Avete odiato ferocemente i vostri compagni di scuola? Possedete i modi gentili di un Ted Bundy, ma siete convinti di essere la reincarnazione di Onoprijenko? Vi piacciono le cacce all’uomo/donna, con combattimenti all’ultimo sangue?!? Allora “Battle Royale” è la storia che fa per voi. Dal Sol Levante con dolore. Pubblicato per la prima volta nell’Aprile del 1999, è il romanzo d’esordio dello scrittore Koushun Takami, il quale con uno stile freddo e asettico delinea i contorni di una feroce ecatombe all’ombra di una realtà distopica, dove è forte il senso d’oppressione di un’autorità terribile e immanente. Immaginate che l’impero nipponico non abbia mai perso la seconda guerra mondiale. Immaginate che Giappone e Cina siano unite in una spietata dittatura di stampo nazista (ma persino peggiore del modello originale), chiamata ‘Repubblica della Grande Asia’, in cui la via giapponese al fascismo (fashizumu) domina incontrastata. Come in un moderno tributo di sangue, la Repubblica della Grande Asia immola i suoi stessi figli in un sanguinario sacrificio collettivo a celebrazione dell’onnipotenza del regime. Infatti ogni anno, dal 1947, cinquanta classi di studenti liceali, equamente ripartiti tra maschi e femmine, vengono selezionate tramite sorteggio e costrette a partecipare ad un allucinante gioco al massacro, conosciuto come il “Programma”. Le classi prescelte vengono deportate singolarmente e con l’inganno in luoghi isolati, preferibilmente isole evacuate dai propri abitanti e convertite in potenziali campi di battaglia. Ogni studente viene munito di un kit minimo di sopravvivenza, una razione limitata di viveri, e un’arma distribuita secondo il caso: si va dalle forchette alle mitragliette automatiche d’assalto, passando dalle freccette alle granate a frammentazione. Vince colui (o colei) che in un tempo limitato riuscirà ad eliminare senza troppi scrupoli tutti gli altri contendenti. Non esiste alcuna regola né limite al ‘gioco’. A supervisionare l’esperimento c’è il disgustoso Kinpatsu Sakamochi: un sadico pervertito, attorniato da un manipolo di psicopatici in uniforme. Per costringere gli studenti ad ammazzarsi tra di loro, ognuno viene munito di un collare esplosivo, che segnala altresì la posizione con un sistema gps al centro di comando e registra le conversazioni. Se qualcuno cerca di fuggire, il collare esplode. In caso di ribellione, il collare esplode. Se, alla scadenza del termine ultimo, più contendenti sono ancora in vita, i collari esplodono simultaneamente uccidendo tutti i sopravvissuti. Al vincitore verrà consegnata una cartolina autografa con la firma del Grande Dittatore (che culo!). Questa, in sommi capi, è la trama di “Battle Royale”. E, d’altro canto, chi non ha mai pensato di maciullare i propri compagni di classe?!? Inoltre, quale modo migliore potrebbe scegliere una dittatura per cementare il proprio consenso tra la popolazione, se non costringerne i figli a massacrarsi tra di loro dopo averli pescati a casaccio, e senza alcuna distinzione, persino tra i rampolli delle elite industriali e burocratiche che sostengono il regime?!? Non sforzatevi troppo a cercare le ragioni logiche e le motivazioni ‘politiche’ che sottendono l’istituzione del perverso “Programma”, perché non le troverete o vi sembreranno difficilmente credibili. Se concentrate la vostra attenzione ed interesse unicamente sugli interminabili scontri e sui vari ammazzamenti ai quali i giovani protagonisti si dedicano con zelo disperato, entusiasmandovi all’insana carneficina (uccidere o essere ucciso), allora “Battle Royale” sarà il vostro ‘romanzo di morte’ per la vita. E con ogni probabilità avreste bisogno di un bravo strizzacervelli. Ma, se agli ‘effetti’ pratici prediligete l’identificazione delle ‘cause’ all’origine della battle royale, resterete fortemente delusi giacché il messaggio del romanzo diluisce nell’assenza di senso. Che cos’è in realtà il Programma? A cosa è davvero funzionale la famigerata “battaglia”? È uno strumento di controllo sociale, della serie: terrorizzali indiscriminatamente e loro ubbidiranno a ogni tuo ordine. Dunque, il Programma avrebbe lo scopo di ingenerare terrore tra la popolazione, creando diffidenza collettiva e paranoie diffuse. In tal modo, terrebbe la cittadinanza (i sudditi) divisa, in uno stato di perenne soggezione e scoramento, tanto da prevenire e dissuadere eventuali moti di rivolta (su che presupposti logici è difficile dire), cancellando ogni speranza di cambiamento. È un esperimento di sopravvivenza, per testare le capacità di reazione e adattamento in situazioni estreme, sotto una forte pressione emotiva. È una forma sperimentale di darwinismo sociale, nell’ambito di ricerche militari volte alla creazione del guerriero perfetto…
Non è che l’Autore si sforzi troppo per spiegarlo. E quindi ogni interpretazione è valida. Con simili presupposti, l’opera di Koushun Takami ha rapidamente scalato le vette delle classifiche di vendita, imponendosi come un fenomeno di costume: interrogazioni parlamentari, orde di fan entusiasti, papà che leggiucchiano di nascosto il libro nella cameretta dei pargoli… La sua trama ha in parte ispirato, e comunque condizionato, la produzione di piccoli capolavori come “Basilisk”, oppure one-shot quali “Duds Hunt”… Insomma, c’erano tutti i presupposti per abbandonare orrori ben più devastanti come “Twilight” e correre subito a leggere il romanzo di Takami. Naturalmente, anche se con debito ritardo, neanche noi abbiamo resistito al richiamo delle frattaglie. Perciò abbiamo recuperato una copia on line del libro (perché pagare ciò che puoi avere a gratis?) e tastato di persona l’arte. Nella fattispecie, si tratta della prima versione in lingua inglese (2003) a cura di Yuji Oniki su traduzione dall’originale. Come le 332 pagine del romanzo originario possano essere lievitate a tal punto da raddoppiare, è un mistero noto solamente agli editors dell’edizione italiana. Siamo sinceri, ci aspettavamo di (molto) meglio… Riguardo ai contenuti, l’opera è quanto di meno originale si possa immaginare e costituisce più che altro una forma di rassemblement letterario, il quale riutilizza e riadatta tematiche con figure stra-abusate, e quindi dal successo garantito, dove tutto è déjà vu… C’è il sacrificio di sangue, in ossequio agli imperativi dispotici di una autorità crudele e sfumata; basti per tutti ricordare i 14 giovinetti, in egual numero tra maschi e femmine, offerti ogni anno alla furia del Minotauro… Da allora, l’antichissimo tema mitologico ha conosciuto infinite variazioni, senza mai perdere il suo fascino perverso. C’è la tendenza tutta nipponica a realizzare storie a ripetizione, con innocui liceali trasformati in letali macchine da combattimento vestite alla marinaretta… Eh ma “Battle Royale” è una specie di survival horror, dove alla fine sopravvive uno solo. E sai che novità!? Specialmente in Giappone, niente che non si sia mai visto; soprattutto se si pensa all’infinita produzione di manga ed alle pellicole estreme del cosiddetto Eastern exploitation… In merito ai riferimenti cinematografici, il collare metallico pronto ad esplodere in caso di fuga si era già visto nel lontano 1991 costituendo il piatto forte di “Sotto massima sorveglianza”: filmetto d’azione della (all’epoca) gettonata coppia Rutger Hauer e Joan Chen, già visti in “Giochi di morte” dove squadre di disperati si fronteggiano in tornei sanguinari (vi ricorda niente?). Da questo punto di vista, “Battle Royale” rende omaggio e rinverdisce una serie di idee ad effetto, che hanno fatto la fortuna di un intero filone di action-movies anni ’80, non di rado ai confini del trash… In tale ambito, la preda umana costretta a combattere per la sua sopravvivenza costituisce una tematica ricorrente. Qualche titolo? Da “Avenging Force”, conosciuto in Italia come “I cacciatori della notte” (1986), fino al ben più notevole “Senza Tregua” (Hard Target del 1993) di John Woo (quasi un remake), a chiusura di un ciclo inaugurato con “I Guerrieri della palude silenziosa” (1981): film culto di Walter Hill. Curiosamente, sono tutti ambientati nelle paludi della Louisiana. A livello letterario, non mancano invece le analogie con “La settima vittima”(1953), un racconto del geniale Robert Sheckley. Ad essere ingenerosi, “Battle Royale” è il tipico prodotto da fast food letterario confezionato per i palati primitivi di lettori deboli. Il tutto è raccontato con una narrazione piatta, a tratti monotona, che non cambia quasi mai di registro. La sintassi è elementare. I periodi sono brevissimi. Le tipologie caratteriali dei personaggi rispecchiano tutti gli stereotipi di genere e, scusate il gioco di parole, sembrano a volte tagliate con l’accetta. Può anche capitare, quando si costruisce un romanzo con una cinquantina e passa di personaggi diversi. L’intreccio (raffazzonato), le motivazioni ‘sociologiche’ (piuttosto vaghe per non dire assurde) ed i profili psicologici (assai approssimativi) dei personaggi, costituiscono più che altro il contorno ideale di una storia violentissima, crudele, di un’efferatezza morbosa, la quale non poteva che essere un successo editoriale destinato a diventare un caso internazionale. Questa almeno è l’impressione che se ne ricava dalla lettura in inglese, probabilmente condizionata da una nostra cattiva conoscenza della lingua. In compenso, la lettura scorre come un coltello affondato nel burro caldo. Gli esteti hanno parlato di “sofisticata critica sociale”… “denuncia anti-totalitaria”… “capolavoro” (!!). Suvvia, non diciamo cazzate! D’altronde, questi “coraggiosi atti d’accusa contro l’alienazione della società nipponica” non sempre sono pienamente comprensibili alla nostra logica ‘eurocentrica’, dal momento che negli atti in questione dovrebbero rientrare anche opere come l’inquietante “Suicide Club” di Sion Sono. Piuttosto, se “Battle Royale” ha un pregio, questo consiste nella totale destrutturazione dei contesti abituali di riferimento, con la rivisitazione dei cliché di genere, tramite la riproposizione (estremizzata) del bella contra omnesdove tutti gli uomini (e le donne non fanno eccezione) sono homini lupus. Il fascino (perverso) del libro consiste nella capacità indiscussa dell’Autore nel creare un’atmosfera opprimente ed insana, nella quale sembrano venir meno tutti i corollari dell’agire sociale, con lo stravolgimento di ogni forma di fiducia verso il prossimo, della distinzione tra bene e male, dove il tradimento è la norma ed ogni sentimento può rivelarsi una debolezza mortale, esplorando gli abissi più oscuri dell’indole umana. E ciò è forse il principale punto di forza nell’opera dello scrittore giapponese. La capacità di tendere al massimo la corda dell’esasperazione paranoica, tramite lo stravolgimento emotivo, scardinato dall’implosione dei sospetti, raggiunge uno dei suoi massimi effetti nella strage delle ragazze del faro, che è probabilmente l’invenzione più drammatica e riuscita di Takami, nella sua personale discesa agli inferi. In considerazione dell’enorme entusiasmo del pubblico, dal romanzo di Koushun Takami è stata tratta una versione cinematografica (2000), per la regia di Kinji Fukasaku e con Takeshi Kitano nei panni del sovrintendente Sakamochi/Kamon/Kitano. Ovviamente, il film è diventato in breve un cult-movie. Non ci esprimiamo in proposito, perché non abbiamo (ancora) visto il film. Dopo la lettura di romanzo e fumetto, per il momento poteva bastare così. Infatti, nel 2002 è stata realizzata una pubblicazione illustrata (manga) di “Battle Royale”, su sceneggiatura dello stesso Takami e disegni di Masayuki Taguchi. Con l’eccezione di poche differenze (di cui una considerevole), la versione a fumetti è sostanzialmente identica al romanzo. È superfluo dire che, tra romanzo e fumetto, il manga è nettamente superiore per spessore psicologico dei personaggi, complessità stilistica, e persino nella costruzione dei dialoghi. Pensato per un pubblico adulto, il seinen del duo Takami-Takuchi non lascia assolutamente nulla alla fantasia del lettore ed anzi esaspera le esecuzioni, con una violenza estetica a forte impatto visivo dai contenuti più che espliciti. Era dalla lettura dell’allucinante “Ichi the killer” (Koroshiya Ichi) del mangakaHideo Yamamoto, che non ci capitava tra le mani qualcosa di così controverso ed eccessivo. Epperò il manga di Taguchi non sfiora mai i livelli di morbosità compiaciuta, presenti invece nell’opera di Yamamoto: un condensato di perversioni sessuali, torture e atrocità estreme, che alla lunga risultano talmente disturbanti da rendere difficile la prosecuzione della lettura. La peculiarità del racconto è che nelle circa 2.000 pagine che costituiscono il seinen non si incontra un solo personaggio, in grado di esprimere un qualche valore positivo. Nel 2001, “Ichi the killer” viene trasposto in versione cinematografica dal prolifico (e geniale) Takashi Miike, che non è regista da affrontare alla leggera. Chiunque abbia avuto lo stomaco per sopportare la visione di “Visitor Q” o di “Imprint” sa di cosa parliamo… Basti dire che si tratta di un film all’acqua di rose e persino comico, rispetto all’originale di Yamamoto. Al contrario, “Battle Royale”, nonostante l’iper-violenza, è pervaso da un’umanità pressoché sconosciuta allo splatterosissimo “Ichi”. Naturalmente, la versione a fumetti di “Battle Royale” (che in parte sembra imitare il tratto stilistico del coreano Super Shen) ha i suoi limiti intrinseci: sedicenni con muscolatura da pugile professionista, che dimostrano una trentina d’anni.. lolite poppute ed iper-maggiorate.. tenere fanciulle in età puberale che brandiscono con un braccio solo enormi 44 magnum… mosse speciali da supereroi… personaggi troppo lacrimosi… dialoghi raffinati con notevoli riflessioni di carattere psicologico… competenze altamente tecniche che spaziano dalla medicina alla chimica… Insomma un po’ troppo per semplici adolescenti. In compenso, il manga integra il romanzo e lo supera nella disamina delle dinamiche comportamentali, approfondendo i profili psicologici con una serie di dettagli interessanti per la migliore strutturazione dell’insieme. Inoltre regala cammei ben costruiti, su misura di ciascuno dei 42 ragazzi coinvolti loro malgrado nel “Programma”, e che sono complementari alla definizione complessiva dei protagonisti principali… Kazuo Kiriyama: sociopatico, glaciale, totalmente amorale, vive in uno stato di dissociazione permanente, che gli impedisce di instaurare una qualsiasi forma di legame empatico con chiunque. È completamente privo di emozioni, dunque non prova esitazione, né rimorsi, né dubbi. Ciò sembrerebbe dovuto ad una disfunzione cerebrale, dovuta al trauma riportato in un incidente stradale: fin dalla nascita nel romanzo; da bambino nel fumetto. Si muove per istinto. Apparentemente geniale, ogni sua azione risponde unicamente a logiche di tipo meccanico: funzionamento e scopo, senza alcuna implicazione di tipo emotivo. Ogni sua attività (suonare il violino o uccidere) è volta unicamente all’ottimizzazione formale, salvo perdere ogni interesse una volta raggiunto il risultato. Ai fini del ‘gioco’, questa sua assenza assoluta di sentimenti lo rende apparentemente invulnerabile e quindi una perfetta macchina omicida, perché senza alcuna coscienza. Nel manga sembra indistruttibile, praticamente un incrocio tra Terminator (versione avanzata) e l’uomo ragno tanto sguizza via. Se ne va in giro con un arsenale da guerra, ma la sua arma preferita è una mitraglietta Ingram che sembra godere di una scorta inesauribile di caricatori. Manco fosse Max Payne! Hiroki Sugimura: al contrario di Kiriyama, pensa troppo, ponendosi continui interrogativi sul significato delle sue azioni e le possibili implicazioni. Introverso, timido, insicuro, ha bisogno di legare il suo agire ad uno scopo preciso. Vive in funzione del suo prossimo, vincolato alla protezione delle persone a lui più care. La sua stessa applicazione nelle arti marziali non è che un modo per esorcizzare il proprio senso di inadeguatezza, insieme alla paura che segretamente l’attanaglia. Ciò lo rende in fondo vulnerabile. Ed è per questo che Sugimura, nonostante un generoso altruismo, mancherà a tutti i suoi migliori propositi, assistendo al proprio stesso fallimento. La dipartita di Sugimura costituisce la differenza più vistosa che separa il romanzo dal manga, e che non sveleremo per non rovinare la sorpresa a chi non abbia ancora letto la storia (le storie)… In entrambi i casi, le due versioni sono di una crudezza estrema. Shinji Mimura: brillante, analitico, sportivo, apparentemente estroverso, è in realtà un battitore libero abituato a giocare in proprio, accentrando su di sé l’azione. E’ anche l’elemento in apparenza più ‘politicizzato’, per una naturale insofferenza alle regole. Sembra che abbia una predisposizione ad attrarre i più sfigati della classe, che si aggrappano a lui come le mosche sul miele. Con un simile team, non può che perdere la partita nonostante la propria determinazione ed una indubbia genialità. Mitsuko Souma: probabilmente è uno dei personaggi più riusciti e complessi sotto il profilo psicologico. Sostanzialmente, è una psicopatica con gravi disturbi della personalità, tendente alla schizofrenia. Bellissima, sessualmente promiscua, è un’anima persa divorata dai suoi demoni personali (incesto, stupro, pedofilia, prostituzione minorile, sevizie)… Naturalmente, né il romanzo né il manga ci risparmiano nulla, dilungandosi con dovizia sulle violenze. La migliore metafora usata per rappresentare la devastazione interiore di Mitsuko consiste nel ritrarla come una bambola rotta. Shogo Kawada: se dovessimo esprimere una qualche preferenza, è indubbiamente il nostro personaggio preferito, per affinità caratteriale e per tutta una serie di ragioni che chi dovesse leggere (o abbia già letto) la storia capirà… Shuya Nanahara: è il protagonista principale ed è pure (forse) il personaggio più stereotipato e prevedibile… una sintesi perfetta di buoni sentimenti e valori positivi, al quale l’Autore ha attribuito ogni qualità possibile. Troppo perfetto e troppo buono per essere davvero reale. Ad ogni modo, una volta letto, “Battle Royale” non si dimentica tanto facilmente…
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«…conto su pochi lettori e ambisco a poche approvazioni. Se questi pensieri non piaceranno a nessuno, non potranno che essere cattivi, ma se dovessero piacere a tutti li considererei detestabili…»
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(J. MADISON - 4 Agosto 1822. Lettera a W.T. Barry)
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