Archivio per Libri
Cronache d’altri tempi
Posted in Kulturkampf with tags Cultura, Liberthalia, Libri on 13 agosto 2020 by SendivogiusIn questi giorni siamo stati, siamo ancora, e saremo molto (piacevolmente) impegnati…
Oriente e Occidente (III)
Posted in Kulturkampf with tags "Fedeli a Oltranza", Cultura, Esteri, Integralismo, Islam, Jama'at-i-Islami, Jihad, Letteratura, Liberthalia, Libri, Maulana Maudoodi, Mondo, Muhammad Zia-ul-Haq, Neo-Convertiti, Pakistan, Politically correct, Religione, Società, Vidiadhar Surajprasad Naipaul on 25 gennaio 2016 by SendivogiusPer cercare di comprendere l’Altro da ‘noi’, insieme alle diversità di una realtà globalizzata con le sue contraddizioni fluidificate nell’effetto farfalla delle stesse, forse non esiste interprete migliore di colui che, estraneo al contesto occidentale per provenienza, ne assorbe nell’intimo la specificità culturale, rielaborandone i concetti in visione critica e per certi versi maggiormente smaliziata rispetto all’originale. Esenti dal fardello dell’uomo bianco, sono osservatori privilegiati e totalmente immuni dai suoi sensi di colpa. E dal momento che l’esotismo costituisce per loro una categoria dello spirito squisitamente europea, per contro applicabile in senso inverso, non risentono dei retaggi del “buon selvaggio” che riconoscono per l’impostura di ciò che è: una mistificazione consumata nell’ipocrisia del suo razzismo mascherato. Ponti viventi tra culture diverse, ne conducono le antitesi verso una propria sintesi, in una prospettiva spesso più lungimirante e lucida perché non si preoccupa di essere pregiudiziale (e a volte lo è). Così come per loro natura sono
refrattari alle dittature dogmatiche del “politicamente corretto”, ovvero: quella castrazione semantica eletta a simbolo dell’impotenza di un certo ambito intellettuale, che rivisita gli stereotipi più odiosi per trarne una lettura altrettanto ottusa nel suo conformismo linguistico, che non risolve ma nega la sussistenza del problema, nell’anteposizione di un formalismo impotente rispetto alla sostanza.
Dello scrittore anglo-indo-trinidadiano V.H.Naipaul avevamo già parlato [QUI] a proposito della nevrosi primaria del “convertito”, nelle forme psicotiche della sua rottura culturale. Ma in tempi che si vorrebbero di “scontro di civiltà”, la lettura di Naipaul merita di essere riproposta, poiché nel delineare le tracce fondamentali dell’oltranzismo religioso, con la predominanza del “sacro” sul profano, come pochi altri riesce a distinguere la differenza che intercorre tra “stato islamico” e “stato musulmano” (con riferimento nello specifico al Pakistan), nel delineare la nascita di quella neoplasia maligna costituita dal diffondersi (organizzato) del cancro integralista:
«Quell’anno [il 1979 n.d.r], il paese aveva avuto il suo primo assaggio di terrore religioso sotto il generale Zia. Questi aveva fatto impiccare Alì Bhutto, l’uomo
del venerdì festivo; poi era andato alla Mecca per fare il pellegrinaggio minore, non quello completo, ma ciò nonostante era tornato con cento milioni di dollari elargitigli dai sauditi. In Pakistan gli uffici statali avevano l’obbligo di fermarsi per tutte le preghiere prescritte; camioncini di fustigatori islamici venivano mandati in giro a occuparsi dei colpevoli. La gente, intimorita, chinava la testa. Alcuni avevano la sensazione di non essere abbastanza pii; sentivano di doversi impegnare di più, sempre di più; e tutt’intorno a Raiwind, anche dopo le estasi nelle tende dei missionari, si potevano vedere sul ciglio della strada fedeli che continuavano a pregare.
[…]
Fra i pakistani che parlano inglese, i fondamentalisti erano soprannominati “fundos” ed erano ormai una presenza che, ancora dietro le quinte, premeva con forza crescente ed esigeva sempre di più. Il subcontinente indiano era stato sanguinosamente diviso per creare lo Stato del Pakistan. Milioni di persone erano morte, e molte altre erano state sradicate, da un lato e dall’altro delle nuove frontiere. Più di cento milioni di musulmani erano rimasti dalla parte indiana, ma praticamente tutti gli indù e i sikh erano stati cacciati dal Pakistan per dare vita all’entità politica interamente musulmana dell’astratto sogno poetico di Iqbal.Ciò avrebbe dovuto essere sufficiente. Ma i fondamentalisti volevano di più. Non bastava che questa grande fetta dell’antica terra avesse cessato, dopo millenni, di essere India e, come l’Iran, come i paesi arabi, fosse stata infine purgata delle religioni preesistenti. Ora gli abitanti stessi dovevano essere purgati del passato, di tutto ciò che negli abiti, negli atteggiamenti, nella cultura generale potesse collegarli alla loro patria ancestrale. I fondamentalisti volevano che tutti fossero puri e trasparenti, semplici recipienti vuoti in cui travasare la fede. Era impossibile: gli esseri umani non possono mai essere una tabula rasa. Ma i vari gruppi fondamentalisti si proponevano a modello di bontà e purezza. Si presentavano come veri credenti. Affermavano di seguire le regole antiche (soprattutto quelle riguardanti le donne); chiedevano agli altri di essere come loro e, dal momento che non c’era una concordanza assoluta sulle regole, di seguire le norme che loro seguivano.
Il più importante dei gruppi fondamentalisti era la Jama’at-i-Islami, l’Assemblea dell’Islam, fondata da un insegnante e propagandista religioso, Maulana Maudoodi. Prima della divisione del paese, questi si era opposto all’idea del Pakistan per strane ragioni. Quando nel 1930 il poeta Iqbal aveva sostenuto la causa di uno Stato musulmano indiano separato, aveva asserito che tale Stato avrebbe sbarazzato l’Islam indiano da quella «impronta che l’imperialismo arabo aveva dovuto conferirgli». Le aspirazioni di Maudoodi erano esattamente l’opposto. Pensava che uno Stato musulmano indiano sarebbe stato troppo limitato e avrebbe fatto ritenere che l’Islam avesse concluso il suo compito in India, mentre auspicava che l’Islam convertisse e abbracciasse l’India intera e conquistasse il mondo. Iqbal aveva affermato che una ragione importante per la creazione del Pakistan era che, come «forza di aggregazione popolare», l’Islam era stato più efficace in India che in altri paesi. Maudoodi non era d’accordo: a suo avviso, i musulmani del subcontinente e i loro esponenti politici non erano all’altezza di conseguire un obiettivo tanto prezioso quanto uno Stato integralmente islamico. La loro fede non era sufficientemente pura, era troppo contaminata dal passato indiano.
Maudoodi morì nel 1979. Ma la Jama’at persisteva nella convinzione che il popolo pakistano e i suoi governanti non fossero all’altezza. Se lo Stato islamico di Iqbal aveva avuto le sue disgrazie, non era colpa dell’Islam, ma di coloro che si definivano musulmani. Secondo il modo di pensare fondamentalista, questo tipo di fallimento si rivelava automaticamente per quello che era: il fallimento di un Islam falso o poco sentito. E la Jama’at poteva sempre sostenere, in un perenne rinnovarsi della causa, che dai tempi antichi l’Islam non era mai stato veramente realizzato e che era giunto il momento di farlo. La Jama’at avrebbe mostrato la via.
[…] Nel 1965 [Guerra indo-pakistana] il mullah che aveva aizzato i membri della sua congregazione mandandoli al fronte armati di bastoni se n’era restato al sicuro nella moschea. Non era compito suo combattere. A lui toccava infiammare gli animi, ricordando ai fedeli con tutta l’eloquenza e la passione di cui era capace il premio che avrebbero ricevuto partecipando alla “jihad” e gli orrori dell’inferno.
Era come il mullah, di cui avevo sentito parlare da qualcuno, che nel 1977 era stato arruolato, insieme ad altri mullah, per la campagna contro Alì Bhutto. Era basso e grasso, di aspetto per niente attraente, e aveva fama di essere infido, ma non aveva importanza: era un eccellente predicatore, dotato di una voce possente. A quel tempo vigeva il coprifuoco, che però veniva allentato (non poteva essere altrimenti) per le preghiere del venerdì. I fedeli che si recavano nella moschea del mullah non ascoltavano soltanto le preghiere, ma anche le storie edificanti di eroi e martiri dell’Islam, che il predicatore declamava con la sua celebre voce e la splendida arte oratoria. Incitava i presenti a dimostrarsi all’altezza del passato, a intraprendere la “jihad”, a non ignorare le forze del male che li circondavano. «Dite al nemico: ‘Prova le tue frecce su di noi, e noi proveremo il nostro petto contro le tue frecce’». Frasi che sembravano prese da un poema e pertanto suonavano autorevoli, anche se nessuno avrebbe saputo dire da dove erano tratte. In concreto non significavano niente, ma eccitavano gli ascoltatori; e alla fine delle preghiere del venerdì, il coprifuoco del povero Bhutto era di fatto inoperante. I fedeli si disperdevano col cuore gonfio di odio religioso, risoluti a guadagnarsi un altro po’ di merito in cielo spedendo Bhutto all’inferno. Poco contava che il mullah fosse infido e di moralità affatto dubbia. In realtà non si proponeva come guida: il suo compito, in quanto mullah, consisteva nel tenere sulla corda i convertiti e, se c’era bisogno di aizzarli, concentrare la loro attenzione sull’inferno e sul paradiso ricordando che, quando fosse giunta l’ora, solo Allah sarebbe stato il loro giudice. Questo era un aspetto dello Stato religioso (lo Stato creato per i soli convertiti, dove la fede non era una questione di coscienza individuale) che il poeta Iqbal non aveva mai preso in considerazione: questo tipo di Stato era sempre suscettibile di manipolazioni, facile da minare, pieno di pura e semplice disonestà.
Ma c’era qualcos’altro di cui Iqbal non aveva tenuto conto: nel nuovo Stato la natura della storia si sarebbe modificata e, indebolendosi il senso storico, la vita intellettuale del paese ne avrebbe inevitabilmente risentito. I mullah avrebbero sempre tenuto banco, limitando il desiderio di conoscenza. Così l’intera storia antica del paese perdeva di importanza. Nei libri scolastici di storia o di «educazione civica», la storia del Pakistan finiva per essere soltanto un capitolo della storia dell’Islam. Gli invasori musulmani, in particolare gli arabi, diventavano gli eroi della storia pakistana, mentre le popolazioni locali figuravano a malapena nel passato della propria terra, o al massimo comparivano come nullità spazzate via dagli agenti della fede. Così si fa scempio della storia. Una simile concezione si spiega solo in quanto rappresenta il punto di vista del convertito. La storia si trasforma in una specie di nevrosi. Troppe cose devono essere ignorate o presentate in maniera tendenziosa e molto è frutto della fantasia. Ma questa fantasia non è presente solo nei libri di scuola: è un fattore che influenza la vita di tutti.
[…] L’invenzione di un’ascendenza araba divenne ben presto generale. Tutte le famiglie l’adottarono. A sentire la gente, si direbbe che, prima, questa terra grande e meravigliosa non fosse altro che giungla selvaggia, dove non vivevano gli uomini. All’epoca della divisione dall’India tutto ciò è stato amplificato, compresa l’idea di non appartenere alla terra, bensì alla religione.»
V.S. Naipaul
“Fedeli ad oltranza.
Un viaggio tra i popoli
convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
“Fedeli a oltranza” è un’opera fondamentale per capire il presente attraverso la conoscenza del passato (recente). Se volessimo ossere ‘retorici’, potremmo consigliarlo come testo scolastico. Più semplicemente ve ne raccomandiamo, se volete, l’acquisto (non potreste spendere meglio il vostro denaro per un costo abbordabilissimo) e ovviamente la lettura resa ancor più piacevole da una pregevolissima traduzione in italiano.
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REALITY
Posted in Kulturkampf, Stupor Mundi with tags Cultura, Democrazia, Donald Trump, Elezioni, Esteri, Furore, John Steinbeck, Letteratura, Liberthalia, Libri, Redneck, Società, USA on 19 gennaio 2016 by Sendivogius
Ogni qualvolta si ha la (s)ventura di assistere distrattamente a quella farsa allargata da esportazione, che va sotto il nome di “primarie” e che di norma precede le elezioni presidenziali in USA, col suo carosello di personaggi plastificati dalle improbabili acconciature cotonate, che si agitano in una pulp fiction per miliardari da reality plebeo, ci si chiede se davvero la democrazia non sia il “governo dei peggiori”, come senza ombra di dubbio amavano sostenere gli ‘antichi’…
Poi ci si rende conto che in realtà ci troviamo dinanzi ad una oligarchia timocratica su base censitaria, dove pochi clan dinastici si disputano all’asta il trono imperiale, messo in vendita al migliore offerente come nelle peggiori cronache da Basso Impero. E allora la prospettiva cambia, nella consapevolezza che si tratta di una costosa buffonata dalle gag imbarazzanti. Ovvero, la classica americanata. Di conseguenza, come in ogni sceneggiata, non possono mancare le macchiette grottesche che traggono compiacimento dall’esibizione della loro volgarità esasperata nei suoi tratti demenziali. Insomma, è l’immancabile villain dai risvolti caricaturali, che sembra uscito da una sceneggiatura atropinica di un Austin Powers riverniciato in bars and stars.
Tuttavia, per quanto abituati al peggio nelle sue esasperazioni più estreme, dovrebbe esserci un limite anche allo squallore, per un trash comunque sostenibile. E invece no! Anche perché sarebbe come tentare di separare un coprofilo dall’oggetto della sua passione. E ciò sarebbe impossibile, per la manifesta collateralità del soggetto interessato con l’elemento primario della sua perversione a rilascio naturale.
Per questo ci tocca bearci delle perfomance di Donald Trump, l’impresentabile Grizzly populista che furoreggia e spopola tra i
redneck: gli zotici villici analfabeti delle contee del Sud, sparpagliati in borghi di campagna dai nomi impronunciabili (Yoknapatawpha!!) e feticisticamente aggrappati come koala ai propri fucili; ovverosia i nostalgici dei fasti trapassati della Confederazione, quelli che
infilano un Lee in ogni nome e si beano delle gesta gloriose del generale Nathan B. Forrest al posto delle favole della buona notte.
Il fatto che questa variante supercafona di Flavio Briatore, con
una donnola morta plasticamente spalmata sul capoccione spellacchiato sia tra i più gettonati papabili alla presidenza degli Stati Uniti d’America, la dice lunga sulla natura democratica della Dreamland (oppure era Zombieland?!?).
Trump il Pupazzo. Può ripetere ben 17 frasi!
Per Aristotele, la demagogia non era altro che un sinonimo per indicare una cattiva democrazia. Tuttavia, sentire concionare questa parodia imbolsita di Biff Tannen a proposito di immigrazione, tradizione, e
valori amerikani, per un distopico ritorno al futuro carpenteriano, fa francamente ridere se non fosse drammatica nella sconcia esibizione di una coglioneria siderale. È chiaro che le letture di Trump non vadano oltre Mickey Mouse ed i fumetti di Superman. Quindi, a proposito di “cultura americana”, è ovvio che non abbia mai letto “Furore” di John Steinbeck; scrittore statunitense (e gigante mondiale della letteratura) del quale è lecito supporre ignori anche l’esistenza.
Praticamente, “Furore” è la storia di bifolchi arricchiti che a loro volta disprezzano altri bifolchi poveri, in una terra dove tutti (indistintamente) sono emigrati da qualche altro posto,
costruendo un sistema fondato sulla discriminazione (razziale, sociale, economica, politica) e sullo sfruttamento selvaggio. Peccato, perché un cafone abbrutito dal soldo facile come Trump avrebbe potuto trarre spunti interessanti per la sua campagna elettorale, insieme agli altri temi di punta che segnano il livello rasoterra dell’energumeno ripulito, tutti incentrati contro i chicanos. Manco fosse il senatore McLaughlin in “Machete”!
In fondo, il nostro Donaldo dai capelli belli rappresenta solo
l’intermezzo comico, ovvero (se preferite) lo squallido interludio, prima della tempesta che sta per arrivare…
«Una volta la California apparteneva al Messico, e le terre ai Messicani; ma orde di straccioni americani irruppero nel paese. E così imperiosa era la loro fame di terra, che si impossessarono della terra di Sutter, della terra di Guerrero, la spezzettarono, si azzuffarono a vicenda per disputarsene le briciole, e munirono di cannoni i poderi così conquistati. Fabbricarono stalle e casolari, ararono i campi e procedettero alle semine. Così, stalle e casolari, campi e raccolti, costituirono titolo di possesso; e il possesso diventò proprietà. I Messicani, deboli e sazi, non avevano potuto opporsi all’invasione perché non v’era nulla al mondo che essi desiderassero con quella frenesia con cui gli invasori americani desideravano la terra. Poi, col tempo, i predoni non più considerati tali si dichiararono padroni, e i loro figlioli crebbero nel paese e procrearono altri figlioli. E non sentirono più la fame selvaggia, la fame mordente e lacerante della terra, dell’acqua e del buon cielo sovrastante, dell’erba che sboccia, delle radici che si gonfiano. Possedevano tutte queste cose così completamente, che non le desideravano più.
[…] Queste cose andarono perdute, e i raccolti cominciarono a venire valutati in termini di dollari, e la terra in termini di capitale più interessi. E i prodotti cominciarono a venir comprati e venduti prima delle semine. E allora le annate cattive, la siccità, l’inondazione, non furono più considerate come catastrofi, ma semplicemente come diminuzioni di profitto. E l’amore di quegli esseri umani risultò come intisichito dalla febbre del denaro, e la fierezza della stirpe si sgretolò in interessi; così che tutta quella popolazione risultò di individui che non erano più coloni, ma piccoli commercianti, o piccoli industriali, obbligati a vendere prima di produrre. E quelli fra essi che non si rivelarono bravi commercianti perdettero i loro poderi, che vennero assorbiti da chi invece si rivelò bravo commerciante. Per quanto bravo coltivatore, per quanto affezionato al suo campo, chi non era bravo commerciante non poteva mantenere le proprie posizioni. Così, con l’andar del tempo, i poderi passarono tutti in mano a uomini d’affari e andarono sempre aumentando di proporzioni, ma diminuendo di numero. Allora l’agricoltura stessa si trasformò in industria. E i proprietari imitarono, senza volerlo, Roma antica: importarono schiavi, pur senza chiamarli così: cinesi, giapponesi, messicani, filippini. Vivono di riso e fagioli, dicevano; hanno pochi bisogni. Di paghe alte, non saprebbero che farsene. Vedi come vivono, vedi cosa mangiano. E se si agitano, si fa presto a deportarli. E incessantemente i poderi aumentavano di proporzioni e diminuivano di numero; e per conseguenza diminuivano di numero anche i padroni. E i padroni picchiavano, terrorizzavano, affamavano i servi importati; sicché molti di questi tornarono donde erano venuti, e altri si ribellarono e furono uccisi o scacciati. I raccolti stessi subirono una metamorfosi. Il grano si vide soppiantare dagli alberi da frutta, le biade da ortaggi destinati ad alimentare l’universo intero: lattuga, cavolfiore, carciofo, patata; tutti prodotti che costringono l’essere umano a curvare la schiena. Per maneggiare la falce, l’aratro, il forcone, l’uomo sta in piedi; ma tra i filari dell’insalata o del cotone deve prostrarsi, o strisciare come un insetto, o camminare sui ginocchi come un penitente. E accadde che i proprietari non lavorarono più le loro terre. Coltivavano sulla carta; e dimenticarono l’odore della terra, il gusto tattile della zolla sbriciolata tra le mani; ricordarono solo che la possedevano, tennero presente solo la cifra dei guadagni che ne traevano o delle perdite che a causa di essa dovevano subire. E i latifondi presero proporzioni tali che il padrone non poteva nemmeno concepirne le dimensioni; erano così vasti che occorrevano battaglioni di contabili per rintracciare perdite e profitti, reggimenti di chimici per fecondare il terreno, brigate di intendenti per sorvegliare i servi proni tra i filari. E allora davvero l’agricoltore si mutò in bottegaio, fino al punto da tenere effettivamente bottega: pagava i suoi servi, e per rimborsarsi vendeva loro il cibo. E di lì a poco smise persino di pagarli, per risparmiare la spesa della contabilità. Il podere dava, a chi lo lavorava, il vitto a credito; e poteva accadere che un servo, il quale lavorava solo per sostentarsi, alla fine del lavoro scoprisse di essere in debito verso chi gli dava lavoro. E il padrone non solo non lavorava più la sua terra, ma molti di essi non avevano mai nemmeno vista la terra che possedevano. Ed ecco che, d’un tratto, nel Kansas e nell’Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico, nel Nevada e nell’Arkansas, le trattrici e la polvere si alleano per spodestare i coloni e cacciarli nel West. Ed ecco formarsi a apparire le carovane dei nomadi:ventimila, centomila, duecentomila. Varcando le montagne si riversano nelle ricche vallate: tutti affamati, inquieti come formiche in cerca di cibo, avidi di lavoro, di qualunque lavoro: sollevar pesi, spingere o tirare carichi, raccogliere, tagliare; qualunque cosa, per sostentarsi. I bambini hanno fame. Non abbiamo
dove vivere. No, non siamo forestieri, no! Da sette generazioni siamo americani; e prima si era irlandesi, scozzesi, inglesi, tedeschi, italiani. Uno dei nostri antenati ha combattuto nella rivoluzione, e tanti nella guerra civile. Americani, siamo, americani al cento per cento! Affamati; e risoluti. Avevano carezzato la speranza di trovare una casa, in California, ed ecco che trovano, dappertutto, solo odio. Okies: i padroni li odiano perché sanno di essere deboli al confronto degli Okies, d’essere ben nutriti al confronto degli Okies; e han tutti sentito dire dal nonno quanto sia facile, a chi è affamato e risoluto e armato, sottrarre la terra a chi è debole e sazio. E nelle città i negozianti odiano gli Okies perché gli Okies non hanno denaro da spendere; i banchieri odiano gli Okies perché sanno che non possono estorcerne nulla; e gli operai odiano gli Okies perché, affamati come sono, offrono i loro servizi per niente, e automaticamente il salario scende per tutti. E gli spodestati, nomadi, confluiscono e continuano a confluire in California: duecentocinquantamila, trecentomila. Dietro alle prime ondate, altre si formano e si accavallano, perché le trattrici non cessano di dilagare nei campi. Altre ondate di spodestati senza tetto: gente indurita, accanita, pericolosa. E se da una parte i Californiani ambiscono molte cose, come accumular sostanze, ascendere la scala sociale, concedersi svaghi e oggetti di lusso, dall’altra i nuovi barbari chiedono due cose sole: terra e nutrimento, che per loro sono una cosa sola.
[…] Se non li teniamo a bada, questi straccioni, s’impadroniscono di tutto il paese. Tutto il paese. Porci di forestieri. Va bene, parlano la nostra lingua, ma non sono come noi. Basta vedere come vivono, chi di noi si adatterebbe a vivere così? E a Hooverville, la sera, gli straccioni accoccolati.
[…] Trattarli senza pietà, dico io; o Dio sa cosa ci combinano. Gente più pericolosa dei negri del Sud. Se si metton d’accordo, nessuno li tiene più. Hai ben sentito quel ch’è successo a Lawrenceville. A Lawrenceville un poliziotto è dovuto ricorrere alla forza per scacciare un abusivo, e il ragazzo undicenne di questo straccione ha sparato, col fucile del babbo, e ha ucciso il poliziotto. Peggio dei serpenti, ti dico. Non bisogna lasciarli parlare, e se insistono, sparare senz’altro, sparare noi per primi. Se un marmocchio è capace di uccidere, cosa faranno gli adulti? L’unica è di mostrarsi più forti di loro. Trattarli da cani. Spaventarli. E se non si lasciano impressionare? Se si ribellano in tanti, e si mettono a sparare anche loro? Son tutti avvezzi a usare il fucile fin da bambini. Se non si lasciano impressionare? Se si organizzano in bande, chi li ferma più? Son tutti disperati, capisci; disperati che hanno provato la paura della fame, che è superiore a ogni altra. E di quando in quando, qua e là in tutta la California, le razzie: le irruzioni di agenti armati negli attendamenti degli abusivi. Via di qui! Ordine del Dipartimento dell’Igiene. Questo accampamento rappresenta un pericolo per la sanità pubblica.
[…] E i latifondisti, che si sanno destinati a perdere la terra in caso di rivolta organizzata, i grossi latifondisti che conoscono la storia, che hanno occhi per leggere la storia e intelligenza per capirla, sanno, conoscono benissimo il fatto fondamentale che quando la proprietà terriera si accumula nelle mani di pochi, va inesorabilmente perduta. E sanno anche quest’altro fatto, concomitante, che quando una maggioranza ha fame e freddo, essa finisce sempre col prendersi con la violenza ciò che le occorre. E sanno infine questo terzo fatto, meno evidente forse, ma sempre presente nel corso della storia: che cioè le repressioni servono solo a rinvigorire e a riunire tra loro i perseguitati. Ma i latifondisti preferiscono ignorare questi tre ammaestramenti della storia. La terra s’accumula sempre più nelle mani di pochi, il numero degli sfrattati continua ad aumentare, e tutti gli sforzi dei latifondisti continuano a orientarsi verso la repressione. Il denaro pubblico va speso in armamenti e in gas lacrimogeni per salvare la pelle dei latifondisti, e in spie, spie che hanno l’incarico di captare ogni minimo rumore di rivolta per poterla soffocare in tempo. I latifondisti preferiscono ignorare l’evoluzione dell’economia, e le premesse di tale evoluzione; considerano solo i mezzi atti a reprimere le rivolte, senza curarsi di sopprimere le cause determinanti. Le trattrici che gettano i coloni sul lastrico, le mastodontiche imprese di trasporto, le macchine che producono, tutto questo merita l’incondizionato appoggio dei latifondisti; e non importa se aumenta in modo spaventoso il numero delle famiglie sul lastrico, avide di qualche briciola degli sconfinati latifondi. I latifondisti formano associazioni per proteggersi, si riuniscono a discutere sui mezzi più efficaci per intimidire, soffocare,
uccidere. E si persuadono di non dover temere il pericolo principale, costituito dall’eventualità che i trecentomila trovino, fra di essi, un capo che sappia guidarli. Se ai trecentomila miserabili consentite la possibilità di contarsi, è inevitabile che essi conquisteranno la terra; e non v’è gas o mitragliatrice che possa fermarli. Così i latifondisti, che a causa del possesso dei latifondi divengono sempre più superuomini e al contempo sempre più disumani, corrono verso la propria distruzione, e senza avvedersene usano di ogni mezzo che a lungo andare finirà inesorabilmente col sopprimerli. Ogni espediente, ogni atto di violenza, ogni scorribanda in una Hooverville qualsiasi, ogni singolo sceriffo spaccone in un accampamento di straccioni, non fanno che procrastinare di qualche giorno l’alba fatale, rendendola inevitabile.»
John Steinbeck
“Furore”
Bompiani, 2013
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Oriente e Occidente (II)
Posted in Kulturkampf with tags Ateismo, Averroè, Corano, Cultura, Filosofia, Gabriele (Arcangelo), Ibn Rushd, Islam, Letteratura, Liberthalia, Libri, Maometto, Mondo, Occidente, Oriente, Pensiero, Religione, Salman Rushdie, Storia on 25 agosto 2015 by Sendivogius«Anis si era dunque ribattezzato “Rushdie” in onore di Ibn
Rushd, colui che in Occidente è noto come Averroè, il filosofo arabo-spagnolo di Cordoba del XII secolo che era diventato il “qadi”, o giudice, di Siviglia, traduttore e commentatore celebrato delle opere di Aristotele. Suo figlio portò quel nome per due decenni prima di rendersi conto che il padre, un vero studioso dell’islam a cui però mancava completamente la fede religiosa, lo aveva scelto perché di Ibn Rushd ammirava le argomentazioni razionalistiche all’avanguardia nei confronti degli islamici che, ai suoi tempi, tendevano a interpretare le scritture in modo strettamente letterale.
[…] Dalla tomba, suo padre gli aveva consegnato un vessillo sotto il quale era pronto a lottare, il vessillo di Ibn Rushd, ossia dell’intelletto, dell’argomentazione, dell’analisi e del progresso, per la libertà della filosofia e dell’insegnamento dai ceppi della teologia, per la ragione umana contro la cieca fede, la sottomissione, l’accettazione prona e l’immobilismo. Nessuno vuole andare in guerra, ma se ti ci trovi in mezzo, che almeno sia una guerra giusta, per le cose più importanti che ci sono al mondo, e allora potresti anche chiamarti “Rushdie”, se dovessi andare a combatterla, e collocarti laddove ti ha messo tuo padre, nel solco della tradizione del grande aristotelico, Averroè, Abuˉ ’l-Walˉıd Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd.
[…] Anis era un senza Dio, il che è ancora considerato una condizione scioccante negli Stati Uniti, sebbene sia tutt’altro che eccezionale in Europa, e completamente incomprensibile nella maggior parte del resto del mondo, dove la sola idea di “non credere” è difficile persino da formulare. Ma era esattamente ciò che era: un ateo che però sapeva molto di Dio e ci pensava spesso. Le origini dell’islam lo affascinavano poiché erano le uniche a essere storicamente documentate tra le grandi religioni del mondo, e perché il Profeta non era una leggenda glorificata da “evangelisti” che avevano scritto cento o più anni dopo la vita e la morte dell’uomo reale, né un piatto riscaldato da quell’eccezionale proselitista che era stato san Paolo per un facile consumo globale, ma piuttosto un uomo dalla vita ampiamente certificata, di cui si conoscevano bene le condizioni economiche e di censo, vissuto in un’epoca di profondi cambiamenti sociali, un orfano diventato mercante
di successo dalle tendenze mistiche, che un giorno, sul monte Hira vicino alla Mecca, aveva visto l’arcangelo Gabriele stagliarsi all’orizzonte riempiendo la volta celeste e istruendolo su come “recitare” e pertanto creare a poco a poco il testo della “Recitazione salmodiata”, al-Qur’an, il Corano.
Anis aveva tramandato al figlio la convinzione che la nascita dell’islam fosse affascinante proprio perché si era verificata “dentro la storia”, e che, in quanto tale, non poteva che essere stata influenzata dagli eventi, dalle pressioni e dalle idee circolanti al tempo della sua creazione; e che storicizzare l’accaduto, cercare di capire come una grande idea potesse essere modellata da quelle diverse forze, era di fatto l’unico approccio possibile all’argomento; e che si poteva considerare Maometto un autentico mistico – così come si può accettare che Giovanna
d’Arco abbia realmente sentito delle voci o che la Rivelazione di san Giovanni riporti effettivamente l’esperienza “reale” di un’anima tormentata – senza necessariamente stimare come vero che, se qualcuno fosse stato accanto a lui quel giorno sul monte Hira, avrebbe assistito a sua volta all’apparizione dell’arcangelo.
La rivelazione doveva essere intesa come un evento interiore, individuale, non come una realtà oggettiva, e la parola rivelata andava indagata come ogni altro testo, usando tutti gli strumenti critici a disposizione, letterari, storici, psicologici, linguistici e sociologici. In breve, il testo doveva essere considerato come un artefatto umano e, in quanto tale, preda della fallibilità e dell’imperfezione degli uomini.
Il critico americano Randall Jarrell, con una frase diventata famosa, ha definito il romanzo come “un lungo scritto con qualcosa di sbagliato dentro”. Ecco, Anis Rushdie pensava di sapere cosa ci fosse di sbagliato nel Corano: alcuni passaggi sembravano sconnessi.
Secondo la tradizione, Maometto, che era forse analfabeta, quando scese dalla montagna cominciò a recitare e chiunque appartenesse alla sua più stretta cerchia e gli fosse vicino in quel momento trascrisse le sue parole su quanto aveva sottomano: pergamena, pietra, pelle, foglie, e talvolta, si dice, persino ossa. Questi brani furono conservati in un forziere custodito nella sua abitazione fino alla sua morte, quando i compagni si riunirono per stabilire la corretta sequenza della rivelazione, ed è alla loro risolutezza che dobbiamo il testo del Corano diventato canonico. Per poterlo considerare “perfetto”, il lettore è chiamato a credere che: a) l’arcangelo abbia riferito la Parola di Dio senza alcuna imprecisione, il che è del tutto ammissibile dal momento che si presume che gli arcangeli siano immuni da refusi; b) il Profeta, o, come preferiva chiamarsi, il Messaggero, si sia ricordato le parole dell’arcangelo con assoluta precisione; c) le frettolose trascrizioni dei compagni, buttate giù nel corso di una rivelazione durata ventitré anni, siano parimenti esenti da errori; d) quando essi si riunirono per disporre il testo nella sua forma definitiva, la loro memoria collettiva della corretta sequenza fosse a sua volta perfetta.
Anis Rushdie era riluttante a contestare le proposizioni a), b) e c). La d), invece, gli risultava più difficile da digerire, perché, come facilmente si accorge chiunque legga il Corano, parecchie sure, o capitoli, contengono profonde discontinuità, cosicché un argomento è lasciato cadere d’un tratto, senza preavviso apparente, per poi magari essere ripreso inaspettatamente più avanti, all’interno di una sura che fino a quel momento riguardava tutt’altro. Anis coltivò a lungo il desiderio di ricomporre quelle discontinuità per poter così giungere a un testo che fosse più chiaro e più facile da leggere. Non si trattava di un piano segreto o nascosto, tutt’altro, ne discuteva apertamente con gli amici anche a cena. Non c’era nessun brivido in quell’impresa, nessuna sensazione che essa potesse costituire un pericolo. Forse i tempi erano diversi, e un’idea del genere poteva essere sostenuta senza temere ritorsioni; o forse le persone al corrente erano davvero meritevoli di fiducia; o semplicemente Anis era soltanto un eccentrico inoffensivo. Fatto sta che quello studioso revisionista crebbe i suoi figli in un’atmosfera di indagine libera e aperta, senza divieti, senza tabù. Tutto, persino le sacre scritture, poteva essere vagliato e, almeno potenzialmente, migliorato.»
Salman Rushdie
“Joseph Anton”
Mondadori, 2012
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La regola del silenzio
Posted in Muro del Pianto with tags Cialtroni, Costume, Cultura, Italia, Liberthalia, Libri, Politica, William S. Burroughs on 16 agosto 2015 by Sendivogius
A quanto pare, nemmeno la straordinaria canicola estiva è riuscita a prosciugare la favella dei panciuti gigioni in sovrappeso che si passano la staffetta, nell’ansia di condividere col resto di Borgo Citrullo la propria eccedenza di effluvi intestinali su concentrazione gassosa, pur di continuare a calcare ad oltranza le scene dei teatrini della politica peggiore. Si inseguono, si stuzzicano e si provocano a vicenda, senza soluzione di continuità, con un crescendo cacofonico di idiozie centrifugate al massimo ribasso, nella litigiosa alternanza dei caratteristi che si contendono il palcoscenico.
Si passa così dal Falstaff di Pontassieve, al Teddy Ruxpin della Val Brembana; entrambi tallonati a
stretto giro di post dalla chioma cespugliosa del canuto Besugo di Bibbona (sia mai che resti addietro!). E tutti convenuti a raccattare qualche voto in più, su quella questione immigratoria al peggio della sua non-gestione.
Il papi oramai è fuori gioco per raggiunti limiti di età e in assenza di pezzi di ricambio non passa la revisione.
Nella singolar tenzone, tra i troppi specialisti del cialtronismo istituzionalizzato in circolazione, ci mancava solo l’entrata ad effetto di qualche vescovo-conte della carità prezzolata in subappalto, da contabilizzare su rimborso quote, alla fiera ipocrita dei buoni sentimenti d’asporto con saldo corrente in conto capitale. O gli ancor meno desiderabili consiglieri Čičikov per la raccolta del testatico sulle anime morte che alimentano l’industria della “accoglienza” la quale, stando agli ‘esperti’ del settore, sembrerebbe rendere assai meglio del traffico di stupefacenti.
A-tipico esempio dell’Italia che (non) lavora, sono gli instancabili freaks farlocchi di un luna park mediatico che non chiude mai ed è aperto anche a ferragosto per il pubblico più affezionato.
Nella loro squallida desolazione, ricordano i personaggi grotteschi e osceni di ben altre narrazioni…
«Ti ho mai raccontato dell’uomo che aveva insegnato a parlare al suo buco del culo? L’addome gli si muoveva su e giù e lui scoreggiava parole, capisci? Mai sentito niente del genere.
Tutto ‘sto parlare col culo aveva una specie di frequenza intestinale. Ti colpiva laggiù come se dovessi farla. Hai presente quando il buon vecchio colon ti dà di gomito, e senti quella specie di freddo dentro, e sai che tutto quello che puoi fare è correre a liberarti? Be’ questa voce ti beccava proprio laggiù, un rumore come di bollicine, denso e stagnante, un rumore del quale sentivi “l’odore”.
Quell’uomo lavorava in un luna park, capisci, e a prima vista sembrava il nuovo numero di un ventriloquo. Divertentissimo, tra l’altro, all’inizio. Il suo numero si chiamava “Il buco migliore”, roba da urlo, giuro.
[…] Dopo un po’ il culo s’è messo a parlare da solo. Lui cominciava senza essersi preparato niente e il suo culo improvvisava e ogni volta gli rilancia le battute. Poi gli sono spuntati dei gancini curvi che raspavano come denti e ha cominciato a mangiare. Lui all’inizio pensava che fosse una figata e ci ha costruito intorno il suo numero, ma il buco del culo si è mangiato i calzoni e ha cominciato a parlare per la strada, gridava che voleva la parità dei diritti. Si sbronzava pure e si prendeva certe sbornie tristi della madonna, frignando che nessuno gli voleva bene e poi voleva essere baciato come qualsiasi altra bocca. Alla fine parlava sempre, giorno e notte, lo si sentiva a isolati di distanza, lui gli gridava di chiudere il becco, lo prendeva a pugni, ci ficcava dentro le candele, ma non serviva a un tubo e il buco del culo gli diceva: “Alla fine sarai tu a chiudere il becco, non io. Perché non c’è più bisogno di te. Adesso posso parlare, mangiare e cagare.”»William S. Burroughs
“Pasto nudo”
Adelphi, 2001
Ora, immaginare un deretano mutante che si eleva a vita propria è francamente eccessivo, ma la loquacità logorroica di certi orifizi assurti a protagonisti primari rischia di rasentare la stessa natura.
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GHOST WRITER
Posted in Kulturkampf with tags Adam Lang, Andrea Marcolongo, Costume, Cultura, Ghost-writer, Gore Vidal, Liberthalia, Libri, Matteo Renzi, Robert Harris, Tony Blair on 16 gennaio 2015 by SendivogiusTra le notizie immancabili in una settimana di avvenimenti convulsi, rischiavamo di perderci le fondamentali dimissioni di
Andrea Marcolongo: la giovane story-teller livornese, ingaggiata per revisionare e caricare il nastro coi discorsi del Bambino Matteo. Se il valore di uno statista si misura in base al registro dei suoi interventi, certamente il Telemaco fiorentino non passerà alla storia.
Possiamo solo immaginare gli sforzi della povera Marcolongo, classicista con una solida formazione umanistica, per rendere più presentabili i tentativi di accreditamento internazionale del
presidente del consiglio per caso. E quanto abbia cercato invano di elevare il livello culturale di questo porcinesco provincialotto: rasoterra, come un missile GGM sparato a tutta velocità e caricato a mortaretti. Salvo vedersi stravolgere sistematicamente le citazioni colte e le metafore ardite, da questa ennesima caricatura di premier che riesce a rendersi ridicolo in ogni passaggio della sua narrazione preconfezionata, reinterpretando in farsa il copione e improvvisando a soggetto, con risultati non sempre felicissimi…
Perché la Marcolongo è donna troppo colta e professionale, per aver davvero dato corpo alla forma ultima ed esibita delle incredibili corbellerie che il tronfio Signor Cretinetti va sbrodolando in giro, tra un selfie ed un tweet.
Quello del ghost-writer è un lavoro ingrato ed anonimo, che spesso e volentieri mette la categoria in contatto con personaggi orripilanti, o quanto meno imbarazzanti nell’abissale ignoranza da correggere in fretta, con limature e pillole di cultura condensata in formato Bignami.
Se poi non si viene nemmeno retribuiti per il disturbo, la dipartita è inevitabile giacché la frequentazione di certe compagnie è tollerabile soltanto ad un prezzo congruo.
Bisogna superare l’orrore, e camuffare l’ilarità, dinanzi alla copiosa produzione ‘letteraria’ dell’ambizioso analfabeta posto sotto tutela intellettuale, che come tutti gli ignoranti nutre uno smisurato senso del sé, aggravato da velleità editoriali dai risvolti tragicomici…
È una realtà che i ghost-writers dovrebbero conoscere bene, non foss’altro perché la sperimentano sulla propria persona:
«Tutti i bei libri sono diversi tra loro, quelli brutti sono tutti uguali. Lo so per certo perché con il lavoro che faccio, leggo un sacco di libracci così brutti da non essere nemmeno pubblicati. Che non è cosa da poco, considerando ciò che comunque viene pubblicato.
Siano romanzi o opere di memorialistica, questi libri bruttissimi hanno una cosa in comune: suonano falsi. Con questo non voglio dire che un buon libro debba avere necessariamente il crisma della veridicità, ma mentre viene letto deve dare questa impressione. Un mio amico che lavora nell’editoria ha coniato a questo proposito l’espressione “Prova dell’idrovolante”, dopo aver visto un film sulla gente della City londinese che si apriva con la scena del protagonista che va al lavoro a bordo di un idrovolante che si posa sul Tamigi. Da quel punto in poi, mi disse non era più il caso di guardare il film.
Le memorie di Adam Lang* non superavano la prova dell’idrovolante. Non perché i fatti riportati fossero necessariamente inesatti – allora non ero ancora in grado di valutarlo – ma era il lavoro nel suo insieme che dava una certa impressione di falso, come se al suo centro vi fosse un vuoto.
Consisteva di sedici capitoli in ordine cronologico: “I primi anni”, “In politica”, “Sfida per la leadership”, “Cambiare il partito”, “Vittoria alle urne”, “Riforma del governo”, “Europa”…. “La sfida al terrorismo”, “la guerra al terrorismo”, “Mantenere la rotta”, “Mai arrendersi”, “L’ora di andarsene”, “Un futuro di speranza”.
Ogni capitolo era lungo tra le dieci e le ventimila parole e, più che un lavoro di scrittura vera e propria, era il frutto di una specie di copia e incolla di discorsi, protocolli ufficiali, comunicati, promemoria, trascrizioni di colloqui, diari d’ufficio, documenti di partito e articoli giornalistici. Di tanto in tanto, Lang si permetteva qualche emozione privata (“non vi dico la felicità che ho provato per la nascita del mio terzo figlio”), o qualche osservazione personale (“il presidente americano era molto più alto di quanto pensassi”).
[…] Una “pallosissima stronzata” l’aveva chiamata Rick. Ma era una definizione riduttiva, perché la merda almeno ha una sua integrità, per citare Gore Vidal. Quello invece era un pallosissimo nulla.»Robert Harris
“Il Ghostwriter”
Mondadori, 2007