L’Italia è da sempre canovaccio ideale per le ambizioni di idioti intraprendenti e di stolidi imbecilli impettiti dietro ad un blasone nobiliare. Entrambi sono in costante concorrenza, e comprensenza in triplice fusione, col vero protagonista del panorama nazionale: il buffone intronizzato.
Tuttavia, l’esuberanza un po’ gaglioffa e plebea del cretino in carriera cozza spesso con la sobrietà ingessata ed il prestigio dell’imbecille dal pedigree certificato: razza ‘barona’ prima ancora che ‘padrona’.
Se i primi abbondano ad ogni livello, nel tripudio dell’incompetenza al potere (e la democrazia in questo è pessimo filtro di selezione), gli imbecilli blasonati sono una specialità in genere circoscritta al rango ed al censo di oligarchie aristocratiche, che si credono ‘migliori’ per vocazione ereditaria. Indistintamente, passano dal boudoir di famiglia al gabinetto di governo, dove (in caso di errori) fanno molti più danni di quanti riescano ad un cretino ordinario di più basso lignaggio. E nella reiterazione del danno raggiungono a volte vette sublimi, inarrivabili per un idiota qualsiasi. Quando questo avviene (e accade di sovente!), Tesi e Antitesi confluiscono verso la Sintesi perfetta dell’imbecillità sovrana, dove il cialtrone incallito sposa il cretino assoluto in una unione di vaporosi sensi. Ma niente è più pernicioso di un imbecille che si crede furbo.
In merito, la Storia italiana abbonda di esempi illustri…
Alla categoria appartiene certamente il conte Urbano Rattazzi (1808-1873), ministro della Real Casa, soprannominato “Suburbano” per i suoi intrallazzi.
Come presidente del consiglio (1862), Rattazzi, che evidentemente si crede emulo di Cavour, in combutta col re, fa intendere a Giuseppe Garibaldi (il quale, da cretino generoso, si butta a capofitto in ogni impresa per ripensarci dopo i fuochi) che se proprio vuole marciare su Roma il governo piemontese non lo ostacolerà e che anzi gli fornirà supporti e vettovaglie, salvo sconfessarlo pubblicamente in caso di insuccesso. Poi, non appena i Garibaldi ed i suoi sbarcano indisturbati in Calabria, dopo aver proceduto ai reclutamenti in Sicilia col beneplacito delle autorità sabaude, il Re si defila e Rattazzi ci ripensa. Il ministro diventerà famoso per la cosiddetta “infamia d’Aspromonte” (29/08/1862), con Garibaldi preso a fucilate dal regio esercito ed i volontari passati per le armi, quale ricompensa per aver regalato un regno ad un monarca fellone: quel Vittorio Emanuele II, suino coronato di rara ottusità e pessime maniere, che con involontaria ironia l’agiografia post-risorgimentale ha rinominato “re galantuomo”.
Altri esempi di successo sono Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) ed il suo degnissimo compare Sidney Sonnino che, dopo aver trascinato gli italiani nell’immane carneficina della prima guerra mondiale, alla successiva conferenza di pace a Versailles pensano di convincere le potenze vincitrici a riconoscere le loro pretese territoriali, ricorrendo a sceneggiate melodrammatiche e lacrime copiose. Ridicolizzati pubblicamente, se ne tornano sdegnati a casa e fanno gli offesi col broncio, aspettandosi scuse ufficiali. Poi, siccome non se li caga nessuno, tornano in fretta e furia alla conferenza con la coda tra le gambe, per beccare le ultime briciole disponibili sul piatto. In tal modo daranno origine alla leggenda della “vittoria mutilata”, spianando le porte all’avvento del fascismo, al quale peraltro Orlando aderirà con entusiasmo, Ci ripenserà qualche anno dopo e, in polemica col nuovo regime, non troverà di meglio che intonare un accorato elogio della mafia quale tratto di sicilianità (mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!).
Come ebbe a dire Eco, per bocca dei personaggi de “Il Pendolo di Foucalt”, l’imbecillità è soprattutto comportamento sociale di una certa complessità (ne avevamo parlato in diverso contesto QUI):
«L’imbecille è quello che parla sempre fuori dal bicchiere (…) Lui vuole parlare di quello che c’è nel bicchiere, ma com’è come non è, parla fuori. È quello che fa le gaffe, che domanda come sta la sua bella signora al tizio che è stato appena abbandonato dalla moglie.
(…) L’imbecille è molto richiesto, specie nelle occasioni mondane. Mette tutti in imbarazzo, ma poi offre occasioni di commento. Nella sua forma positiva diventa diplomatico. Parla fuori del bicchiere quando le gaffe le fanno gli altri, fa deviare i discorsi.
(…) L’imbecille non dice che il gatto abbaia, parla del gatto quando gli altri parlano del cane. Sbaglia le regole di conversazione e quando sbaglia bene è sublime. Credo che sia una razza in via d’estinzione, è un portatore di virtù eminentemente borghesi.»
Di solito, al potere ci arrivano seguendo le imperscrutabili vie della cooptazione per diritto di nascita, pescati a titoli dal villone avito su declamazione clanica; gravati più dal peso delle patacche appuntate sul petto, che dal senso di responsabilità. Il dramma è che una volta insediati si reputano insostituibili e (peggio ancora!) inamovibili.
Mutato nomine, l’eccellente accoppiata ‘tecnica’ tra Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (Affari Esteri) e l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (Difesa) sembrano fare il paio ad altri formidabili didimi della commedia, da Gianni e Pinotto, a Stanlio ed Ollio, fino ai più modesti Boldi e De Sica.
Gli intraprendenti ministri di un governo dimissionario, sulla pessima vicenda dei due marò in Kerala, hanno regalato al Paese intero una formidabile figura di merda dalle proporzioni titaniche. Nell’ordine sono riusciti:
A creare una crisi diplomatica senza precedenti con l’India; non prima di essere ridicolizzati in Europa che, come d’abitudine, ha declinato ogni interessamento comunitario che non riguardi banche e mercati.
A riconsegnare gli sventurati Latorre e Girone, dopo aver indispettito come non mai le autorità indiane, e senza ottenere alcuna garanzia o impegno certo sulla categorica esclusione di un eventuale ricorso alla pena capitale, fino all’istituzione (senza precedenti) di un tribunale speciale.
Qualunque sia l’opinione sui marò, sono riusciti a vanificare ed annullare tutte le attenuanti che potevano essere espletate in sede processuale, in risposta ad una condotta finora ineccepibile e ossequiosa della parola data.
Se ancora ce ne fosse bisogno, è la dimostrazione provata che un imbecille, anche se “austero”, resta pur sempre tale…
«Spiace che Mario Monti, chiamato alla massima responsabilità proprio in virtù del suo prestigio internazionale, concluda la sua vicenda di statista con questo desolante pasticcio di politica estera. In fondo, il caso dei marò è stato l’unico episodio di risonanza mondiale del governo dei tecnici. Ed è stato un episodio in due atti. Primo: darsela a gambe fedifraghe. Secondo: arrendersi senza condizioni al primo “bau”. Il tutto a conferma del pregiudizio che da sempre l’Italia si porta dietro: è la nazione vaso di coccio, è il paese di don Abbondio e del miles “vana-gloriosus”, è lo Stato dello sbruffone che si infila a letto con un occhio rosso per evitare un processo, è l’esercito del capitano vanitoso e fellone che abbandona la Concordia nel momento del naufragio, è la Marina di “navi e poltrone”, è il governo astuto e ganzo che maramaldeggia con l’India…
Fossimo in altri tempi e con altre grammatiche, onore, buon senso e fegato vorrebbero che il nobile Giulio Terzi di Sant’Agata e l’ammiraglio Giampaolo Di Paola si consegnassero agli indiani al posto dei due marò.»Francesco Merlo
“L’onore perduto della diplomazia”