Archivio per Mass Media
The Peacemaker (IV)
Posted in Stupor Mundi with tags Affari Esteri, Bimbiminkia, Guerra in Ucraina, IAE, Italia, Liberthalia, Mass Media, Nathalie Tocci, Piddume on 26 marzo 2022 by SendivogiusAnche i bimbiminkia della “Generazione Erasmus” crescono. E, una volta diventati ‘grandi’, scambiano i privilegi di censo e di casta per titoli di merito, validi per ottenere cadreghe di “prestigiosi” istituti di studio impegnati in attività di lobbying più o meno sfacciate, ed occupare le poltroncine profumatamente remunerate di qualche consiglio di amministrazione, in cui vengono improvvidamente fatti imboccare su cooptazione, per benemerenze politiche su appartenenza di partito, nell’accumulo compulsivo di cariche e stipendi.
PROSTITUTI
Posted in Muro del Pianto with tags Alessandro Di Battista, Fascisti, Ferruccio Sansa, Giornalisti, Jacques Ellul, Libertà di informazione, Liberthalia, Luigi Di Maio, M5S, Mass Media, Potere, Propaganda, Stampa on 12 novembre 2018 by SendivogiusNella sua monumentale opera dedicata alla propaganda del regime fascista durante il ventennio (“La fabbrica del consenso: fascismo e mass media”), Philip V. Cannistraro distingue tra propaganda di agitazione e propaganda di integrazione, intese come due fasi strettamente interconnesse per la costruzione del consenso, attraverso l’allineamento dei mezzi di informazione, nella progressiva fascistizzazione degli organi di stampa e conseguente compressione di ogni dissenso critico.
Integrazione ed Agitazione non seguono un percorso ordinario, ma sono interscambiabili e con una struttura dinamica. Quest’ultima varia a seconda della necessità cogente del momento ai fini della propaganda, che per essere davvero efficace deve essere innanzitutto ‘fluida’.
La sbracata odierna di un Alessandro Di Battista (si parva licet) contro i soliti “giornalisti”, amabilmente chiamati “pennivendole puttane”, con tutta l’eleganza che contraddistingue l’eloquio gentile del personaggio in questione, potrebbe sembrare una forma di propaganda di agitazione, volta più che altro a fomentare la base fidelizzata di riferimento, particolarmente sensibile alle facili eccitazioni…
Tuttavia, a ben vedere, l’ennesima intemerata contro la stampa in generale (antica ossessione della setta a cinque stelle che li disprezza da sempre, parimente ricambiata) nasconde in realtà il senso di frustrazione di una propaganda che, al di fuori degli adepti di stretta osservanza, non buca; non raggiunge l’obiettivo prefissato, mancando sistematicamente il bersaglio. Si tratta del fallimento più evidente in termini mediatici di un movimento che è diventato ‘sistema’, ma che non riesce ad assorbire nella propaganda di integrazione le espressioni non allineate al nuovo assetto di potere di cui è espressione. E tanto meno riesce a modellare le coscienze, nella costruzione di un consenso allargato che penetri nella società, per riplasmarla dall’interno a propria immagine e somiglianza. Perciò, dove non funziona l’integrazione ritorna l’agitazione, che poi è rimestaggio torbido di livori e rancori di chi davvero crede che l’opinione pubblica si formi e possa essere eterodiretta da una piattaforma web. E per questo si rivolge ad un pubblico sempre più ristretto di analfabeti funzionali, nella spoliticizzazione crescente delle grandi masse del tutto indifferenti alla propaganda di agitazione.
Perché come ben sintetizzava il sociologo anarchico Jacques Ellul in un suo lontano studio sulla propaganda, già alla fine degli Anni ’60:
«Gli individui attivi nell’ambito della propaganda, sono nello stesso tempo soggetti e oggetti di propaganda e, costituendo quasi un circuito chiuso, non raggiungono la massa della popolazione e rinforzano in vitro opinioni estreme. La propaganda diventa allora una forma di autoconsumo. Si scelgono le notizie che possono alimentare la convinzione; le si elabora in modo che possano effettivamente servire per la propaganda; le si consuma nel gruppo venendo così fortificati nelle proprie convinzioni, mentre ci si distacca progressivamente da una massa che si vorrebbe raggiungere e convincere ma che si allontana sempre più, proprio nella misura in cui questa propaganda diventa più intensa.
Esiste tuttavia un modo attraverso cui il contatto avviene o dovrebbe avvenire: stabiliscono la relazione alcuni mezzi di comunicazione di massa, come quei giornali di larga informazione che prestano un’attenzione continua a questi movimenti e gruppi e riprendono questo tipo di propaganda; in effetti è solo in questo modo che accade qualcosa. Così, non può verificarsi una manifestazione di gruppi estremisti, per quanto ridotta, senza che immediatamente la grande stampa la riprenda e la ponga in primo piano, e lo stesso dicasi per certe emittenti radiotelevisive.»
In altri termini, i propagandisti come Di Battista (e tutta l’esaltata combriccola coltivata in provetta nei laboratori della Casaleggio Associati) hanno bisogno dei mass media per veicolare i propri messaggi (le idee sono un’altra cosa), attraverso i meccanismi di comunicazione mainstream; ben consapevoli che un messaggio, per essere davvero “virale” in assenza di reali contenuti, ha bisogno di essere propagato attraverso canali ufficiali più accessibili al grande pubblico. La polemica si traduce in realtà in un espediente per assicurarsi la visibilità. E per questo si autoalimenta in una escalation di provocazioni crescenti ed inversamente proporzionali ad ogni coerenza.
Parlare della doppia morale di questa setta di esaltati è assolutamente superfluo; sono gli stessi che ad ogni tintinnar di manette si presentavano in massa a conferenze di stampa autoconvocate, con tanto di arance in bella vista “in onore agli arrestati”, per reclamare le dimissioni coatte e l’arresto dei reprobi.

I parlamentari del M5s durante la conferenza in Campidoglio sugli arresti avvenuti al comune di Roma, 03 dicembre 2014. ANSA/ANGELO CARCONI
Quando un Di Battista, che davvero è convinto di essere un giornalista, mentre cerca di vendere un tanto al chilo i patetici reportage della sua lunghissima vacanza sudamericana nelle vesti di voyeur della misera altrui, parla di “pennivendoli” (facendo il verso a Giovanni Papini che il termine lo inventò) e di “prostituzione”, dal fondo del guazzabuglio di incoerenze e contraddizioni che ne contraddistinguono l’agire, sostanzialmente descrive se stesso nello specchio della propria inconsistenza.
Finora l’eccezionale risultato raggiunto è stato quello di essere scaricato persino dall’unico giornale ‘amico’ che ancora offriva il beneficio di una qualche credibilità a questa oscena banda di pagliacci, tanto da finire folgorati in un fulminante editoriale di Ferruccio Sansa, giornalista, che finalmente ha capito di quali umori sia fatto il fetido impasto da cui trae linfa la Setta del Grullo ed i suoi fanatici accoliti:
“Cari Di Maio e Di Battista, chi sono le puttane?”
«C’è soprattutto disprezzo in quella parola, “puttane”, usata da Di Battista. Per i giornalisti, ma anche per le prostitute. Per le persone in generale. Un modo di esprimersi misero e inadeguato. Prima ancora che grave. Non voglio difendere i giornalisti. Abbiamo le nostre colpe. Tanti sono stati servili in questi anni, invece che vigili. Hanno preferito la dipendenza alla libertà. Come gli italiani, del resto, che hanno osannato prima Berlusconi, poi Monti, poi Renzi e ora Salvini e Di Maio. Come la nostra classe politica peraltro. E qui verrebbe da fare qualche domanda al duo di statisti Di Maio-Di Battista.
Sono puttane solo i giornalisti o anche quelli che per anni hanno soltanto detto “sì”, piegando il capo agli ordini del grande capo?
Sono puttane solo i giornalisti oppure anche i politici che per tenersi una poltrona sotto le chiappe tacciono di fronte alle dichiarazioni razziste del loro alleato?
Sono puttane soltanto i giornalisti oppure anche chi dopo aver difeso a parole l’ambiente propone condoni per prendersi quattro voti?
Sono puttane solo i giornalisti oppure anche quelli che approfittano perfino delle tragedie come il ponte di Genova per cercare voti e consenso?
Sono puttane solo i giornalisti oppure anche quelli che dopo aver criticato per anni un politico vanno a scrivere libri per le sue case editrici?
Povere puttane, in fondo, usate per esprimere disprezzo. Almeno loro si sporcano le mani. Fanno un lavoro. Non stanno a pontificare dal Guatemala. Non governano un Paese con un curriculum che alla gente comune magari non basta per fare il corriere.»Ferruccio Sansa
(11/11/18)
Il dramma (per noi) è che ora tocca loro pure governare… E non sanno nemmeno da che parte cominciare.
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MEDIA-WORLD
Posted in Stupor Mundi with tags Donald J. Trump, Enrico Deaglio, Esteri, Giornalismo, Informazione, Liberthalia, Mass Media, Società on 19 novembre 2016 by Sendivogius
Per cercare di comprendere la grave crisi di credibilità in cui versano i “media” del circuito mainstream, a volte basterebbe semplicemente lasciar decantare gli articoli giù pubblicati sui principali quotidiani e, una volta sedimentata la notizia, rileggerli.
Perché i professionisti dell’informazione sono totalmente concentrati sulla propria opinione, da non accorgersi di tutto il resto, nell’ambito di una “grande narrazione” (la loro), funzionale ad un mondo immaginario, dove i fatti non vengono più raccontati, bensì interpretati liberamente; slegati come sono dal corso di quegli stessi eventi, che si ha la pretesa di spiegare. E, se in caso, i fatti si reinventano, creando cronache fittizie di un universo parallelo, dove le opinioni prevalgono sempre sul principio di realtà. A questo punto, non si può parlare nemmeno più di giornalismo, ma di letteratura fantastica; peraltro con risultati poco riusciti e assai discutibili. È evidente che una “informazione” così confezionata, in assenza di riscontri oggettivi e nell’evidenza delle smentite, finisce col perdere inesorabilmente di credibilità e soprattutto di Lettori, reciso ogni contatto con il proprio pubblico. Perché sempre più spesso e volentieri i giornalisti inseguono la propria idea innamorandosi della stessa. E poco si preoccupano di verificare se questa poi ha attinenze effettive con il reale. Va da sé che i risultati possono essere esilaranti…
Quello che vi proponiamo, selezionato nei suoi passaggi migliori, è un pezzo magistrale di Enrico Deaglio che un tempo era un bravo giornalista, prima di diventare romanziere part-time per l’intrattenimento comico degli eventuali lettori. Oggetto del temino, sono le elezioni presidenziali USA ed ovviamente il fenomeno Trump, descritto con le solite tinte fosche da apocalisse imminente e l’immancabile “Reductio ad Hitlerum“, per conferire pathos drammatico e dare colore all’involtino preconfezionato:
«Questo articolo è scritto a 19 giorni dal voto; da circa un mese tutti i sondaggi registrano la costante crescita di Clinton, che ora è data vincente sicura. O quasi. Per perdere, dice il New York Times, dovrebbe “sbagliare un rigore a porta vuota”. Giorno dopo giorno, Trump è calato in percentuali, finanziamenti, appoggi politici e Stati considerati sicuri. Ha perso anche l’ultimo dibattito. In realtà quello che gli resta riguarda noi, il “nostro” modo di interpretare le cose. Temiamo che la rabbia del popolo verso di noi (establishment, giornalisti, 1 per cento, caste varie) sia ben più vasta di quello che appare; che il popolo stesso sia più razzista ed egoista di quanto sembri, e che Trump lo abbia ben colto. Non è successo così anche con la Brexit?
Però, poi, scacciamo l’incubo e ragioniamo: davvero, sbagliare un rigore a porta vuota è impossibile; così come il delitto in una stanza chiusa a chiave dall’interno: vincerà Hillary. E, alla fine, a raccontarla, non sarà per niente una brutta storia. Il romanzo di come un aspirante dittatore sia stato smascherato, di come i famosi anticorpi della società questa volta abbiano funzionato. Di come, insomma, i nuovi Mussolini e Hitler possano essere fermati. Almeno in America.
[…] Ci si aspettava che il partito repubblicano reagisse a tali fosche fanfaronate, ma non lo fece. Con loro gli anticorpi non funzionarono. E Trump si fece polpette dei vari Jeb Bush, Marco Rubio, Ted Cruz. Quello che sembrava impossibile a febbraio, a maggio era una spaventosa realtà: Donald Trump vinse la nomination, con un programma di isolazionismo internazionale e autoritarismo interno. Una specie di “fascismo americano”; e la definizione non era per nulla campata in aria. Quel Make America Great Again, infatti, assomigliava molto ad America First, il movimento simpatizzante per Hitler che dilagò in America alla fine degli anni Trenta. C’era, allora, come ora nelle parole di Trump, il disprezzo verso gli immigrati, la nostalgia per l’America bianca in cui una élite comanda e i peones lavorano. C’era razzismo, evidente. Trump disprezzava i neri, gli ispanici, i disabili, le donne, il politicamente corretto. Aveva piuttosto il culto della forza, e del denaro. E i sociologi dicevano che la sua forza stava nella classe operaia americana, o quello che ne rimaneva. I valori del socialismo uniti a quelli della nazione, appunto.
[…] Oggi, Trump è finito. Non ci sarà nessun muro e nessuna deportazione. L’America continuerà ad essere un Paese democratico; non adatta a dittatori. Come hanno fatto? Hanno per caso qualche consiglio da darci?»
Enrico Deaglio
“Come si ferma un Trump”
(28/10/2016)
Fortunatamente NO! Visti gli esiti elettorali, faremo a meno di certi consigli.
Il problema dei profeti improvvisati è che, nella loro sicurezza acquisita da un presunto livello intellettuale superiore, tendono ad anticipare le proprie previsioni in un periodo storico immediatamente verificabile. Tecnicamente parlando, l’esito assume valore retorico e si chiama: “figura di merda”!
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RENZIADI
Posted in Stupor Mundi with tags Decisionismo, Italia, Jobs Act, Liberthalia, Mass Media, Matteo Renzi, Media, Michele Prospero, Nuovismo, Politica, Populismo, Potere, Società on 16 febbraio 2016 by SendivogiusIn un trionfo di slides animate, conturbamenti estatici e fondali cartonati, tra propaganda e culto narcisistico della personalità,
il magico regno fatato di Renzimandias si accinge a celebrare in pompa magna i due anni dall’intronizzazione di sua adiposità imperiale, per una settimana di festeggiamenti circonfusi nell’onirica rappresentazione di un paese immaginario, dove l’operetta sovrasta la farsa per diventare varietà funzionale alla televendita organizzata con buffet a risparmio.
È fin troppo facile immaginare che l’intera strombazzata si esaurirà negli sbrodolamenti intorno alla riffa contabile dei numeri del “jobs act” (è curioso come meno si conosca la lingua di Shakespeare e più si ostentino inglesismi dal provincialismo esasperante), col suo balletto di cifre variabili tanto e più di un’estrazione impazzita del lotto, lo sventolamento delle mancette da elargire all’incanto elettorale, i dati fantastici di una ripresa inesistente, e le “riforme impressionanti” dello stupro costituzionale consumato a colpi di viagra istituzionale. Ma è ovvio che l’effimera pagliacciata sarà interamente incentrata sull’esaltazione agiografica del piccolo principe, costruita com’è attorno al corpo sfatto del sovrano, nella strabordanza fisica dell’ennesimo gigione di provincia transumato ai fasti palatini.
Per contro, il vuoto va pure riempito in qualche modo, onde poter nascondere la fluttuante incommensurabilità del Nulla, nell’esibizione ridicola della sua inconsistenza. Anche se, alla prova dei fatti, gli effetti rischiano di rivelarsi dei catastrofici déjà-vu da tragico Fantozzi…
È lo stesso cretino col risvoltino ai calzoni, che scambia per
consenso l’apatia generale da scoramento. Potendo contare sulla dabbenaggine di masse amorfe, confonde le carnevalate della Leopolda, la buffonata delle “primarie”, le letterine e_mail al premier (variante ‘social’ della posta del duce), per partecipazione (in)diretta di una cittadinanza supina alle seduzioni mediatiche della politica-pop.
Per descrivere una simile imbastitura teatrale, per trovare un corrispondente adeguato, bisognerebbe ricorrere alle narrazioni propagandistiche di regimi assai più longevi, per un’impresa sostanzialmente inutile nella sua improponibilità…
Non foss’altro per l’impossibilità di trovare riscontri tra il
prognatismo scenico di mascelloni volitivi ed i cascami lipidici di una pappagorgia prominente; tra gli occhietti febbricitanti di qualche caudillo allucinato ed il placido sguardo bovino di un beota all’ingrasso; tra fisici asciutti in esibita tensione muscolare e gli stravaccamenti di un Falstaff da salotto, con la camicia da gelataio sbottonata e inopportunamente dischiusa su un corpo glabro e flaccido dalle bolse parvenze boteriane, con tenuta da “coatto“.
Se non fosse per l’esuberanza prossemica di una faccia da pongo, continuamente aggrovigliata in un crescendo di smorfie imbarazzanti e contorcimenti spastici, l’espressione prevalente sarebbe quella di un cefalo bollito in acqua di governo.
Ma il vero dramma estetico risiede nel fatto che questa macchietta inchiattonita crede davvero di essere bella, nell’irresistibilità del suo fascino strizzato in abiti troppo stretti
per contenere la pinguedine. In termini di paragone, per somiglianza, al massimo lo si può accostare al farsesco dittatorello nordcoreano, soprattutto per quel che riguarda la cortigiana piaggeria e la servile devozione nelle quali si profondono gli scialbi figuri di contorno, variamente miracolati dalla vicinanza al reuccio di turno e coagulati attorno ai fasti più che fugaci del “nuovismo realizzato” con la sua esibizione ‘decisionista’.
Nell’illustrare il fenomeno, misura organica dei nostri tempi nei rigagnoli della post-democrazia, Michele Prospero, ne descrive in dettaglio la sostanza, tracciando le linee guida di una “filosofia politica del presente”, tramite una lettura controcorrente dei processi di crisi in atto all’interno della società italiana da quasi tre decadi.
«L’illusoria ebbrezza della politica pop ridotta a pura comunicazione che addolcisce i contenuti reali (precarietà e licenziabilità come valori assoluti) e una continua messa in scena di una trama fantastica ispirata alla “svolta buona”, induce a trascendere i fatti testardi della crisi con un atteggiamento farsesco che, mentre i segnali di sofferenza aumentano, a ogni istante innesca strategie di fuga in mondi paradisiaci senza più frizioni e contrasti.
[…] Con simulazioni di decisionismo uccide la funzionalità del parlamento, riducendolo a stanca macchina di voti di fiducia e di ratifica di decreti, di cui spesso si smarrisce la via della conversione. La prova di forza su elementi inessenziali e l’indecisionismo sui grandi di nodi di breve e lungo periodo è però il risvolto immancabile del governo del leader che non riesce a dotare di efficacia (e implementazione effettiva) le norme varate sovente con la forzatura dei regolamenti. La legge assume un mero ruolo simbolo, è usata cioè come annuncio o come appariscente (ma inefficace) reazione tempestiva all’allarme sociale creato artificialmente dai media (dalla corruzione all’assenteismo dei vigili). Il decisionismo legislativo altera le fonti normative e tramuta il tempo della normale amministrazione degli eventi in un tempo dell’emergenza continua, che il capo gestisce contrapponendo la incolore parvenza del governo del fare alle farraginose liturgie delle procedure formali.
[…] Il repertorio del leaderismo è vasto, la sostanza è la stessa: un capo e poi il deserto e la solitudine del lavoro. Il potere personale non solo non dura, ma non si trasmette; ogni mutamento del detentore del comando conduce nel vuoto, in una paralizzante attesa.»Michele Prospero
“Il nuovismo realizzato.
L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda”
Edizioni Bordeaux
(2015)
Sui risvolti pratici e l’effettiva incidenza di un simile apparato per la promozione illusoria di un “uomo solo al comando” ovvero, in termini di cabaret, del one man show, basta sollevare il capo dai panegirici declamati in lode al sovrano, perché alla fine della parata…
«La realtà invano accantonata nelle sue più ruvide sembianze si ripresenta. E mostra il volto duro delle sofferenze, delle rabbie ben diverse dalla rassicurante narrazione. Lo scenario edificante, venduto al pubblico da un grigio conformismo mediatico, viene respinto da un principio di realtà che proprio la cruda crisi ridesta ogni volta. La testarda forza delle cose trafigge il vano chiacchiericcio renziano sul futuro, la speranza, la bellezza, il merito. Adesso che la sua favola viene rifiutata perché nella disciplina del lavoro ha il volto della semplificazione di classe. È possibile che dal tonfo del profeta della rottamazione si esca da destra. Urgono credibili lavori di ristrutturazione a sinistra, per non finire sepolti tra le braccia di un populismo ancora più forte di quello dello statista immaginario fiorentino, oppure tra le morse di un asettico commissario che colpisce con la sacra bibbia europea del rigore e dell’austerità.
Per quanto i media abbiano da tempo cucito addosso a Renzi l’abito del sicuro vincitore, le sue mosse corsare e il suo indifferentismo ideale ricalcano i passi di altri leader poi condannati alla sconfitta.
[…] Un chiacchiericcio edificante e un grigio conformismo accompagnano Renzi in ogni spazio di comunicazione. Attraverso narrazioni fiabesche, il leader scavalca ogni spartiacque politico-identitario. In nome della rottamazione, ricusa ogni apprendimento del mestiere della leadership entro delle collaudate strutture di partito. Con il rigetto di ogni analisi specialistica, Renzi decide in nome di fughe multimediali non sorrette da ponderata diagnosi…. Il governo della narrazione azzera la complessità della decisione, con l’improvvisazione celebrata come novità rimuove la lettura delle spiacevoli tendenze macroeconomiche (“l’Italia non sa farsi il selfie”) e si trincera in un mondo fantastico, destinato ad essere ridestato solo dalla catastrofe.
Il corpo che avanza in bici e parla con la camicia bianca, rivendicando il pieno recupero del comando è in gran parte una creatura dei media che, nell’agognata crisi dei partiti, coltivano in laboratorio un nuovo “homo novus” e lo sorreggono come la sola alternativa possibile alla catastrofe incombente.
[…] Il leader solitario che sprezzante dei dati reali annuncia: “a settembre [2015!] ci sarà una ripresa col botto!”. L’apparenza di un movimento celere, che marcia con un crono programma dalle cadenze temporali prefissate (la modesta riforma del senato diventa la miscela miracolosa con la quale “l’Italia guiderà la ripresa in Europa”), urta con il principio di realtà (che agita il fantasma di manovre correttive o di drastici tagli ai servizi pubblici). La crescita non si avverte ancora, le industrie continuano a chiudere o ad essere scalate da capitali stranieri, la crisi ha inghiottito oltre un milione di posti di lavoro, i consumi crollano e mostrano il volto della deflazione, i poveri assoluti, in pochi anni, raddoppiano e superano i 6 milioni, mentre i poveri relativi, incapaci di una vita dignitosa, varcano la soglia dei 10 milioni.
Il renzismo è anche una lotta del politico dell’occasione contro il tempo. La durata non è un’opportunità. È piuttosto un’incertezza che potrebbe sconvolgere la magia della narrazione, con il riaffiorare prepotente di una realtà trascesa e pronta a vendicarsi per il maltrattamento subito da un governante che, che suonando il piffero della velocità e dell’annuncio continuo di misure sempre nuove, credeva di aver messo le brache al riottoso mondo reale….. Accantonato il dilettantesco proposito di varare una grande riforma al mese, egli recupera margini di manovra ampliando la dimensione tempo.
[…] I segnali inquietanti della recessione il premier li batte con la liturgia di un tweet…. Il potere innocuo di un tweet che scorre in un clichè privo di nessi logico formali e su cui però ricamano all’infinito i media conformisti, che lo impongono come un solidissimo fatto…. Si tratta però di semplici annunci che il governo pop butta in circolazione giusto per mantenere un clima incantato, nel quale la crisi sociale non esiste e il pericolo sono solo gli spettri, quelli agitati da una certa ideologia di gufi e rosiconi.»Michele Prospero
“Il nuovismo realizzato.
L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda”
Edizioni Bordeaux (2015)
La giostrina del circo è sempre in movimento…
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L’OPINIONE PUBICA
Posted in Kulturkampf with tags Comunicazione, Consenso, Cultura, Democrazia, Edward Bernays, Italia, Liberthalia, Marketing, Mass Media, Mercato, Opinione pubblica, Pensiero, Politica, Potere, Propaganda, Pubblicità, Robert K. Merton, Società, Sociologia, Stereotipi, Storytelling, USA, Walter Lippmann on 13 Maggio 2015 by Sendivogius
La chiamano “storytelling”: l’arte di creare storie, incastonate nella propedeutica pedagogica della finzione narrativa, attraverso la semplificazione del messaggio nella fruizione del medesimo, per presupposizione dialogica su funzione proiettiva. Per essere convincente, lo storytelling deve ‘sembrare’ vero, fornendo un “ritratto realistico” (e quindi convincente) di ciò che si intende illustrare. Tuttavia, la sua plausibilità non risponde necessariamente ad un presupposto oggettivo e confutabile con elementi logici, ma ad una principio di realtà che sposta la realizzazione di effetti e benefici nell’indefinitezza di un tempo presunto.
Quando viene applicato alle tecniche di “management”, lo storytellig si trasforma in format pubblicitario, secondo i meccanismi promozionali che sono propri della comunicazione integrata e che si fondano sulla condivisione di immagini a valenza simbolica, interiorizzate su base emozionale, nella reiterazione del messaggio meglio se strutturato secondo postulati sillogici.
A livello molto più prosaico, in “politica”, e ancor più quando questa si riduce a marketing elettorale per pubblicitari di successo, l’intera faccenda ha un nome ben preciso…
Si chiama ‘propaganda’.
Il concetto era già chiarissimo agli albori del XX° secolo e si sviluppa di pari passo con l’affermazione della società di massa, dove il massiccio ricorso alle tecniche della propaganda è speculare alla costruzione del consenso, per la strutturazione (e mantenimento) del ‘potere’ dipanato nelle sue varie articolazioni sistemiche, che si traduce nella capacità di controllare (ed indirizzare) l’opinione pubblica su larga scala, tramite il filtraggio e la manipolazione delle informazioni con campagne mediatiche mirate.
Lo sapeva benissimo un creativo come Edward Bernays che intuì subito la correlazione esistente tra pubblicità e comunicazione politica: ogni cittadino è un potenziale consumatore che va indirizzato nelle sue scelte, stabilendo una “connettività emozionale” col prodotto che si intende promuovere. E poiché le masse sono sostanzialmente irrazionali, se ne possono manipolare le opinioni e orientarne i gusti, agendo sull’inconscio collettivo, tramite la stimolazione delle paure e dei desideri. Pertanto la contraffazione dei fatti e delle informazioni, attraverso una distorsione cognitiva della realtà è sempre funzionale al raggiungimento del risultato, che poi si traduce nel vantaggio soggettivo di una ristretta oligarchia. Non per niente, Bernays parla senza eufemismi di “manipolazione delle coscienze”, nell’entusiastica conservazione dello statu quo fondato sulla supremazia del Mercato.
Su presupposti simili, ma per considerazioni completamente diverse, Walter Lippmann ebbe a sottolineare come “ciò che l’individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa,
ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date”. E siccome la maggior parte delle persone vivono in uno “pseudoambiente” dove, in assenza di esperienza diretta, i fatti vengono più ‘pensati’ che ‘vissuti’, la conoscenza di ogni individuo si fonda “su immagini che egli si forma o che gli vengono date”. Pertanto, si tratta di “immagini mentali” in grado di suscitare “sentimenti” contrastanti a seconda delle prospettiva con cui queste vengono inquadrate.
Di conseguenza, per Lippmann la ‘propaganda’ è “lo sforzo di modificare le immagini a cui reagiscono gli individui, di sostituire il modello sociale con un altro”.
La scarsità di conoscenze a propria disposizione, unita ai limiti delle proprie esperienze dirette ad alla necessità di semplificazione, conduce alla formazione di “stereotipi” che si configurano come un risparmio di energia mentale e si consolidano nel rassicurante conformismo da cui scaturiscono.
«Nella grande fiorente e ronzante confusione del mondo esterno scegliamo quello che la nostra cultura ha già definito per noi, e tendiamo a percepire quello che abbiamo trascelto nella forma che la nostra cultura ha stereotipato per noi […] Perciò gli stereotipi sono fortemente carichi dei sentimenti che gli sono associati. Costituiscono la forza della nostra tradizione e dietro le loro difese possiamo continuare a sentirci sicuri della posizione che occupiamo»
Walter Lippmann
“L’opinione pubblica”
Donzelli (Roma, 1995)
In pratica, per Lippmann gli stereotipi sono immagini parziali (e spesso distorte) che gli individui desumono dal “cerchio ristretto” delle proprie conoscenze; ovvero: dalla condivisione
collettiva dei frammenti si struttura la collettività, che si conforma alla prospettiva di maggioranza secondo un’ottica comune. I contatti con il mondo esterno, fuori dalla portata di un’esperienza empirica e diretta, vengono mantenuti e filtrati in immagini emozionali da una serie di “autorità cognitive”, dalle quali il ‘cittadino’ riceve gli stimoli cognitivi ed affettivi e su questi costruisce le proprie opinioni. Le “autorità cognitive” (media, personaggi pubblici, organizzazioni) contribuiscono alla “formazione di una volontà comune”, in cui si distinguono “capi e seguaci”.
Va da sé che la cosiddetta “opinione pubblica” non è mai un soggetto con cui relazionarsi, ma un oggetto da manipolare ai propri fini.
«I capi spesso fingono di aver semplicemente scoperto un programma che esisteva già nelle teste del loro pubblico. Quando lo credono, di solito si ingannano. I programmi non nascono contemporaneamente in una moltitudine di cervelli. E questo non perché una moltitudine di cervelli siano necessariamente inferiori a quelli dei capi, ma perché il pensiero è la funzione di un organismo, e una massa non è un organismo.
Questa realtà non appare chiaramente perché la massa è costantemente esposta a suggestioni. Non legge le notizie, bensì le notizie avvolte in un’aurea di suggestione, indicante la linea di azione da prendere. Ascolta resoconti non oggettivi come sono i fatti, ma già stereotipati secondo un certo modello di comportamento. Così il capo apparente scopre che il capo reale è un potente proprietario di giornali.
[…] Nella prima fase, il capo dà voce alle opinioni prevalenti della massa. Si identifica con gli atteggiamenti comuni del suo pubblico, talvolta sbandierando il suo patriottismo, spesso toccando una rivendicazione. Stabilito che ci si può fidare di lui, la moltitudine che stava vagando qua e là può incanalarsi verso di lui. Ci si aspetterà allora che esponga un piano d’azione, ma egli non troverà questo piano negli slogan che esprimono i sentimenti della massa. Questi slogan spesso non lo indicheranno nemmeno. Dove la politica incide molto alla lontana, quello che è essenziale è che il programma all’inizio si riallacci verbalmente ed emotivamente a quello a cui la moltitudine ha già dato voce. Gli uomini che riscuotono fiducia possono, sottoscrivendo simboli accettati, fare molta strada per conto loro senza spiegare la sostanza del loro programma.»Walter Lippmann
“L’opinione pubblica”
Donzelli (Roma, 1995)