«Mi auguro solo che gli attuali problemi di John gli siano di monito per i tempi a venire, che la smetta di preoccuparsi tanto per le questioni degli altri, che desista dallo sterile tentativo di sostenere il bene del vicinato, oltre alla pace ed alla felicità del mondo intero, ricorrendo al bastone. Che se ne resti tranquillamente a casa, dedicandosi alla ristrutturazione della propria dimora; che coltivi la sua ricca tenuta come più gli aggrada; che amministri con parsimonia le entrate, se lo ritiene opportuno, e riconduca all’ordine i propri figli se ci riesce. Che riporti l’antica prosperità a nuovo splendore ed infine si goda a lungo, sulle terre di famiglia, un’onorevole e spensierata vecchiaia.»
Washington Irving
“John Bull” – The Sketch Book (1819)
Archivio per Letteratura
Letture del tempo presente (XII)
Posted in Kulturkampf with tags Cultura, Imperialismo, Ingerenza americana, Inghilterra, Joe Biden, John Bull, Letteratura, Liberthalia, USA, Washington Irving on 12 giugno 2022 by SendivogiusL’allusione è all’Inghilterra, personificata dal vecchio John Bull, ma la metafora potrebbe valere benissimo per l’oggi, applicata per nemesi al suo
RISENTIMENTO
Posted in Kulturkampf with tags Cultura, Elvira Seminaro, Italia, Letteratura, Liberthalia, Rancore, Risentimento on 17 aprile 2019 by Sendivogius«Tranquilli. Non siamo soli, e nemmeno i peggiori. Il Primo Risentito è Dio, secondo Cioran, che ha creato il mondo per sfuggire alla solitudine e ci ha messo dentro “il suo brio e le sue angherie”; il mitico Giobbe era risentito (giustamente) con Dio che lo aveva subissato di prove, e l’intero Vecchio Testamento è un covo funesto di rancorosi e vendicatori.
Siamo tutti risentiti, e a volte pure con ragione. Il risentimento è un sentimento strano, non a caso ha quel ri- che sa di rinnovo ossessivo, di coazione, e si accompagna ad aggettivi dell’inazione: è sordo, cieco, muto. E a verbi tortuosi del sottosuolo, dove si alligna e cova, si acquatta, rintana e striscia, s’insinua e soffia, serpeggia.
È un risentimento gambero. Va avanti e indietro, si infratta e si ingrotta. Diversamente dall’indignazione che almeno si impenna (e nei casi migliori lo segue), può farsi mania contro il principio di realtà. Perché ottende e instupidisce a volte, come il vinile rigato quando si blocca e riproduce il verso allo stremo, con certa penosa complicità.
Nietzsche lo predisse 100 anni fa: “La nostra è l’età del risentimento, il rancore è il motore della società, il suo demone prigioniero”. Non poteva immaginarlo quanto si sarebbe liberato questo demone coi social. Cosa potesse diventare col web, officina planetaria dell’astio. Altro che morale degli schiavi. Non siamo mai stati risentiti come oggi, livorosi, invidiosi, gelosi, acrimoniosi, rissosi, maldicenti, persecutori. The Underground Man, il dostoevskijano esemplare delle Memorie del sottostuolo, è solo un rozzo progenitore sociopatico rispetto a noi, social-risentiti dell’aere.
Cuoricini, like, faccine ridenti? Tutto falso, la fortuna dell’altro ci fa male, diceva S.Tommaso, già per il fatto che egli ne goda.
Il ri-sentimento ri-stagna, ri-mastica, ri-bolle, e più che esprimere la protesta civile, diventa ruminìo e colite, ri-generando depressi o soggetti pronti da illudere e manovrare.
La cartografia del rancore è ricca ed inesauribile. Siamo risentiti perché ci sentiamo svalorizzati, truffati, disillusi, incompresi, titolari di doti misconosciute o fuori mercato, ostaggio di situazioni familiari e pubbliche avverse, vittime del governo, escluse dai Talent dove saremmo stati i primi, dal successo che meritavamo solo che avesse trionfato il merito.
Il risentimento fa male a chi lo prova, soprattutto. È come prendere il veleno, ha detto qualcuno, aspettando che l’altro muoia.
Tanto vale vivere. E in prima persona, col gesto di rottura più forte: la riparazione. Del torto, del danno, della ferita, della stupidità. Lucidamente, ma con gentilezza: anch’essa un atto sovversivo.»
Elvira Seminaro
(14/04/2019)
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Oriente e Occidente (III)
Posted in Kulturkampf with tags "Fedeli a Oltranza", Cultura, Esteri, Integralismo, Islam, Jama'at-i-Islami, Jihad, Letteratura, Liberthalia, Libri, Maulana Maudoodi, Mondo, Muhammad Zia-ul-Haq, Neo-Convertiti, Pakistan, Politically correct, Religione, Società, Vidiadhar Surajprasad Naipaul on 25 gennaio 2016 by SendivogiusPer cercare di comprendere l’Altro da ‘noi’, insieme alle diversità di una realtà globalizzata con le sue contraddizioni fluidificate nell’effetto farfalla delle stesse, forse non esiste interprete migliore di colui che, estraneo al contesto occidentale per provenienza, ne assorbe nell’intimo la specificità culturale, rielaborandone i concetti in visione critica e per certi versi maggiormente smaliziata rispetto all’originale. Esenti dal fardello dell’uomo bianco, sono osservatori privilegiati e totalmente immuni dai suoi sensi di colpa. E dal momento che l’esotismo costituisce per loro una categoria dello spirito squisitamente europea, per contro applicabile in senso inverso, non risentono dei retaggi del “buon selvaggio” che riconoscono per l’impostura di ciò che è: una mistificazione consumata nell’ipocrisia del suo razzismo mascherato. Ponti viventi tra culture diverse, ne conducono le antitesi verso una propria sintesi, in una prospettiva spesso più lungimirante e lucida perché non si preoccupa di essere pregiudiziale (e a volte lo è). Così come per loro natura sono
refrattari alle dittature dogmatiche del “politicamente corretto”, ovvero: quella castrazione semantica eletta a simbolo dell’impotenza di un certo ambito intellettuale, che rivisita gli stereotipi più odiosi per trarne una lettura altrettanto ottusa nel suo conformismo linguistico, che non risolve ma nega la sussistenza del problema, nell’anteposizione di un formalismo impotente rispetto alla sostanza.
Dello scrittore anglo-indo-trinidadiano V.H.Naipaul avevamo già parlato [QUI] a proposito della nevrosi primaria del “convertito”, nelle forme psicotiche della sua rottura culturale. Ma in tempi che si vorrebbero di “scontro di civiltà”, la lettura di Naipaul merita di essere riproposta, poiché nel delineare le tracce fondamentali dell’oltranzismo religioso, con la predominanza del “sacro” sul profano, come pochi altri riesce a distinguere la differenza che intercorre tra “stato islamico” e “stato musulmano” (con riferimento nello specifico al Pakistan), nel delineare la nascita di quella neoplasia maligna costituita dal diffondersi (organizzato) del cancro integralista:
«Quell’anno [il 1979 n.d.r], il paese aveva avuto il suo primo assaggio di terrore religioso sotto il generale Zia. Questi aveva fatto impiccare Alì Bhutto, l’uomo
del venerdì festivo; poi era andato alla Mecca per fare il pellegrinaggio minore, non quello completo, ma ciò nonostante era tornato con cento milioni di dollari elargitigli dai sauditi. In Pakistan gli uffici statali avevano l’obbligo di fermarsi per tutte le preghiere prescritte; camioncini di fustigatori islamici venivano mandati in giro a occuparsi dei colpevoli. La gente, intimorita, chinava la testa. Alcuni avevano la sensazione di non essere abbastanza pii; sentivano di doversi impegnare di più, sempre di più; e tutt’intorno a Raiwind, anche dopo le estasi nelle tende dei missionari, si potevano vedere sul ciglio della strada fedeli che continuavano a pregare.
[…]
Fra i pakistani che parlano inglese, i fondamentalisti erano soprannominati “fundos” ed erano ormai una presenza che, ancora dietro le quinte, premeva con forza crescente ed esigeva sempre di più. Il subcontinente indiano era stato sanguinosamente diviso per creare lo Stato del Pakistan. Milioni di persone erano morte, e molte altre erano state sradicate, da un lato e dall’altro delle nuove frontiere. Più di cento milioni di musulmani erano rimasti dalla parte indiana, ma praticamente tutti gli indù e i sikh erano stati cacciati dal Pakistan per dare vita all’entità politica interamente musulmana dell’astratto sogno poetico di Iqbal.Ciò avrebbe dovuto essere sufficiente. Ma i fondamentalisti volevano di più. Non bastava che questa grande fetta dell’antica terra avesse cessato, dopo millenni, di essere India e, come l’Iran, come i paesi arabi, fosse stata infine purgata delle religioni preesistenti. Ora gli abitanti stessi dovevano essere purgati del passato, di tutto ciò che negli abiti, negli atteggiamenti, nella cultura generale potesse collegarli alla loro patria ancestrale. I fondamentalisti volevano che tutti fossero puri e trasparenti, semplici recipienti vuoti in cui travasare la fede. Era impossibile: gli esseri umani non possono mai essere una tabula rasa. Ma i vari gruppi fondamentalisti si proponevano a modello di bontà e purezza. Si presentavano come veri credenti. Affermavano di seguire le regole antiche (soprattutto quelle riguardanti le donne); chiedevano agli altri di essere come loro e, dal momento che non c’era una concordanza assoluta sulle regole, di seguire le norme che loro seguivano.
Il più importante dei gruppi fondamentalisti era la Jama’at-i-Islami, l’Assemblea dell’Islam, fondata da un insegnante e propagandista religioso, Maulana Maudoodi. Prima della divisione del paese, questi si era opposto all’idea del Pakistan per strane ragioni. Quando nel 1930 il poeta Iqbal aveva sostenuto la causa di uno Stato musulmano indiano separato, aveva asserito che tale Stato avrebbe sbarazzato l’Islam indiano da quella «impronta che l’imperialismo arabo aveva dovuto conferirgli». Le aspirazioni di Maudoodi erano esattamente l’opposto. Pensava che uno Stato musulmano indiano sarebbe stato troppo limitato e avrebbe fatto ritenere che l’Islam avesse concluso il suo compito in India, mentre auspicava che l’Islam convertisse e abbracciasse l’India intera e conquistasse il mondo. Iqbal aveva affermato che una ragione importante per la creazione del Pakistan era che, come «forza di aggregazione popolare», l’Islam era stato più efficace in India che in altri paesi. Maudoodi non era d’accordo: a suo avviso, i musulmani del subcontinente e i loro esponenti politici non erano all’altezza di conseguire un obiettivo tanto prezioso quanto uno Stato integralmente islamico. La loro fede non era sufficientemente pura, era troppo contaminata dal passato indiano.
Maudoodi morì nel 1979. Ma la Jama’at persisteva nella convinzione che il popolo pakistano e i suoi governanti non fossero all’altezza. Se lo Stato islamico di Iqbal aveva avuto le sue disgrazie, non era colpa dell’Islam, ma di coloro che si definivano musulmani. Secondo il modo di pensare fondamentalista, questo tipo di fallimento si rivelava automaticamente per quello che era: il fallimento di un Islam falso o poco sentito. E la Jama’at poteva sempre sostenere, in un perenne rinnovarsi della causa, che dai tempi antichi l’Islam non era mai stato veramente realizzato e che era giunto il momento di farlo. La Jama’at avrebbe mostrato la via.
[…] Nel 1965 [Guerra indo-pakistana] il mullah che aveva aizzato i membri della sua congregazione mandandoli al fronte armati di bastoni se n’era restato al sicuro nella moschea. Non era compito suo combattere. A lui toccava infiammare gli animi, ricordando ai fedeli con tutta l’eloquenza e la passione di cui era capace il premio che avrebbero ricevuto partecipando alla “jihad” e gli orrori dell’inferno.
Era come il mullah, di cui avevo sentito parlare da qualcuno, che nel 1977 era stato arruolato, insieme ad altri mullah, per la campagna contro Alì Bhutto. Era basso e grasso, di aspetto per niente attraente, e aveva fama di essere infido, ma non aveva importanza: era un eccellente predicatore, dotato di una voce possente. A quel tempo vigeva il coprifuoco, che però veniva allentato (non poteva essere altrimenti) per le preghiere del venerdì. I fedeli che si recavano nella moschea del mullah non ascoltavano soltanto le preghiere, ma anche le storie edificanti di eroi e martiri dell’Islam, che il predicatore declamava con la sua celebre voce e la splendida arte oratoria. Incitava i presenti a dimostrarsi all’altezza del passato, a intraprendere la “jihad”, a non ignorare le forze del male che li circondavano. «Dite al nemico: ‘Prova le tue frecce su di noi, e noi proveremo il nostro petto contro le tue frecce’». Frasi che sembravano prese da un poema e pertanto suonavano autorevoli, anche se nessuno avrebbe saputo dire da dove erano tratte. In concreto non significavano niente, ma eccitavano gli ascoltatori; e alla fine delle preghiere del venerdì, il coprifuoco del povero Bhutto era di fatto inoperante. I fedeli si disperdevano col cuore gonfio di odio religioso, risoluti a guadagnarsi un altro po’ di merito in cielo spedendo Bhutto all’inferno. Poco contava che il mullah fosse infido e di moralità affatto dubbia. In realtà non si proponeva come guida: il suo compito, in quanto mullah, consisteva nel tenere sulla corda i convertiti e, se c’era bisogno di aizzarli, concentrare la loro attenzione sull’inferno e sul paradiso ricordando che, quando fosse giunta l’ora, solo Allah sarebbe stato il loro giudice. Questo era un aspetto dello Stato religioso (lo Stato creato per i soli convertiti, dove la fede non era una questione di coscienza individuale) che il poeta Iqbal non aveva mai preso in considerazione: questo tipo di Stato era sempre suscettibile di manipolazioni, facile da minare, pieno di pura e semplice disonestà.
Ma c’era qualcos’altro di cui Iqbal non aveva tenuto conto: nel nuovo Stato la natura della storia si sarebbe modificata e, indebolendosi il senso storico, la vita intellettuale del paese ne avrebbe inevitabilmente risentito. I mullah avrebbero sempre tenuto banco, limitando il desiderio di conoscenza. Così l’intera storia antica del paese perdeva di importanza. Nei libri scolastici di storia o di «educazione civica», la storia del Pakistan finiva per essere soltanto un capitolo della storia dell’Islam. Gli invasori musulmani, in particolare gli arabi, diventavano gli eroi della storia pakistana, mentre le popolazioni locali figuravano a malapena nel passato della propria terra, o al massimo comparivano come nullità spazzate via dagli agenti della fede. Così si fa scempio della storia. Una simile concezione si spiega solo in quanto rappresenta il punto di vista del convertito. La storia si trasforma in una specie di nevrosi. Troppe cose devono essere ignorate o presentate in maniera tendenziosa e molto è frutto della fantasia. Ma questa fantasia non è presente solo nei libri di scuola: è un fattore che influenza la vita di tutti.
[…] L’invenzione di un’ascendenza araba divenne ben presto generale. Tutte le famiglie l’adottarono. A sentire la gente, si direbbe che, prima, questa terra grande e meravigliosa non fosse altro che giungla selvaggia, dove non vivevano gli uomini. All’epoca della divisione dall’India tutto ciò è stato amplificato, compresa l’idea di non appartenere alla terra, bensì alla religione.»
V.S. Naipaul
“Fedeli ad oltranza.
Un viaggio tra i popoli
convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
“Fedeli a oltranza” è un’opera fondamentale per capire il presente attraverso la conoscenza del passato (recente). Se volessimo ossere ‘retorici’, potremmo consigliarlo come testo scolastico. Più semplicemente ve ne raccomandiamo, se volete, l’acquisto (non potreste spendere meglio il vostro denaro per un costo abbordabilissimo) e ovviamente la lettura resa ancor più piacevole da una pregevolissima traduzione in italiano.
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REALITY
Posted in Kulturkampf, Stupor Mundi with tags Cultura, Democrazia, Donald Trump, Elezioni, Esteri, Furore, John Steinbeck, Letteratura, Liberthalia, Libri, Redneck, Società, USA on 19 gennaio 2016 by Sendivogius
Ogni qualvolta si ha la (s)ventura di assistere distrattamente a quella farsa allargata da esportazione, che va sotto il nome di “primarie” e che di norma precede le elezioni presidenziali in USA, col suo carosello di personaggi plastificati dalle improbabili acconciature cotonate, che si agitano in una pulp fiction per miliardari da reality plebeo, ci si chiede se davvero la democrazia non sia il “governo dei peggiori”, come senza ombra di dubbio amavano sostenere gli ‘antichi’…
Poi ci si rende conto che in realtà ci troviamo dinanzi ad una oligarchia timocratica su base censitaria, dove pochi clan dinastici si disputano all’asta il trono imperiale, messo in vendita al migliore offerente come nelle peggiori cronache da Basso Impero. E allora la prospettiva cambia, nella consapevolezza che si tratta di una costosa buffonata dalle gag imbarazzanti. Ovvero, la classica americanata. Di conseguenza, come in ogni sceneggiata, non possono mancare le macchiette grottesche che traggono compiacimento dall’esibizione della loro volgarità esasperata nei suoi tratti demenziali. Insomma, è l’immancabile villain dai risvolti caricaturali, che sembra uscito da una sceneggiatura atropinica di un Austin Powers riverniciato in bars and stars.
Tuttavia, per quanto abituati al peggio nelle sue esasperazioni più estreme, dovrebbe esserci un limite anche allo squallore, per un trash comunque sostenibile. E invece no! Anche perché sarebbe come tentare di separare un coprofilo dall’oggetto della sua passione. E ciò sarebbe impossibile, per la manifesta collateralità del soggetto interessato con l’elemento primario della sua perversione a rilascio naturale.
Per questo ci tocca bearci delle perfomance di Donald Trump, l’impresentabile Grizzly populista che furoreggia e spopola tra i
redneck: gli zotici villici analfabeti delle contee del Sud, sparpagliati in borghi di campagna dai nomi impronunciabili (Yoknapatawpha!!) e feticisticamente aggrappati come koala ai propri fucili; ovverosia i nostalgici dei fasti trapassati della Confederazione, quelli che
infilano un Lee in ogni nome e si beano delle gesta gloriose del generale Nathan B. Forrest al posto delle favole della buona notte.
Il fatto che questa variante supercafona di Flavio Briatore, con
una donnola morta plasticamente spalmata sul capoccione spellacchiato sia tra i più gettonati papabili alla presidenza degli Stati Uniti d’America, la dice lunga sulla natura democratica della Dreamland (oppure era Zombieland?!?).
Trump il Pupazzo. Può ripetere ben 17 frasi!
Per Aristotele, la demagogia non era altro che un sinonimo per indicare una cattiva democrazia. Tuttavia, sentire concionare questa parodia imbolsita di Biff Tannen a proposito di immigrazione, tradizione, e
valori amerikani, per un distopico ritorno al futuro carpenteriano, fa francamente ridere se non fosse drammatica nella sconcia esibizione di una coglioneria siderale. È chiaro che le letture di Trump non vadano oltre Mickey Mouse ed i fumetti di Superman. Quindi, a proposito di “cultura americana”, è ovvio che non abbia mai letto “Furore” di John Steinbeck; scrittore statunitense (e gigante mondiale della letteratura) del quale è lecito supporre ignori anche l’esistenza.
Praticamente, “Furore” è la storia di bifolchi arricchiti che a loro volta disprezzano altri bifolchi poveri, in una terra dove tutti (indistintamente) sono emigrati da qualche altro posto,
costruendo un sistema fondato sulla discriminazione (razziale, sociale, economica, politica) e sullo sfruttamento selvaggio. Peccato, perché un cafone abbrutito dal soldo facile come Trump avrebbe potuto trarre spunti interessanti per la sua campagna elettorale, insieme agli altri temi di punta che segnano il livello rasoterra dell’energumeno ripulito, tutti incentrati contro i chicanos. Manco fosse il senatore McLaughlin in “Machete”!
In fondo, il nostro Donaldo dai capelli belli rappresenta solo
l’intermezzo comico, ovvero (se preferite) lo squallido interludio, prima della tempesta che sta per arrivare…
«Una volta la California apparteneva al Messico, e le terre ai Messicani; ma orde di straccioni americani irruppero nel paese. E così imperiosa era la loro fame di terra, che si impossessarono della terra di Sutter, della terra di Guerrero, la spezzettarono, si azzuffarono a vicenda per disputarsene le briciole, e munirono di cannoni i poderi così conquistati. Fabbricarono stalle e casolari, ararono i campi e procedettero alle semine. Così, stalle e casolari, campi e raccolti, costituirono titolo di possesso; e il possesso diventò proprietà. I Messicani, deboli e sazi, non avevano potuto opporsi all’invasione perché non v’era nulla al mondo che essi desiderassero con quella frenesia con cui gli invasori americani desideravano la terra. Poi, col tempo, i predoni non più considerati tali si dichiararono padroni, e i loro figlioli crebbero nel paese e procrearono altri figlioli. E non sentirono più la fame selvaggia, la fame mordente e lacerante della terra, dell’acqua e del buon cielo sovrastante, dell’erba che sboccia, delle radici che si gonfiano. Possedevano tutte queste cose così completamente, che non le desideravano più.
[…] Queste cose andarono perdute, e i raccolti cominciarono a venire valutati in termini di dollari, e la terra in termini di capitale più interessi. E i prodotti cominciarono a venir comprati e venduti prima delle semine. E allora le annate cattive, la siccità, l’inondazione, non furono più considerate come catastrofi, ma semplicemente come diminuzioni di profitto. E l’amore di quegli esseri umani risultò come intisichito dalla febbre del denaro, e la fierezza della stirpe si sgretolò in interessi; così che tutta quella popolazione risultò di individui che non erano più coloni, ma piccoli commercianti, o piccoli industriali, obbligati a vendere prima di produrre. E quelli fra essi che non si rivelarono bravi commercianti perdettero i loro poderi, che vennero assorbiti da chi invece si rivelò bravo commerciante. Per quanto bravo coltivatore, per quanto affezionato al suo campo, chi non era bravo commerciante non poteva mantenere le proprie posizioni. Così, con l’andar del tempo, i poderi passarono tutti in mano a uomini d’affari e andarono sempre aumentando di proporzioni, ma diminuendo di numero. Allora l’agricoltura stessa si trasformò in industria. E i proprietari imitarono, senza volerlo, Roma antica: importarono schiavi, pur senza chiamarli così: cinesi, giapponesi, messicani, filippini. Vivono di riso e fagioli, dicevano; hanno pochi bisogni. Di paghe alte, non saprebbero che farsene. Vedi come vivono, vedi cosa mangiano. E se si agitano, si fa presto a deportarli. E incessantemente i poderi aumentavano di proporzioni e diminuivano di numero; e per conseguenza diminuivano di numero anche i padroni. E i padroni picchiavano, terrorizzavano, affamavano i servi importati; sicché molti di questi tornarono donde erano venuti, e altri si ribellarono e furono uccisi o scacciati. I raccolti stessi subirono una metamorfosi. Il grano si vide soppiantare dagli alberi da frutta, le biade da ortaggi destinati ad alimentare l’universo intero: lattuga, cavolfiore, carciofo, patata; tutti prodotti che costringono l’essere umano a curvare la schiena. Per maneggiare la falce, l’aratro, il forcone, l’uomo sta in piedi; ma tra i filari dell’insalata o del cotone deve prostrarsi, o strisciare come un insetto, o camminare sui ginocchi come un penitente. E accadde che i proprietari non lavorarono più le loro terre. Coltivavano sulla carta; e dimenticarono l’odore della terra, il gusto tattile della zolla sbriciolata tra le mani; ricordarono solo che la possedevano, tennero presente solo la cifra dei guadagni che ne traevano o delle perdite che a causa di essa dovevano subire. E i latifondi presero proporzioni tali che il padrone non poteva nemmeno concepirne le dimensioni; erano così vasti che occorrevano battaglioni di contabili per rintracciare perdite e profitti, reggimenti di chimici per fecondare il terreno, brigate di intendenti per sorvegliare i servi proni tra i filari. E allora davvero l’agricoltore si mutò in bottegaio, fino al punto da tenere effettivamente bottega: pagava i suoi servi, e per rimborsarsi vendeva loro il cibo. E di lì a poco smise persino di pagarli, per risparmiare la spesa della contabilità. Il podere dava, a chi lo lavorava, il vitto a credito; e poteva accadere che un servo, il quale lavorava solo per sostentarsi, alla fine del lavoro scoprisse di essere in debito verso chi gli dava lavoro. E il padrone non solo non lavorava più la sua terra, ma molti di essi non avevano mai nemmeno vista la terra che possedevano. Ed ecco che, d’un tratto, nel Kansas e nell’Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico, nel Nevada e nell’Arkansas, le trattrici e la polvere si alleano per spodestare i coloni e cacciarli nel West. Ed ecco formarsi a apparire le carovane dei nomadi:ventimila, centomila, duecentomila. Varcando le montagne si riversano nelle ricche vallate: tutti affamati, inquieti come formiche in cerca di cibo, avidi di lavoro, di qualunque lavoro: sollevar pesi, spingere o tirare carichi, raccogliere, tagliare; qualunque cosa, per sostentarsi. I bambini hanno fame. Non abbiamo
dove vivere. No, non siamo forestieri, no! Da sette generazioni siamo americani; e prima si era irlandesi, scozzesi, inglesi, tedeschi, italiani. Uno dei nostri antenati ha combattuto nella rivoluzione, e tanti nella guerra civile. Americani, siamo, americani al cento per cento! Affamati; e risoluti. Avevano carezzato la speranza di trovare una casa, in California, ed ecco che trovano, dappertutto, solo odio. Okies: i padroni li odiano perché sanno di essere deboli al confronto degli Okies, d’essere ben nutriti al confronto degli Okies; e han tutti sentito dire dal nonno quanto sia facile, a chi è affamato e risoluto e armato, sottrarre la terra a chi è debole e sazio. E nelle città i negozianti odiano gli Okies perché gli Okies non hanno denaro da spendere; i banchieri odiano gli Okies perché sanno che non possono estorcerne nulla; e gli operai odiano gli Okies perché, affamati come sono, offrono i loro servizi per niente, e automaticamente il salario scende per tutti. E gli spodestati, nomadi, confluiscono e continuano a confluire in California: duecentocinquantamila, trecentomila. Dietro alle prime ondate, altre si formano e si accavallano, perché le trattrici non cessano di dilagare nei campi. Altre ondate di spodestati senza tetto: gente indurita, accanita, pericolosa. E se da una parte i Californiani ambiscono molte cose, come accumular sostanze, ascendere la scala sociale, concedersi svaghi e oggetti di lusso, dall’altra i nuovi barbari chiedono due cose sole: terra e nutrimento, che per loro sono una cosa sola.
[…] Se non li teniamo a bada, questi straccioni, s’impadroniscono di tutto il paese. Tutto il paese. Porci di forestieri. Va bene, parlano la nostra lingua, ma non sono come noi. Basta vedere come vivono, chi di noi si adatterebbe a vivere così? E a Hooverville, la sera, gli straccioni accoccolati.
[…] Trattarli senza pietà, dico io; o Dio sa cosa ci combinano. Gente più pericolosa dei negri del Sud. Se si metton d’accordo, nessuno li tiene più. Hai ben sentito quel ch’è successo a Lawrenceville. A Lawrenceville un poliziotto è dovuto ricorrere alla forza per scacciare un abusivo, e il ragazzo undicenne di questo straccione ha sparato, col fucile del babbo, e ha ucciso il poliziotto. Peggio dei serpenti, ti dico. Non bisogna lasciarli parlare, e se insistono, sparare senz’altro, sparare noi per primi. Se un marmocchio è capace di uccidere, cosa faranno gli adulti? L’unica è di mostrarsi più forti di loro. Trattarli da cani. Spaventarli. E se non si lasciano impressionare? Se si ribellano in tanti, e si mettono a sparare anche loro? Son tutti avvezzi a usare il fucile fin da bambini. Se non si lasciano impressionare? Se si organizzano in bande, chi li ferma più? Son tutti disperati, capisci; disperati che hanno provato la paura della fame, che è superiore a ogni altra. E di quando in quando, qua e là in tutta la California, le razzie: le irruzioni di agenti armati negli attendamenti degli abusivi. Via di qui! Ordine del Dipartimento dell’Igiene. Questo accampamento rappresenta un pericolo per la sanità pubblica.
[…] E i latifondisti, che si sanno destinati a perdere la terra in caso di rivolta organizzata, i grossi latifondisti che conoscono la storia, che hanno occhi per leggere la storia e intelligenza per capirla, sanno, conoscono benissimo il fatto fondamentale che quando la proprietà terriera si accumula nelle mani di pochi, va inesorabilmente perduta. E sanno anche quest’altro fatto, concomitante, che quando una maggioranza ha fame e freddo, essa finisce sempre col prendersi con la violenza ciò che le occorre. E sanno infine questo terzo fatto, meno evidente forse, ma sempre presente nel corso della storia: che cioè le repressioni servono solo a rinvigorire e a riunire tra loro i perseguitati. Ma i latifondisti preferiscono ignorare questi tre ammaestramenti della storia. La terra s’accumula sempre più nelle mani di pochi, il numero degli sfrattati continua ad aumentare, e tutti gli sforzi dei latifondisti continuano a orientarsi verso la repressione. Il denaro pubblico va speso in armamenti e in gas lacrimogeni per salvare la pelle dei latifondisti, e in spie, spie che hanno l’incarico di captare ogni minimo rumore di rivolta per poterla soffocare in tempo. I latifondisti preferiscono ignorare l’evoluzione dell’economia, e le premesse di tale evoluzione; considerano solo i mezzi atti a reprimere le rivolte, senza curarsi di sopprimere le cause determinanti. Le trattrici che gettano i coloni sul lastrico, le mastodontiche imprese di trasporto, le macchine che producono, tutto questo merita l’incondizionato appoggio dei latifondisti; e non importa se aumenta in modo spaventoso il numero delle famiglie sul lastrico, avide di qualche briciola degli sconfinati latifondi. I latifondisti formano associazioni per proteggersi, si riuniscono a discutere sui mezzi più efficaci per intimidire, soffocare,
uccidere. E si persuadono di non dover temere il pericolo principale, costituito dall’eventualità che i trecentomila trovino, fra di essi, un capo che sappia guidarli. Se ai trecentomila miserabili consentite la possibilità di contarsi, è inevitabile che essi conquisteranno la terra; e non v’è gas o mitragliatrice che possa fermarli. Così i latifondisti, che a causa del possesso dei latifondi divengono sempre più superuomini e al contempo sempre più disumani, corrono verso la propria distruzione, e senza avvedersene usano di ogni mezzo che a lungo andare finirà inesorabilmente col sopprimerli. Ogni espediente, ogni atto di violenza, ogni scorribanda in una Hooverville qualsiasi, ogni singolo sceriffo spaccone in un accampamento di straccioni, non fanno che procrastinare di qualche giorno l’alba fatale, rendendola inevitabile.»
John Steinbeck
“Furore”
Bompiani, 2013
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Oriente e Occidente (II)
Posted in Kulturkampf with tags Ateismo, Averroè, Corano, Cultura, Filosofia, Gabriele (Arcangelo), Ibn Rushd, Islam, Letteratura, Liberthalia, Libri, Maometto, Mondo, Occidente, Oriente, Pensiero, Religione, Salman Rushdie, Storia on 25 agosto 2015 by Sendivogius«Anis si era dunque ribattezzato “Rushdie” in onore di Ibn
Rushd, colui che in Occidente è noto come Averroè, il filosofo arabo-spagnolo di Cordoba del XII secolo che era diventato il “qadi”, o giudice, di Siviglia, traduttore e commentatore celebrato delle opere di Aristotele. Suo figlio portò quel nome per due decenni prima di rendersi conto che il padre, un vero studioso dell’islam a cui però mancava completamente la fede religiosa, lo aveva scelto perché di Ibn Rushd ammirava le argomentazioni razionalistiche all’avanguardia nei confronti degli islamici che, ai suoi tempi, tendevano a interpretare le scritture in modo strettamente letterale.
[…] Dalla tomba, suo padre gli aveva consegnato un vessillo sotto il quale era pronto a lottare, il vessillo di Ibn Rushd, ossia dell’intelletto, dell’argomentazione, dell’analisi e del progresso, per la libertà della filosofia e dell’insegnamento dai ceppi della teologia, per la ragione umana contro la cieca fede, la sottomissione, l’accettazione prona e l’immobilismo. Nessuno vuole andare in guerra, ma se ti ci trovi in mezzo, che almeno sia una guerra giusta, per le cose più importanti che ci sono al mondo, e allora potresti anche chiamarti “Rushdie”, se dovessi andare a combatterla, e collocarti laddove ti ha messo tuo padre, nel solco della tradizione del grande aristotelico, Averroè, Abuˉ ’l-Walˉıd Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd.
[…] Anis era un senza Dio, il che è ancora considerato una condizione scioccante negli Stati Uniti, sebbene sia tutt’altro che eccezionale in Europa, e completamente incomprensibile nella maggior parte del resto del mondo, dove la sola idea di “non credere” è difficile persino da formulare. Ma era esattamente ciò che era: un ateo che però sapeva molto di Dio e ci pensava spesso. Le origini dell’islam lo affascinavano poiché erano le uniche a essere storicamente documentate tra le grandi religioni del mondo, e perché il Profeta non era una leggenda glorificata da “evangelisti” che avevano scritto cento o più anni dopo la vita e la morte dell’uomo reale, né un piatto riscaldato da quell’eccezionale proselitista che era stato san Paolo per un facile consumo globale, ma piuttosto un uomo dalla vita ampiamente certificata, di cui si conoscevano bene le condizioni economiche e di censo, vissuto in un’epoca di profondi cambiamenti sociali, un orfano diventato mercante
di successo dalle tendenze mistiche, che un giorno, sul monte Hira vicino alla Mecca, aveva visto l’arcangelo Gabriele stagliarsi all’orizzonte riempiendo la volta celeste e istruendolo su come “recitare” e pertanto creare a poco a poco il testo della “Recitazione salmodiata”, al-Qur’an, il Corano.
Anis aveva tramandato al figlio la convinzione che la nascita dell’islam fosse affascinante proprio perché si era verificata “dentro la storia”, e che, in quanto tale, non poteva che essere stata influenzata dagli eventi, dalle pressioni e dalle idee circolanti al tempo della sua creazione; e che storicizzare l’accaduto, cercare di capire come una grande idea potesse essere modellata da quelle diverse forze, era di fatto l’unico approccio possibile all’argomento; e che si poteva considerare Maometto un autentico mistico – così come si può accettare che Giovanna
d’Arco abbia realmente sentito delle voci o che la Rivelazione di san Giovanni riporti effettivamente l’esperienza “reale” di un’anima tormentata – senza necessariamente stimare come vero che, se qualcuno fosse stato accanto a lui quel giorno sul monte Hira, avrebbe assistito a sua volta all’apparizione dell’arcangelo.
La rivelazione doveva essere intesa come un evento interiore, individuale, non come una realtà oggettiva, e la parola rivelata andava indagata come ogni altro testo, usando tutti gli strumenti critici a disposizione, letterari, storici, psicologici, linguistici e sociologici. In breve, il testo doveva essere considerato come un artefatto umano e, in quanto tale, preda della fallibilità e dell’imperfezione degli uomini.
Il critico americano Randall Jarrell, con una frase diventata famosa, ha definito il romanzo come “un lungo scritto con qualcosa di sbagliato dentro”. Ecco, Anis Rushdie pensava di sapere cosa ci fosse di sbagliato nel Corano: alcuni passaggi sembravano sconnessi.
Secondo la tradizione, Maometto, che era forse analfabeta, quando scese dalla montagna cominciò a recitare e chiunque appartenesse alla sua più stretta cerchia e gli fosse vicino in quel momento trascrisse le sue parole su quanto aveva sottomano: pergamena, pietra, pelle, foglie, e talvolta, si dice, persino ossa. Questi brani furono conservati in un forziere custodito nella sua abitazione fino alla sua morte, quando i compagni si riunirono per stabilire la corretta sequenza della rivelazione, ed è alla loro risolutezza che dobbiamo il testo del Corano diventato canonico. Per poterlo considerare “perfetto”, il lettore è chiamato a credere che: a) l’arcangelo abbia riferito la Parola di Dio senza alcuna imprecisione, il che è del tutto ammissibile dal momento che si presume che gli arcangeli siano immuni da refusi; b) il Profeta, o, come preferiva chiamarsi, il Messaggero, si sia ricordato le parole dell’arcangelo con assoluta precisione; c) le frettolose trascrizioni dei compagni, buttate giù nel corso di una rivelazione durata ventitré anni, siano parimenti esenti da errori; d) quando essi si riunirono per disporre il testo nella sua forma definitiva, la loro memoria collettiva della corretta sequenza fosse a sua volta perfetta.
Anis Rushdie era riluttante a contestare le proposizioni a), b) e c). La d), invece, gli risultava più difficile da digerire, perché, come facilmente si accorge chiunque legga il Corano, parecchie sure, o capitoli, contengono profonde discontinuità, cosicché un argomento è lasciato cadere d’un tratto, senza preavviso apparente, per poi magari essere ripreso inaspettatamente più avanti, all’interno di una sura che fino a quel momento riguardava tutt’altro. Anis coltivò a lungo il desiderio di ricomporre quelle discontinuità per poter così giungere a un testo che fosse più chiaro e più facile da leggere. Non si trattava di un piano segreto o nascosto, tutt’altro, ne discuteva apertamente con gli amici anche a cena. Non c’era nessun brivido in quell’impresa, nessuna sensazione che essa potesse costituire un pericolo. Forse i tempi erano diversi, e un’idea del genere poteva essere sostenuta senza temere ritorsioni; o forse le persone al corrente erano davvero meritevoli di fiducia; o semplicemente Anis era soltanto un eccentrico inoffensivo. Fatto sta che quello studioso revisionista crebbe i suoi figli in un’atmosfera di indagine libera e aperta, senza divieti, senza tabù. Tutto, persino le sacre scritture, poteva essere vagliato e, almeno potenzialmente, migliorato.»
Salman Rushdie
“Joseph Anton”
Mondadori, 2012
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Il Piano B
Posted in Kulturkampf with tags Cultura, Europa, Fedor Dostoevskij, Frontiere, Germania, Governo, Immigrati, Immigrazione, Impero Romano, Italia, Letteratura, Liberthalia, Matteo Renzi, Peter Heather, Politica, Profughi, Receptio, Società, Spirito tedesco, Storia, Thomas Mann, UE on 14 giugno 2015 by SendivogiusNel delineare una “nuova storia” sulle cause che condussero alla caduta dell’Impero romano (d’Occidente), lo storico britannico Peter Heather liquida la questione dei profughi con poche parole, più che sufficienti ad esaurire la faccenda:
«Quello degli immigrati non era affatto un problema nuovo per l’impero, che spesso lasciava entrare gli stranieri: un flusso pressoché costante di individui in cerca di fortuna, e di tanto in tanto migrazioni anche più consistenti. In latino c’è un termine specifico per indicare l’accoglienza dei migranti: “receptio”. Un’iscrizione del I secolo d.C. registra il fatto che il governatore di Nerone trasportò in Tracia 100.000 persone provenienti da “oltre il Danubio” (transidanuviani).
Nel 300 d.C. gli imperatori della tetrarchia riallocarono entro i confini dell’impero decine di migliaia di Carpi provenienti dalla Dacia, disperdendoli in varie comunità del Danubio, dall’Ungheria al Mar Nero.
Tra i due episodi si erano verificati innumerevoli flussi analoghi; mentre è difficile sostenere che il trattamento riservato fosse sempre e dovunque lo stesso, è possibile enucleare alcuni schemi ricorrenti. Se tra l’impero ed i richiedenti asilo i rapporti erano buoni e se la migrazione avveniva per mutuo accordo, alcuni dei giovani maschi immigrati venivano arruolati nell’esercito e il resto della popolazione veniva sparpagliata in tutta la superficie dell’impero, impiegato in agricoltura e di lì in poi assoggettato alle tasse come tutti gli altri. […] Se invece i rapporti non erano idilliaci…. le condizioni erano più dure.
[…] C’è poi un altro denominatore comune a tutti i casi documentati di immigrati cui fu concesso di stabilirsi entro i confini dell’impero. Gli imperatori non lasciavano mai entrare i migranti così, sulla parola, ma si assicuravano di poterne controllare militarmente le mosse…. confidando che le forze romane in loco avrebbero potuto sedare eventuali disordini.»
Peter Heather
“La caduta dell’impero
romano. Una nuova storia”
Garzanti (Milano, 2006)
Quando per una serie di sfortunate circostanze ed impressionanti errori di valutazione ciò non fu più possibile, l’Impero si avvitò nell’ennesima crisi dalla quale però non fu più in grado di riprendersi, fino alla sua inesorabile caduta.
Ora, paragonare l’impaludata gilda mercantile che si fa chiamare pomposamente “Unione europea” ai fasti ed alle miserie dello scomparso Impero Romano sarebbe quantomeno fuori luogo e costituirebbe una pacchiana forzatura storica, se non fosse che questo costituisce a tutt’oggi l’unico precedente di un’Europa unita sotto un apparato amministrativo complesso, con regole uniformate ed una moneta comune. Dal confronto, escludiamo volutamente l’Europa carolingia, col suo “sacro romano impero” che consisteva più che altro in un regno proprietario, inteso come patrimonio di famiglia e basato sul vassallaggio feudale, rozzamente intagliato sulle rovine del precedente latino.
In entrambe i casi, niente a che vedere con l’attuale sommatoria di 28 egoismi nazionali, raggrumati alla peggio in una tecnoburocrazia monetarista, che sostanzialmente funziona come un’immensa agenzia di recupero crediti a garanzia dei suoi fondi salva-banche, per l’indebitamento statale tramite la cessione delle insolvenze in una gigantesca operazione di cash-pooling, con un unico beneficiario: la Germania. Oggi come ieri è la ‘nazione’ über alles, per un’Europa strutturata ad immagine e garanzia degli interessi tedeschi, con un modello commerciale di riferimento prevalente che non va oltre l’esperienza della Lega Anseatica coi suoi richiami neo-mercantilisti.
Su quale poi sia lo spirito che sottende una simile filosofia, alla base di un ordine strutturato soprattutto a livello economico, nelle sue “Considerazioni di un impolitico” uno scrittore come Thomas Mann tirava in ballo direttamente il russo Dostoevskij per spiegare la peculiarità tedesca:
«Quello che Dostoevskij chiama il “radicalismo cosmopolitico” è quell’indirizzo spirituale che ha per mèta finale la società della civiltà democratica, la république sociale, démocratique et universelle; empire of human civilization. È davvero un’idea illusoria dei nostri nemici? Comunque, illusoria o no: non possono essere che nemici della Germania quelli che vagheggiano una siffatta “idea illusoria”, perché una cosa è certa: che in una fusione delle democrazie nazionali in una democrazia europea e mondiale non rimarrebbe più nulla della sostanza tedesca. La democrazia mondiale, l’impero della civilizzazazione, la “società dell’umanità”, potrebbe avere un carattere piuttosto latino o anglo-sassone, nel quale lo spirito tedesco finirebbe coi diluire e sparire, verrebbe estirpato, non esisterebbe più.
E la Germania? E i tedeschi? Dostoevskij dice: “L’aspetto caratteristico, essenziale di questo popolo grande, orgoglioso e singolare, è consistito sempre, fin dal primo momento in cui fece la sua apparizione nel mondo della storia, nel fatto che mai, né nei suoi destini, né nei suoi principi, ha accettato di unificarsi con l’estremo mondo occidentale, cioè con tutti gli eredi dell’antico patrimonio romano. Contro quel mondo lo spirito tedesco ha protestato per tutto il corso degli ultimi duemila anni e, anche se non ha pronunciato il proprio verbo non ha formulato in contorni precisi il suo ideale, che sostituisse positivamente l’antica idea romana da lui stesso distrutta, tuttavia, credo – dice Dostoevskij (e questo è un punto poderoso della sua trattazione, ci si accorge d’un tratto con chi abbiamo a che fare: col primo psicologo della letteratura universale) – in cuor suo quello spirito è stato sempre convinto che prima o poi avrebbe saputo pronunciare questo nuovo verbo e guidare con quello l’umanità”.
[…] Era dunque ugualmente chiaro a tutti fin dal primo momento, penso io, che le radici spirituali di questa guerra che ha tutti i titoli possibili per chiamarsi “guerra tedesca”, affondano nel “protestantesimo” organico e storico della Germania; era chiaro che questa guerra rappresenta in sostanza una nuova esplosione, la più grandiosa forse e molti credono l’ultima, dell’antichissima lotta dei tedeschi contro lo spirito dell’occidente, ed anche della lotta dello spirito romano contro la pervicace Germania.»
Thomas Mann
“Considerazioni di un impolitico”
Adelphi, 1997.
Smaltiti gli effluvi della grande sbornia nazionalista che portarono la Germania alla catastrofe della grande guerra, Thomas Mann ebbe a sperimentare personalmente su quali “fondamenti spirituali” poggiasse l’eccezionalità germanica nella supremazia di “questo popolo tanto introverso, questo popolo della metafisica, della pedagogia”, la cui anima “non ha un orientamento politico, bensì morale”, giacché “democrazia vuol dire predominio della politica”…
«La democrazia e la politica stessa sono estranee e venefiche al carattere tedesco….. Io mi dichiaro profondamente convinto che il popolo tedesco non potrà mai amare la democrazia politica per il semplice motivo che non può amare la politica stessa, e che il tanto deprecato “Stato dell’autorità costituita” è e rimane la forma di Stato che più gli è adeguata e congeniale, quella che in fondo lui stesso si è scelta.
[…] Lo spirito non è politica: per un tedesco non c’è bisogno di appartenere al cattivo secolo diciannovesimo per fare di questo “non è” questione di vita o di morte. La differenza fra spirito e politica implica quella fra cultura e civilizzazione, fra anima e società, fra libertà e diritto di voto, fra arte e letteratura; ora la “germanicità” è cultura, anima, libertà, arte, e non civilizzazione, società, diritto di voto, letteratura.
[…] I pregi della nazione e dell’arte tedesca sono di carattere preminentemente etico, in contrasto con l’intellettualismo della civilizzazione occidentale.»
Non per niente, per molti spiriti magni di teutonica schiatta, uno dei massimi approcci culturali al mondo latino era la contemplazione romantica delle rovine di un mondo che, in fondo e loro malgrado, avevano pur contribuito a distruggere, finanto che non hanno deciso poi di riplasmare l’Europa in nome dell’ordine, dell’obbedienza, della propedeutica del dovere nel culto dell’autorità che è sempre pedagogica anche nella coercizione più estrema (rieducare i popoli alle virtù tedesche) nella sua “antipoliticità”.
Invece, a livello mediterraneo, dell’antica dimensione imperiale resta più che altro la pletora ciarliera degli aspiranti ‘cesari’. E al massimo si tratta di Romoli Augustoli, che si avvicendano sui loro effimeri troni di cartapesta, gigioneggiando nei teatrini di una politica indegna, con tutta la prosaicità ridanciana della loro fanfaronaggine parolaia.
Ascoltare i cinguettii del principino rignanese che pigola qualcosa a proposito di “accoglienza europea” e “redistribuzione delle quote”, dopo aver strombazzato urbi et orbi gli eccezionali successi epocali della sempre più evanescente Federica Mogherini, e bofonchia l’esistenza di un “Piano B” per affrontare l’emergenza immigrazione, supportato com’è da quell’altro monumento all’inutile che è il suo degno compare Angelino Alfano agli Interni, restituisce tutto il senso della farsa ad un Paese sempre più allo sbando. Nell’assoluta latitanza delle fantomatiche istituzioni europee, che esistono unicamente per tirar di conto, nella sua ritrovata “sovranità nazionale” l’Italietta decisionista del Bambino Matteo sta scoprendo a sue spese che l’immigrazione, se gestita male (o meglio: se non gestita affatto), ben lungi dall’essere una “risorsa”, può essere un problema (e anche dei più scabbiosi); che le strutture locali non sono assolutamente attrezzate per gestire l’ondata migratoria; che bastano appena 100 profughi afghani per mandare in tilt città come Udine; che una simile massa di indigenti e disperati da importazione rischia davvero di portare al collasso col loro peso le già precarie strutture sanitarie e di pubblica assistenza, rischiando di innescare una reazione incontrollabile in una sorta di dumping sociale tutto al ribasso. Che non ha davvero senso andare a raccogliere fin sotto la costa libica migliaia di migranti, che poi non si sa assolutamente come gestire ed integrare. E che certo questo non costituisce un deterrente all’esodo di massa che anzi ne risulta incentivato nella certezza del trasbordo, mettendo in mare qualsiasi cosa galleggi fino ad un miglio dalla costa africana. E che è un bene che la totalità dei migranti, nonostante le condizioni bestiali a cui sono costretti, sia finora costituita da persone assolutamente pacifiche e inermi.
Suo malgrado, il Bimbetto rignanese ed i suoi accoliti stanno scoprendo che nel resto dell’Europa, stremato dalla lunga recessione e con milioni di disoccupati da riallocare e sistemi di assistenza sociale drammaticamente a corto di fondi, una simile “risorsa” nessuno la vuole e trovano comodissimo utilizzare le propaggini meridionali del continente (Grecia ed Italia) come immensi recinti per bloccare il transito di indesiderati. Ne si può pretendere che i singoli paesi si facciano carico di un problema che il governo italiano non sa assolutamente affrontare, nella schizofrenica confusione che ne contraddistingue le iniziative.
Il Piccolo Principe sta cominciando a capire che sarà proprio la questione migratoria a segnare la fine del suo effimero potere: non lo scempio costituzionale in atto, con l’abuso della decretazione d’urgenza e la concentrazione dei poteri; non la farsa dei contratti a monetarizzazione crescente spacciati per nuova occupazione; non l’impoverimento progressivo dei ceti medio-bassi della società italiana; non lo smantellamento della scuola pubblica; non la pioggia di scandali e ruberie a non finire, che rischiano di far sembrare il PSI craxiano un partito di reprobi… bensì proprio l’assoluta inadeguatezza, nel gestire una delle questioni più antiche del mondo come l’immigrazione, rischia di travolgere questo abborracciato bulletto di provincia, sull’onda lunga delle paure degli italiani e la solleticazione dei loro peggiori istinti, che se portati all’esasperazione non conducono mai a niente di buono…
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La Nevrosi del Convertito
Posted in Kulturkampf, Masters of Universe with tags "Fedeli a Oltranza", "Una pura formalità", Califfato, Canada, Convertiti, Cultura, Dissociazione cognitiva, Esteri, Fanatismo, Fondamentalismo, Giuseppe Tornatore, India, Indonesia, Indostan, Integralismo, IS, ISIS, Islam, Letteratura, Liberthalia, Libri, Montreal, Muhammad Iqbal, Neo-Convertiti, Nevrosi, Onoff, Oriente, Ottawa, Pakistan, Psicopatici, Purezza, Religione, Saggistica, Terrorismo, Vidiadhar Surajprasad Naipaul on 23 ottobre 2014 by SendivogiusPer quanto il fenomeno rientri tra gli effetti collaterali di ogni proselitismo religioso, lo zelo esibito e fanatico del neofita, integralizzato nei fondamenti assoluti della sua nuova fede, da solo non basta a spiegare i fatti di Ottawa, o gli exploit fai-da-te del monomaniaco lobotomizzato a colpi di tecno-jihad.
In realtà, la religione (qualunque essa sia) non costituisce mai un fine, ma è sempre il mezzo col quale gli psicotici danno libero sfogo alle loro
frustrazioni. Che poi sia una certa interpretazione dell’Islam, degenerato in perversione della mente, ad alimentare le turbe ossessive del momento, questa rappresenta soltanto un riflesso del degrado dei tempi. E ciò avviene soprattutto dinanzi al proliferare di disadattati sociali, variamente disturbati, neo-convertiti alla “religione della pace”: a mal vedere, l’unica che fa della guerra santa un atto fondante del proprio culto, inserendola nei doveri religiosi del ‘vero’ credente.
Sobria manifestazione di Isl’Amici, perfettamente integrati nei paesi europei cha hanno l’indubbio piacere di ospitarne la presenza
Nei casi patologicamente più aggravati, sono quelli che per dimostrare quant’è profondo il rapporto coi “fratelli” acquisiti in Allah rinnegano ogni
legame con la propria vita precedente, rigettata come “impura”. E che magari si sentono in dovere di immolarsi pubblicamente in azioni suicide, in modo da entrare nell’agognato mondo dei morti della Janna e poter così giacere ogni notte con dozzine di compiacenti fanciulle dagli occhi neri (le Urì), che riacquisiscono la verginità al termine di ogni amplesso, per tornare ad essere nuovamente deflorate (un tormento!) dall’ingrifato mujaheddin trapassato a miglior vita.
E per questo smaniano per aggregarsi alle orde barbute dell’Isis, ed essere ricordati come martire del giorno tra gli isl’amici, reputando un preciso atto di devozione schiavizzare le donne dei nemici abbattuti, brutalizzare le popolazioni asservite, lapidare le adultere o scannare i prigionieri, per piacere a dio.
Per descrivere lo stato di dissonanza cognitiva, che contraddistingue un simile stato di alterazione compulsiva, in una delle sue opere più famose (pubblicata nel 1998), Naipaul parlava di “nevrosi primaria del convertito”.
«L’Islam è originariamente una religione araba; tutti i musulmani non arabi sono convertiti.
L’Islam non è solamente una questione di coscienza o di fede personale: ha aspirazioni imperialistiche. Il convertito cambia la sua visione del mondo, perché i luoghi santi sono in terra araba, perché la lingua sacra è l’arabo. Cambia pure la sua idea della storia: il convertito rinuncia alla propria e diventa, che gli piaccia o no, parte della storia araba. Quindi deve voltare le spalle a tutto ciò che gli è proprio. Lo sconvolgimento sociale che ne deriva è enorme e può protrarsi anche per mille anni, mentre l’atto di “voltare le spalle” deve essere ripetuto in continuazione. Di conseguenza gli uomini si creano immagini fantasiose di chi sono e cosa sono e nell’Islam dei paesi convertiti si insinua un elemento di nevrosi e di nichilismo. Da qui la facilità di tali paesi a infiammarsi.
[…] Può anche darsi che le grandi conversioni, delle nazioni o delle culture…. avvengano quando gli uomini non hanno più un’idea di sé, e non hanno i mezzi per capire e recuperare il passato. La crudeltà del fondamentalismo islamico è che permette solo a un popolo – gli arabi, il popolo originario del Profeta – di avere un passato e luoghi sacri, pellegrinaggi e onoranze alla terra. Questi luoghi sacri arabi diventano i luoghi sacri di tutti i popoli convertiti. I convertiti devono sbarazzarsi del proprio passato; a loro non si chiede altro che una fede purissima (se è mai possibile una cosa simile): Islam, sottomissione. La forma più intransigente di imperialismo.»V.S. Naipaul
“FEDELI A OLTRANZA.
Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
Sir Vidiadhar Surajprasad Naipaul (questo il suo nome per intero!), “baronetto” di sua Maestà britannica (1990), Premio Nobel per la letteratura nel 2001, e un carattere impossibile, rientra a pieno titoli negli scrittori che si apprezzano per le proprie
opere (a noi capita la stesso con E.N.Luttwak), ma che mai si vorrebbero frequentare di persona.
Arrogante, indisponente, provocatoriamente altezzoso, sessista, insopportabile misantropo e rabbioso misogino, ma anche scrittore raffinatissimo e personaggio sofisticato, Naipaul è quanto di più prossimo alle parole che il regista Giuseppe Tornatore fa pronunciare ad Onoff/Depardieu, in uno dei suoi film più riusciti:
«Non bisognerebbe mai incontrare i propri miti. Visti da vicino ti accorgi che hanno i foruncoli. Rischi di scoprire che le grandi opere che ti hanno fatto sognare tanto le hanno pensate stando seduti sul cesso, aspettando una scarica di diarrea.»
“Una pura formalità”
(1994)
Nonostante i difetti, Naipaul è una sorta di anemometro del vento fondamentalista, che ha saputo misurare con ampio anticipo, cogliendone la pressione laddove le correnti erano più forti ed il fenomeno meno investigato, nel sostanziale disinteresse di un Occidente, che evidentemente si reputava immune alla perturbazione integralista.
L’opera si struttura in quattro parti: Indonesia; Iran; Pakistan; Malesia. A suo modo, e con piglio quasi etnografico, Naipaul è tra i primi a mettere in luce il fuoco interiore che sembrano contraddistinguere società diverse, dalla struttura ancora feudale e frammentata nelle sue divisioni tribali. Tutte sono unite dalla comune ossessione per un ideale sempre più distorto e ancestrale di “purezza religiosa”, in una persistente nevrosi culturale e identitaria. A questa si accompagna un’incapacità cronica nel gestire le complessità della modernità, concepita dagli interessati più che altro come una crosta superficiale, a retaggio della colonizzazione britannica.
Oggi si tende, con una certa facilità, a liquidare il sedicente Stato islamico di Iraq e Levante come qualcosa di completamente estraneo alla tradizione musulmana, in quanto aberrazione della medesima. E se pessime sono le criminalizzazioni nella semplificazione generalizzata, nemmeno giovano le assoluzioni a priori, nella rimozione di peculiarità che, prima ancora che negate, andrebbero meglio confutate, onde prevenire i rischi.
In concomitanza con l’avvento dell’ISIS, vale la pena rileggere le pagine che Naipaul dedica al suo viaggio nel sub-condinente indiano e soprattutto al Pakistan (la Terra dei puri), che l’Autore dichiara evocativamente “fuori dalla mappa della storia”, e cogliere le differenze con l’ibrido mediorientale attualmente in fieri…
«Il periodo britannico fu un periodo di rinascenza indù. Gli indù, soprattutto in Bengala, accolsero con favore la nuova scienza di stampo europeo e le istituzioni introdotte dai britannici. I musulmani, feriti dalla perdita del potere e in obbedienza a vecchi scrupoli religiosi, rimasero a guardare. Fra le due comunità si venne così a creare un divario intellettuale, che con l’indipendenza non ha fatto che approfondirsi. Ed è questo, ancor più della religione, che oggi, alla fine del ventesimo secolo, fa dell’India e del Pakistan due paesi decisamente diversi. L’India, con una classe intellettuale che cresce a passi da gigante, si espande in tutte le direzioni. Il Pakistan, che non fa altro che proclamare la fede e soltanto la fede, si ripiega sempre di più su se stesso.
Fu dall’insicurezza dei musulmani che nacque l’istanza di creare il Pakistan. E anche da un’idea della gloria passata, dall’immagine degli invasori che avevano fatto irruzione da nord-ovest, saccheggiando i templi dell’Indostan e imponendo la fede agli infedeli. Questa fantasia è tuttora viva, e per il musulmano convertito del subcontinente è l’origine della sua nevrosi, perché in tale fantasia dimentica ciò che è e diventa tutt’uno con l’invasore e il profanatore.
Riferendosi a un altro continente, è come se le popolazioni indigene del Messico e del Perù si schierassero con Cortés e Pizarro e gli spagnoli, in quanto portatori della vera fede.
[…] Il nuovo Stato era nato in fretta e furia e non aveva un vero programma. Non poteva diventare la patria di tutti i musulmani del subcontinente; sarebbe stato impossibile. Di fatto, i musulmani destinati a rimanere in India erano più numerosi di quelli che avrebbero fatto parte del nuovo Stato islamico. Pareva piuttosto che, al di là e al di sopra di qualunque finalità politica, il nuovo Stato dovesse rappresentare il trionfo della fede, un paletto conficcato nel cuore del vecchio Indostan.»
V.S. Naipaul
“Fedeli a oltranza. Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
Per devoti e fanatici, unicamente preoccupati di non sembrare mai abbastanza “puri” e non compiacere a dovere l’iddio onninvadente, l’organizzazione delle strutture amministrative nella nuova entità religiosamente conforme è da sempre l’ultimo dei problemi…
«Nessuno aveva mai riflettuto davvero su cosa significasse amministrare il nuovo paese. Ci si aspettava che tutto discendesse naturalmente dal trionfo della fede.
[…] Le leggi procedurali ereditate dagli inglesi, i principali legislatori del subcontinente, furono modificate senza convinzione e con scarso senso pratico. Vennero aggiunte alcune appendici islamiche che spesso gli avvocati non riuscivano ad applicare in maniera coerente; e il sistema legale, già manipolato dai politici, diventò ancor più caotico. I diritti delle donne non furono più garantiti. L’adulterio divenne un delitto. Ciò significava che un uomo poteva sbarazzarsi della moglie accusandola di adulterio e mandandola in prigione.
[…] Sullo sfondo c’erano sempre i fondamentalisti che, nutriti prima dall’estasi della creazione del Pakistan e in seguito dalla parziale islamizzazione delle leggi, volevano riportare il paese sempre più indietro, al settimo secolo, al tempo del Profeta. La realizzazione di questo sogno era affidata a un programma fumoso quanto quello della creazione del Pakistan: soltanto una vaga visione di preghiere regolari e di punizioni coraniche, il taglio delle mani e dei piedi, l’imposizione del velo alle donne e, di fatto, la loro reclusione, la concessione agli uomini di diritti padronali su quattro donne alla volta, da usare e gettare a proprio piacimento. E in un modo o nell’altro, si credeva che, attraverso tutto questo, attraverso una società chiusa e devota in cui, secondo i dettami religiosi, avrebbero spadroneggiato uomini privi di istruzione, lo Stato si sarebbe legittimato e il potere si sarebbe affermato, come si era affermato agli albori dell’Islam.
La causa del Pakistan era stata sostenuta seriamente per la prima volta nel 1930 da un poeta, Muhammad Iqbal, in un discorso tenuto al convegno della Lega musulmana prima della divisione. Il tono del discorso è più civile e in apparenza più razionale degli slogan di strada del 1947, ma gli impulsi sono gli stessi. Iqbal apparteneva a una famiglia indù convertita di recente; e forse solo un neofita poteva esprimersi in quel modo.
L’Islam non è come il cristianesimo, afferma Iqbal. Non è una religione che coinvolge solo la coscienza individuale e la condotta privata. L’Islam comporta certi “princìpi legali” che, come tali, hanno “rilevanza civica” e creano un certo tipo di ordine sociale. L’«ideale religioso» non può essere disgiunto dall’ordine sociale. “Per un musulmano è impensabile la costituzione di un’entità politica su basi nazionali che comporti l’esclusione del principio islamico della solidarietà”. Nel 1930 un’entità politica nazionale significava uno Stato in tutto e per tutto indiano.
E’ stupefacente che un uomo dotato di ragione abbia fatto un discorso del genere nel Novecento. Ciò che Iqbal sostiene in maniera involuta è che i musulmani possono vivere soltanto insieme ad altri musulmani. A voler prendere alla lettera le sue parole, ciò implicherebbe che il mondo ideale, quello a cui bisogna aspirare, è un mondo puramente tribale, precisamente ripartito, con ciascuna tribù al suo posto. Un’idea del genere sarebbe stata giudicata stravagante.»
V.S. Naipaul
“Fedeli a oltranza. Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
Come si può vedere, gli Isl’amici del Califfato levantino, e le loro intraprendenti matricole occidentali, folgorate sulla via di Raqqa, non hanno inventato proprio nulla.
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La Noia
Posted in Kulturkampf with tags Alberto Moravia, Cultura, Distrazione, Governo, Italia, La noia, Letteratura, Liberthalia, Libri, Mario Balotelli, Mondiali di calcio, Nazionale on 25 giugno 2014 by SendivogiusCapita. Che si tratti delle polemiche più che pletoriche, ancorché inutili, sui “mondiali” e la Nazionale prandelliana, con le prestazioni più che miserrime del simpaticissimo Balotelli… O delle desolanti chiacchiere da bar: lo specchio dell’intelligenza media di una ‘nazione’…
O delle “riforme” parcellizzate a cadenza settimanale, dal capo del governo più amato dai tempi di Benito buonanima… O delle vibranti difese d’ufficio pro domo sua (nonché ad culum parandi) del papi costituente: l’interdetto part-time, temporaneamente prestato ai servizi sociali… O delle consuete scariche diarroiche del Grullo latrante e dei suoi manipoli parastellati…
Che si tratti di indennità, impunità, indennità, ka$te e stipendi, insieme a tutti gli –ismi tramite i quali viene declinata la stupidità applicata all’idiozia in politica, come nella vita quotidiana, a volte capita di annoiarsi.
Per questo esistono i libri…
«Penso che, a questo punto, sarà forse opportuno che si spenda qualche parola sulla noia…. Dunque, per quanto io mi spinga indietro negli anni con la memoria, ricordo sempre di aver sofferto della noia. Ma bisogna intenderci su questa parola. Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lì i divani, più in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla Polvere.
Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti. Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo.
Ho detto che mi sono annoiato sempre; aggiungo che soltanto in tempi abbastanza recenti sono riuscito a capire con sufficiente chiarezza che cosa sia realmente la noia.»Alberto Moravia
“La noia”
Bompiani (1960)