività economica interessata dallo stesso ovvero un’attività analoga o una loro parte venga delocalizzata in Stati non appartenenti all’Unione Europea entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata. In caso di decadenza si applica anche una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma in misura da due a quattro volte l’importo dell’aiuto fruito.
Le imprese italiane ed estere operanti nel territorio nazionale che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi specificamente localizzati ai fini dell’attribuzione di un beneficio, decadono dal beneficio medesimo qualora l’attività economica interessata dallo stesso ovvero un’attività analoga o una loro parte venga delocalizzata dal sito incentivato in favore di unità produttive situate al di fuori dell’ambito territoriale del predetto sito, in ambito sia nazionale sia europeo, entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa o del completamento dell’investimento agevolato.
L’importo del beneficio da restituire per effetto della decadenza è, comunque, maggiorato di un tasso di interesse pari al tasso ufficiale di riferimento vigente alla data di erogazione o fruizione dell’aiuto, maggiorato di cinque punti percentuali.”“Le imprese italiane ed estere che beneficiano di misure di aiuto di Stato operanti nel territorio nazionale che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale qualora, al di fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo, riducano i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento decadono dal beneficio in presenza di una riduzione superiore al 10%; la decadenza dal beneficio è disposta in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale ed è comunque totale in caso di riduzione superiore al 50%.”