Archivio per Jihad
CARMAGEDDON
Posted in A volte ritornano, Masters of Universe with tags Esteri, Fanatismo religioso, Francia, Integralismo islamico, Islamismo, Jihad, Liberthalia, Nizza, Strage, Terrorismo on 15 luglio 2016 by SendivogiusCapirete lo sconcerto di quanti già pensavano ai figli malriusciti dell’integrazione, cresciuti all’ombra della religione della pace e ispirati dal verbo illuminato dei predicatori itineranti dell’integralismo hanbalita (quello che impropriamente chiamiamo “wahabita” ed estensivamente “salafita”); plagiati nelle madrasse europee (meglio se travestite da sedicenti “centri culturali”) generosamente finanziate dai petrodollari sauditi e qatarioti con la gaia incoscienza di chi foraggia il mostro sfuggito al controllo. Giusto per rispondere alla domanda retorica su chi alimenta il fondamentalismo islamico. Per la serie: “i grandi segreti di Pulcinella”.
Oriente e Occidente (III)
Posted in Kulturkampf with tags "Fedeli a Oltranza", Cultura, Esteri, Integralismo, Islam, Jama'at-i-Islami, Jihad, Letteratura, Liberthalia, Libri, Maulana Maudoodi, Mondo, Muhammad Zia-ul-Haq, Neo-Convertiti, Pakistan, Politically correct, Religione, Società, Vidiadhar Surajprasad Naipaul on 25 gennaio 2016 by SendivogiusPer cercare di comprendere l’Altro da ‘noi’, insieme alle diversità di una realtà globalizzata con le sue contraddizioni fluidificate nell’effetto farfalla delle stesse, forse non esiste interprete migliore di colui che, estraneo al contesto occidentale per provenienza, ne assorbe nell’intimo la specificità culturale, rielaborandone i concetti in visione critica e per certi versi maggiormente smaliziata rispetto all’originale. Esenti dal fardello dell’uomo bianco, sono osservatori privilegiati e totalmente immuni dai suoi sensi di colpa. E dal momento che l’esotismo costituisce per loro una categoria dello spirito squisitamente europea, per contro applicabile in senso inverso, non risentono dei retaggi del “buon selvaggio” che riconoscono per l’impostura di ciò che è: una mistificazione consumata nell’ipocrisia del suo razzismo mascherato. Ponti viventi tra culture diverse, ne conducono le antitesi verso una propria sintesi, in una prospettiva spesso più lungimirante e lucida perché non si preoccupa di essere pregiudiziale (e a volte lo è). Così come per loro natura sono
refrattari alle dittature dogmatiche del “politicamente corretto”, ovvero: quella castrazione semantica eletta a simbolo dell’impotenza di un certo ambito intellettuale, che rivisita gli stereotipi più odiosi per trarne una lettura altrettanto ottusa nel suo conformismo linguistico, che non risolve ma nega la sussistenza del problema, nell’anteposizione di un formalismo impotente rispetto alla sostanza.
Dello scrittore anglo-indo-trinidadiano V.H.Naipaul avevamo già parlato [QUI] a proposito della nevrosi primaria del “convertito”, nelle forme psicotiche della sua rottura culturale. Ma in tempi che si vorrebbero di “scontro di civiltà”, la lettura di Naipaul merita di essere riproposta, poiché nel delineare le tracce fondamentali dell’oltranzismo religioso, con la predominanza del “sacro” sul profano, come pochi altri riesce a distinguere la differenza che intercorre tra “stato islamico” e “stato musulmano” (con riferimento nello specifico al Pakistan), nel delineare la nascita di quella neoplasia maligna costituita dal diffondersi (organizzato) del cancro integralista:
«Quell’anno [il 1979 n.d.r], il paese aveva avuto il suo primo assaggio di terrore religioso sotto il generale Zia. Questi aveva fatto impiccare Alì Bhutto, l’uomo
del venerdì festivo; poi era andato alla Mecca per fare il pellegrinaggio minore, non quello completo, ma ciò nonostante era tornato con cento milioni di dollari elargitigli dai sauditi. In Pakistan gli uffici statali avevano l’obbligo di fermarsi per tutte le preghiere prescritte; camioncini di fustigatori islamici venivano mandati in giro a occuparsi dei colpevoli. La gente, intimorita, chinava la testa. Alcuni avevano la sensazione di non essere abbastanza pii; sentivano di doversi impegnare di più, sempre di più; e tutt’intorno a Raiwind, anche dopo le estasi nelle tende dei missionari, si potevano vedere sul ciglio della strada fedeli che continuavano a pregare.
[…]
Fra i pakistani che parlano inglese, i fondamentalisti erano soprannominati “fundos” ed erano ormai una presenza che, ancora dietro le quinte, premeva con forza crescente ed esigeva sempre di più. Il subcontinente indiano era stato sanguinosamente diviso per creare lo Stato del Pakistan. Milioni di persone erano morte, e molte altre erano state sradicate, da un lato e dall’altro delle nuove frontiere. Più di cento milioni di musulmani erano rimasti dalla parte indiana, ma praticamente tutti gli indù e i sikh erano stati cacciati dal Pakistan per dare vita all’entità politica interamente musulmana dell’astratto sogno poetico di Iqbal.Ciò avrebbe dovuto essere sufficiente. Ma i fondamentalisti volevano di più. Non bastava che questa grande fetta dell’antica terra avesse cessato, dopo millenni, di essere India e, come l’Iran, come i paesi arabi, fosse stata infine purgata delle religioni preesistenti. Ora gli abitanti stessi dovevano essere purgati del passato, di tutto ciò che negli abiti, negli atteggiamenti, nella cultura generale potesse collegarli alla loro patria ancestrale. I fondamentalisti volevano che tutti fossero puri e trasparenti, semplici recipienti vuoti in cui travasare la fede. Era impossibile: gli esseri umani non possono mai essere una tabula rasa. Ma i vari gruppi fondamentalisti si proponevano a modello di bontà e purezza. Si presentavano come veri credenti. Affermavano di seguire le regole antiche (soprattutto quelle riguardanti le donne); chiedevano agli altri di essere come loro e, dal momento che non c’era una concordanza assoluta sulle regole, di seguire le norme che loro seguivano.
Il più importante dei gruppi fondamentalisti era la Jama’at-i-Islami, l’Assemblea dell’Islam, fondata da un insegnante e propagandista religioso, Maulana Maudoodi. Prima della divisione del paese, questi si era opposto all’idea del Pakistan per strane ragioni. Quando nel 1930 il poeta Iqbal aveva sostenuto la causa di uno Stato musulmano indiano separato, aveva asserito che tale Stato avrebbe sbarazzato l’Islam indiano da quella «impronta che l’imperialismo arabo aveva dovuto conferirgli». Le aspirazioni di Maudoodi erano esattamente l’opposto. Pensava che uno Stato musulmano indiano sarebbe stato troppo limitato e avrebbe fatto ritenere che l’Islam avesse concluso il suo compito in India, mentre auspicava che l’Islam convertisse e abbracciasse l’India intera e conquistasse il mondo. Iqbal aveva affermato che una ragione importante per la creazione del Pakistan era che, come «forza di aggregazione popolare», l’Islam era stato più efficace in India che in altri paesi. Maudoodi non era d’accordo: a suo avviso, i musulmani del subcontinente e i loro esponenti politici non erano all’altezza di conseguire un obiettivo tanto prezioso quanto uno Stato integralmente islamico. La loro fede non era sufficientemente pura, era troppo contaminata dal passato indiano.
Maudoodi morì nel 1979. Ma la Jama’at persisteva nella convinzione che il popolo pakistano e i suoi governanti non fossero all’altezza. Se lo Stato islamico di Iqbal aveva avuto le sue disgrazie, non era colpa dell’Islam, ma di coloro che si definivano musulmani. Secondo il modo di pensare fondamentalista, questo tipo di fallimento si rivelava automaticamente per quello che era: il fallimento di un Islam falso o poco sentito. E la Jama’at poteva sempre sostenere, in un perenne rinnovarsi della causa, che dai tempi antichi l’Islam non era mai stato veramente realizzato e che era giunto il momento di farlo. La Jama’at avrebbe mostrato la via.
[…] Nel 1965 [Guerra indo-pakistana] il mullah che aveva aizzato i membri della sua congregazione mandandoli al fronte armati di bastoni se n’era restato al sicuro nella moschea. Non era compito suo combattere. A lui toccava infiammare gli animi, ricordando ai fedeli con tutta l’eloquenza e la passione di cui era capace il premio che avrebbero ricevuto partecipando alla “jihad” e gli orrori dell’inferno.
Era come il mullah, di cui avevo sentito parlare da qualcuno, che nel 1977 era stato arruolato, insieme ad altri mullah, per la campagna contro Alì Bhutto. Era basso e grasso, di aspetto per niente attraente, e aveva fama di essere infido, ma non aveva importanza: era un eccellente predicatore, dotato di una voce possente. A quel tempo vigeva il coprifuoco, che però veniva allentato (non poteva essere altrimenti) per le preghiere del venerdì. I fedeli che si recavano nella moschea del mullah non ascoltavano soltanto le preghiere, ma anche le storie edificanti di eroi e martiri dell’Islam, che il predicatore declamava con la sua celebre voce e la splendida arte oratoria. Incitava i presenti a dimostrarsi all’altezza del passato, a intraprendere la “jihad”, a non ignorare le forze del male che li circondavano. «Dite al nemico: ‘Prova le tue frecce su di noi, e noi proveremo il nostro petto contro le tue frecce’». Frasi che sembravano prese da un poema e pertanto suonavano autorevoli, anche se nessuno avrebbe saputo dire da dove erano tratte. In concreto non significavano niente, ma eccitavano gli ascoltatori; e alla fine delle preghiere del venerdì, il coprifuoco del povero Bhutto era di fatto inoperante. I fedeli si disperdevano col cuore gonfio di odio religioso, risoluti a guadagnarsi un altro po’ di merito in cielo spedendo Bhutto all’inferno. Poco contava che il mullah fosse infido e di moralità affatto dubbia. In realtà non si proponeva come guida: il suo compito, in quanto mullah, consisteva nel tenere sulla corda i convertiti e, se c’era bisogno di aizzarli, concentrare la loro attenzione sull’inferno e sul paradiso ricordando che, quando fosse giunta l’ora, solo Allah sarebbe stato il loro giudice. Questo era un aspetto dello Stato religioso (lo Stato creato per i soli convertiti, dove la fede non era una questione di coscienza individuale) che il poeta Iqbal non aveva mai preso in considerazione: questo tipo di Stato era sempre suscettibile di manipolazioni, facile da minare, pieno di pura e semplice disonestà.
Ma c’era qualcos’altro di cui Iqbal non aveva tenuto conto: nel nuovo Stato la natura della storia si sarebbe modificata e, indebolendosi il senso storico, la vita intellettuale del paese ne avrebbe inevitabilmente risentito. I mullah avrebbero sempre tenuto banco, limitando il desiderio di conoscenza. Così l’intera storia antica del paese perdeva di importanza. Nei libri scolastici di storia o di «educazione civica», la storia del Pakistan finiva per essere soltanto un capitolo della storia dell’Islam. Gli invasori musulmani, in particolare gli arabi, diventavano gli eroi della storia pakistana, mentre le popolazioni locali figuravano a malapena nel passato della propria terra, o al massimo comparivano come nullità spazzate via dagli agenti della fede. Così si fa scempio della storia. Una simile concezione si spiega solo in quanto rappresenta il punto di vista del convertito. La storia si trasforma in una specie di nevrosi. Troppe cose devono essere ignorate o presentate in maniera tendenziosa e molto è frutto della fantasia. Ma questa fantasia non è presente solo nei libri di scuola: è un fattore che influenza la vita di tutti.
[…] L’invenzione di un’ascendenza araba divenne ben presto generale. Tutte le famiglie l’adottarono. A sentire la gente, si direbbe che, prima, questa terra grande e meravigliosa non fosse altro che giungla selvaggia, dove non vivevano gli uomini. All’epoca della divisione dall’India tutto ciò è stato amplificato, compresa l’idea di non appartenere alla terra, bensì alla religione.»
V.S. Naipaul
“Fedeli ad oltranza.
Un viaggio tra i popoli
convertiti all’Islam”
Adelphi (Milano, 2001)
“Fedeli a oltranza” è un’opera fondamentale per capire il presente attraverso la conoscenza del passato (recente). Se volessimo ossere ‘retorici’, potremmo consigliarlo come testo scolastico. Più semplicemente ve ne raccomandiamo, se volete, l’acquisto (non potreste spendere meglio il vostro denaro per un costo abbordabilissimo) e ovviamente la lettura resa ancor più piacevole da una pregevolissima traduzione in italiano.
Homepage
SURVIVAL HORROR
Posted in Kulturkampf, Masters of Universe with tags Capre, Daesh, Europa, Fondamentalismo, Idioti, ISIS, Islam, Italia, Jihad, Liberthalia, Muslim Gang, Occidente, Roma, stato islamico on 26 novembre 2015 by SendivogiusDinanzi alla recrudescenza emergenziale creatasi attorno alle legittime aspirazioni del meraviglioso paese delle meraviglie ‘sharaitiche’ nella terra di Daesh e del magico Califfo di Baghdad, nella miope visione etnocentrica dei miscredenti d’Europa, ben pochi si sono interrogati sui tormenti e sui terribili patimenti che troppi spiriti puri, integralmente devoti alla legge del profeta, devono subire quotidianamente nella loro cattività europea, costretti come sono a subire le indicibili tentazioni dell’Occidente bieco e corrotto, vivendo nel terrore (quello vero) di poter essere in qualche modo contaminati da tanta empietà.
Per questo girano in ‘rete’ da tempo manualetti pratici con le fondamentali istruzioni su come “sopravvivere in Occidente”, riservati ai pii musulmani deportati a forza nelle terre degli infedeli per essere sottoposti ad ogni forma possibile di oppressione, in attesa di una prossima reconquista islamica.
Gli esperti di settore e specialisti in counter-insurgency vi diranno che si tratta di materiale difficilmente reperibile, abilmente nascosto nelle pieghe del “deep-web”. Infatti a noi ci sono voluti ben 45 secondi per trovare in blocco tutta la collezione al gran completo.
Si tratta di pubblicazioni propagandistiche, redatte a cura del sedicente “Stato Islamico”, e riservate ai propri militanti o aspiranti tali che si trovano a vivere per chissà quale alchimia del caso nelle nazioni popolate dai kuffar, ovvero chiunque (indistintamente dall’appartenenza religiosa) non sia abbastanza fanatico da rispondere con gioia ed abnegazione al grido di libertà che si leva alto da Raqqa. Ne esistono per tutti i gusti, confezionate con l’inconfondibile copertina nero catrame, e personalizzate per i mujaheddin fai-da-te a seconda del luogo di provenienza. Tra queste, la più gettonata sembra essere la premiata serie a puntate che va sotto il nome di “Black Flags” e che attualmente si compone di sei volumetti con tendenza alla crescita:
Black Flags from Khurasan (from the East)
Black Flags from Palestine
Black Flags from Syria
Black Flags from Arabia
Black Flags from Persia
Black Flags from Rome
Tutte insieme costituiscono opuscoletti imbarazzanti che raramente raggiungono il centinaio di pagine. Scritti in un inglese tanto approssimativo quanto elementare, sono un incredibile condensato di puttanate allucinanti, intrise di deliri mistici e profezie apocalittiche, speziate con qualche interpretazione coranica estrapolata dalla tradizione hanbalita e inzeppata nel mucchio con citazioni buttate ad cazzum di Ibn Taymmyya. Insomma, è un segno tangibile della modernità che avanza all’ombra della Mezzaluna..!
Avvincenti come un grappolo di emorroidi infiammate, narrano la storia futura e fantastica del prodigioso Dawla al-Islamiya, “la nazione più forte del mondo”, che non appena avrà vinto la sua guerra in Siria e conquistato lo Yemen, sommergerà coi propri vessilli neri e milioni di guerrieri la penisola arabica, per annunciare il ritorno del Mahdi ed instaurare il califfato mondiale: il Khilafah (l’aspetti). La proclamazione del lieto evento è prevista per il 2020 (segnatevelo sul calendario). E sostanzialmente dovrebbe coincidere con l’anno dello scontro finale, culminante nella grande battaglia di Dabiq quando un’armata di 100.000 ‘Romani’, unita sotto le bandiere di ottanta nazioni alleate coi persiani, affronterà l’esercito del Califfo dando inizio al Malhama al-Kubra (il Grande Armageddon) e terminerà con la conquista di Roma.
Le modalità di invasione, che dovrà partire dalla costa nordafricana, prevedono l’uso esclusivo di un’enorme flotta navale (senza alcuna forza aerea), che non risalirà la Penisola via terra ma si muoverà unicamente per mare prima del grande sbarco. Non sapendo bene dove sia collocata la città e ignorando tutto o quasi della geografia italiana, i nostri barbuti saraceni hanno cercato di farsene un’idea su Google Earth, scovando altresì una formidabile ridotta strategica dove allestire una solida testa di ponte da cui far partire l’offensiva finale. Come base per l’attacco è stata quindi scelta (immaginiamo dopo attenta valutazione) una imprecisata isoletta dell’Arcipelago toscano che sembrerebbe essere Giannutri, in quell’inespugnabile bastione difensivo che è il “Vecchio Faro”, con supporto di artiglieria direttamente dalla costa tunisina.
Il nome dell’isola non viene divulgato per ovvi motivi ‘strategici’..!
«Case study: Let’s take a look at Italy, it is likely that some Islamic fighters will depart from Tunis and go onto the Western islands neighbouring Italy. From there, they will enter the sea port….The picture of the il vecchio faro building is useful because it would give the fighters knowledge of the area/terrain, the building type, and how to use the building to their advantage etc. Once they capture that building, they can move forward deeper into Italy with more Google Earth satellite knowledge of the territory ahead.»
Sono letture demenziali, alla stregua dei “Diari di Turner“ per intenderci, e costituiscono il frutto perverso di una mente gravemente disturbata, pervasa com’è da una arcana imbecillità. Al confronto, l’opera di Fratello Mahdi sulle magnifiche sorti del Califfato in Siria costituiscono un raffinato capolavoro promozionale. E infatti il marocchino El Madhi Halili (questo il suo vero nome) è stato subito scarcerato e opportunamente premiato con il conferimento della cittadinanza italiana. Perché l’Italia sa come rintuzzare la minaccia “jihadista” confezionata in casa.
Il complesso di castronerie abissali, baggianate da citrullo esaltato, insieme alla totale assenza delle più elementare nozioni geografiche ed alla desolazione culturale che contraddistingue l’ignoranza assoluta di questi invasati caproni analfabeti, farebbe pensare ad una sorta di “fake”, perché una qualunque mente dotata di un minimo di raziocinio tende a dubitare che possano esistere davvero simili mandrie di imbecilli; almeno finché non li vedi all’opera…
Per quanto riguarda la messa in pratica di un così avvincente quadro profetico, insieme a tutto l’armamentario per la sopravvivenza della perfetta “cellula dormiente”, esistono poi altre pubblicazioni di natura più pratica, raccolte nella nuova serie “How to survive in the West“, con istruzioni su come organizzarsi, mimetizzarsi, e “sopravvivere” in Occidente. Si segnala allo scopo la fondamentale “Guida del Mujahid“ fresca di pubblicazione (2015).
Ad una prima sfogliata, ci si rende conto che molto probabilmente i testi sono stati redatti in Gran Bretagna o comunque destinati ad un pubblico lì residente. La particolare attenzione che viene prestata ai media britannici, con ritagli e commento dei giornali inglesi, insieme ai continui riferimenti ai London’s riots del 2011 sembrerebbe confermarlo. L’autore dovrebbe essere di origine africana, non foss’altro per la cura con cui ama distinguere tra “bianchi”, “neri”, e “marroni”, con pignola degradazione di colore quando parla di “razze”. Ordunque, per conquistare l’Europa (che il misterioso autore percepisce come un blocco unico) e dunque la sua capitale (che viene identificata con Roma), il segreto risiede nella costituzione di gangs di soli musulmani, che ovviamente sono the most peaceful citizens of the world.
La premessa è delle più accattivanti… Siccome molti cittadini di fede islamica hanno speso svariati milioni di euro per propagandare la propria religione con pacifici inviti alla conversione (Da’wah), e poiché questi impenitenti di europei miscredenti (imboccati dai loro leader e dai media) di convertirsi alla vera fede proprio non ne vogliono sapere, un simile diniego ha costretto ogni vero musulmano a radicalizzarsi. E questo rifiuto alla conversione, nonostante la generosa offerta, è il motivo per cui gli infedeli verranno sconfitti e Roma conquistata. L’autore ama utilizzare anche la parola “liberata” (?!?).
«Le persone che detengono il controllo dei media hanno tenuto l’Europa ed il mondo occidentale come loro roccaforte per oltre 1000 anni. E non vogliono che l’Islam prenda il sopravvento. Pertanto vogliono continuare ad avere la loro autorità, il loro adulterio, vino e denaro, e non vogliono perderli. Così stanno facendo una campagna mediatica con miliardi di dollari per contro lo Stato islamico in Medio Oriente, per fermare l’ascesa del vero islam in Occidente. Tutte i principali produttori di alcol, gioco d’azzardo e le aziende di prodotti proibiti (haram) stanno finanziando questo progetto, perché se l’islam sorgerà in Occidente sanno che perderanno qualsiasi cosa. È una questione di vita o di morte per entrambi, perché solo uno potrà sopravvivere.
L’ultimo messaggero di Allah, Muhammad (che la pace sia su di lui) ci ha promesso che vinceremo e, alla fine prenderemo la capitale d’Europa (Roma), ma solo dopo che avremo conquistato la Persia (Iran).»
Che dire?!? Viene in mente la battuta meglio riuscita di Jessica Rabbit…
“Non sono cattiva… è che mi disegnano così”
Peccato che riguardo all’aspetto, il paragone non sia esattamente lo stesso…
Per sopravvivere alle insopportabili persecuzioni che opprimono i credenti della “vera fede”, bisogna pertanto organizzarsi nell’attesa dell’inevitabile guerra che ne scaturirà.
È inutile dire che le fanfaronate dello stupracapre di turno raggiungono livelli unici, tanto è perso nella sua minchioneria senza speranza. Il Mujahid in incognito, prima della sua chiamata alle armi, dovrà agire alla stregua di un “agente segreto dalla doppia vita” al servizio della jihad globale. A suo modo costituisce una variante demente del mitico 007, ridotto ad una macchietta caprina che spreca il suo tempo a pregare col culo per aria; che non beve, non fuma, è votato al suicidio (il momento migliore della sua inutile esistenza) e che soprattutto non tromba mai. Il perfetto “agente” è un lupo solitario, un potenziale sociopatico senza amicizie né legami di sorta; più è giovane e meglio è (recruiting teenagers and children) perché più facile da indottrinare.
Tuttavia, alla luce dei recenti eventi parigini, qualche elemento può risultare interessante…
“La tua sola connessione con lo Stato islamico sarà di tipo ideologico…
Imparerai come diventare una cellula dormiente pronta per essere attivata in ogni momento, non appena la Umma avrà bisogno di voi… dimostrandoti molto più amichevole e di mentalità aperta col pubblico occidentale…”
Allo scopo sarà bene tenere la propria vera identità segreta e scegliersi un soprannome, meglio se occidentalizzato, camuffando il proprio aspetto. Tingersi i capelli, usare parrucche e lenti a contatto… può tornare utile. Ovviamente la parte più esilarante riguarda come acquisire tutte le competenze necessarie, riguardo alle tecniche di combattimento e su come usare le armi. Il nostro esperto in jihad consiglia di addestrarsi giocando a GTA e Modern Warfare della serie “Call of Duty”; sorvoliamo sul fatto che in quest’ultimo videogame il cattivone da annientare in giro per il mondo sia un gruppo integralista islamico, alleato con una fazione di ultra-nazionalisti russi.
Non mancano consigli su come fabbricare ordigni in casa, cinture esplosive per l’aspirante “martire”, ed autobombe. Le istruzioni sono talmente approssimative, che c’è il concreto rischio di saltare in aria con tutto il garage.
Un po’ più complesse sono invece le modalità per la conquista delle metropoli europee. Dopo attenta spremuta di meningi gli autori del manuale hanno trovato la soluzione, attraverso la costituzione di gang islamiche (usbah), poste sotto il comando di un capo che abbia il controllo di una specifica città o di un quartiere e sia in grado di assicurarsi la fedeltà e la crescita della banda. L’autorità ed il potere del capobanda verranno cementate dalla sua capacità di imporre la “protezione” su una data porzione di territorio, garantendo assicurando servizi e tranquillità ai suoi “protetti” dai quali pretenderà il pagamento di una tassa in denaro, mentre fornirà lavoro e benefici agli affiliati della gang in cambio di fedeltà. Il leader deve essere rispettato e temuto da tutta la società. Deve dimostrare di saper controllare il suo territorio, da amministrare come un’entità autosufficiente ed in grado di funzionare come uno stato nello stato. Il leader dovrà inoltre attrarre quante più persone nel circuito della propria organizzazione, al fine di aumentarne il sostegno e le coperture.
In pratica, il mujahid di casa nostra ha inventato la MAFIA. Sarà per questo che il principale ostacolo alla conquista di Roma, viene identificato proprio con l’esistenza della mafia italiana quale pericolosa rivale.
Poi certo il riferimento ideale è sempre il medioevo in un deserto popolate di capre consenzienti, nell’evoluto mondo dei clan tribali…
“A leader like this might be called a Tribal elder, a King, a President or a Caliph, while others will call him a Gang leader. The title doesn’t matter, what matters is he has Authority to enforce his commands over people.”
L’obiettivo è quello di creare una comunità chiusa ed isolata, che renda più difficile l’intervento della polizia o il controllo del territorio da parte delle istituzioni statali. La costituzione di quartieri ghetto a definizione etnica sarebbe l’ideale. L’autore li chiama “Tawahhush“ e devono essere basati su una rigida segregazione in modo da non avere “nessuna misericordia per gli esterni“, in quello che deve essere un lento processo di separazione con l’assunzione diretta del controllo del territorio. In altri frangenti si chiamerebbe razzismo, e pure della specie peggiore, in una totalitaria volontà di dominio (peraltro in casa altrui) e nel rigetto incondizionato di ogni forma di integrazione. Perché, secondo il principio alla base del Tawahhush, ogni patto, legge o convenzione, stipulata al di fuori della legge coranica e che non riconosca la sharia, non ha alcun valore ed è nullo agli occhi di allah. Ma non ditelo agli ostensori assoluti dell’accoglienza ad oltranza… potrebbero rimanerne sconvolti.
Allo stesso modo, tra persone di sano buonsenso (a prescindere dal credo e dalla provenienza), non dovremmo mostrare alcuna comprensione né “tolleranza” per le pretese di questi idioti pericolosi.
Homepage
SYRIANA (II)
Posted in Kulturkampf with tags Ahmad ben Muhammad ibn Hanbal, Al Haramain, Al Muntada Al Islami, Al Qaeda, Alfonso Maria Di Nola, Arabia Saudita, Boko Haram, Califfato, Cultura, Egitto, Fondamentalismo, Guerra, Hanbaliti, Hansan al-Banna, Ibn Qayyim al-Jawziyya, Ibn Taymiyya, Indonesia, Integralismo, Iraq, ISIS, Islam, Jafar Umar Thalib, Jahiliyya, Jihad, Kuwait, Laskar Jihad, Legge coranica, Liberthalia, Maometto, Medio Oriente, Muhammad ibn Abd al-Wahhab, Muhammad ibn Saud, Muhammad Qutb, Nigeria, Osama bin-Laden, Pakistan, Pensiero, Qatar, Raif Badawi, Religione, Salafiti, Salafiyya, Sayyid Qutb, Sharia, Shirk, Siria, Società, Storia, Sunna, Takfir wa l-Hijra, Takfiri, Terrorismo, USA, Wahabiti on 22 marzo 2015 by SendivogiusA suo tempo (era il 22/01/14), con una di quelle infelici metafore a sfondo sportivo che piacciono tanto ai politicanti quando vogliono galvanizzare l’elettorato, Barack Obama definì i tagliatori di teste dell’ISIS come la “riserva giovanile” di Al-Qaeda: una squadretta di alcun conto, composta da scartine facilmente contenibili.
Eliminato Osama bin-Laden, ospitato in tutta tranquillità a casa dall’Amico pakistano, sotto la munifica protezione dell’ISI, il buon Obama aveva davvero creduto (pessimamente consigliato) che, tagliata la testa del drago, avrebbe debellato per sempre la bestia del terrorismo islamico. Evidentemente, non aveva mai sentito parlare del mito dell’Idra di Lerna, altrimenti avrebbe compreso che certe ferite vanno immediatamente cauterizzate, onde prevenire il sopraggiungere di mali peggiori.
D’altronde, in nome della realpolitik, per lungo tempo si è sottovalutata la minaccia del fondamentalismo neo-salafita, paradossalmente nato come movimento riformista nel solco della tradizione. In realtà, il “salafismo”, nelle sue forme integraliste più estreme, non è spuntato fuori un ventennio fa, ma è attivo da almeno una dozzina di lustri, prima di diventare un problema più che tangibile…
Si era pensato (a torto) che il fervore religioso della rinascita salafita, opportunamente indirizzata, potesse essere utilizzata come strumento di contenimento dell’Iran degli ayatollah, convogliandone le azioni di disturbo contro l’Hezbollah libanese e, all’occorrenza, impiegata come forza destabilizzante nei confronti del (nazional)socialismo dei partiti Baath.
Nella logica dei blocchi contrapposti, i mujahiddin vennero visti dallo schieramento ‘atlantista’ come potenziali truppe pronto
impiego, sui fronti orientali della guerra fredda: una manovalanza a buon mercato di utili idioti, da usare come carne da cannone senza alcun rimpianto, nella convinzione del tutto errata che il fenomeno si sarebbe estinto da sé una volta esaurita la sua funzione d’uso.
Nonostante i danni prodotti da un madornale errore di valutazione di cui oggi si pagano le conseguenze, si è inizialmente pensato di perseverare nella pratica, applicando la stessa strategia alla Siria.
Infatti, l’antico giochino sembrava riproponibile anche nel caso del
conflitto siriano, per abbattere il regime di Bashar al-Assad, con il duplice obiettivo di galvanizzare le monarchie sunnite in funzione anti-sciita e soprattutto rafforzare la supremazia israeliana, scardinando ogni influenza russa o cinese in Medio Oriente tramite l’eliminazione del loro principale alleato. Il brillante risultato è stato quello di destabilizzare l’intera regione in una crisi di proporzioni mai viste.
Sennonché, la presenza di oltre 250 formazioni armate (potete farvene un’idea QUI con l’elenco al gran completo), a schiacciante preponderanza jihadista, censite dal Dipartimento di Stato sulle informative della CIA, ha indotto l’Amministrazione USA a ben più miti consigli e ad una doverosa prudenza che è sempre mancata in passato, specialmente se si pensa ai disastri prodotti in Iraq. Ma ormai il vaso di Pandora era stato già bello che scoperchiato…
Fu così che la salafiyya, da movimento marginale dell’immensa galassia musulmana, è finito col diventare preponderante, innaffiato com’è dai petrodollari delle monarchie del Golfo.
In fondo, il sedicente Califfato è solo un’estensione dilatata a dimensione internazionale del wahabismo saudita, perché a ben vedere tutte le strade del terrorismo islamico portano a Riyad e dintorni…
Da questo punto di vista, le orde nere dell’ISIS non hanno inventato proprio nulla. Niente che non sia già stato sperimentato con successo in Arabia Saudita.
La furia iconoclasta con la distruzione di monumenti e luoghi di culto, la persecuzione delle minoranze religiose all’insegna del più cupo oscurantismo fondamentalista, il corollario di decapitazioni, mutilazioni, lapidazioni, ed altri orrori medioevali, passando per gli effettacci gore da
porn-horror, coi quali il Dawla Islamiya ama deliziarci in concomitanza con l’apertura sensazionalistica dei notiziari, costituiscono da sempre parte integrante del panorama urbano e del brodo ‘culturale’ in cui la Casa degli al-Saud prepara la sua ricetta da esportazione. E ciò avviene secondo una strategia fin troppo collaudata, nel silenzio complice di un “Occidente” agganciato alle pompe di benzina.

L’aspirante Califfato di Iraq e Levante mira all’introduzione della Sharia, secondo la più rigida applicazione coranica, nell’interpretazione letterale dei testi e degli hadith del Profeta.
In Arabia Saudita è legge dello stato. E la pia autocrazia, con il suo record di esecuzioni capitali, può vantare l’applicazione della pena di morte (mediante decapitazione o lapidazione) per reati gravissimi quali l’omosessualità, l’adulterio, la blasfemia, l’apostasia (murtad), e ovviamente la stregoneria. Ma anche il possesso di libri proibiti (tipo la Bibbia), o l’apposizione di un “like-it” su una pubblicazione on line non ortodossa, può comportare una buona dose di scudisciate educative e, in caso di recidiva, conseguenze ben peggiori, come sta avendo modo di imparare Raif Badawi.
Ovviamente, tutti i procedimenti penali in questione non richiedono la presenza di alcuna forma di tutela legale; quanto meno non nel senso che noi siamo abituati a conferire al concetto.
Al confronto, l’ISIS è solo un allievo zelante che mira a scalzare il vecchio maestro, da cui ha appreso tutto e attinto le sue risorse. Semplicemente, le bande nere del califfato reputano inutile la presenza della dinastia saudita al potere, ma in sostanza la ricetta che propongono è la stessa; senza i costi ed i privilegi di una casa regnante, considerata (a buona ragione) irrimediabilmente corrotta nella sua presunzione di “purezza”.
Nel corso di mezzo secolo, le monarchie assolute della penisola arabica (Arabia Saudita, ma anche Kuwait, Bahrein e soprattutto Qatar) hanno sostenuto, foraggiato e protetto, ogni movimento
integralista radicale disponibile sulla piazza mondiale. L’ISIS è soltanto l’ennesimo mostro di Frankenstein, l’ultimo prodotto di una lunga serie, sfuggito al controllo occhiuto degli al-Saud e dei loro apprendisti stregoni…
Di solito funziona così: si finanziano e si costruiscono ovunque sia possibile moschee ed “istituti culturali” di ispirazione wahabita, per creare un retroterra religioso che sia favorevole alla penetrazione radicale, da sovrapporre (e soppiantare) alle comunità musulmane autoctone giudicate troppo secolarizzate o non abbastanza ‘devote’. Quindi si esportano imam e soprattutto predicatori itineranti, formatisi alla scuola hanbalita, trasformando le sale di preghiera così infiltrate in centri di propaganda e di reclutamento, le iniziative dei quali in genere hanno facile presa facendo leva sui bisogni degli strati più disagiati della popolazione. A tutti gli effetti è un esercizio di pressione politica, che agisce direttamente sulla società islamica livellata nelle sua diversità e ricchezza culturale, secondo un preciso progetto egemonico di pura miscela arabica.
Non è un caso che le ventate di recrudescenza integralista coincidano spesso e volentieri con l’attività di proselitismo della predicazione salafita su impostazione wahabita. I finanziamenti sauditi giungono quasi sempre attraverso il paravento di associazioni filantropiche o enti di beneficenza islamici, meglio se riuniti in charity trust, che funzionano come paravento indiretto per la copertura di transazioni non proprio limpide.
È per esempio il caso della Al Haramain, che fu molto attiva in Indonesia e per tutto il Sud-Est asiatico tra il 2001 ed il 2002, provvedendo a rifornire di fondi gli stragisti della Jemaah Islamiyah, che guadagnò la ribalta nelle cronache internazionali con l’ecatombe di Bali del 12/10/2002. E ciò avveniva in parallelo con le attività terroristiche di Laskar Jihad che si era inserita negli scontri etnici
nell’Arcipelago delle Molucche, conferendovi una dimensione tutta religiosa culminata nelle stragi di Giava e Timor Est. Se Laskar Jihad culturalmente si forma nelle madrasse pakistane di osservanza Deobandi, è tra gli ulema hanbaliti del Golfo che trova la giustificazione ‘morale’ per le sue azioni. Sarà
utile ricordare che Jafar Umar Thalib, fondatore della Laskar Jihad, si sia formato alla “Lipia” (succursale indonesiana della “Muhammad ibn Saud Islamic University” di Riyad, specializzata nella formazione di imam) ed abbia potuto continuare i suoi ‘studi’ in Pakistan grazie ad una borsa di studio del governo saudita.
In Nigeria, per passare a faccende più attuali, il famigerato gruppo di Boko Haram prima di darsi alla clandestinità armata ha ricevuto per anni aiuti e sostegno economico da Al Muntada Al Islami, un’associazione caritatevole saudita con sede a Londra.
Ma finanziamenti copiosi sono giunti anche al FIS algerino ai
tempi della guerra civile, ai salafiti di Ansar Dine e del MUJAO che tanto si sono distinti nella devastazione di Timbuctù in Mali, nonché alle “Corti Islamiche” degli shabaab della Somalia, dove ci si è premuniti di fornire macchinette per la corretta amputazione delle mani…
Perché il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Storicamente, il dominio della casa regnante saudita si fonda su un patto, stipulato intorno alla metà del XVIII°secolo, tra Muhammad ibn Saud, emiro di Diriyah, e Muhammad ibn Abd al-Wahhab: un chierico hanbalita, profondamente ispirato dal pensiero di Ibn Taymiyya.
Ibn Taymiyya (Taqī al-Dīn Abū al-Abbās Aḥmad), nato in Siria ad Harran nel 1263, era sostanzialmente avverso ad ogni innovazione che esulasse dall’interpretazione letterale del Corano; propugnava la rigida applicazione della sharia ed il ritorno all’ortodossia delle origini (VII secolo). I suoi insegnamenti vertevano sulla elaborazione dottrinale della tradizione islamica, ripulita da ogni incrostazione moderna e ripristinata nella sua purezza originaria (salaf). Soprattutto, predicava la ribellione contro “l’autorità ingiusta”, qualora questa non fosse conforme ai principi della legge coranica, che secondo il teologo non deve ammettere deroghe, né interpretazioni metaforiche.
Ibn Taymiyya è considerato inoltre il teologo della guerra santa, peraltro all’epoca più che giustificata visto che il mondo
musulmano si trovava ad affrontare le orde mongole di Hulagu Khan ad Est e le invasioni crociate ad Ovest. Al contempo, Taymiyya sosteneva una dura politica di intolleranza nei confronti di ebrei e cristiani, rifiutando l’idea di una possibile convivenza, se non sotto stretta sottomissione in cambio di protezione. Rifuggiva dal culto dei santi e rifiutava aspramente l’idea che le tombe dei maestri sufi potessero essere oggetto di devozione e di pellegrinaggio, essendo ritenuta la pratica in questione una forma di politeismo (shirk).
Le idee estreme, con la sua visione drasticamente conservatrice e chiusa della società islamica, non ebbero mai troppo successo, ed Ibn Taymiyya fu per questo duramente avversato dai suoi stessi contemporanei, che non ne condividevano affatto la rigidità di pensiero e soprattutto mal sopportavano la sua messa in discussione del principio di autorità.
La sua strenua opposizione al culto dei morti ed alla venerazione dei santi, considerate un’eresia da estirpare, viene condivisa appieno dal suo discepolo Ibn Qayyim al-Jawziyyah, che ne estremizza il concetto, predicando la completa distruzione dei “luoghi dello shirk” e di tutti gli “idoli”.
La fatwa di Ibn Qayyim è la più citata e amata dai distruttori di monumenti dell’ISIS e dagli imam radicali del Golfo, secondo i quali ogni luogo che anche lontanamente sia collegabile a culti diversi dall’Islam andrebbe raso al suolo (a partire dalle piramidi d’Egitto), insieme alla completa distruzione di ogni arte figurativa. Arte che per il pio musulmano non dovrebbe avere alcun valore, in quanto costituisce un’offesa alla vera fede, nella pretesa di volersi sostituire all’opera creatrice di Allah.
Ibn Taymiyya ed il suo discepolo Qayyim si formano entrambi nell’ambito della scuola hanbalita, fondata nel IX°secolo a Baghdad dal tradizionalista Ahmad ben Muhammad ibn Hanbal. Alla base della reazione tradizionalistica, gli “Hanbaliti” rappresentano una delle principali cinque scuole teologiche sull’interpretazione (non necessariamente ortodossa) del testo coranico. Ossessionati dal ritorno alla tradizione, possibilmente incarnata dai primi califfi, e dal ripristino di una purezza primigenea ritenuta perduta, i seguaci di Ahmad ibn Hanbal si affidano ad una interpretazione assolutamente letterale del messaggio coranico, supportata da migliaia di hadith fondati sulla parola dei primi compagni (saḥāba) del profeta. Pertanto rigettano ogni indagine personale, che sia basata sulla deduzione analogica o intellettuale dei testi i quali non vanno interpretati ma applicati. In tale prospettiva, condannano ogni tipo di innovazione culturale o forma di modernità (bid’a) considerate eresie perniciose da estirpare. Con l’avvento dell’Impero Ottomano, per il suo estremismo ascetico e rigorista, la scuola hanbalita viene costretta a posizioni sempre più marginali e minoritarie, sopravvivendo (ça va sans dire!) nelle zone orientali e interne della penisola arabica, dalle quali scaturirà in tempi più recente il movimento di Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1787d.C.), sul quale avremo modo di tornare in seguito con la pubblicazione di una monografia appositamente dedicata…
Ciò che in Occidente viene chiamato “wahabismo”, i teologi islamici lo definiscono “Muwahiddun”, ovvero “Unitaristi”, in quanto unici rappresentati della pura ortodossia sunnita. Gli insegnamenti di Abd al-Wahhab, che era un giurista della scuola hanbalita, sono raccolti nel Kitab al-Tawhid (“Libro dell’Unicità”).
«L’atteggiamento generale del teologo è la decisa opposizione contro ogni innovazione posteriore al III°secolo dell’Egira. Vanno respinti il culto dei santi ed i pellegrinaggi. Sono falsi tutti gli oggetti di adorazione, salvo Allah, e tutti gli altri che prestano culto ad altri sono degni di morte. La massa del genere umano non è monoteistica, perché è costituita da uomini che tentano di assicurarsi i favori divini, visitando le tombe dei santi.
[…] Costituisce incredulità professare una conoscenza non fondata sul Corano o sulla Sunna. Costituisce incredulità ed eresia il negare la divina predeterminazione di tutti gli atti, o adottare l’interpretazione allegorica del Corano. Il movimento divenne una vera e propria setta, che si distinse dagli hanbaliti.»Alfonso Di Nola
“L’Islam”
Newton Compton
(Roma, 2001)
Sono questi i pilastri istituzionali sui quali a tutt’oggi si fonda il ‘moderno’ regno saudita e che permea gran parte dell’immaginario religioso, dal quale attingono gli psicopatici dell’ISIS (e non solo..) per dare un rivestimento teologico ai loro deliri sanguinari.
Perpetrata nell’indifferenza generale, l’Arabia Saudita ha fatto della demolizione dei monumenti e delle stessa vestigia islamiche una pratica scientifica.
Moschea e cimitero di Jannat al-Baqi – prima e dopo l’arrivo dei sauditi
Non sono scampate al fervore iconoclasta dei wahabiti sauditi i mausolei ed i siti archeologici della prima propagazione islamica, che pure s’erano conservati intatti fino ad oggi, nel terrore potessero divenire meta di pellegrinaggi e oggetto di culto devozionale.
Jannat al-Mu’alla (Mausoleo di Khadija) – prima e dopo
Sono state spianate moschee ed interi cimiteri in cui erano sepolti i primi seguaci di Maometto. Alla devastazione non si è sottratta nemmeno la sepoltura e la casa di Khadija, la prima moglie del profeta. Per dire, da anni si discute se demolire o meno il sepolcro in cui sono sepolte le spoglie del Profeta Mohammad..!
E ci si meraviglia se poi le bande dei barbari della jihad permanente distruggono le tombe dei marabutti in Africa o devastano le testimonianze delle antiche civiltà mesopotamiche.
A sua volta, nel XX° secolo, il pensiero di Ibn Taymiyya ha ispirato gran parte del corpo ideologico degli attuali gruppi salafiti e soprattutto la potente organizzazione dei “Fratelli musulmani” degli intellettuali egiziani Hansan al-Banna e Sayyid Qutb. Entrambi sono stati avversati dai tradizionalisti più ortodossi, perché considerati troppo modernisti, per una serie di motivi che hanno fatto inorridire i chierici wahabiti: l’assoluta condanna della schiavitù, la tolleranza per le minoranze religiose, la proposta di ridistribuire le ricchezze ed introdurre forme di giustizia sociale all’interno della società islamica.
Se al-Banna aveva una spiccata simpatia per Adolf Hitler, il sofisticato Sayyid Qutb era un sessuofobo convintamente antisemita, ossessionato dall’estetica del martirio e teorico della jihad offensiva. Le idee di Sayyd Qutb non si estinguono con la sua esecuzione nel 1966 per una presunta cospirazione contro il presidente egiziano Nasser, ma vengono riprese e sviluppate da suo fratello minore Muhammad Qutb che, dopo aver trovato asilo e rifugio in Arabia Saudita, diventa professore di studi islamici presso
l’Università di Gedda. Tra i suoi allievi, si distinguono un certo Osama bin-Laden ed il medico egiziano Ayman al-Zawahiri (attuale capo di al-Qaeda).
In soldoni, il pensiero “qutbista” si può riassumere così…
Convinto di vivere nella Jahiliyya, l’era del peccato dell’uomo che vive nell’ignoranza di Allah, il vero fedele musulmano deve intraprendere una lotta senza quartiere (jihad),
possibilmente affidata ad avanguardie di spiriti puri, per la diffusione ed il trionfo dell’islam in tutto il mondo. Si intenda che la lotta in questione non è un concetto metaforico su astrazione intellettuale, ma una concreta mobilitazione armata per una guerra offensiva di conquista, per l’instaurazione globale della sharia (intesa come il massimo delle libertà) e rivolta contro tutti gli infedeli (takfir). Nelle forzatura estrema che ne traggono i salafiti, rientrano nella definizione di infedeli ed apostati, tutti coloro che non rispettano le leggi della sharia.
Massimamente vi rientrano i musulmani che non riconoscono l’autorità del califfo e non rispettano scrupolosamente i doveri religiosi, tra i quali la “guerra santa” e la predicazione costituiscono una priorità, cosa che comporta l’accusa di empietà (Takfir wa l-Hijra). Da qui l’inclinazione a colpire indiscriminatamente, senza fare distinzioni tra civili ed inermi, musulmani e non, a puro scopo punitivo: sono tutti peccatori.
Tuttavia, quando si parla dell’anomalia arabica e delle pericolose perversioni dell’ideologia salafita, per le dinoccolate democrazie occidentali il massimo scandalo sembra essere costituito dal divieto alle donne saudite di guidare il suv.
Homepage
Isl’Amico mon cheri
Posted in Kulturkampf, Muro del Pianto with tags Al Qaeda, Alessandro Di Battista, Attentati, Decapitazioni, Esecuzioni, Fanatismo religioso, Fondamentalismo, Fronte al-Nusra, Guerra, Integralismo islamico, Iraq, ISIS, Islam, Jihad, Khaled Sharrouf, Kharigiti, Liberthalia, Londra, M5S, Madrid, Manlio Di Stefano, Metropolitana, Mohammed Atta, Salafiti, Sgozzamento, Siria, Stazione di Atocha, Terrorismo on 17 agosto 2014 by Sendivogius
«Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. E’ triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche non violente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore.»
Alessandro Di Battista
(16/08/2014)
In tutta franchezza, abbiamo sempre dato per scontato che il ‘Dibba’ capisse più nulla che poco delle questioni sulle quali va blandamente fanfaronando, nella sua gaia incoscienza beotamente incontinente, mentre si sbrodola addosso in un allucinato pippone anti-americano, ovviamente pubblicato sul blog del ‘capo politico’. L’intero delirio lo potete leggere QUI.
Il belloccio della Setta a 5 stelle era più che altro famoso per le fotine piacione, con le quali ha disseminato il webbé esibendosi in pose plastiche. Ma la sua produzione ‘culturale’ non ha prezzo: dimostrazione empirica di come si può anche viaggiare per i quattro angoli del globo e continuare a rimanere il più minchione dell’intera piazzetta di Borgo Citrullo.
Di Battista è il falchetto spelacchiato del moVimento che mai avrebbe parlato con un Pierluigi Bersani e si è sempre dichiarato chiuso ad ogni rapporto col governo “golpista” del Bambino Matteo, ma è assolutamente pronto ad “intavolare una discussione” con le belve dell’ISIS, insieme a “tutti gli attori coinvolti”, ovvero i ‘terroristi’ del peggior fondamentalismo salafita.
Evidentemente ognuno si sceglie l’Interlocutore a sé più affine…
Nella declinazione temporale che ha condotto i tagliateste dell’ISIS ad impadronirsi di ampie aree centrali delle Mesopotamia, deve essere sfuggito al Dibba che il massiccio utilizzo dei droni da combattimento, con l’intervento armato su vasta scala dell’esercito statunitense, è avvenuto DOPO gli attentati dell’11/09/01.
Prima che Mohammed Atta e “martiri” al seguito si facessero esplodere sopra i cieli di NY e della Pennsylvania, in Iraq regnava ancora incontrastato Saddam Hussein ed il governo talebano dell’Afghanistan inviava sue delegazioni ‘commerciali’ negli USA in visita ufficiale.
Mohammed Atta, il capo del commando suicida, non era un fanatico beduino analfabeta, cresciuto in qualche villaggio sperduto nel deserto, ma un architetto egiziano di origine saudita, proveniente da una ricca famiglia cairota, che aveva studiato e vissuto in Germania. Come lui, gli altri attentatori appartenevano tutti alla privilegiata borghesia saudita e yemenita. La cogente motivazione dell’attacco risiedeva nell’esistenza di installazioni militari statunitensi in territorio saudita, giacché la presenza dei miscredenti è giudicata contaminante per la terra d’origine del Profeta.
Ma al lungimirante Di Battista non sarà certo sfuggito quanto gli attentati del 9/11 siano in realtà tutto un complotto del Bilderberg, organizzato con l’aiuto della CIA, come sicuramente sarà corso a spiegargli un Carlo Sibilia formatosi sulle opere di Giulietto Chiesa.
Allo stellato Giustificazionista, indecentemente defecato in parlamento, che considera un atto di difesa il terrorismo indiscriminato con le stragi esplosive in metropolitana, sarà bene ricordare gli illustri precedenti e come gli attentatori suicidi fossero tutt’altro che “ribelli” alla disperazione…
L’11 Marzo 2004, quando una cellula salafita di immigrati magrebini, in parte balordi di strada dediti alla delinquenza comune, si rese responsabile delle stragi alle stazioni dei treni di Madrid.
Il 07 Luglio 2005. Anglo-Pakistani di seconda generazione, e cittadini britannici a tutti gli effetti, apparentemente integrati e con buone occupazioni, sono stati gli autori degli attentati suicidi contro la metropolitana di Londra e la rete di trasporto pubblico.
A quanto pare, persino il terrore stragista è un lusso per ‘ricchi’, in cui la realtà tribale di miseri villaggi bombardati da “aerei telecomandati” rimane in massima parte o del tutto estranea, ad eccezione delle fantasie mitologiche del pentastellato mitomane.
In fondo, il buon Dibba sta solo provando a capire. All’occorrenza, ci spieghi questo…
Quella che il pargolo sorridente stringe a fatica tra le mani è una testa mozzata. Il bimbo, sette anni, è uno dei tre figli di tale Khaled Sharrouf, cittadino australiano, partito dalla terra dei canguri per partecipare alla jihad, portandosi dietro l’intera prole nel paradiso in terra che agli occhi di questi psicopatici deve rappresentare il costituendo “califfato” dell’ISIS.
Sharrouf fa parte delle migliaia (perché i numeri sono incerti) di francesi, britannici, belgi, statunitensi, australiani… partiti alla volta della Siria e dell’Iraq per partecipare alla “guerra santa”. Sarebbe curioso chiedere al buon Di Battista quali atroci sofferenze e terribili privazioni abbiano dovuto patire dalle democrazie occidentali nelle quali sono nati e cresciuti e dove, spesso e volentieri,
sono vissuti mantenuti a carico dei servizi sociali e sistemati in alloggi pubblici, prontamente messi a disposizione dagli esecrati infedeli. Ed è un fatto che tra i più fanatici tagliagole confluiti nell’ISIS si distinguano i neo-convertiti delle metropoli occidentali, ansiosi di dimostrare la loro devozione tramite la rescissione di ogni vincolo e appartenenza alla loro vita precedente, prima della conversione, ovvero un ritorno alla tradizione più intransigente.
Mohammed Elomar dall’Australia. Compagno di viaggio di Sharraf
La loro specialità sono le esecuzioni sommarie. E siccome da qualche parte
hanno letto che i corpi dei senza testa non entrano nei giardini di Allah, si dilettano senza posa a tagliare più teste che possono, immortalando le loro gesta in foto e filmini amatoriali, che corrono a caricare su internet per gli amici rimasti a casa. Tanto che delle imprese di simili “interlocutori” girano ormai da tempo immagini raccapriccianti, a tal punto da renderne difficile la divulgazione. In realtà, efferratezze e crudeltà non sono molto dissimili da quelle messe in atto dalle Zetas nel cristianissimo Messico, per ragioni completamente diverse, ma la metodica e indiscriminata gratuità degli orrori siro-iracheni ha forse qualcosa di ancor più perverso nel suo esibizionistico compiacimento barbarico.
ATTENZIONE! Le immagini, racchiuse nelle apposite icone segnalate, possono risultare repellenti o disturbanti, per un pubblico particolarmente sensibile o impressionabile al quale è sconsigliabile la visione. Le immagini in questione possono essere visualizzate con un click sull’icona contraddistinta; lo fate a vostro disgusto.