Archivio per Oriente
L’ennemi intérieur
Posted in Kulturkampf with tags Abdennour Bidar, Civiltà, Cultura, Daesh, Guerra, Integralismo, ISIS, Islam, Liberthalia, Modernità, Occidente, Oriente, Pace, Religione, stato islamico, Terrorismo, Wahabismo on 19 novembre 2015 by Sendivogius«Caro mondo musulmano,
Oriente e Occidente (II)
Posted in Kulturkampf with tags Ateismo, Averroè, Corano, Cultura, Filosofia, Gabriele (Arcangelo), Ibn Rushd, Islam, Letteratura, Liberthalia, Libri, Maometto, Mondo, Occidente, Oriente, Pensiero, Religione, Salman Rushdie, Storia on 25 agosto 2015 by Sendivogius«Anis si era dunque ribattezzato “Rushdie” in onore di Ibn
Rushd, colui che in Occidente è noto come Averroè, il filosofo arabo-spagnolo di Cordoba del XII secolo che era diventato il “qadi”, o giudice, di Siviglia, traduttore e commentatore celebrato delle opere di Aristotele. Suo figlio portò quel nome per due decenni prima di rendersi conto che il padre, un vero studioso dell’islam a cui però mancava completamente la fede religiosa, lo aveva scelto perché di Ibn Rushd ammirava le argomentazioni razionalistiche all’avanguardia nei confronti degli islamici che, ai suoi tempi, tendevano a interpretare le scritture in modo strettamente letterale.
[…] Dalla tomba, suo padre gli aveva consegnato un vessillo sotto il quale era pronto a lottare, il vessillo di Ibn Rushd, ossia dell’intelletto, dell’argomentazione, dell’analisi e del progresso, per la libertà della filosofia e dell’insegnamento dai ceppi della teologia, per la ragione umana contro la cieca fede, la sottomissione, l’accettazione prona e l’immobilismo. Nessuno vuole andare in guerra, ma se ti ci trovi in mezzo, che almeno sia una guerra giusta, per le cose più importanti che ci sono al mondo, e allora potresti anche chiamarti “Rushdie”, se dovessi andare a combatterla, e collocarti laddove ti ha messo tuo padre, nel solco della tradizione del grande aristotelico, Averroè, Abuˉ ’l-Walˉıd Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd.
[…] Anis era un senza Dio, il che è ancora considerato una condizione scioccante negli Stati Uniti, sebbene sia tutt’altro che eccezionale in Europa, e completamente incomprensibile nella maggior parte del resto del mondo, dove la sola idea di “non credere” è difficile persino da formulare. Ma era esattamente ciò che era: un ateo che però sapeva molto di Dio e ci pensava spesso. Le origini dell’islam lo affascinavano poiché erano le uniche a essere storicamente documentate tra le grandi religioni del mondo, e perché il Profeta non era una leggenda glorificata da “evangelisti” che avevano scritto cento o più anni dopo la vita e la morte dell’uomo reale, né un piatto riscaldato da quell’eccezionale proselitista che era stato san Paolo per un facile consumo globale, ma piuttosto un uomo dalla vita ampiamente certificata, di cui si conoscevano bene le condizioni economiche e di censo, vissuto in un’epoca di profondi cambiamenti sociali, un orfano diventato mercante
di successo dalle tendenze mistiche, che un giorno, sul monte Hira vicino alla Mecca, aveva visto l’arcangelo Gabriele stagliarsi all’orizzonte riempiendo la volta celeste e istruendolo su come “recitare” e pertanto creare a poco a poco il testo della “Recitazione salmodiata”, al-Qur’an, il Corano.
Anis aveva tramandato al figlio la convinzione che la nascita dell’islam fosse affascinante proprio perché si era verificata “dentro la storia”, e che, in quanto tale, non poteva che essere stata influenzata dagli eventi, dalle pressioni e dalle idee circolanti al tempo della sua creazione; e che storicizzare l’accaduto, cercare di capire come una grande idea potesse essere modellata da quelle diverse forze, era di fatto l’unico approccio possibile all’argomento; e che si poteva considerare Maometto un autentico mistico – così come si può accettare che Giovanna
d’Arco abbia realmente sentito delle voci o che la Rivelazione di san Giovanni riporti effettivamente l’esperienza “reale” di un’anima tormentata – senza necessariamente stimare come vero che, se qualcuno fosse stato accanto a lui quel giorno sul monte Hira, avrebbe assistito a sua volta all’apparizione dell’arcangelo.
La rivelazione doveva essere intesa come un evento interiore, individuale, non come una realtà oggettiva, e la parola rivelata andava indagata come ogni altro testo, usando tutti gli strumenti critici a disposizione, letterari, storici, psicologici, linguistici e sociologici. In breve, il testo doveva essere considerato come un artefatto umano e, in quanto tale, preda della fallibilità e dell’imperfezione degli uomini.
Il critico americano Randall Jarrell, con una frase diventata famosa, ha definito il romanzo come “un lungo scritto con qualcosa di sbagliato dentro”. Ecco, Anis Rushdie pensava di sapere cosa ci fosse di sbagliato nel Corano: alcuni passaggi sembravano sconnessi.
Secondo la tradizione, Maometto, che era forse analfabeta, quando scese dalla montagna cominciò a recitare e chiunque appartenesse alla sua più stretta cerchia e gli fosse vicino in quel momento trascrisse le sue parole su quanto aveva sottomano: pergamena, pietra, pelle, foglie, e talvolta, si dice, persino ossa. Questi brani furono conservati in un forziere custodito nella sua abitazione fino alla sua morte, quando i compagni si riunirono per stabilire la corretta sequenza della rivelazione, ed è alla loro risolutezza che dobbiamo il testo del Corano diventato canonico. Per poterlo considerare “perfetto”, il lettore è chiamato a credere che: a) l’arcangelo abbia riferito la Parola di Dio senza alcuna imprecisione, il che è del tutto ammissibile dal momento che si presume che gli arcangeli siano immuni da refusi; b) il Profeta, o, come preferiva chiamarsi, il Messaggero, si sia ricordato le parole dell’arcangelo con assoluta precisione; c) le frettolose trascrizioni dei compagni, buttate giù nel corso di una rivelazione durata ventitré anni, siano parimenti esenti da errori; d) quando essi si riunirono per disporre il testo nella sua forma definitiva, la loro memoria collettiva della corretta sequenza fosse a sua volta perfetta.
Anis Rushdie era riluttante a contestare le proposizioni a), b) e c). La d), invece, gli risultava più difficile da digerire, perché, come facilmente si accorge chiunque legga il Corano, parecchie sure, o capitoli, contengono profonde discontinuità, cosicché un argomento è lasciato cadere d’un tratto, senza preavviso apparente, per poi magari essere ripreso inaspettatamente più avanti, all’interno di una sura che fino a quel momento riguardava tutt’altro. Anis coltivò a lungo il desiderio di ricomporre quelle discontinuità per poter così giungere a un testo che fosse più chiaro e più facile da leggere. Non si trattava di un piano segreto o nascosto, tutt’altro, ne discuteva apertamente con gli amici anche a cena. Non c’era nessun brivido in quell’impresa, nessuna sensazione che essa potesse costituire un pericolo. Forse i tempi erano diversi, e un’idea del genere poteva essere sostenuta senza temere ritorsioni; o forse le persone al corrente erano davvero meritevoli di fiducia; o semplicemente Anis era soltanto un eccentrico inoffensivo. Fatto sta che quello studioso revisionista crebbe i suoi figli in un’atmosfera di indagine libera e aperta, senza divieti, senza tabù. Tutto, persino le sacre scritture, poteva essere vagliato e, almeno potenzialmente, migliorato.»
Salman Rushdie
“Joseph Anton”
Mondadori, 2012
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La Nevrosi del Convertito
Posted in Kulturkampf, Masters of Universe with tags "Fedeli a Oltranza", "Una pura formalità", Califfato, Canada, Convertiti, Cultura, Dissociazione cognitiva, Esteri, Fanatismo, Fondamentalismo, Giuseppe Tornatore, India, Indonesia, Indostan, Integralismo, IS, ISIS, Islam, Letteratura, Liberthalia, Libri, Montreal, Muhammad Iqbal, Neo-Convertiti, Nevrosi, Onoff, Oriente, Ottawa, Pakistan, Psicopatici, Purezza, Religione, Saggistica, Terrorismo, Vidiadhar Surajprasad Naipaul on 23 ottobre 2014 by SendivogiusPer quanto il fenomeno rientri tra gli effetti collaterali di ogni proselitismo religioso, lo zelo esibito e fanatico del neofita, integralizzato nei fondamenti assoluti della sua nuova fede, da solo non basta a spiegare i fatti di Ottawa, o gli exploit fai-da-te del monomaniaco lobotomizzato a colpi di tecno-jihad.
In realtà, la religione (qualunque essa sia) non costituisce mai un fine, ma è sempre il mezzo col quale gli psicotici danno libero sfogo alle loro
frustrazioni. Che poi sia una certa interpretazione dell’Islam, degenerato in perversione della mente, ad alimentare le turbe ossessive del momento, questa rappresenta soltanto un riflesso del degrado dei tempi. E ciò avviene soprattutto dinanzi al proliferare di disadattati sociali, variamente disturbati, neo-convertiti alla “religione della pace”: a mal vedere, l’unica che fa della guerra santa un atto fondante del proprio culto, inserendola nei doveri religiosi del ‘vero’ credente.
Sobria manifestazione di Isl’Amici, perfettamente integrati nei paesi europei cha hanno l’indubbio piacere di ospitarne la presenza
Nei casi patologicamente più aggravati, sono quelli che per dimostrare quant’è profondo il rapporto coi “fratelli” acquisiti in Allah rinnegano ogni
legame con la propria vita precedente, rigettata come “impura”. E che magari si sentono in dovere di immolarsi pubblicamente in azioni suicide, in modo da entrare nell’agognato mondo dei morti della Janna e poter così giacere ogni notte con dozzine di compiacenti fanciulle dagli occhi neri (le Urì), che riacquisiscono la verginità al termine di ogni amplesso, per tornare ad essere nuovamente deflorate (un tormento!) dall’ingrifato mujaheddin trapassato a miglior vita.
E per questo smaniano per aggregarsi alle orde barbute dell’Isis, ed essere ricordati come martire del giorno tra gli isl’amici, reputando un preciso atto di devozione schiavizzare le donne dei nemici abbattuti, brutalizzare le popolazioni asservite, lapidare le adultere o scannare i prigionieri, per piacere a dio.
Per descrivere lo stato di dissonanza cognitiva, che contraddistingue un simile stato di alterazione compulsiva, in una delle sue opere più famose (pubblicata nel 1998), Naipaul parlava di “nevrosi primaria del convertito”.
«L’Islam è originariamente una religione araba; tutti i musulmani non arabi sono convertiti.
L’Islam non è solamente una questione di coscienza o di fede personale: ha aspirazioni imperialistiche. Il convertito cambia la sua visione del mondo, perché i luoghi santi sono in terra araba, perché la lingua sacra è l’arabo. Cambia pure la sua idea della storia: il convertito rinuncia alla propria e diventa, che gli piaccia o no, parte della storia araba. Quindi deve voltare le spalle a tutto ciò che gli è proprio. Lo sconvolgimento sociale che ne deriva è enorme e può protrarsi anche per mille anni, mentre l’atto di “voltare le spalle” deve essere ripetuto in continuazione. Di conseguenza gli uomini si creano immagini fantasiose di chi sono e cosa sono e nell’Islam dei paesi convertiti si insinua un elemento di nevrosi e di nichilismo. Da qui la facilità di tali paesi a infiammarsi.
[…] Può anche darsi che le grandi conversioni, delle nazioni o delle culture…. avvengano quando gli uomini non hanno più un’idea di sé, e non hanno i mezzi per capire e recuperare il passato. La crudeltà del fondamentalismo islamico è che permette solo a un popolo – gli arabi, il popolo originario del Profeta – di avere un passato e luoghi sacri, pellegrinaggi e onoranze alla terra. Questi luoghi sacri arabi diventano i luoghi sacri di tutti i popoli convertiti. I convertiti devono sbarazzarsi del proprio passato; a loro non si chiede altro che una fede purissima (se è mai possibile una cosa simile): Islam, sottomissione. La forma più intransigente di imperialismo.»V.S. Naipaul
“FEDELI A OLTRANZA.
Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
Sir Vidiadhar Surajprasad Naipaul (questo il suo nome per intero!), “baronetto” di sua Maestà britannica (1990), Premio Nobel per la letteratura nel 2001, e un carattere impossibile, rientra a pieno titoli negli scrittori che si apprezzano per le proprie
opere (a noi capita la stesso con E.N.Luttwak), ma che mai si vorrebbero frequentare di persona.
Arrogante, indisponente, provocatoriamente altezzoso, sessista, insopportabile misantropo e rabbioso misogino, ma anche scrittore raffinatissimo e personaggio sofisticato, Naipaul è quanto di più prossimo alle parole che il regista Giuseppe Tornatore fa pronunciare ad Onoff/Depardieu, in uno dei suoi film più riusciti:
«Non bisognerebbe mai incontrare i propri miti. Visti da vicino ti accorgi che hanno i foruncoli. Rischi di scoprire che le grandi opere che ti hanno fatto sognare tanto le hanno pensate stando seduti sul cesso, aspettando una scarica di diarrea.»
“Una pura formalità”
(1994)
Nonostante i difetti, Naipaul è una sorta di anemometro del vento fondamentalista, che ha saputo misurare con ampio anticipo, cogliendone la pressione laddove le correnti erano più forti ed il fenomeno meno investigato, nel sostanziale disinteresse di un Occidente, che evidentemente si reputava immune alla perturbazione integralista.
L’opera si struttura in quattro parti: Indonesia; Iran; Pakistan; Malesia. A suo modo, e con piglio quasi etnografico, Naipaul è tra i primi a mettere in luce il fuoco interiore che sembrano contraddistinguere società diverse, dalla struttura ancora feudale e frammentata nelle sue divisioni tribali. Tutte sono unite dalla comune ossessione per un ideale sempre più distorto e ancestrale di “purezza religiosa”, in una persistente nevrosi culturale e identitaria. A questa si accompagna un’incapacità cronica nel gestire le complessità della modernità, concepita dagli interessati più che altro come una crosta superficiale, a retaggio della colonizzazione britannica.
Oggi si tende, con una certa facilità, a liquidare il sedicente Stato islamico di Iraq e Levante come qualcosa di completamente estraneo alla tradizione musulmana, in quanto aberrazione della medesima. E se pessime sono le criminalizzazioni nella semplificazione generalizzata, nemmeno giovano le assoluzioni a priori, nella rimozione di peculiarità che, prima ancora che negate, andrebbero meglio confutate, onde prevenire i rischi.
In concomitanza con l’avvento dell’ISIS, vale la pena rileggere le pagine che Naipaul dedica al suo viaggio nel sub-condinente indiano e soprattutto al Pakistan (la Terra dei puri), che l’Autore dichiara evocativamente “fuori dalla mappa della storia”, e cogliere le differenze con l’ibrido mediorientale attualmente in fieri…
«Il periodo britannico fu un periodo di rinascenza indù. Gli indù, soprattutto in Bengala, accolsero con favore la nuova scienza di stampo europeo e le istituzioni introdotte dai britannici. I musulmani, feriti dalla perdita del potere e in obbedienza a vecchi scrupoli religiosi, rimasero a guardare. Fra le due comunità si venne così a creare un divario intellettuale, che con l’indipendenza non ha fatto che approfondirsi. Ed è questo, ancor più della religione, che oggi, alla fine del ventesimo secolo, fa dell’India e del Pakistan due paesi decisamente diversi. L’India, con una classe intellettuale che cresce a passi da gigante, si espande in tutte le direzioni. Il Pakistan, che non fa altro che proclamare la fede e soltanto la fede, si ripiega sempre di più su se stesso.
Fu dall’insicurezza dei musulmani che nacque l’istanza di creare il Pakistan. E anche da un’idea della gloria passata, dall’immagine degli invasori che avevano fatto irruzione da nord-ovest, saccheggiando i templi dell’Indostan e imponendo la fede agli infedeli. Questa fantasia è tuttora viva, e per il musulmano convertito del subcontinente è l’origine della sua nevrosi, perché in tale fantasia dimentica ciò che è e diventa tutt’uno con l’invasore e il profanatore.
Riferendosi a un altro continente, è come se le popolazioni indigene del Messico e del Perù si schierassero con Cortés e Pizarro e gli spagnoli, in quanto portatori della vera fede.
[…] Il nuovo Stato era nato in fretta e furia e non aveva un vero programma. Non poteva diventare la patria di tutti i musulmani del subcontinente; sarebbe stato impossibile. Di fatto, i musulmani destinati a rimanere in India erano più numerosi di quelli che avrebbero fatto parte del nuovo Stato islamico. Pareva piuttosto che, al di là e al di sopra di qualunque finalità politica, il nuovo Stato dovesse rappresentare il trionfo della fede, un paletto conficcato nel cuore del vecchio Indostan.»
V.S. Naipaul
“Fedeli a oltranza. Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
Per devoti e fanatici, unicamente preoccupati di non sembrare mai abbastanza “puri” e non compiacere a dovere l’iddio onninvadente, l’organizzazione delle strutture amministrative nella nuova entità religiosamente conforme è da sempre l’ultimo dei problemi…
«Nessuno aveva mai riflettuto davvero su cosa significasse amministrare il nuovo paese. Ci si aspettava che tutto discendesse naturalmente dal trionfo della fede.
[…] Le leggi procedurali ereditate dagli inglesi, i principali legislatori del subcontinente, furono modificate senza convinzione e con scarso senso pratico. Vennero aggiunte alcune appendici islamiche che spesso gli avvocati non riuscivano ad applicare in maniera coerente; e il sistema legale, già manipolato dai politici, diventò ancor più caotico. I diritti delle donne non furono più garantiti. L’adulterio divenne un delitto. Ciò significava che un uomo poteva sbarazzarsi della moglie accusandola di adulterio e mandandola in prigione.
[…] Sullo sfondo c’erano sempre i fondamentalisti che, nutriti prima dall’estasi della creazione del Pakistan e in seguito dalla parziale islamizzazione delle leggi, volevano riportare il paese sempre più indietro, al settimo secolo, al tempo del Profeta. La realizzazione di questo sogno era affidata a un programma fumoso quanto quello della creazione del Pakistan: soltanto una vaga visione di preghiere regolari e di punizioni coraniche, il taglio delle mani e dei piedi, l’imposizione del velo alle donne e, di fatto, la loro reclusione, la concessione agli uomini di diritti padronali su quattro donne alla volta, da usare e gettare a proprio piacimento. E in un modo o nell’altro, si credeva che, attraverso tutto questo, attraverso una società chiusa e devota in cui, secondo i dettami religiosi, avrebbero spadroneggiato uomini privi di istruzione, lo Stato si sarebbe legittimato e il potere si sarebbe affermato, come si era affermato agli albori dell’Islam.
La causa del Pakistan era stata sostenuta seriamente per la prima volta nel 1930 da un poeta, Muhammad Iqbal, in un discorso tenuto al convegno della Lega musulmana prima della divisione. Il tono del discorso è più civile e in apparenza più razionale degli slogan di strada del 1947, ma gli impulsi sono gli stessi. Iqbal apparteneva a una famiglia indù convertita di recente; e forse solo un neofita poteva esprimersi in quel modo.
L’Islam non è come il cristianesimo, afferma Iqbal. Non è una religione che coinvolge solo la coscienza individuale e la condotta privata. L’Islam comporta certi “princìpi legali” che, come tali, hanno “rilevanza civica” e creano un certo tipo di ordine sociale. L’«ideale religioso» non può essere disgiunto dall’ordine sociale. “Per un musulmano è impensabile la costituzione di un’entità politica su basi nazionali che comporti l’esclusione del principio islamico della solidarietà”. Nel 1930 un’entità politica nazionale significava uno Stato in tutto e per tutto indiano.
E’ stupefacente che un uomo dotato di ragione abbia fatto un discorso del genere nel Novecento. Ciò che Iqbal sostiene in maniera involuta è che i musulmani possono vivere soltanto insieme ad altri musulmani. A voler prendere alla lettera le sue parole, ciò implicherebbe che il mondo ideale, quello a cui bisogna aspirare, è un mondo puramente tribale, precisamente ripartito, con ciascuna tribù al suo posto. Un’idea del genere sarebbe stata giudicata stravagante.»
V.S. Naipaul
“Fedeli a oltranza. Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
Come si può vedere, gli Isl’amici del Califfato levantino, e le loro intraprendenti matricole occidentali, folgorate sulla via di Raqqa, non hanno inventato proprio nulla.
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MIRABILIA
Posted in Kulturkampf with tags Ali Bey al-Abbasi, Carlo IV, Cultura, Domingo Francisco Jordi Badía y Leblich, Islam, Liberthalia, Libia, Manuel Godoy, Mediterraneo, Mondo arabo, Nord Africa, Oriente, Simón de Rojas Clemente, Sonzogno, Storia, Tripoli on 26 agosto 2011 by SendivogiusMentre la lunga parabola del colonnello Gheddafi si avvia finalmente alla fine, con un epilogo ancora incerto, in un mondo contemporaneo tormentato da fantomatici “conflitti di civiltà”, crucisignati bergamaschi con spadone e usbergo ed altri patetici imbecilli in tenuta da combattimento,
segnaliamo all’attenzione dei nostri stimatissimi lettori una nuova lettura ‘d’epoca’, per una prospettiva differente e dalle venature esotiche, nella comprensione del presente attraverso l’affresco di un passato scomparso…
Tra storie di battaglie e di feroci corsari barbareschi, in un panorama agitato dalle nuove guerre di religione, è forse interessante aprire una finestra alternativa su Tripoli e sulla società libica, nell’ordinarietà della sua quotidianità pre-coloniale di una realtà complessa e assai lontana da certi stereotipi, oggi tanto alla moda tra gli ostensori dello “scontro di civiltà”…
Nel 1816 la casa editrice Sonzogno pubblicava in Italia le memorie di viaggio di un certo Alì Bey, pio pellegrino musulmano in viaggio verso la Mecca, che partendo dal Marocco percorreva tutto il Nord-Africa e le isole greche dell’Egeo, passando per la Siria e la Palestina, prima di approdare sulle coste dell’Arabia. Nel suo resoconto, Alì Bey offre un algido ritratto delle terre attraversate, con una peculiarità assoluta: si occupa di aspetti considerati secondari, scevro da ogni giudizio morale (eccetto che sulla pessima amministrazione ottomana), valutazioni razzistiche e fanatismi religiosi, offrendoci un ritratto forse edulcorato ma assai vivido del Mediterraneo islamico.
Un piccolo dettaglio: il vero nome del ‘siriano’ Alì Bey era in realtà Domingo Francisco Jordi Badía y Leblich.
Straordinaria figura autodidatta di orientalista, esploratore e avventuriero poliglotta, Badía y Leblich era nato a Barcellona nel 1767 da madre belga e padre aragonese.
Appassionato di fisica e scienze matematiche, storia naturale e filosofia, nel 1778 si trasferisce dalla Catalogna dapprima ad Almeria e poi in Andalusia, dove il padre ha ottenuto un incarico come funzionario regio. Nell’antica provincia moresca, il ragazzo si interessa alla storia ed alla cultura araba, apprendendone la lingua ed i costumi talmente bene che nel 1799 il suo talento viene notato da Manuel Godoy, onnipotente primo ministro di re Carlo IV, che lo prende sotto la sua protezione e lo presenta all’orientalista valenziano Simón de Rojas Clemente, col quale stabilisce una solida amicizia. Insieme pianificano una spedizione scientifica e geografica in Marocco, finanziata dalla Corona spagnola. Domingo Badía y Leblich, dovrà trasformarsi in Ali
Bey al-Abbasi: un ricco marcante discendente dall’antica dinastia dei califfi Abbasidi. I documenti, opportunamente falsificati e redatti in arabo antico, che attestano la fantasiosa genealogia, aprono ad Alì Bey porte inaspettate ed i massimi favori delle elite dominanti che lo credono un discendente del Profeta.
Scopo della missione è preparare un colpo di stato in Marocco, per facilitare la conquista spagnola del paese, fornendo informazioni indispensabile sulla geografia della regione maghrebina.
Nonostante l’abbandono del progetto iniziale, Ali Bey (alias Domingo Badia) resta attivo come spia per tutta l’area mediorientale (dal 1803 al 1807), dapprima alle dipendenze dirette del ministro Godoy al quale invia dispacci e informazioni riservate, e poi per conto dei francesi dopo l’invasione della Spagna da parte delle armate napoleoniche. Il suo travestimento è così riuscito, a tal punto da essere uno dei primi occidentali a penetrare nel recinto sacro della Mecca e vedere la Pietra Nera.
Accolto con tutti gli onori dopo il suo ritorno in Europa, divenne uno dei più importanti e famosi esploratori di tutto l’Occidente. Morì nel 1818 nei pressi di Damasco in Siria, probabilmente per un attacco di dissenteria, dopo aver intrapreso un nuovo avventuroso viaggio in incognito nelle terre asiatiche dei turchi ottomani.

TRIPOLI DI BARBARIA
«Tripoli di Barbaria vien detto Tarabla dagli abitanti; ed è una città assai più bella di qualunque del regno di Marocco: è posta in riva al mare, e le sue strade sono diritte, ed abbastanza larghe. Le case regolarmente fabbricate sono quasi tutte bianche. L’architettura s’accosta assai più all’europea che all’araba; ed in ispecial modo le porte quasi tutte d’ordine toscano, i cortili con colonne di pietra ed archi di ottimo stile invece degli arabi acuti che vedonsi a Marocco. I fabbricati di pietra seno frequentissimi, e vedonsi pure alcuni marmi fini ne’ cortili, nelle porte, nelle scale, e nelle moschee. Le case hanno finestre verso strada, cosa non praticata a Marocco, ma per altro sono sempre chiuse da fitte griglie.
Osservai nelle case di Tripoli un’usanza assai singolare; cioè, che in quasi tutte le camere per lo più lunghe e strette, trovasi a ciascheduna delle due estremità un palco di tavole press’a poco alto quattro piedi dal suolo, sopra il quale si ascende per angusti scalini. Questi rialti hanno una balaustrata, ed alcuni ornamenti di legno, e si va sotto ai medesimi per una piccola porta. Esaminando quale potesse essere lo scopo di questa singolare disposizione, trovai che ogni camera poteva contenere le masserizie complete di una donna, poichè sopra l’uno collocasi il letto, sull’altro gli arredi de’ fanciulli; sotto di uno si pone il vassellame e le altre cose occorrenti al pranzo, e sotto l’altro gli altri effetti della famiglia. Questa distribuzione lascia in mezzo alla sala il luogo necessario per ricevere le visite; ed un uomo in una casa, o in un appartamento composto di tre o quattro camere, può tenere tre o quattro donne con tutte le comodità possibili, ed affatto indipendenti le une dalle altre. Tripoli non ha fontane nè fiumi; e gli abitanti bevono l’acqua che cade dal cielo conservata entro le cisterne, di cui ne è provveduta ogni casa: per i bagni, per le abluzioni, ed altri usi, valgonsi dall’acqua salsa dei pozzi.
La peste distrusse gran parte della popolazione; e vedonsi ancora molte case rovinate in conseguenza di quel flagello che mandò sotterra molte intere famiglie. Di presente il numero degli abitanti può calcolarsi di dodici in quindici mila.»
LA POPOLAZIONE
«Questa popolazione è composta di Mori, di Turchi, e di Giudei: e perché da prima il governo era assolutamente Turco, gli abitanti sono più civilizzati che a Marocco. La seta ed i metalli preziosi s’impiegano negli abiti; e la corte si mantiene con estremo lusso. La maggior parte degli abitanti conosce e parla diverse lingue Europee, e lo stesso Pascià parla l’italiano: ciò che a Marocco risguarderebbesi come un peccato più o meno grave.
La società vi è pure più sincera, e più libera che a Marocco; i Consoli Europei mi visitavano frequentemente, e nessuno se ne formalizzava. I rinnegati Europei possono ottenervi avanzamento, ed elevarsi alle prime cariche dello stato: l’ammiraglio o capo della marina Tripolitana è un inglese che sposò una parente del pascià. Gli schiavi cristiani sono ben trattati, hanno il permesso di servire ai particolari, corrispondendo parte dei loro profitti al governo.
Il sovrano di Tripoli conserva ancora il titolo di Pascià, perchè da prima quel paese era governato da un Pascià mandato di tre in tre anni dal gran Signore. Questi efimeri comandanti non altro vedendo nei loro firmani che un mezzo di spogliare inpunemente gli abitanti, si resero in modo insoffribili che questi massacrarono l’ultimo Pascià mandato dalla Porta.
Dopo tale rivoluzione accaduta circa ottant’anni sono, scelsero per loro principe Sidi Hhamet Caramanli nativo della Caramania, che fu il fondatore della regnante dinastia. In seguito a Sidi Hhamet suo figliuolo Sidi Ali padre dell’attuale sovrano montò sul trono; ma obbligato da alcune rivoluzioni ad abbandonare la patria, riparossi a Tunisi. Il figlio di Sidi Ali chiamato Sidi Hhamet, come suo avo, prese le redini del governo. Era questi un uomo vizioso, le di cui malvage qualità gli costarono il trono e la vita; e gli succedette Sidi Youssouf, suo fratello, oggi regnante.
Sidi Youssouf, ossia sig. Giuseppe è un uomo di bella presenza di circa quarant’anni. Non è privo di spirito, parla assai bene l’italiano, ama il fasto, la magnificenza, e si mantiene dignitosamente senza trascurare d’essere manieroso e gentile. Sono ormai dieci anni e mezzo che occupa il trono, ed il popolo si mostra di lui contento.
Sidi Youssouf non ha che due consorti propriamente tali: una delle quali sua cugina e bianca, gli ha già dati tre figli e tre figlie; e l’altra è una negra, da cui ebbe un maschio e due femmine. Tiene molte schiave negre, ma veruna bianca. Spiega tutto il lusso e la magnificenza negli abiti delle sue donne, e negli arredi delle loro abitazioni. I figli del pascià assumono il titolo di Bey, e l’uno di essi ha il mio nome Ali-Bey; ma quando dicesi soltanto Bey, intendesi per antonomasia il primogenito, che è di già conosciuto erede del trono.
Fui assicurato che le rendite del pascià non ammontano ad un milione di franchi all’anno.
Il portiere interno del palazzo è uno schiavo negro; e sonovi più di quaranta schiavi cristiani tutti italiani pel servizio interno.»
L’ESERCITO E LA MARINA
«I principali impiegati sono l’hasnadàr, ossia tesoriere, il guardian bàchi capo e maggiorduomo di palazzo, il Kiàhia, luogotenente del Pascià, il quale occupa un magnifico sofà nel vestibulo; poi il secondo Kiàhia, cinque ministri incaricati di diversi rami d’amministrazione, l’agà de’ Turchi, ed il generale della cavalleria araba. La guardia del Pascià è composta di trecento Turchi, e di cento mammaluchi a cavallo.
Ad eccezione delle guardie, il Pascià non mantiene verun’altra truppa regolata in attività. Allorchè deve sostenere qualche guerra, aduna le tribù arabe che si presentano colle loro bandiere o stendardi in sul davanti; e può in tale circostanza mettere in piedi dieci mila cavalli, e quaranta mila pedoni.
Abbiamo già detto che l’ammiraglio del Pascià è un rinnegato inglese ammogliato con una sua parente. Le sue forze marittime consistono ne’ seguenti legni.
1. Fregata o corvetta di cannoni N.° 28
1. Idem di 16
3. Sciabecchi di 10 cannoni ciascuno 30
1. Saica di 8
2. Galeoni di sei cadauno 12
1. Piccolo sciabecco di 4
1. battello di 1
1. Galeotta di 4
In tutto 11 bastimenti, e cannoni N. 103
A quest’epoca si fabbricavano due altri galeoni, lo che formerà un totale di 13 bastimenti armati. Tripoli contiene sei moschee del primo ordine con torri, e sei mosche e minori. Magnifica veramente è la grande moschea, e di elegante architettura: il tetto tutto formato di cupolette viene sostenuto da sedici maestose colonne doriche di un bel marmo grigio, che mi fu detto essere state prese sopra un bastimento cristiano. Fu fabbricata dall’avo di Sidi Youssouf.»
L’AMMINISTRAZIONE E I COMMERCI
«Le moschee possedono case e terreni provvenienti da donazioni volontarie: queste entrate servono al mantenimento dei ministri e degli altri impiegati nelle cose del culto.
Il muftì è il capo della religione, e l’interprete della legge. Stan sotto di lui due kadì, uno per gl’Individui del rito ehanefi, l’altro per quello del rito maleki.
La composizione dei tribunali del muftì e delkadi è veramente una istituzione rispettabile. Questi giudici sono incorruttibili, e tutti i loro ministri sono mantenuti coi proventi delle moschee.
Sonovi in Tripoli tre prigioni, una per i Turchi, e due per i Mori, ma sono male governate ed i prigionieri sono obbligati a mantenersi del proprio, o col prodotto della carità pubblica.
I negozianti e gli oziosi sogliono riunirsi in un caffè; ed il basso popolo in due altri d’un ordine inferiore. Da pertutto vi si prende il caffè senza zuccaro.
Vi sono pure alcune taverne ove si vendono vini e liquori dai Mussulmani medessimi, che non si fanno scrupolo di beverne ancor essi malgrado la proibizione della legge. Questo ramo di pubblica entrata produceva all’erario centomila franchi.
Il mercato è assai ben provveduto, ed i viveri si vendono a prezzi moderati. Vi si trovano eccellente pane e carni, non così i legumi. I Tripolitani fanno il couscoussou meno fino che a Marocco; essi usano molti altri grani, alcuni de’ quali provengono dall’interno dell’Affrica. Il paese produce l’olio necessario al suo consumo.
La terra è comune come a Marocco, purché non sia circondata da qualsiasi siepe; e trovansi varj abitanti che possiedono quindici ed anche venti poderi chiusi; e mi fu detto averne uno bellissimo il Pascià.
Mancando acque correnti s’innaffiano i giardini coll’acqua salmastra de’ pozzi, che si attigne con una macchina posta in moto dai muli.
I Giudei che hanno in Tripoli tre sinagoghe sono assai meglio trattati che a Marocco. Sono circa due mila che vestono alla musulmana, e solo la berretta, e le pantofole devono essere nere, ed il turbante ordinariamente turchino. Si contano fra questi circa trenta famiglie ricchissime, gli altri sono artigiani, orefici ec. Il commercio d’Europa è quasi tutto nelle loro mani: essi corrispondono principalmente con Marsiglia, Livorno, Venezia, Trieste e Malta. Vi sono pure alcuni negozianti mori tra i quali Sidi Mehemet Degàiz primo ministro del Pascià, che ha fama d’avere in circolazione un milione di franchi.
Se sono sincere le notizie che ho potuto raccogliere, la bilancia del commercio di Tripoli coll’Europa è a suo vantaggio, perchè le esportazioni eccedono d’un terzo il valore delle importazioni; ma il suo commercio col Levante e coll’interno dell’Affrica conguaglia i vantaggi di quello d’Europa. Riunirò altrove le particolarità del commercio di questa città con quello degli altri paesi.
Le misure ed i pesi che vi si adoperano sono inesatti come a Marocco, tanto per la grossolana loro forma che per mancanza d’un tipo originale.»
GLI EUROPEI E LA CHIESA
«Gli Europei sono a Tripoli assai ben veduti, e rispettati. Oltre gli agenti delle diverse potenze d’Europa, eravi allora un negoziante Francese, fratello del Console, uno Spagnuolo fabbricatore di navi, un medico Maltese, ed un orologiajo Svizzero.
I Cristiani vi hanno una cappella ufficiata da quattro monaci del terz’ordine di Roma. È cosa assai singolare che questi monaci hanno nella loro cappella una campana, il di cui suono si fa udire ogni giorno in tutti gli angoli della città. Questa chiesupola è mantenuta cogl’incerti, colle donazioni, e con una pensione della corte di Roma.»
I POVERI
«In così vasta estensione del regno di Tripoli non si contano che due milioni d’abitanti, perchè la maggior parie del paese è deserto, e tranne gli abitanti della capitale, gli altri sono poveri e sventurati Arabi. L’autorità del governo sul paese è così poco rispettata, che niuno, se non è Arabo, può viaggiare a qualche distanza senza andare in carovana, o fortemente scortato; altrimenti sarebbe infallibilmente derubato, o assassinato.
Gli abitanti di Soàkem, di Fezzan e di Guddemes che sono tributarj di Tripoli, tengonsi in corrispondenza cogli abitanti dell’interno dell’Affrica.
Il sovrano di Fezzan viene riconosciuto dal bascià di Tripoli sotto il nome di Scheik di Fezzan. I Fezzanesi sono neri grigi, poveri, ma di un carattere assai dolce. A Tripoli s’impiegano ne’ più piccoli esercizj.»
Ali Bey al-Abbasi (Domingo Badia y Leblich)
“Viaggi di Ali Bey al-Abbasi in Africa ed in Asia dall’anno 1803 a tutto il 1807“ (CAP. XXI-Vol.II)
Sonzogno, 1816.