Archivio per Milton Friedman

FINAL DESTINATION

Posted in Business is Business, Masters of Universe with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 23 novembre 2012 by Sendivogius

«Dopo un anno l’Italia è saldamente sulla via del cambiamento, di certo è un’Italia che adesso può guardare con più fiducia verso il suo futuro. Un futuro che sarà prospero se si continuerà sulla strada intrapresa, senza disperdere il lavoro che è stato compiuto fino ad oggi.»

 (Il Consiglio dei Ministri – Nov.2012)

Gli strabilianti risultati della terapia bocconiana li avevamo già ricapitolati QUI.
È ovvio che un ‘lavoro’ così ben fatto vada continuato, onde non disperdere effetti tanto straordinari…
Con un’economia reale stremata a condizioni post-belliche, senza alcuna prospettiva di “boom” se non il collasso di un intero tessuto sociale, in Italia siamo ormai alle verità di Fede. Il direttorio tecnocratico crede nei miracoli ed alla realtà dei fatti preferisce il culto delle visioni mistiche. Dall’alto del loro empireo accademico, lontani dalle anguste miserie dei comuni mortali, i professoroni preferiscono la libertà degli spazi siderali, dove l’aria rarefatta amplifica le allucinazioni nello stato comatoso di tunnel senza luci. E mentre i sacerdoti dell’Austerità per decreto trasformavano l’Italia in un immenso laboratorio accademico per i loro esperimenti sociali di teoria macroeconomica, ci hanno rifilato una riuscita serie di spauracchi costruiti ad hoc (la Grecia) e favolette di successo (secondo le quali avremmo vissuto al di sopra delle nostre possibilità), opportunamente amplificate dai media embedded dei potentati finanziari, interessati al grande piano di riorganizzazione post-democratica.
Bocciata nei fatti su tutti i parametri [QUI] l’Agenda Monti rimane la bibbia di riferimento per padroni e sindacati gialli, nella prosecuzione di un’esperienza che (per carità!) non va certo dissipata.
Principale (se non unico) risultato, è il contenimento dello spread sui titoli di Stato, ovvero il differenziale con i bund tedeschi, ad una media di 360 punti, che comunque (a fronte di una cura da cavallo) rimane elevato e non giustificabile. Più è alto il differenziale di riferimento, più aumenta l’importo degli interessi da pagare ai sottoscrittori dei titoli pubblici, emessi per il finanziamento delle spese correnti inerenti il funzionamento della macchina statale, incrementando di converso l’enorme debito pubblico che grava sul bilancio italiano.
Nella notte buia in cui tutte le vacche sono nere, ci si dimentica di dire però che nel 2007 lo spread era sotto i 50 punti e certo non costituiva un problema per l’incremento di un debito pregresso, in massima parte ereditato dalla finanza allegra degli anni ’80 [QUI!], e nell’ultimo decennio tenuto costantemente sotto controllo, senza incidere sulla tenuta economica e la stabilità finanziaria di un intero Paese, fino a quando non è improvvisamente diventato un problema…

Infatti, bisognava scegliere se continuare a finanziare la spesa corrente degli Stati a sostegno delle politiche sociali o drenare risorse pubbliche per colmare la voragine del Credito privato, dissanguato dalle speculazioni della finanza strutturata. Ovviamente, si è optato per la seconda scelta col beneplacito delle oligarchie liberiste della UE ed il sostegno incondizionato dei nipotini di Milton Friedman (diffidare sempre dei nani!), tanto non pareva loro vero di poter ridisegnare la geografia sociale dell’Europa a immagine e somiglianza del Cile di Pinochet. Non per niente gli emuli nostrani dei Chicago Boys sono tra i più fieri sostenitori del Montismo ad oltranza e rilascio rapido.
Tanto per dire, un affresco del fallimento delle politiche rigoriste di ispirazione neo-monetarista ce lo danno i prudentissimi rapporti dell’ISTAT: nota congrega sovversiva di anarco-insurrezionalisti. Per questo i report in questione vengono di solito snobbati dalla grande stampa moderata e benpensante, sempre così pensosa dei destini del Paese e soprattutto del ‘mercato’.
E dunque riscopriamoli insieme…

La Dittatura del Debito
 Nel Rapporto Annuale del 2010, prima della svolta tecnica, l’ISTAT esamina le cause della crescita del debito pubblico, nell’ambito della più generale crisi dell’euro (moneta nata male, strutturata peggio, ma la quale è vietato criticare) e soffermandosi sull’analisi del “saldo primario”, ovvero l’avanzo nei bilanci degli Stati. E viene calcolato al netto della spesa per interessi sui titoli emessi per il finanziamento corrente, che impropriamente chiamiamo “debito”.
Il saldo primario è una diretta conseguenza delle politiche fiscali adottate dai singoli Paesi e riflette le decisioni dei governi in materia economica e gestione di spesa.

«Il saldo primario, nella media dell’area è andato progressivamente deteriorandosi, passando da un avanzo del 2,3 per cento del Pil nel 2007 a disavanzi superiori al 3 per cento negli ultimi due anni.
Nel complesso del triennio 2008-2010, il saldo primario ha contribuito alla crescita del peso del debito sul Pil per 5,7 punti percentuali per l’insieme dell’UEM [Unione Monetaria Europea], ma per 47 punti percentuali in Irlanda, 20 punti in Grecia, 19 in Spagna, 14 in Portogallo e 10 punti in Francia. Solo in Finlandia, Italia e Germania ha offerto un contributo negativo, rispettivamente per 2,7, 1,7 e 1,5 punti percentuali. Nel 2010, il saldo primario è migliorato in tutti i paesi a esclusione di Irlanda, Paesi Bassi e Austria

Una situazione drammatica, ma non disperata. E soprattutto non tale da ingenerare il panico che ne è seguito. Le conseguenze (indirette) sul debito pubblico sono state esasperate in seguito all’esplosione della bolla speculativa statunitense, che ha travolto come un’onda lunga la finanza europea e in particolare le banche franco-tedesche sovresposte verso il sistema creditizio di Irlanda, Islanda e Grecia. L’Italia compariva perfino tra i paesi virtuosi!
Insomma, nulla che avesse a che fare con l’andamento sostanziale dell’economia reale. E niente che giustificasse l’imposizione delle politiche di austerity teutonica, calibrate dai tedeschi in modo da essere etero-indirizzate pro domo sua.

«Nel nostro Paese, la crescita del rapporto tra debito e Pil durante la crisi è stata determinata prevalentemente dalla spesa per interessi derivante dall’elevato livello di debito ereditato dal passato e dalla contrazione dell’attività economica.
La politica fiscale adottata dal Governo è risultata invece tra le più severe, con un ricorso molto limitato a interventi straordinari anticrisi rispetto agli altri paesi: l’Italia è, infatti, l’unica economia dell’Uem ad aver mantenuto in avanzo lungo tutto il triennio il saldo primario strutturale, calcolato depurando il saldo complessivo al netto della spesa per interessi dalla componente ciclica dovuta all’operare degli stabilizzatori automatici.
[…] Nel 2010, il saldo primario strutturale avrebbe, invece, continuato a segnare un ampio disavanzo in Irlanda (27,2 per cento del Pil), Spagna (6,2%), Francia (4,3%), Grecia (3,3%) e Paesi Bassi (3,2%).»

La mancanza di provvedimenti strutturali che hanno impedito di cogliere i vantaggi oggettivi (come avvenuto in Germania) che la moneta unica pure offriva, sono gli inconvenienti di aver posto alla conduzione dell’Italia un Pornocrate, molto più interessato alla “patonza” che non agli affari di Stato, funzionali più che altro agli introiti delle sue aziende di famiglia.
Ma, si sa, gli italiani amano da sempre gli “Uomini della Provvidenza”… vogliono essere condotti per mano al suono di pifferi magici, come i ciuchini nel Paese dei Balocchi.

Il Pasto Greco
La gestione del debito ellenico costituisce la più grande operazione congiunta di recupero crediti ai danni di una stato sovrano mai realizzata. In pratica, i governi conservatori di Germania e Francia, si sono comportati come la bassa manovalanza criminale, ingaggiata dagli usurai (le Banche d’affari private) per esigere i loro crediti a strozzo. La punizione collettiva del popolo greco (perché di questo si tratta), in nome degli Dei della Finanza, rimarrà un’onta indelebile a carico della UE e foriera di conseguenze sociopolitiche, ben peggiori di quanto una Merkel o le intelligenze artificiali del Governo Monti saranno mai in grado di elaborare.
L’Italia partecipa a pieno titolo nel salvataggio della piccola Grecia, che a sua volta deve sottostare alle condizioni capestro imposte dalla Germania. In poco tempo, un onere contenibile in ambito europeo si trasforma in una voragine senza fondo, sotto i morsi dell’intransigenza interessata di Berlino.
Ma, nella stampa teutonica e scandinava, lo sforzo italiano non viene tenuto in alcun conto ed anzi il Belpaese viene iscritto a forza nei Pigs del cosiddetto Club Med (non senza una punta di razzismo), descritto come un Paese indebitato coi creditori esteri (un falso clamoroso) e si acclara senza alcun riscontro la possibilità di un fantomatico rischio default.
Per uno strano capriccio del caso, l’economia italiana è la principale rivale della pompata locomotiva tedesca, con la quale gareggia in esportazioni e acquisizione di quote di mercato europeo. Le prescrizioni rigorista dilatate su scala continentale provvederanno presto a deprimere il potenziale concorrenziale. Ovviamente, gli interventi congiunti di Francoforte e Berlino e Bruxelles sono stati fatti esclusivamente per il nostro bene.
 Come al solito, per la buona riuscita delle trattative in ambito europeo, non aiutano le perfomances dell’Innominabile che quietamente, nella gaia incoscienza dei controllori, viene lasciato gozzovigliare al governo italiano, umiliando le istituzioni repubblicane e sputtanando il paese in mondovisione.

«Nel 2010 è stato erogato circa un quarto del finanziamento speciale concesso alla Grecia dai paesi dell’Uem (21 miliardi su un totale di 80), il cui onere è stato ripartito tra i paesi membri in proporzione alla loro partecipazione al capitale della BCE: per Italia, Francia e Germania, questo intervento ha determinato un aumento del peso del fabbisogno sul PIL di circa un quarto di punto percentuale; nel 2011 si può stimare un impatto pari a circa 4 decimi di punto per l’Italia e solo marginalmente inferiore in Germania e Francia. La quota di finanziamento a carico di ciascun paese può essere confrontata con un indicatore dei potenziali effetti d’impatto che si ripercuoterebbero sulle rispettive economie in conseguenza di un eventuale consolidamento del debito pubblico greco, costituito dal grado di esposizione dei sistemi bancari nazionali verso operatori pubblici e privati greci. Emerge che le quote di finanziamento del prestito alla Grecia garantite dai principali tre paesi (circa il 27 per cento dalla Germania, il 20 dalla Francia e il 18 dall’Italia) non sono proporzionali al rischio relativo, che è elevato in Francia (con quasi il 40 per cento dei titoli greci collocati presso banche europee), significativo in Germania (con il 25 per cento) e molto ridotto in Italia (con meno del 3 per cento). Gli interventi che hanno inciso direttamente sul debito senza influenzare il saldo di bilancio sono soprattutto l’aumento delle riserve di liquidità e l’acquisizione di attività finanziarie delle banche da parte dei Governi.»

L’Italia e le Banche
 Sicuramente si tratterà di una coincidenza fortuita, ma la guerra dello spread, cominciata con gli avvertimenti intimidatori delle agenzie del rating organizzato e proseguita con le armi di distruzione di massa della finanza speculativa, sembra quasi essere proporzionale alla mancata esposizione del bilancio italiano alle tempeste del credito bancario ed alla mancata emissione di garanzie pubbliche e coperture finanziarie nei confronti delle potenziali perdite del sistema bancario e le esposizioni alle fluttuazioni di mercato.
Nel corso del 2010 i principali governi europei, spaventati dalla crisi del credito privato, corrono a foraggiare gli istituti bancari con cospicue iniezioni di denaro pubblico, fornendo garanzie sui titoli emessi dalle banche in difficoltà finanziarie.

«Gli effetti correnti e potenziali sul debito pubblico dovuti all’adozione di misure straordinarie da parte dei Governi a sostegno del sistema bancario risultano, a fine 2010, eccezionalmente elevati in Irlanda (quasi il 150 per cento del Pil) e significativi in numerosi paesi (Grecia 27 per cento, Belgio 22, Germania 16, Spagna 8, Portogallo 6,8 e Francia 4,6 per cento). Per l’Italia il peso degli interventi attuati a sostegno del sistema finanziario è, invece, marginale (0,3 per cento).»

A dimostrazione forse di un sistema creditizio più sano rispetto agli omologhi europei.
Con lo smantellamento accelerato delle tutele sociali, la cancellazione dei diritti e delle ultime garanzie nell’ambito del lavoro, insieme all’esposizione dello Stato italiano nei confronti delle eventuali banche a rischio insolvenza, coincidono con uno stemperamento dello spread che tuttavia rimane troppo alto e che il Governo Monti si guarda bene dal pubblicizzare troppo tra i suoi successi (presunti). Non per niente, tra i primi atti del decreto Salva-Italia c’è la presa in carico da parte dello Stato delle passività bancarie, con la concessione di garanzie di copertura…

La morsa del Debito
 Il peso del debito pubblico costituisce una morsa incontenibile, che condiziona le politiche economiche ed i piani di crescita da almeno un ventennio. Tuttavia, a fronte di un sistema produttivo ed industriale fortemente sclerotizzato, e refrattario alle innovazioni come agli investimenti, un mercato del lavoro ingessato con divaricazioni sempre più inique nel riconoscimento dei diritti, la tenuta dell’economia italiana è sostenuta in massima parte dai consumi delle famiglie. È questo l’elemento primario, se non unico, che finora ha garantito spinta propulsiva al cosiddetto sistema-paese:

«Nel periodo 1992-2000 la crescita dell’economia italiana è stata sostenuta dai consumi delle famiglie, dagli investimenti e rafforzata da un contributo positivo della domanda estera netta; il contributo dei consumi collettivi, invece, è leggermente negativo, conseguenza di una dinamica restrittiva della spesa delle amministrazioni pubbliche fino al 1995 e di una sua crescita a ritmi molto contenuti dal 1996 in poi.
Nelle altre maggiori economie dell’Uem, costrette ad un processo di convergenza meno oneroso di quello italiano, invece, il sostegno della spesa pubblica, soprattutto nella fase recessiva, è stato positivo.»

Il godereccio ventennio berlusconiano, lungi dal risolvere i problemi li ha acuiti, e gli effetti si vedono…

«Nel periodo 2007-2011, la performance di crescita complessivamente negativa dell’Italia (-1,1 per cento in media d’anno) vede un contributo negativo di quasi tutte le componenti della domanda, in particolare degli investimenti, e un contributo nullo della spesa finale delle amministrazioni pubbliche. Tra gli altri principali partner, Francia e Germania conseguono una modesta crescita, complessivamente favorita dal sostegno della domanda privata e dei consumi collettivi, mentre nella media di periodo la domanda estera netta incide negativamente, principalmente a causa del pessimo risultato del 2009.»

L’equazione tra crescita ed equità è imprescindibile. In Italia si è costantemente proceduto in senso opposto.

L’Equità al tempo dei Tecnici
Nel 2011 abbiamo un nuovo “salvatore della patria”: ce lo chiede l’Europa; lo vuole la BCE; ce lo impone il Colle. E, come tutte le imposizioni dall’alto, si tratta di un’offerta che non si può rifiutare…
Nel solco di un processo di ristrutturazione a livello europeo, con la benedizione delle banche centrali e del Fondo Monetario, per il risanamento dei conti pubblici in nome dei sacri parametri, Mario Monti intraprende una cura fatta di lacrime, sangue e tagli. Il dolore è parte integrante della terapia e non prevede anestesia. Sostanzialmente si tratta di una vivisezione: se la cavia sopravvive alle asportazioni, si aprono per lui le aspettative di una non vita dalla lunga agonia.
Nel rapporto annuale del 2012, l’Istat non manca di osservare come:

«In Germania e in Francia il maggior contributo al risanamento è stato fornito dalle imposte dirette, con incrementi in valore assoluto rispettivamente dell’8,1 e del 10 per cento; nel Regno Unito, invece, il supporto più rilevante alle entrate è giunto dalla dinamica delle imposte indirette (in aumento del 6,4 per cento in termini nominali).»

Le imposte dirette si basano sulla tassazione progressiva del reddito e sulla repressione dell’evasione fiscale, in proporzione alla ricchezza patrimoniale detenuta ed alla propria capacità contributiva. Nei paesi dove più forte è il divario sociale e maggiore l’impronta liberista si prediligono le imposte indirette, che toccano solo marginalmente i grandi capitali ed i redditi più elevati.
In Italia, l’imposizione fiscale (e massimamente dopo l’avvento del Governo Monti) è basata quasi tutta sull’aumento delle imposte indirette, che spostano il peso del risanamento soprattutto a carico del reddito da lavoro dipendente e salariato:

«L’aumento di gettito è stato sostenuto esclusivamente dalla crescita delle imposte indirette (+2,0 per cento) realizzata attraverso interventi sull’Irap, l’introduzione della tassa di soggiorno, l’aumento di un punto dell’aliquota massima dell’Iva e aumenti delle imposte sugli olii minerali.
[…] In Italia si sono registrate diminuzioni dei redditi da lavoro dipendente (-1,2 per cento), delle prestazioni sociali in natura [forniture di beni e servizi alle famiglie n.d.r] (-2,2 per cento), dei trasferimenti di capitale (-8,8 per cento) e dei contributi alla produzione (-6,3 per cento).
[…] La dinamica negativa dei redditi da lavoro dipendente è stata determinata dalla contrazione dell’occupazione e dalla modesta flessione delle retribuzioni pro capite dovuta al congelamento dei rinnovi contrattuali. Il sensibile calo delle prestazioni sociali in denaro ha riflesso prevalentemente l’andamento di alcune componenti della spesa sanitaria (spesa per farmaci e spesa per la medicina di base) che, nel corso del 2010, avevano incorporato il costo dei rinnovi delle convenzioni dei medici di base.»

In pratica la gente risparmia sulle cure mediche, mentre migliaia di posti letto vengono tagliati e gli ospedali chiusi in nome del fiscal compact e dalla spending review che ne consegue. Il prossimo passo del Montismo è la privatizzazione della Sanità? Per crudele paradosso, mentre si pretende di inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione, si impone il fiscal compact che di fatto azzera ogni forma di spesa pubblica in Italia, si inaspriscono le politiche di rigore, mentre il debito pubblico esplode in concomitanza col crollo dell’economia e dell’occupazione.
Il caso è da manuale: si tratta del carrettiere che ammazzò il cavallo, convinto che per spronare l’animale a trainare il carro bastassero le sole frustate; aumentando al contempo il volume del carico, nella convinzione che per risparmiare sui costi di trasporto sarebbe bastato eliminare il foraggio e le cure per la bestia da soma.
Un anno dopo la cura Monti, questo è il risultato al settembre 2012, in merito alle prospettive per l’economia italiana, elaborate dall’Istat…
Per quanto riguarda l’Industria:

«Le contrazioni più marcate si rilevano nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-15,5%), nella fabbricazione di articoli in gomma, materie plastiche e altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-8,3%) e nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-7,6%).
Le variazioni negative più rilevanti dell’indice grezzo degli ordinativi hanno riguardato la metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-18,4%), la fabbricazione di macchinari e attrezzature n.c.a. (-17,3%) e l’industria del legno, carta e stampa (-13,1%).»

In merito all’industria automobilistica, Gli acquisti di autoveicoli sono crollati a -44,9%. Ma in questo ha contribuito molto la simpatia di Sergio Marchionne.
Stroncato il mercato interno, in nome del risanamento e riordino dei conti che assomiglia ormai ad una composizione della salma prima della tumulazione, i restauri tombali del Governo Monti stanno portando i loro benefici effetti anche nell’ambito del commercio estero. Le esportazioni, seppur in difficoltà, sono sempre state un settore di punta dell’economia italiana ed una voce importante nella strutturazione del PIL nazionale e che, al contrario delle aspettative, non sono state poi così beneficiate dall’introduzione dell’euro come si credeva in origine:

«L’adozione dell’euro ha determinato un impatto positivo, ma non di grande entità, sul commercio bilaterale dei paesi europei. Per alcuni paesi membri (Grecia, Finlandia e Portogallo) l’effetto della moneta unica europea sul commercio sarebbe stato negativo.
[…] Nel caso dell’Italia l’impatto positivo si sarebbe esplicitato attraverso la riduzione dei costi variabili del commercio internazionale, mentre la riduzione dei costi fissi non avrebbe avuto alcun ruolo. La stima differenziata dell’effetto “introduzione dell’euro” rispetto ai mercati di destinazione ha, tuttavia, mostrato un impatto positivo per gli scambi commerciali con i paesi “periferici”, verso i quali le imprese italiane avrebbero aumentato le esportazioni in termini sia di valore sia di varietà dei prodotti esportati. Al contrario, l’effetto sull’export verso i mercati “core” (tra cui la Germania, principale destinatario dell’export italiano) sarebbe stato negativo, indicando il prevalere di un effetto competitività penalizzante per i beni italiani.»

I flussi del commercio estero, scalzati progressivamente dai mercati interni della UE a tutto vantaggio della Germania, si sono concentrati verso i paesi emergenti e le nuove economie dell’Asia, insieme ai mercati tradizionali del made in Italy di qualità, conquistando importanti quote nei nuovi blocchi economici transcontinentali.
 Verso le nuove tigri asiatiche (e tigrotti in crescita) dell’ASEAN: Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania, Cambogia.
Verso i colossi dell’EDA: Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Malaysia
Oppure puntando sulle grandi potenzialità del continente latinoamericano, puntando ai mercati unificati del MERCOSUR e dell’ANDEAN.
E infatti,

“A settembre si rileva, rispetto al mese precedente [Agosto 2012], una flessione per entrambi i flussi commerciali, più intensa per l’import (-4,2%) che per l’export (-2,0%).
La diminuzione dell’export è di intensità analoga per entrambe le aree di sbocco: -2,1% per i mercati UE e -2,0% per quelli extra UE. In flessione sono soprattutto le vendite di beni strumentali (-4,5%) e di prodotti energetici (-2,3%), mentre i beni di consumo durevoli registrano un aumento dell’1%.
La flessione delle importazioni è rilevante sia dai paesi Ue (-4,4%) sia da quelli extra Ue (-3,9%). Particolarmente accentuata è la contrazione degli acquisti di beni strumentali (-9,7%).”

La flessione delle vendite riguarda tutti i potenziali partner commerciali, interessati alle nostre esportazioni:

Paesi EDA (-26%)
Giappone (-35%)
Cina (-18,8%)
India (-30,9%)
Paesi MERCOSUR (-13,7)
Germania (-10,3%)
Spagna (-12,8%)
Romania (-13,6%)

Aumentano invece i flussi commerciali con i Paesi dell’ASEAN (+22,9%); Paesi OPEC (+18,0%); Russia (+16,7%); USA (+19,4%).

A conti fatti, più che dinanzi ad un governo di risanatori ci troviamo di fronte ad una squadra di becchini. Epperò, dopo Monti c’è solo Monti… per l’estrema unzione?

Attulamente der Professor è ad uno dei soliti, inconcludenti, vertici brussellesi che tanto fanno sghignazzare mercati e investitori di borsa ad ogni puntata. Il copione è sempre lo stesso: Angelona Merkel si impunta come Hitler nell’assedio di Stalingrado senza cedere di un millimetro; il presidente francese cerca di rintuzzare l’intransigenza tedesca, confidando invano nella risicata sponda italica; Mario Monti, nicchia, bluffa, minaccia veti che non porrà mai… ma, finita la recita, prima si piega e poi si spezza. Per non fargli perdere la faccia, l’inflessibile Angelona concede qualche osso al suo fedele cagnolino da riporto e il giorno dopo sconfessa i risultati del vertice, inviando i suoi sabotatori di fiducia (Olanda e Scandinavia). È una tecnica nota ormai a tutti, tranne che ai giornaletti nostrani, i quali celebreranno il ritorno a casa del Professorone con titoloni roboanti sui nuovi “successi epocali”.

All’atto pratico, dopo aver stroncato ogni possibilità di ripresa, estendendo la cura ultra-rigorista all’intera Europa, i tecnocrati della UE e del Fondo Monetario Internazionale hanno rivisto al ribasso tutte le stime di crescita, ammettendo che forse qualcosa non sta funzionando… E dopo aver trasformato una crisi congiunturale, in una devastante recessione su scala continentale, senza che si prospettino reali prospettive di uscita, iniziano a profilarsi all’orizzonte concreti timori sulla tenuta sociale e democratica negli stessi Paesi coinvolti nella ‘cura’.
Se è vero che sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Ci troviamo di fronte ad un gruppo di cerusici ottocenteschi che, dinanzi all’aggravarsi della malattia, intensificano i salassi al paziente anemico, prescrivendo in aggiunta una serie di clisteri al malato rigorosamente tenuto a digiuno, pur di non rimettere in discussione le teorie del loro manuale scolastico. Evidentemente, è radicata la convinzione nietzschiana, secondo la quale ciò che non uccide fortifica.

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Monti Python

Posted in Business is Business, Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 14 novembre 2011 by Sendivogius

Ogni momento storico ha il suo personaggio di riferimento.
Seppellito provvisoriamente il grande statista di Arcore sotto due metri di cerone, in attesa della risurrezione con contorno di Maddalene piangenti e ladroni mai pentiti, tutti i riflettori e le aspettative sono ora rivolte verso il prof. Mario Monti, che avrà il compito più che gravoso di traghettare l’Italia fuori dal guano in cui il Pornocrate l’ha precipitata.
In attesa del lieto evento, si sprecano i fiumi di inchiostro per delineare la caratura del nuovo personaggio del giorno, tra le interpretazioni e le disamine più svariate sulla biografia del prof. Monti. Pertanto, l’etere potrà benissimo fare a meno del nostro più che superfluo contributo.
Sulla figura di super-Mario, in pirotecnica staffetta, si alternano panegirici agiografici e critiche serrate… I commentatori più intelligenti ricordano il suo ruolo organico nel mondo finanziario. Ironizzano sul paradosso di colui che dovrebbe salvare la situazione, applicando le ricette di chi la crisi l’ha creata, forse nella convinzione che abbia la stessa efficacia dei vaccini estrapolati dagli agenti virali alla base della malattia. E ne sottolineano la contraddizione implicita di una candidatura di ‘sistema’. A dire il vero più potenziale che sostanziale…
Si lamenta la prevalenza dei governi di tecnici sulla ‘Politica’ e la presunta “perdita di sovranità democratica”, ma si dimentica che ogni governo per essere tale deve reggersi necessariamente sul consenso di maggioranze parlamentari. Fino a prova contraria, la nostra Costituzione prevede che il “popolo” elegga i parlamenti e NON i governi, i quali ricevono la loro legittimazione dalle Camere. Ne consegue che ogni governo è ‘politico’ e dura fintanto che ha il sostegno in Parlamento, quale unico e vero “rappresentante della volontà popolare” per indiretta intermediazione.
 In realtà, questi sarebbero concetti basilari nella complessità dell’architettura costituzionale. Ma nelle reiterate semplificazioni della finzione berlusconiana (la cui nefasta eredità dovremo metabolizzare a lungo) si preferisce lanciare generiche invocazioni alla “Libertà” (concetto vacuo se privato di sostanza), lamentando la “perdita di democrazia” nell’illusione che i due concetti costituiscano un’equazione certa a prescindere. Una simile pretesa risulta quanto mai impropria per una compagine governativa, che ha convertito i timori di un Alexis de Tocqueville sul “dispotismo della maggioranza” in prassi ordinaria. D’altra parte, una democrazia politica mutua le sue maggioranze dal filtraggio delle preferenze collettive, secondo i meccanismi elettorali della rappresentanza indiretta per delega (in bianco). Nella fattispecie, il sistema elettorale italiano è quanto di meno rappresentativo possa esistere in termini di scelta. Le maggioranze elettorali che ne scaturiscono, lungi dall’essere espressione esplicita di una sedicente “volontà popolare”, sono il risultato di un compromesso tra interessi e aspirazioni divergenti, nell’impossibilità di rispettare la scelta originale dell’elettore. La questione era ben chiara fin dagli albori della democrazia, quando il Marchese de Condorcet elaborò il famoso “paradosso” che porta il suo nome e dal quale Kenneth Arrow strutturò il suo Teorema dell’Impossibilità nel 1951.
Ad ogni modo, qualora il prof. Monti fosse il robotico tecnocrate imposto dall’Europa, esautorando la ‘Politica’, bisognerebbe anche rammentare cosa quest’ultima è stata capace di esprimere nel corso dell’ultimo trentennio e tenere a mente di quale pasta siano fatti i politicanti nostrani, professionalizzati nella mortificazione delle competenze.
È altresì curioso che le principali rimostranze provengano da uno schieramento politico, imperniato sull’infallibilità del Führerprinzip, che ha fatto della forzatura costante delle regole, della commistione tra pubblico e privato in un abnorme conflitto di interessi, delle tutele corporative e dell’affarismo dilagante… lo strumento permanente della sua azione cogente.
Tuttavia, già dimentica dell’austero predecessore, la vulgata comune dei detrattori preferisce il ritratto di un Monti rappresentato come uno strumento (agente rettiliano?) della Finanza internazionale (ebraica?), intesa come un unico blocco di potere (occulto) impegnato a perseguire un articolato disegno di egemonia e controllo globale. Per l’occasione, non manca chi rispolvera l’antico complotto pluto-giudaico-massonico di fascistissima memoria, confezionato sempre in nuove varianti.
Dispiace constatare quanto, dopo la morte delle ideologie, come alternativa abbiano attecchito nell’immaginario di massa le demenziali panzane sul “signoraggio bancario”, saldamente innestate nel substrato d’accatto culturale di un cospirazionismo complottardo, che non va oltre i libracci di Dan Brown, pesca a man bassa dalle fortunate baggianate di Michael Baigent e Richard Leigh, e soprattutto ha eletto a verità di fede la pletora di deliri paranoici condensati nel fantomatico NWO.
La prova inconfutabile risiede nel fatto che Mario Monti sia l’uomo della famigerata Goldman Sachs, il cui board sembrerebbe controllare le principali istituzioni economiche e politiche su scala globale, tramite una serie di figure chiave piazzate tra i diversi schieramenti politici.
Che una delle più grandi banche d’affari del pianeta si serva di personaggi di comprovata esperienza per la gestione dei propri capitali ed investimenti finanziari, affidando a specialisti del settore (advisor) la revisione dei propri bilanci, è un fatto lapalissiano. Solitamente le grandi holding e le multinazionali non affidano la gestione contabile al figlio ragioniere del vicino di casa.
Non dovrebbe essere un concetto troppo difficile da capire, a meno che non si viva nel paese della nipote di Moubarak e delle cene (orge) eleganti.
L’apparente comunanza di interessi e di vedute, con una soluzione di continuità ideale di proposte e interventi di risanamento, non risiedono certo in un “complotto” d’ispirazione mistico-esoterica, ma nell’accettazione pressoché universale di una medesima matrice economica, convertita in ideologia dominante su base politica, che non prevede alternative né eterodossie in nome di un modello capitalistico che da prevalente è diventato dominante. È logico che istituzioni e governi conformino l’azione politica e le proprie linee guida a livello economico, in ossequio ad un unicum considerato imprescindibile. Attualmente, costituisce quel complesso dottrinario nelle teorie macro-economiche, chiamato neo-monetarismo. Ma era già conosciuto agli albori del XX secolo col nome di “capitale finanziario”.

«Il monetarismo, la UE lo ha elevato a dottrina centrale e indiscutibile addirittura per costituzione (costringendo a votare di nuovo chi si era espresso contro, fino a non fare votare per nulla la sua ultima riproposizione, il “Trattato di Lisbona”). I parlamenti sono stati esautorati delle loro prerogative attraverso limitazioni di mandato, o meccanismi di voto alterati sino a escludere opposizioni ostili alla filosofia di fondo. Ogni impegno è volto a impedire che i cittadini possano influire sulle scelte determinanti che li riguardano.
Naturalmente, l’effetto è più sensibile nelle fabbriche, la cellula autoritaria per eccellenza. Guai a ostacolare l’efficientismo dei padroni, salvo una trasmigrazione delle aziende. Si pisci di meno, si mangi di meno, si lavori fino allo sfinimento, dal giorno alla notte. Altrimenti produrremo (senza peraltro vendere) dove la forza-lavoro costa quasi un cazzo, e dove i diritti dei lavoratori confinano con quelli della prima rivoluzione industriale. Sindacati gialli, forti solo di una base di pensionati iscritti a forza per presentare la dichiarazione dei redditi, applaudono entusiasti. Due ipotesi alternative: o non hanno capito nulla, o hanno capito troppo e sono complici. Buona la seconda.
Ma come si fa, senza riuscire a vendere ciò che si è prodotto (per esempio automobili), a tenersi sul mercato? Il fatto è che il capitale finanziario ha finito col sovrapporsi al capitale reale. Hilferding lo aveva previsto, ma anche Marx lo aveva intuito (con la formula D-M-D: si rilegga il primo volume de Il Capitale per vedere cosa significa). La “M”, merce, è comunque uscita di scena. Paesi prosperi come l’Irlanda o la Spagna sono messi in un angolo, declassati da entità futili quali le agenzie di rating. Agenti fasulli e obbrobriosi, che solo una teoria forsennata come il monetarismo, privo di qualsiasi base scientifica (come aveva dimostrato il compianto Federico Caffè in Lezioni di politica economica, Bollati-Boringhieri, 1980), poteva formulare. Ebbene, proprio il monetarismo è la dottrina ufficiale dell’Unione Europea. Non conta quanto un Paese sia vitale e produttivo. Conta, per valutarlo, il suo indebitamento. Verso cosa? Verso un debito complessivo più grande. Tutti sono indebitati. Specialmente l’Africa, il continente più ricco di materie prime e di giacimenti. Guarda caso, sembra il più povero. I suoi abitanti fuggono al nord inseguiti dalla fame. Chi li perseguita? Una povertà naturale? No, il debito. Chi è ricco diventa povero, chi è povero diventa ricco. C’è qualcosa che non va.
Uno spettro si aggira per l’Europa e per il mondo: è un errore di calcolo. Non ha niente a che vedere con l’economia propriamente intesa, cioè con la ripartizione delle risorse tra gli appartenenti al genere umano, cercando di far sì che esistano beni per tutti. E’ una follia collettiva che va oltre le atrocità del capitalismo, cioè la versione moderna del rapporto tra padroni e schiavi. Siamo alla servitù delle cifre, si produca o no. Siamo servi di un registratore di cassa in mano altrui, che pare manipolato da un folle. Ma folle non è poi tanto. Sceglie quale classe colpire, per farla vittima delle sue bizzarre matematiche. E’ sempre la classe subalterna, quella dei salariati e degli stipendiati. Tutto si tocchi salvo i profitti e le rendite, essenziali ai fini dell’algebra astratta del regno della finzione economica. Dove chi non produce guadagna, chi produce soffre, chi sarebbe ricco è povero, chi è povero lo è per calcoli immateriali e per flussi di ricchezza inesistente fatti apposta per non beneficiarlo.
Il “debito pubblico” è un’astrazione legata a un’ideologia stupidissima, oggi l’unica insegnata nelle università – il “monetarismo”, più la sua variante volgare, la Supply Side Economy, cara a Reagan, alla Thatcher, a Pinochet – e il sistema, vergognoso, vi ha costruito sopra un intero edificio teorico.»

Valerio Evangelisti
“Economia metapolitica”
Carmilla on line – 04/01/04

 A proposito di “capitale finanziario”, alla vigilia dell’insediamento del Governo Monti, sarà il caso di ricordare un personaggio come Rudolf Hilferding: economista di estrazione marxista ed esponente di spicco della SPD tedesca, fu Ministro delle Finanze nella Repubblica di Weimar prima dell’avvento del nazismo. Su Hilferding potete leggere un’ottima monografia dello storico Lucio Villari: QUI.
Secondo Hilferding, il capitalismo industriale, fondato sui principi del libero scambio, è destinato ad essere sostituito integralmente dal capitalismo finanziario, in perfetta sinergia con gli organismi statali che ne diventano diretta espressione politica di tipo oligarchico.

«La caratteristica del Capitalismo “moderno” è data da quei processi di concentrazione che, da un lato, si manifestano nel “superamento della libera concorrenza”, mediante la formazione di cartelli e trust, e, dall’altro, in un rapporto sempre più stretto fra capitale bancario e capitale industriale. In forza di tale rapporto, il capitale assume […] la forma di capitale finanziario, che rappresenta la sua più alta e più astratta forma fenomenica. Lo schema mistico che vela in genere i rapporti capitalistici raggiunge qui il massimo della impenetrabilità»

Rudolf Hilferding
“Il capitale finanziario”
Feltrinelli, 1976

Hilferding collega la nascita del capitalismo finanziario alla vocazione imperialistica dello Stato-Nazione e la funzione del nazionalismo nella legittimazione ideologica dell’imperialismo predatorio. La sua opera principale è per l’appunto “Das Finanzkapital” (Il capitale finanziario) del 1909. Oggi è un saggio praticamente misconosciuto, ma ai tempi della sua pubblicazione riscosse un notevole interesse. Le dinamiche del nazionalismo imperialista catturarono l’attenzione di Lenin che, pur non perdendo occasione di denigrare Hilferding, lo cita in continuazione nel suo “L’Imperialismo” (1916), dopo aver saccheggiato a man bassa l’opera omonima di J.A.Hobson del quale ci eravamo già occupati QUI).
Il pensiero di Rudolf Hilferding, che non è esente da cantonate clamorose, contiene comunque presupposti più che attuali evidenziando il ruolo delle banche nella determinazione del capitale finaziario…

«Una parte sempre crescente del capitale dell’industria non appartiene agli industriali, che lo utilizzano. Essi riescono a disporne solo attraverso le banche, le quali, nei loro riguardi, rappresentano i proprietari del denaro. Gli istituti bancari devono d’altronde fissare nell’industria una parte sempre crescente dei loro capitali, trasformandosi quindi vieppiù in capitalisti industriali. Chiamo capitale finanziario quel capitale bancario, e cioè quel capitale sotto forma di denaro che viene, in tal modo, effettivamente trasformato in capitale industriale.
[…] Il capitale azionario viene svalutato, il che significa che gli utili vengono suddivisi su un capitale più ristretto. Nel caso poi che non vi sia alcun utile, viene raccolto nuovo capitale il quale, insieme a quello già posseduto e svalutato, riesce di nuovo a produrre un utile sufficiente. Va notato, a questo proposito che questo riassestamento e questa riorganizzazione hanno per le banche una duplice importanza: in primo luogo perché rappresentano affari vantaggiosi e, in secondo luogo, perché offrono loro l’occasione di assoggettare quelle società che si siano rivolte a loro per aiuti

È un modello speculare alla ciclicità delle crisi economiche e permette l’acquisizione di insperati margini di profitto, con specifiche conseguenze in ambito sociale:

«Il capitale finanziario è la risposta del modo di produzione capitalistico alla non mobilità del capitale reale (la concentrazione del capitale)
[…] Un conto è la concentrazione (riproduzione su scala allargata: accumulazione), un conto è la centralizzazione (semplice cambiamento nella distribuzione dei capitali già esistenti). La centralizzazione aumenta il processo di accumulazione, allarga la composizione tecnica del capitale e fa diminuire la domanda relativa di lavoro

Non esiste alcun complotto del Grande Capitale, trasmutato nei tentacoli della Finanza universale teleguidata da intelligenze aliene, ma un’idea… una precisa linea di pensiero… tradotta in modello universale, ma relativamente recente che prospera nell’ignoranza di plebi che concionano di “signoraggi” e “cospirazioni globali”.
Se ci perdonate l’ennesima citazione rubata:

«Bisognerebbe riscoprire Rudolf Hilferding, da cui Lenin attinse a piene mani, pur coprendolo di insulti per le prese di posizione contingenti dell’economista. Cosa sosteneva Hilferding, ne “Il capitale monopolistico”? Che il capitale astratto avrebbe progressivamente preso le redini dell’economia produttiva, fino ad assumerne il pieno controllo. Non con un atto di forza, bensì per reciproca complicità. I profitti reinvestiti nel settore finanziario, a scapito degli investimenti nella produzione di merci. Il monopolista e il banchiere che finiscono per essere una persona sola. Anzi, una non-persona: Monsieur Le Capital l’aveva chiamata Marx (e così l’avrebbe chiamata uno studioso lucidissimo, Marco Melotti, scomparso di recente).
Hilferding è stato tra i pochi, seri, continuatori di Marx, al di là di scelte politiche oggettivamente discutibili, e di soluzioni controverse (secondo lui, nazionalizzando le banche, un governo socialista avrebbe automaticamente assunto il controllo delle grandi imprese). Ciò che resta valido, nel suo ragionamento, è la denuncia della tendenza del capitalismo a farsi progressivamente più evanescente, a fondarsi su un sistema simbolico sempre più distante da ciò che crea ricchezza, e cioè il lavoro.
Perduto il referente concreto, si avrà un assetto instabile, soggetto a periodiche crisi (qui non è più Hilferding che parla, ma Marx in persona). Fino alle paradossali inversioni cui il capitalismo moderno ci ha abituati. Un’azienda è tanto più sana quanti più lavoratori espelle (sì, ma quanto consumeranno dopo gli espulsi? Quale domanda solleciterà gli investimenti?). Un’economia è tanto più solida quanto più comprime la spesa (meno servizi gratuiti, minore accesso a ciò che spetterebbe di diritto: salute, casa, scuola e altri capisaldi del vivere civile. Privatizzare il privatizzabile). Un paese è tanto più povero quanto più è ricco di risorse naturali.
Su tutto, lo spettro sempiterno di minacce diaboliche e impalpabili: il debito incombente, la stramaledetta inflazione, l’eccesso di moneta sui mercati, ecc. A suo tempo, da Keynes si passò a Milton Friedman, e a lui si ispirarono Ronald Reagan e Margaret Thatcher, più i loro devoti successori. Peccato che Friedman, e con lui gli economisti “supply siders”, mai abbiano messo assieme una dottrina organica dell’economia. Andavano a casaccio. I loro seguaci hanno messo (temporaneamente) in ginocchio il Cile e l’Argentina. Frutto dei loro esperimenti sono anche i polacchi che si offrono di pulirci i parabrezza ai semafori.
Per inciso, la non-dottrina di Friedman oggi è adottata dalla Banca Centrale Europea (l’ha inclusa anche nel progetto di Costituzione e nel patto di Lisbona) e dall’Occidente nel suo assieme. Se come teoria fa acqua, i suoi risvolti politico-sociali sono netti: smontare la classe operaia – o più in generale il proletariato – quale soggetto compatto, portatore di istanze collettive. Scinderla in individui costretti a contrattare individualmente, o a piccoli gruppi, la propria sopravvivenza. Abolire i contratti di lavoro nazionali, in modo da lasciare i soggetti deboli in balia di se stessi. Illuderli con lo specchietto di una falsa autonomia, in modo che l’azienda possa, all’occorrenza, liberarsene come facevano le antiche mongolfiere, quando staccavano e gettavano nel vuoto i sacchetti di sabbia per prendere il volo.
Un precario riesce con difficoltà a essere un soggetto antagonista: teme per il suo posto di lavoro. Idem per un falso “lavoratore autonomo”: difenderà la propria posizione individuale. Idem per un operaio o per un impiegato, circondato da un mare di precari e di disoccupati: nel timore di finire in quelle acque, accetterà ogni sorta di disciplina e di prepotenza. Peggiore di tutte è però la posizione del lavoratore subalterno che ha accettato di convertire in fondi azionari i propri risparmi o la propria pensione. Diventa oggettivamente parte marginale dell’economia astratta. Trepida per i soprassalti dei listini di borsa, che legge con fatica. Diversamente da un azionista vero, non può agire: deve solo subire. Voterà Berlusconi, l’unico che lo può salvare.
Ignora infatti cosa sia la politica dell’open mouth, della “bocca aperta”, teorizzata dai supply siders e adottata da Ronald Reagan. Lanciare sorrisi e messaggi ottimistici, dire bugie per rassicurare. Convincere tutti che la povertà del presente è ricchezza futura. Chiamare a una corsa in cui i cavalli migliori potranno vincere (traggo il paragone da “Martin Eden”, del compagno Jack London). I cavalli in corsa non si parlano tra loro. Alcuni cadono, altri si azzoppano. Uno solo vince, ma la vittoria vera è di chi lo cavalca. Attenzione a quanti vi parlano di ‘merito’: hanno in mente l’ippodromo. Sono i fantini.»

Valerio Evangelisti
Carmilla on line
(15/10/08)

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LA GUERRA DELL’ACQUA

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PRIVATIZZAZIONE :

Come ti rubo la vita…

 

drop Un’economia fattasi troppo astratta per tenersi in piedi sottrae liquidità all’economia reale. Tutto ciò che era gratis, perché ritenuto socialmente utile, per non dire spettante di diritto, sarà messo in vendita. Servono liquidi da immettere sul mercato finanziario. La scuola, dalle elementari all’università, il pubblico impiego, l’elevazione dell’età pensionabile, il passaggio dal lavoro sicuro al precariato (accompagnato da opportuni slogan che esaltino la “flessibilità”) diventano oggetti di risparmio monetario, perché la finanza possa ripartire.

(“Il crack della finanza spiegato al popolo 2/2” di Valerio Evangelisti  – pubblicato il 30/10/08 su carmillaonline.com)

La Crisi economica globale incombe. Molti i responsabili ma nessun colpevole (as usual). E mentre i singoli governi sono chiamati a drenare le ultime risorse fiscali, nel tentativo di sanare i guasti di un Turbo-Capitalismo marcio e famelico, gli eredi dei Chicago Boys intonano il loro ennesimo peana neo-liberista: esternalizzare, valorizzare, privatizzare.

Una sola ideologia universale: massimizzazione dei profitti; mercificazione dell’esistente; azzeramento dei diritti, sostituiti da elargizioni “compassionevoli”.

Il mercato vive di sogni indotti, ma si nutre di risorse primarie. Non esistono beni essenziali o diritti inalienabili. Tutto può avere un prezzo e come tale essere venduto. In questa prospettiva, ogni cosa che abbia un valore d’uso possiede inevitabilmente un valore di mercato. E l’acqua, specialmente l’acqua potabile, non fa eccezione. Alla stregua di un qualsiasi prodotto, può essere negoziabile, standardizzabile, e quindi commercializzabile, destrutturata in commodities e prezzata come una qualunque merce in vendita.

Esistono i casi estremi, come in Cile, dove (col patrocinio del gen. Pinochet, grande amico della signora Thatcher) i Chigago Boys sono riusciti a privatizzare perfino i fiumi. E poi Bolivia, Argentina, Uruguay… A dimostrazione che solo le dittature ed i regimi autoritari hanno i requisiti essenziali per applicare, a livello ottimale, le (non) teorie di Milton Friedman e dei suoi discepoli, che col loro ricettario economico hanno avvelenato il continente latinoamericano, prima di essere spazzati via quasi ovunque dal vento delle nuove revoluciones libertadoras.

In Europa, si inizia a parlare di privatizzazione delle acque nel 1989, durante il governo di Margaret Thatcher, quando nella sua furia ultraliberista la Lady di Ferro pose nelle mani dei privati anche l’approvvigionamento idrico dei sudditi di Sua Maestà britannica. Il servizio è stato appaltato ad una società australiana che, per ripianare i presunti costi di investimento, ha triplicato le tariffe. Da allora, la corsa all’acqua, “l’oro blu”, da parte delle grandi corporations non si è mai fermata. Il mercato idrico internazionale è diventato appannaggio esclusivo di pochi colossi senza scrupoli.

 “La mercificazione dell’acqua segue molte strade. Una è la concessione a privati dello sfruttamento di sorgenti, pozzi, acquedotti e canali. In Messico, le riforme per aprire questo tipo di mercato trovano qualche resistenza perché la Costituzione stabilisce che la gestione dell’acqua è riservata allo stato. Ciò significa che, almeno in teoria, questa non è una merce come le altre e che può essere oggetto di concessioni solo per un tempo limitato. Le difficoltà legali si aggirano grazie a una parola magica: “decentralizzazione”. Magica e ingannevole giacché nei fatti “decentralizzare” ha voluto dire consegnare i sistemi idraulici ai governi locali con l’unico obiettivo di aprire il passo alle privatizzazioni.

L’altra via della mercificazione è quella del consumo d’acqua in bottiglia, che dappertutto è una truffa colossale, visto che da nessuna parte gli imbottigliatori usano acqua di fonte, ma pongono il proprio sigillo all’acqua della rete pubblica. Il Messico è sempre stato un gran consumatore di bibite a base di cola e ora è il secondo consumatore pro capite d’acqua imbottigliata, preceduto solamente dall’Italia.”

Fin dalla nascita, il mercato globale dell’acqua ha presentato caratteristiche singolari giacché è sempre stato controllato da un pugno di giganti europei che esibiscono attitudini depredatrici simili o anche peggiori a quelle dei concorrenti nordamericani. Le imprese più grandi sono Veolia, Suez, e Vivendi Universal. Sono francesi e insieme si spartiscono il 80% del mercato mondiale dell’acqua Per giustificare il loro operato esse diffondono l’idea che di fronte all’inefficienza generalizzata delle istituzioni pubbliche, è meglio optare per l’impresa privata che è ‘dinamica’, ‘produttiva’ e ‘onesta’.

(Tratto da: “La guerra dell’acqua” di A. Mannucci – ecplanet.com)

Alessio Mannucci dedica un lungo reportage sulla gestione dell’acqua e sui paradossi della privatizzazione. Vale la pena di riportare il caso grottesco, ai limiti del demenziale, avvenuto nella città di Aguas Calientes in Messico.

Nel 1993, “il servizio pubblico d’acqua potabile, captazione e trattamento delle acque residue” di Aguas Calientes viene dato in concessione ai privati: un consorzio idrico al quale partecipa anche la francese Compagnie Générale des Eaux, una sussisidiaria della Vivendi.

Le autorità giustificarono la privatizzazione con il cattivo stato del servizio (ma questo non migliorò). Gli unici effetti visibili furono il repentino aumento delle tariffe e la sospensione della fornitura nei casi di morosità, una pratica fino allora quasi sconosciuta. Secondo la compagnia, quello era l’unico modo per frenare il consumo stimolando il risparmio e limitando così lo sperpero. L’impresa passò, malgrado ciò, per molteplici disavventure finanziarie accumulando debiti. Con la svalutazione della moneta nel 1994, questi diventarono pressoché ingestibili. Per evitare la bancarotta e la sospensione del servizio, la giunta municipale dovette apportare grandi dosi di capitale pubblico (mostrando ancora una volta come i grandi monopoli privatizzano i ricavi, ma socializzano le perdite). Il colmo: nel 1996 il contratto originale fu modificato per favorire ancor più l’impresa, ampliando a 30 anni la durata della concessione e rendendo tuttavia più flessibili i suoi obblighi, esimendola dall’investire nella costruzione di infrastrutture.”

A volte la “guerra dell’acqua” assume le dimensioni di una lotta titanica, dove piccoli David riescono ad aver ragione dei Golia delle multinazionali…

 

cochabamba-rivolta-dellacquaBOLIVIA. La rivolta di Cochabamba. Nel 1999 il col. Hugo Banzer Suarez, presidente-dittatore, “ebbe la felice idea di privatizzare l’acqua nel dipartimento di Cochabamba”. Fu così che l’acquedotto cittadino fu dato in concessione, insieme ai servizi idrici e fognari di La Paz e di El Alto. Arrampicata sulle Ande, a 2500 m. di altezza, con i suoi 1.800.000 abitanti, Cochabamba è la terza città della Bolivia. Nel settembre 1999 viene firmato dalle autorità municipali un contratto con l’unico concorrente in gara per l’appalto: il consorzio Aguas de Tunari. Si tratta di un complicato groviglio societario a scatole cinesi, con la partecipazione congiunta di grosse holding multinazionali. Il consorzio è ufficialmente guidato da una off shore con sede alle Isole Cayman, la IWL (International Water Limited), che detiene il 55% del pacchetto azionario. Ma la IWL è in realtà una controllata alla pari della statunitense BECHTEL (molto legata a Dick Cheney) e dell’italianissima EDISON che a sua volta possiede l’altro 50% delle azioni IWL.

E qui viene il bello: l’Edison è della TDE, mentre la Tde appartiene per il 50% alla francese WGRM e per il restante 50% alla AEM e cioè l’Azienda energetica di Milano, che per il 43.26% appartiene al Comune. Da quando sono state privatizzate, le municipalizzate anche in Italia pensano a fare operazioni di compravendita dei pacchetti azionari di altre imprese, acquisendo il controllo di aziende che producono disastri in giro per il mondo come nel caso della Bolivia.

Il resto delle azioni è in mano alla spagnola ABENGOA (25%) e… della Banca Mondiale: grande regista dell’operazione, nella triplice veste di ideologo delle privatizzazioni, in nome del sacro Verbo monetarista (l’unico credo consentito), finanziatore dell’impresa e azionista del consorzio privato.

La ‘Aguas del Tunari’ viene registrata in Olanda, in quanto gli accordi bilaterali fra Olanda e Bolivia prevedono regole estremamente favorevoli alle multinazionali qualora venisse rescisso un contratto. Tra queste, vi è la possibilità per una multinazionale persino di chiedere il mancato lucro qualora un governo facesse delle scelte che danneggino l’impresa; addirittura anche qualora venissero introdotte norme a tutela dei diritti dei lavoratori o dell’ambiente.”

(Giuseppe De Marzo – Ass. A Sud)

In base al contratto, il consorzio “riceveva per trenta anni la concessione della captazione, trattamento e distribuzione dell’acqua nel territorio comunale. La concessione dava ad Aguas del Tunari il monopolio assoluto su ogni fonte d’acqua nella municipalità, inclusi i pozzi privati. (…) Nel giro di pochi mesi gli abitanti di Cochabamba vedono aumentare le tariffe del 300%, mentre le condizioni precarie delle reti idriche e fognarie non subiscono alcuna operazione di mantenimento o miglioramento. La spesa media dell’acqua arriva a toccare circa 12 dollari mensili, su un salario medio di 60 dollari. Le tariffe vengono adeguate al dollaro statunitense, costituendo una grave perdita del potere d’acquisto per una popolazione già in condizioni di estrema povertà. Gli alti costi richiesti per le connessioni domiciliari sono a carico degli utenti e l’accordo con Aguas del Tunari proibisce l’uso di fonti alternative naturali. (…) Vengono imposti l’obbligo di acquisto di permessi per accedere alla risorsa e addirittura un sistema di licenze per la raccolta dell’acqua piovana. Dopo un anno di gestione il 55% degli abitanti continua a non avere accesso all’acqua.

Al consorzio veniva altresì attribuito il potere di pignorare la casa e le proprietà del consumatore insolvente, arrivando a vietare (e nel caso confiscare e demolire) gli invasi e le cisterne per la raccolta dell’acqua piovana.

Nell’aprile del 2000 la misura è colma. Centinaia di migliaia di persone scendono in piazza e marciano a Cochabamba contro il governo, nonostante l’intervento della polizia che attua una brutale repressione con morti e feriti. Dal coordinamento delle azioni di opposizione nasce la “Coordinadora de defensa del agua y la vida” costituita da sindacati, contadini, ecologisti, operai, studenti, comitati di quartiere e gente comune, che assume come impegno centrale quello di impedire la privatizzazione dell’acqua nella città di Cochabamba. “I dirigenti della Coordinadora vengono arrestati durante le trattative con il governo, rinchiusi in una prigione al confine con il Brasile e accusati dal ministro dell’interno di finanziarsi con il narcotraffico.” Accusa naturalmente falsa. Dopo la sollevazione dell’intera cittadinanza e la creazione di una sorta di Comune autogestita, a democrazia diretta, “la vittoria è stata piena: il governo ha ripreso una proposta di legge popolare che sancisce il diritto all’acqua e la sua gestione pubblica. Il contratto con il consorzio privato è stato abrogato. La gestione idrica è andata a un’impresa in cui siedono rappresentanti del comune, i sindacati, le associazioni di quartiere.

(Ma.Fo; Il Manifesto” del 29/08/02)

Siccome il lupo perde il pelo ma non il vizio, nel gennaio 2005 una nuova rivolta popolare costringe alla ritirata le compagnie che speculano sull’acqua di El Alto e fanno affari sulla pelle dei suoi 800.000 abitanti.

BOLIVIA 2005. La seconda guerra dell’acqua. policia-y-campesinosOpportuno, a questo punto, un ritorno alla realtà che fatalmente ci riporta a una seconda guerra dell’acqua: combattuta, questa volta, nell’immenso labirinto di El Alto, città-satellite che da 4.000 metri incombe su La Paz, la capitale, aggrovigliata lì sotto come in un pozzo e quasi spettrale. Anche qui il motivo della contesa è l’ «Aguas del Illimani», consorzio idrico finanziato dal gruppo francese Suez, che deteneva il 55% delle azioni, mentre l’ 8% era nelle mani della Banca Mondiale e il resto in quelle di investitori sudamericani. La seconda guerra è scoppiata nel gennaio dell’ anno scorso, dopo che la «Aguas del Illimani» (anche qui il nome è quello di une delle più alte vette andine) aveva imposto forti aumenti delle tariffe e chiesto per l’allacciamento alla propria rete la cifra spropositata di 445 dollari, equivalenti a sei mesi dello stipendio base di un lavoratore. Ma la guerra è durata poco. Le organizzazioni di quartiere di El Alto hanno indetto uno sciopero generale e alla fine costretto il consorzio privato della Suez a rimettere il sistema idrico sotto il controllo pubblico: e, come a Cochabamba, il governo di La Paz ha cancellato il contratto dell’ «Aguas del Illimani». In un Paese dove il 34% di 8,6 milioni di boliviani vive con meno di due dollari al giorno, non era possibile tollerare che gli azionisti stranieri continuassero a lucrare sull’acqua.

  (Ettore Mo – “Corriere della Sera” del 15/01/06)

 

bottlesE in Italia?!? In Italia il Parlamento ha votato l’articolo 23bis, già inserito nel decreto 112 di Tremonti e convertito nella Legge 133/08, con votazione del 06/08/08. Naturalmente con l’immancabile appoggio dell’opposizione, PD in prima fila, nella persona del ministro-ombra Lanzillotta. Sempre pronti a scattare sull’attenti, quando gli allibratori del “Libero Mercato” reclamano la loro razione di carne fresca.

Così il governo Berlusconi ha sancito che in Italia l’acqua non sarà più un bene pubblico, ma una merce e dunque, sarà gestita da multinazionali internazionali (le stesse che già possiedono le acque minerali). Già a Latina la Veolia (multinazionale che gestisce l’acqua locale) ha deciso di aumentare le bollette del 300%. Ai consumatori che protestano, Veolia manda le sue squadre di vigilantes armati e Carabinieri per staccare i contatori.

(Maddalena Parolin, “Acqua in bocca”)

L’Art. 23-bis. della Legge n° 133 disciplina la materia in ambito dei Servizi pubblici locali di rilevanza economica. In tale norma si affermain via generale l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua” a soggetti privati.

Al comma 1 e 2 si può leggere:

 

1. Le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili.

 

2. Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità.

 

Scrive Paolo Rumiz in un ispirato articolo comparso su La Repubblica dell’11 novembre:

 “Non se n’ è accorto quasi nessuno: quel pezzo di carta obbliga i Comuni a mettere le loro reti sul mercato entro il 2010, e ciò anche quando i servizi funzionano perfettamente e i conti tornano. Articolo 23 bis, legge 133, firmata Tremonti. La stessa che privatizza mezza Italia e ha provocato la rivolta della scuola.

(…) Col 23 bis i Comuni perdono contemporaneamente una fonte di entrate e la sorveglianza sul territorio. Il federalismo si svuota di senso. Il rapporto con gli elettori diventa una burla. Lo scenario è inquietante: bollette fuori controllo, e i cittadini con solo un distante “call center” cui segnalare soprusi o disservizi. Insomma, l’ acqua come i telefonini: quando il credito si esaurisce, il collegamento cade. La storia parte da lontano, nel 2002, con una legge che obbliga i carrozzoni delle municipalizzate a snellirsi, diventare S.p.a. e lavorare con rigore. L’ Italia viene divisa in bacini idrici, i Comuni sono obbligati a consorziarsi e le bollette a includere tutti i costi, che non possono più scaricarsi sul resto delle tasse. Anche se i Comuni hanno mantenuto la maggioranza azionaria, nelle ex municipalizzate son potute entrare banche, industrie e società multinazionali. Ma quella che doveva essere una rivoluzione verso il meglio si è rivelata una delusione. Nessuno rifà gli acquedotti, le reti restano un colabrodo. Il privato funziona peggio del pubblico, parola di Mediobanca, che in un’ indagine recente dimostra che le due aziende pubbliche milanesi, Cap ed Mm hanno le reti migliori d’Italia e tariffe tra le più basse d’Europa. Col voto del 6 agosto si rompe l’ ultima diga. L’acqua cessa di essere diritto collettivo e diventa bisogno individuale, merce che ciascuno deve pagarsi. Questo spalanca scenari tutti italiani: per esempio i contatori regalati ai privati (banca, industria o chicchessia che incassano le bollette), e le reti idriche che restano in mano pubblica, con i costi del rifacimento a carico dei contribuenti. Insomma, la polpa ai primi e l’ osso ai secondi. Il peggio del peggio.

(…) Situazioni paradossali si moltiplicano. Sentite cos’ è accaduto a Firenze. Il Comune ha accettato di fare una campagna per il risparmio idrico e un anno dopo, di fronte a una diminuzione dei consumi, ecco che la Publiacqua manda agli utenti una lettera dove spiega che, causa della diminuita erogazione, si vede costretta ad alzare le tariffe per far quadrare i conti. Ovvio: il privato lo premia lo spreco, non il risparmio. L’ unica cosa certa sono i rincari: ad Aprilia in Lazio sono scattati aumenti del trecento per cento e un conseguente sciopero delle bollette che dura tuttora contro la società “Acqualatina”. Stessa cosa a Leonforte, provincia di Enna, paese di pensionati in bolletta. A Nola e Portici, nel retroterra napoletano, la società Gori ha quasi azzerato la pressione in alcuni condomini insolventi, senza avvertire il sindaco; e lavoratori della ditta hanno impedito ai partigiani dell’ acqua pubblica di tenere la loro assemblea. A Frosinone gli aumenti sono stati tali che il Comitato di vigilanza è dovuto intervenire e alzare la voce per ottenere la documentazione nei tempi previsti. Più o meno lo stesso a La Spezia, che ha le bollette più care d’ Italia. Per non parlare di Arezzo, dove la privatizzazione si sta rivelando un fallimento. L’ Acquedotto pugliese, dopo la privatizzazione, si è indebitato con banche estere finite nelle tempeste finanziarie globali. A Pescara, da quando è scattato il regime di S.p.a., s’ è scoperto un grave inquinamento industriale della falda e la magistratura ha fatto chiudere l’ impianto. A Ferrara il regime di privatizzazione è coinciso col trasferimento a Bologna del laboratorio di analisi, con conseguente allentamento dei controlli in una delle zone più a rischio d’ Italia, causa la falda avvelenata del Po.

(…) Dai 26 ambiti che hanno accettato la privatizzazione sono cresciuti intanto quattro colossi: l’Acea di Roma che ha comprato l’acqua toscana; l’Amga di Genova che s’ è alleata con la Smat di Torino e ha dato vita all’ Iride; la Hera di Bologna che cresce in tutta la Padania; la A2A nata dalla fusione dell’ Aem milanese e dell’ Asm bresciana. In tutte, una forte presenza di multinazionali come Veolia e Suez, banche, imprenditori italiani d’ assalto, e una gran voglia di crescere sul mercato”.

 (Paolo Rumiz in “Acqua S.p.A.” – La Repubblica, 14/11/08)

 

Ultimamente, per capire cosa sta succedendo in Italia, basta guardare al Sud America.

 

 

Altre fonti documentarie:

Corriere della Sera; La Repubblica; L’Unità; Il Manifesto; Consumo Critico.

ECplanet (www.ecplanet.com) Selvas.org Ass. A Sud (www.asud.net) – Unimondo.org – Terra Libera

Autori degli articoli consultati:

Maddalena Parolin; Alex Zanotelli; Giovanna Vitrano; Giuseppe de Marzo