Archivio per Iraq
Rogue Nation
Posted in Masters of Universe, Risiko! with tags America Latina, Dittatura, Donald Trump, Esteri, Guerra, Imperialismo, Iran, Iraq, Liberthalia, Medio Oriente, Potere, Siria, USA on 6 gennaio 2020 by SendivogiusQual’è il colmo di uno “stato canaglia”, che ama immaginare se stesso come la patria della democrazia?
E ovviamente non poteva mancare l’ineffabile Matteo Salvini, il Capitan Mitraglia del fucile e rosario per tutti. Con ogni evidenza, tra nazisti ci si intende.
SYRIANA (II)
Posted in Kulturkampf with tags Ahmad ben Muhammad ibn Hanbal, Al Haramain, Al Muntada Al Islami, Al Qaeda, Alfonso Maria Di Nola, Arabia Saudita, Boko Haram, Califfato, Cultura, Egitto, Fondamentalismo, Guerra, Hanbaliti, Hansan al-Banna, Ibn Qayyim al-Jawziyya, Ibn Taymiyya, Indonesia, Integralismo, Iraq, ISIS, Islam, Jafar Umar Thalib, Jahiliyya, Jihad, Kuwait, Laskar Jihad, Legge coranica, Liberthalia, Maometto, Medio Oriente, Muhammad ibn Abd al-Wahhab, Muhammad ibn Saud, Muhammad Qutb, Nigeria, Osama bin-Laden, Pakistan, Pensiero, Qatar, Raif Badawi, Religione, Salafiti, Salafiyya, Sayyid Qutb, Sharia, Shirk, Siria, Società, Storia, Sunna, Takfir wa l-Hijra, Takfiri, Terrorismo, USA, Wahabiti on 22 marzo 2015 by SendivogiusA suo tempo (era il 22/01/14), con una di quelle infelici metafore a sfondo sportivo che piacciono tanto ai politicanti quando vogliono galvanizzare l’elettorato, Barack Obama definì i tagliatori di teste dell’ISIS come la “riserva giovanile” di Al-Qaeda: una squadretta di alcun conto, composta da scartine facilmente contenibili.
Eliminato Osama bin-Laden, ospitato in tutta tranquillità a casa dall’Amico pakistano, sotto la munifica protezione dell’ISI, il buon Obama aveva davvero creduto (pessimamente consigliato) che, tagliata la testa del drago, avrebbe debellato per sempre la bestia del terrorismo islamico. Evidentemente, non aveva mai sentito parlare del mito dell’Idra di Lerna, altrimenti avrebbe compreso che certe ferite vanno immediatamente cauterizzate, onde prevenire il sopraggiungere di mali peggiori.
D’altronde, in nome della realpolitik, per lungo tempo si è sottovalutata la minaccia del fondamentalismo neo-salafita, paradossalmente nato come movimento riformista nel solco della tradizione. In realtà, il “salafismo”, nelle sue forme integraliste più estreme, non è spuntato fuori un ventennio fa, ma è attivo da almeno una dozzina di lustri, prima di diventare un problema più che tangibile…
Si era pensato (a torto) che il fervore religioso della rinascita salafita, opportunamente indirizzata, potesse essere utilizzata come strumento di contenimento dell’Iran degli ayatollah, convogliandone le azioni di disturbo contro l’Hezbollah libanese e, all’occorrenza, impiegata come forza destabilizzante nei confronti del (nazional)socialismo dei partiti Baath.
Nella logica dei blocchi contrapposti, i mujahiddin vennero visti dallo schieramento ‘atlantista’ come potenziali truppe pronto
impiego, sui fronti orientali della guerra fredda: una manovalanza a buon mercato di utili idioti, da usare come carne da cannone senza alcun rimpianto, nella convinzione del tutto errata che il fenomeno si sarebbe estinto da sé una volta esaurita la sua funzione d’uso.
Nonostante i danni prodotti da un madornale errore di valutazione di cui oggi si pagano le conseguenze, si è inizialmente pensato di perseverare nella pratica, applicando la stessa strategia alla Siria.
Infatti, l’antico giochino sembrava riproponibile anche nel caso del
conflitto siriano, per abbattere il regime di Bashar al-Assad, con il duplice obiettivo di galvanizzare le monarchie sunnite in funzione anti-sciita e soprattutto rafforzare la supremazia israeliana, scardinando ogni influenza russa o cinese in Medio Oriente tramite l’eliminazione del loro principale alleato. Il brillante risultato è stato quello di destabilizzare l’intera regione in una crisi di proporzioni mai viste.
Sennonché, la presenza di oltre 250 formazioni armate (potete farvene un’idea QUI con l’elenco al gran completo), a schiacciante preponderanza jihadista, censite dal Dipartimento di Stato sulle informative della CIA, ha indotto l’Amministrazione USA a ben più miti consigli e ad una doverosa prudenza che è sempre mancata in passato, specialmente se si pensa ai disastri prodotti in Iraq. Ma ormai il vaso di Pandora era stato già bello che scoperchiato…
Fu così che la salafiyya, da movimento marginale dell’immensa galassia musulmana, è finito col diventare preponderante, innaffiato com’è dai petrodollari delle monarchie del Golfo.
In fondo, il sedicente Califfato è solo un’estensione dilatata a dimensione internazionale del wahabismo saudita, perché a ben vedere tutte le strade del terrorismo islamico portano a Riyad e dintorni…
Da questo punto di vista, le orde nere dell’ISIS non hanno inventato proprio nulla. Niente che non sia già stato sperimentato con successo in Arabia Saudita.
La furia iconoclasta con la distruzione di monumenti e luoghi di culto, la persecuzione delle minoranze religiose all’insegna del più cupo oscurantismo fondamentalista, il corollario di decapitazioni, mutilazioni, lapidazioni, ed altri orrori medioevali, passando per gli effettacci gore da
porn-horror, coi quali il Dawla Islamiya ama deliziarci in concomitanza con l’apertura sensazionalistica dei notiziari, costituiscono da sempre parte integrante del panorama urbano e del brodo ‘culturale’ in cui la Casa degli al-Saud prepara la sua ricetta da esportazione. E ciò avviene secondo una strategia fin troppo collaudata, nel silenzio complice di un “Occidente” agganciato alle pompe di benzina.

L’aspirante Califfato di Iraq e Levante mira all’introduzione della Sharia, secondo la più rigida applicazione coranica, nell’interpretazione letterale dei testi e degli hadith del Profeta.
In Arabia Saudita è legge dello stato. E la pia autocrazia, con il suo record di esecuzioni capitali, può vantare l’applicazione della pena di morte (mediante decapitazione o lapidazione) per reati gravissimi quali l’omosessualità, l’adulterio, la blasfemia, l’apostasia (murtad), e ovviamente la stregoneria. Ma anche il possesso di libri proibiti (tipo la Bibbia), o l’apposizione di un “like-it” su una pubblicazione on line non ortodossa, può comportare una buona dose di scudisciate educative e, in caso di recidiva, conseguenze ben peggiori, come sta avendo modo di imparare Raif Badawi.
Ovviamente, tutti i procedimenti penali in questione non richiedono la presenza di alcuna forma di tutela legale; quanto meno non nel senso che noi siamo abituati a conferire al concetto.
Al confronto, l’ISIS è solo un allievo zelante che mira a scalzare il vecchio maestro, da cui ha appreso tutto e attinto le sue risorse. Semplicemente, le bande nere del califfato reputano inutile la presenza della dinastia saudita al potere, ma in sostanza la ricetta che propongono è la stessa; senza i costi ed i privilegi di una casa regnante, considerata (a buona ragione) irrimediabilmente corrotta nella sua presunzione di “purezza”.
Nel corso di mezzo secolo, le monarchie assolute della penisola arabica (Arabia Saudita, ma anche Kuwait, Bahrein e soprattutto Qatar) hanno sostenuto, foraggiato e protetto, ogni movimento
integralista radicale disponibile sulla piazza mondiale. L’ISIS è soltanto l’ennesimo mostro di Frankenstein, l’ultimo prodotto di una lunga serie, sfuggito al controllo occhiuto degli al-Saud e dei loro apprendisti stregoni…
Di solito funziona così: si finanziano e si costruiscono ovunque sia possibile moschee ed “istituti culturali” di ispirazione wahabita, per creare un retroterra religioso che sia favorevole alla penetrazione radicale, da sovrapporre (e soppiantare) alle comunità musulmane autoctone giudicate troppo secolarizzate o non abbastanza ‘devote’. Quindi si esportano imam e soprattutto predicatori itineranti, formatisi alla scuola hanbalita, trasformando le sale di preghiera così infiltrate in centri di propaganda e di reclutamento, le iniziative dei quali in genere hanno facile presa facendo leva sui bisogni degli strati più disagiati della popolazione. A tutti gli effetti è un esercizio di pressione politica, che agisce direttamente sulla società islamica livellata nelle sua diversità e ricchezza culturale, secondo un preciso progetto egemonico di pura miscela arabica.
Non è un caso che le ventate di recrudescenza integralista coincidano spesso e volentieri con l’attività di proselitismo della predicazione salafita su impostazione wahabita. I finanziamenti sauditi giungono quasi sempre attraverso il paravento di associazioni filantropiche o enti di beneficenza islamici, meglio se riuniti in charity trust, che funzionano come paravento indiretto per la copertura di transazioni non proprio limpide.
È per esempio il caso della Al Haramain, che fu molto attiva in Indonesia e per tutto il Sud-Est asiatico tra il 2001 ed il 2002, provvedendo a rifornire di fondi gli stragisti della Jemaah Islamiyah, che guadagnò la ribalta nelle cronache internazionali con l’ecatombe di Bali del 12/10/2002. E ciò avveniva in parallelo con le attività terroristiche di Laskar Jihad che si era inserita negli scontri etnici
nell’Arcipelago delle Molucche, conferendovi una dimensione tutta religiosa culminata nelle stragi di Giava e Timor Est. Se Laskar Jihad culturalmente si forma nelle madrasse pakistane di osservanza Deobandi, è tra gli ulema hanbaliti del Golfo che trova la giustificazione ‘morale’ per le sue azioni. Sarà
utile ricordare che Jafar Umar Thalib, fondatore della Laskar Jihad, si sia formato alla “Lipia” (succursale indonesiana della “Muhammad ibn Saud Islamic University” di Riyad, specializzata nella formazione di imam) ed abbia potuto continuare i suoi ‘studi’ in Pakistan grazie ad una borsa di studio del governo saudita.
In Nigeria, per passare a faccende più attuali, il famigerato gruppo di Boko Haram prima di darsi alla clandestinità armata ha ricevuto per anni aiuti e sostegno economico da Al Muntada Al Islami, un’associazione caritatevole saudita con sede a Londra.
Ma finanziamenti copiosi sono giunti anche al FIS algerino ai
tempi della guerra civile, ai salafiti di Ansar Dine e del MUJAO che tanto si sono distinti nella devastazione di Timbuctù in Mali, nonché alle “Corti Islamiche” degli shabaab della Somalia, dove ci si è premuniti di fornire macchinette per la corretta amputazione delle mani…
Perché il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Storicamente, il dominio della casa regnante saudita si fonda su un patto, stipulato intorno alla metà del XVIII°secolo, tra Muhammad ibn Saud, emiro di Diriyah, e Muhammad ibn Abd al-Wahhab: un chierico hanbalita, profondamente ispirato dal pensiero di Ibn Taymiyya.
Ibn Taymiyya (Taqī al-Dīn Abū al-Abbās Aḥmad), nato in Siria ad Harran nel 1263, era sostanzialmente avverso ad ogni innovazione che esulasse dall’interpretazione letterale del Corano; propugnava la rigida applicazione della sharia ed il ritorno all’ortodossia delle origini (VII secolo). I suoi insegnamenti vertevano sulla elaborazione dottrinale della tradizione islamica, ripulita da ogni incrostazione moderna e ripristinata nella sua purezza originaria (salaf). Soprattutto, predicava la ribellione contro “l’autorità ingiusta”, qualora questa non fosse conforme ai principi della legge coranica, che secondo il teologo non deve ammettere deroghe, né interpretazioni metaforiche.
Ibn Taymiyya è considerato inoltre il teologo della guerra santa, peraltro all’epoca più che giustificata visto che il mondo
musulmano si trovava ad affrontare le orde mongole di Hulagu Khan ad Est e le invasioni crociate ad Ovest. Al contempo, Taymiyya sosteneva una dura politica di intolleranza nei confronti di ebrei e cristiani, rifiutando l’idea di una possibile convivenza, se non sotto stretta sottomissione in cambio di protezione. Rifuggiva dal culto dei santi e rifiutava aspramente l’idea che le tombe dei maestri sufi potessero essere oggetto di devozione e di pellegrinaggio, essendo ritenuta la pratica in questione una forma di politeismo (shirk).
Le idee estreme, con la sua visione drasticamente conservatrice e chiusa della società islamica, non ebbero mai troppo successo, ed Ibn Taymiyya fu per questo duramente avversato dai suoi stessi contemporanei, che non ne condividevano affatto la rigidità di pensiero e soprattutto mal sopportavano la sua messa in discussione del principio di autorità.
La sua strenua opposizione al culto dei morti ed alla venerazione dei santi, considerate un’eresia da estirpare, viene condivisa appieno dal suo discepolo Ibn Qayyim al-Jawziyyah, che ne estremizza il concetto, predicando la completa distruzione dei “luoghi dello shirk” e di tutti gli “idoli”.
La fatwa di Ibn Qayyim è la più citata e amata dai distruttori di monumenti dell’ISIS e dagli imam radicali del Golfo, secondo i quali ogni luogo che anche lontanamente sia collegabile a culti diversi dall’Islam andrebbe raso al suolo (a partire dalle piramidi d’Egitto), insieme alla completa distruzione di ogni arte figurativa. Arte che per il pio musulmano non dovrebbe avere alcun valore, in quanto costituisce un’offesa alla vera fede, nella pretesa di volersi sostituire all’opera creatrice di Allah.
Ibn Taymiyya ed il suo discepolo Qayyim si formano entrambi nell’ambito della scuola hanbalita, fondata nel IX°secolo a Baghdad dal tradizionalista Ahmad ben Muhammad ibn Hanbal. Alla base della reazione tradizionalistica, gli “Hanbaliti” rappresentano una delle principali cinque scuole teologiche sull’interpretazione (non necessariamente ortodossa) del testo coranico. Ossessionati dal ritorno alla tradizione, possibilmente incarnata dai primi califfi, e dal ripristino di una purezza primigenea ritenuta perduta, i seguaci di Ahmad ibn Hanbal si affidano ad una interpretazione assolutamente letterale del messaggio coranico, supportata da migliaia di hadith fondati sulla parola dei primi compagni (saḥāba) del profeta. Pertanto rigettano ogni indagine personale, che sia basata sulla deduzione analogica o intellettuale dei testi i quali non vanno interpretati ma applicati. In tale prospettiva, condannano ogni tipo di innovazione culturale o forma di modernità (bid’a) considerate eresie perniciose da estirpare. Con l’avvento dell’Impero Ottomano, per il suo estremismo ascetico e rigorista, la scuola hanbalita viene costretta a posizioni sempre più marginali e minoritarie, sopravvivendo (ça va sans dire!) nelle zone orientali e interne della penisola arabica, dalle quali scaturirà in tempi più recente il movimento di Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1787d.C.), sul quale avremo modo di tornare in seguito con la pubblicazione di una monografia appositamente dedicata…
Ciò che in Occidente viene chiamato “wahabismo”, i teologi islamici lo definiscono “Muwahiddun”, ovvero “Unitaristi”, in quanto unici rappresentati della pura ortodossia sunnita. Gli insegnamenti di Abd al-Wahhab, che era un giurista della scuola hanbalita, sono raccolti nel Kitab al-Tawhid (“Libro dell’Unicità”).
«L’atteggiamento generale del teologo è la decisa opposizione contro ogni innovazione posteriore al III°secolo dell’Egira. Vanno respinti il culto dei santi ed i pellegrinaggi. Sono falsi tutti gli oggetti di adorazione, salvo Allah, e tutti gli altri che prestano culto ad altri sono degni di morte. La massa del genere umano non è monoteistica, perché è costituita da uomini che tentano di assicurarsi i favori divini, visitando le tombe dei santi.
[…] Costituisce incredulità professare una conoscenza non fondata sul Corano o sulla Sunna. Costituisce incredulità ed eresia il negare la divina predeterminazione di tutti gli atti, o adottare l’interpretazione allegorica del Corano. Il movimento divenne una vera e propria setta, che si distinse dagli hanbaliti.»Alfonso Di Nola
“L’Islam”
Newton Compton
(Roma, 2001)
Sono questi i pilastri istituzionali sui quali a tutt’oggi si fonda il ‘moderno’ regno saudita e che permea gran parte dell’immaginario religioso, dal quale attingono gli psicopatici dell’ISIS (e non solo..) per dare un rivestimento teologico ai loro deliri sanguinari.
Perpetrata nell’indifferenza generale, l’Arabia Saudita ha fatto della demolizione dei monumenti e delle stessa vestigia islamiche una pratica scientifica.
Moschea e cimitero di Jannat al-Baqi – prima e dopo l’arrivo dei sauditi
Non sono scampate al fervore iconoclasta dei wahabiti sauditi i mausolei ed i siti archeologici della prima propagazione islamica, che pure s’erano conservati intatti fino ad oggi, nel terrore potessero divenire meta di pellegrinaggi e oggetto di culto devozionale.
Jannat al-Mu’alla (Mausoleo di Khadija) – prima e dopo
Sono state spianate moschee ed interi cimiteri in cui erano sepolti i primi seguaci di Maometto. Alla devastazione non si è sottratta nemmeno la sepoltura e la casa di Khadija, la prima moglie del profeta. Per dire, da anni si discute se demolire o meno il sepolcro in cui sono sepolte le spoglie del Profeta Mohammad..!
E ci si meraviglia se poi le bande dei barbari della jihad permanente distruggono le tombe dei marabutti in Africa o devastano le testimonianze delle antiche civiltà mesopotamiche.
A sua volta, nel XX° secolo, il pensiero di Ibn Taymiyya ha ispirato gran parte del corpo ideologico degli attuali gruppi salafiti e soprattutto la potente organizzazione dei “Fratelli musulmani” degli intellettuali egiziani Hansan al-Banna e Sayyid Qutb. Entrambi sono stati avversati dai tradizionalisti più ortodossi, perché considerati troppo modernisti, per una serie di motivi che hanno fatto inorridire i chierici wahabiti: l’assoluta condanna della schiavitù, la tolleranza per le minoranze religiose, la proposta di ridistribuire le ricchezze ed introdurre forme di giustizia sociale all’interno della società islamica.
Se al-Banna aveva una spiccata simpatia per Adolf Hitler, il sofisticato Sayyid Qutb era un sessuofobo convintamente antisemita, ossessionato dall’estetica del martirio e teorico della jihad offensiva. Le idee di Sayyd Qutb non si estinguono con la sua esecuzione nel 1966 per una presunta cospirazione contro il presidente egiziano Nasser, ma vengono riprese e sviluppate da suo fratello minore Muhammad Qutb che, dopo aver trovato asilo e rifugio in Arabia Saudita, diventa professore di studi islamici presso
l’Università di Gedda. Tra i suoi allievi, si distinguono un certo Osama bin-Laden ed il medico egiziano Ayman al-Zawahiri (attuale capo di al-Qaeda).
In soldoni, il pensiero “qutbista” si può riassumere così…
Convinto di vivere nella Jahiliyya, l’era del peccato dell’uomo che vive nell’ignoranza di Allah, il vero fedele musulmano deve intraprendere una lotta senza quartiere (jihad),
possibilmente affidata ad avanguardie di spiriti puri, per la diffusione ed il trionfo dell’islam in tutto il mondo. Si intenda che la lotta in questione non è un concetto metaforico su astrazione intellettuale, ma una concreta mobilitazione armata per una guerra offensiva di conquista, per l’instaurazione globale della sharia (intesa come il massimo delle libertà) e rivolta contro tutti gli infedeli (takfir). Nelle forzatura estrema che ne traggono i salafiti, rientrano nella definizione di infedeli ed apostati, tutti coloro che non rispettano le leggi della sharia.
Massimamente vi rientrano i musulmani che non riconoscono l’autorità del califfo e non rispettano scrupolosamente i doveri religiosi, tra i quali la “guerra santa” e la predicazione costituiscono una priorità, cosa che comporta l’accusa di empietà (Takfir wa l-Hijra). Da qui l’inclinazione a colpire indiscriminatamente, senza fare distinzioni tra civili ed inermi, musulmani e non, a puro scopo punitivo: sono tutti peccatori.
Tuttavia, quando si parla dell’anomalia arabica e delle pericolose perversioni dell’ideologia salafita, per le dinoccolate democrazie occidentali il massimo scandalo sembra essere costituito dal divieto alle donne saudite di guidare il suv.
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La Notte del Califfo
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Potevamo pertanto esimerci dal procurarci l’ultima spremuta di meningi degli stupra-cammelli dell’ISIS, nel vano tentativo di dare una parvenza ‘culturale’ alle loro alienazioni psicotiche?!?
Fu così che gli psicopatici in ciabatte e sottana al seguito del califfo nero, nella disperata ricerca di una qualche legittimazione presso le comunità musulmane in Italia, che evidentemente se li filano poco e per niente, decisero di estendere la loro opera di proselitismo pure nella lingua di Dante, magnificando le rivoluzianarie conquiste sociali del Dawla al-Islamiya, il sedicente “stato islamico”, ovvero: “una realtà che ti vorrebbe comunicare” (!?). E lo fa con una serie di dispense approssimative (come il titolo scelto), a metà tra l’opuscoletto propagandistico di una qualche setta religiosa ed un ciclostilato prodotto in proprio, per la promozione del manicomio autogestito di Raqqa in Siria (Al-Sham), a corto di tecnici e personale esperto (di cui ha disperato bisogno) in grado di far funzionare una qualunque struttura mediamente civile.
Il testo è a cura di tal “fratello Mahdi” su un’idea probabilmente tutta sua, vista la grafica imbarazzante ed i contenuti elementari che non superano il quoziente intellettivo di un bambino di otto anni.
In pratica, si tratta di un micro-bignami in cui si cerca di illustrare al meglio il funzionamento del califfato, attraverso 64 paginette assai scarne dalla grafica asettica e anonima come una stanza per le lobotomie. Ma al di là delle intenzioni, quello che si evince tra le righe è che:
a) l’ISIS (o Daesh, o ad-Dawla, o ISIL, comunque lo si voglia chiamare) sta pesantemente sul cazzo alla stragrande maggioranza dei musulmani che abitano nelle regioni mesopotamiche.
b) Chiunque può, siano medici o ingegneri, se ne tengono rigorosamente alla larga o scappano via appena se ne presenta l’occasione.
E l’autore proprio non se ne capacità, chiedendosi chissà mai perché…
E per tutti coloro che non sono d’accordo…
In compenso, la premessa dell’opuscolo è quasi accattivante; nei suoi passaggi migliori, ad essere perfidi, ricorda le elucubrazioni del ‘grillino’ tipo, in stato di esaltazione mistica, mentre annuncia l’avvento del mondo nuovo all’ombra di Gaia.
«In questo testo ho riportato alcune parti delle riviste ufficiali dello Stato Islamico aggiungendo foto dei servizi da loro offerti ai cittadini, ampliando il tutto con alcune informazioni che ho raccolto comunicando con i Mujahidin stessi ed alcuni cittadini […] Allah ci ordina nel Suo Libro di verificare le notizie, e questo processo dev’esser effettuato anche se la notizia giungesse da un Musulmano credibile ed affidabile. Perfino i Sahaba (che Allah si compiaccia di loro) dovevano verificare le notizie che giungevano dai loro stessi compagni e quindi immaginiamoci come dovremmo adempiere a quest’obbligo!»
Il “cittadino informato” che disprezza i media e, appena gliene capitano qualcuno a tiro, decapita i giornalisti “servi del regime”. Insomma, è l’ennesima di un classico dell’informazione alternativa, confezionata in casa.
Perché, come dice il profeta Maometto, il dubbio e l’illazione in molti casi costituiscono peccato.
“Sappi che anche se le accuse infondate che hai ascoltato magari da qualche sapiente fossero vere, questo non ti permetterebbe di condannare i Mujahidin.”
Mahdi brother ci tiene a ribadire che il califfato è e deve a tutti gli effetti essere considerato uno ‘stato’, certificato a misura di sharia, proprio come doveva essere la prima comunità maomettana nel VII° secolo, ma con l’aggiunta del Kalashnikov e dello smartphone per poter postare in rete i filmini amatoriali, con le decapitazioni di Jihadi-John e l’orgia di mannaie brandite da troppe mani sottratte alla masturbazione compulsiva. Insh’allah.
Nella sua testolina bacata, Mahdi intuisce comunque che uno stato, per potersi definire tale, ha bisogno comunque di un minimo di struttura organizzata su base economica, che sappia garantire il mantenimento di una serie di servizi minimi. Ovviamente, nel caso del califfato, i risultati hanno effetti esilaranti…
Dunque, per quanto riguarda la moneta, il califfato prevede “il ritorno del Dinar e del sistema economico sulla metodologia profetica”. Il riferimento è all’antico denarius dell’Impero romano: per inciso era la moneta in vigore ai tempi di Maometto e che il profeta presumibilmente usava. Quindi è in linea coi dettami della sharia.
Con raro slancio rivoluzionario, all’insegna della più audace modernità,
«lo Stato Islamico si sta preparando per un ulteriore progresso in shaa Allah: verrà riadottato in maniera completa il sistema economico finanziario adoperato dai Califfi che ci sono stati precedentemente.»
Il valore della “nuova” moneta verrà basato sul gold-standard, che agli Isl’Amici sembra una novità rivoluzionaria. Ragionando per assurdo su una base di presunta normalità, sorvoliamo sul fatto di come un sedicente ‘stato’ che non produce ed esporta nulla pensa di gestire i deficit commerciali nella bilancia dei pagamenti, per giunta in un sistema di cambi fissi, contenendo le spinte deflattive senza incidere sui prezzi al consumo. Sorvoliamo soprattutto dove gli Isl’Amici pensino di procurarsi milioni di tonnellate dell’oro necessario per il conio delle monete e la creazione di una congrua riserva aurea. E per questo gli imperatori alteravano la quantità di fino presente nella moneta, determinandone la svalutazione.
Per gli Isl’amici del califfato l’introduzione del gold-standard è la soluzione definitiva all’inflazione, alla povertà, ed alle basse retribuzioni. In pratica, sono tutti i motivi per cui il sistema aureo è stato abbandonato senza troppi rimpianti.
Ma in fondo si tratta di un problema secondario, perché la stabilità fiscale (chiamiamola così) del Dawla al-Islamiya si fonda su due istituzioni fondamentali, ovviamente in conformità con la legge coranica: il saccheggio (Fay’) e la rapina (Ghanina), in aggiunta alle estorsioni ed ai sequestri di persona a scopo di riscatto.
Per fortuna, “tra i bottini di guerra dell’esercito dello Stato Islamico ci sono anche raffinerie di petrolio e centrali di gas”.
Con la scusa della raccolta della zaqat (l’elemosina), per l’approvvigionamento alimentare vengono invece imposte requisizioni forzate, con la raccolta di beni in natura.
«Come detto in precedenza, sono stati distribuiti in giro per i territori controllati dal Dawla al-Islamiya alcuni responsabili per la raccolta della Zaqat. I residenti, precedentemente informati del loro passaggio per la raccolta, pongono volontariamente davanti alle moschee dei villaggi i loro raccolti.»
È facile intuire quanto l’offerta sia “volontaria”…
E infatti, a scanso di equivoci, viene subito precisato:
“Questo tipo di dovere è fard ‘ayn, cioè obbligatorio su ogni singolo Musulmano maturo e sano”
Gente “matura e sana” che sembra uscita da una galleria lombrosiana
Nel complesso, grazie a questi sofisticati sistemi di finanziamento, l’ISIL può stipendiare le sue bande mercenarie di tagliagole, reclutate tra alienati falliti e psicopatici di tutto il mondo, e supportare alcuni servizi imprescindibili, a cura del “Comitato islamico” di Raqqa.
Per esempio c’è “l’Ufficio della Protezione del Consumatore”, per il controllo delle condizioni igieniche della conservazione degli alimenti: che costituisce davvero una novità assoluta che non ha eguali nel mondo civilizzato, che adesso guarda con invidia ad una così incredibile innovazione.
Non ci crederete, ma si tratta di un “ufficio che si occupa della protezione degli acquirenti, facciamo effettuare ispezioni dei beni che vengono venduti nei negozi, mercati e centri commerciali andando a risalire eventualmente a prodotti rovinati o non opportuni alla vendita”.
Operativo su un territorio grande grossomodo come la Gran Bretagna, per assolvere ai suoi compito, l’Ufficio può dispiegare un esercito di 12 (dodici!) ispettori, nei quali sono ovviamente compresi anche la “squadra medica” (si chiamerebbero ‘veterinari’, ma vabbé!) ed i telefonisti dell’ufficio reclami.
Invece, per il corretto funzionamento della macchina giudiziaria,
«lo Stato ha sempre dato il massimo per applicare la Legge di Allah sui territori da esso controllati; dal 2006 i Musulmani hanno assistito ai hudud (punizioni regolate dalla Shari’a) applicati nelle città dell’Iraq e in seguito nello Sham.»
Grazie all’istituzione di appositi tribunali religiosi, i fortunati
sudditi che hanno il privilegio di vivere “nei territori controllati dallo Sheykh Abu Bakr al-Baghdadi” possono godere di una giustizia rapida e certa, col solito corollario di esecuzioni medievali: lapidazione per le adultere; decapitazioni per gli apostati; crocifissioni, prigionieri di guerra bruciati vivi…
Soprattutto si segnala l’introduzione di un nuovo appassionante gioco: il lancio del ‘finocchio’ dalla torre. Un modo originale per giustiziare gli omosessuali. E finirli a sassate, se malauguratamente dovessero sopravvivere.
“Questa è la politica dello Stato Islamico: chiara e pulita in sha Allah”
Per la bisogna, sono stati istituiti “organi di polizia differenti per poter esercitare il potere esecutivo”.
Per esempio, c’è la “Shurtat murur, polizia organizzata per la gestione della circolazione del traffico”. ‘Azzo! Lo stato islamico ha inventato i vigili urbani! Ci brillano gli occhi, mentre vibriamo per cotanta emozione.
Soprattutto, ben più importante, c’è la Hisba:
“una tipologia di polizia Islamica atta ad ordinare il bene e proibire il male”
E, inshallah, di cosa si occupa esattamente la Hisba?
«Uno dei compiti più importanti della Hisba è quello di eliminare qualsiasi forma di Shirk dai territori controllati dallo Stato Islamico, in modo tale da rendere il culto solo ad Allah.
A questo scopo la Hisba procede a distruggere qualsiasi tempio o tomba in cui viene adorato qualcun altro all’infuori di Allah, informando prima i Musulmani sull’importanza di quest’obbligo Islamico e chiarendo il tutto con le prove contenute nel Corano e nella Sunna.»
La distruzione dei santuari religiosi, delle moschee sciite, delle chiese cristiane, di monumenti millenari, in aggiunta al rogo delle biblioteche ed alla devastazione delle opere d’arte, rientra per l’appunto nelle importanti mansioni di così rispettabile istituzione.
Perché come dice il saggio Ibn Qayyim al-Jawziyya:
“Non è lecito far rimanere i luoghi dello Shirk e degli idoli neanche per un solo giorno se si ha la possibilità di distruggerli.”
Tuttavia, la vera piaga che sembra affliggere i territori del califfo e che l’Hisbah è chiamata a combattere costantemente in realtà e la stregoneria (non è uno scherzo!):
«Tra le varie forme della Fitna che han danneggiato la Comunità Islamica vi è lo Sihr (magia), un grave pericolo per la Ummah che, per grazia di Allah, sta scomparendo gradualmente nei territori controllati dallo Stato Islamico.
Con il permesso di Allah, dopo aver investigato sul caso si risale al luogo dove sono state preparate o nascoste le opere del mago e si procede con il sequestro del materiale e con l’applicazione della Shari’a sul criminale.
In seguito all’investigazione e al giudizio del criminale vengono mostrati in pubblico i suoi misfatti e si citano le prove nella Sunna profetica per cui egli deve esser giustiziato.»
Ovviamente, per un così formidabile reato, la pena prevista è la morte per decapitazione.
Ma al contempo, tra un’esecuzione e l’altra, ci si preoccupa molto anche della salute dei propri cittadini, attraverso la persecuzione dello spaccio di “sostanze intossicanti” (tanto non ne hanno bisogno: sono già pazzi di loro) e la repressione del tabagismo.
«Lo Stato Islamico non si limita solamente a proibire e distruggere le sostanze intossicanti ma aiuta anche i suoi cittadini a capire che bisogna allontanarsi da ciò che Allah odia e avvicinarsi a ciò che Lo compiace. Per questo fine sono state create in giro per le città nell’Iraq e nel Levante delle graziose grafiche di propaganda contro tali sostanze.»
Sì, sono bellissime senza dubbio: solo un bimbo idrocefalo di due anni potrebbe far di meglio!
«Oltre ad ordinare il bene queste grafiche migliorano anche il look dei quartieri dando loro un aspetto puramente islamico.»
Perché il decoro è importante, meglio ancora se sharia-correct.
E l’autore ci tiene a ribadire il concetto:
«In questo testo è stato ripetuto decine di volte il termine “Stato” perché appunto ad-Dawla al-Islamiya è un vero e proprio stato per grazia di Allah, e uno stato necessita di infrastrutture efficienti al servizio dei suoi cittadini, così anche ad-Dawla al-Islamiya provvede a costruire, ristrutturare, pulire e anche abbellire le sue strade e generalmente i suoi quartieri.»
Il califfato provvede a pulire le strade e svuotare i bidoni dell’immondizia. Soprattutto provvede ad abbellire le città come pochi altri sanno fare…
«Passiamo in shaa Allah a vedere nel prossimo capitolo come ad-Dawla cura i suoi quartieri e le sue strade con fantastiche grafiche islamiche rispettanti i limiti definiti da Qur’an e Sunnah.»
E queste sono alcune delle “fantastiche grafiche islamiche”..!
Dite la verità: chi non vorrebbe avere simili capolavori dipinti sul muro di casa?!?
Nella monotonia del panorama urbano, certi originali tocchi di stile lasciano uno strano senso di non so che…
Ed in effetti il sovraffollamento delle carceri sembra essere l’ultimo dei problemi del califfato: un posto sicuro dove crescere i propri pargoli liberi e sani, al riparo dalle tentazioni, con una istruzione adeguata…
«Nel Dawla tutti ricevono istruzione, di tipo religioso o formativo per una professione, che sia il Musulmano giovane o meno giovane, maschio o femmina. È il primo stato veramente Islamico anche dal punto di vista dell’istruzione: ad-Dawla al-Islamiya ha modificato e ritoccato tutti i programmi delle varie scuole in modo che non venga insegnato nulla che vada contro i principi Islamici.»
Pertanto, è stato proibito l’insegnamento di materie inutili che traviano la mente dei giovani, come per esempio la filosofia, la musica, la storia dell’arte, il disegno, e gran parte delle materie umanistiche o altre cose abiette come la poesia, la sociologia, la psicologia, le scienze politiche.
Per quel che riguarda l’apprendimento delle materie scientifiche, circola una nuova teoria destinata a rivoluzionare la didattica: la terra è ferma e non gira attorno al sole.
In quanto alla libertà delle donne ed al rispetto della dignità femminile:
“La donna dal punto di vista islamico è considerata una regina, un gioiello da preservare”
Per questo viene seppellita viva sotto un sudario di stracci neri.
A vigilare sulla moralità dei costumi femminili, provvede la brigata al-Kansaa che gestisce tra l’altro i bordelli in cui vengono stuprate le prigioniere Yazide, a proposito di quella storia del “gioiello da preservare”.
In quanto allo spirito che pervade il nuovo “stato islamico” non ci sono dubbi:
«La strategia dello Sheykh Ibrahim al-Badri (Abu Bakr al-Baghdadi – che Allah lo protegga) è quella di pulire la Terra dai tiranni e la loro idolatria democratica, creare le fondamenta di uno stato e costruire la sua struttura, tutto ciò con il Corano che guida e la spada che supporta.»
Adesso ci sentiamo molto più tranquilli: le solite demo-plutocrazie giudaiche!
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DURA MINGA!
Posted in Muro del Pianto, Risiko! with tags Alessandro Di Battista, Armi, Califfato, Carlo Sibilia, Esercito, Esteri, Governo, Guerra, Imbecilli, Iraq, ISIS, Italia, Kurdistan, Liberthalia, M5S, Manlio Di Stefano, Medio Oriente, Mondo, Munizionamento, ONU, Paolo Becchi, PD, Peshmerga, SEL, Siria, USA on 22 agosto 2014 by SendivogiusIl proliferare di cinguettii virtuali via Twitter, di castronerie digitalizzate a mezzo f/b, e di tutto il variopinto campionario di corbellerie variamente assortite, che impazzano senza posa su Siria e Iraq e dintorni, ci insegna fondamentalmente tre cose:
1) che tra i rappresentanti del popolo supino la lingua corre di gran lunga più veloce del pensiero, nell’ansia da dichiarazioni in deficit di prestazioni;
2) che la competenza in materia è inversamente proporzionale alla mole di chiacchiere, con le quali si va sproloquiando in libertà;
3) che una stronzata tira l’altra e che smarrito ogni minimo senso del ridicolo (e finanche del pudore!) si persiste imperterriti nel ribadire la medesima, quasi che la ripetizione possa coprirne l’olezzo, in un mondo che con ogni evidenza ha smarrito le virtù del silenzio.
A termini inversi, per parafrasare un celebre aforisma di Woody Allen, si può dire che un imbecille può dire di tutto, senza timore alcuno di smentita. La sua reputazione ne resterà comunque intatta.
Di conseguenza, i rancidi frullati di geopolitica domestica dispensati dal Dibba, le allucinazioni fantapolitiche di un Manlio Di Stefano, i pensierini minimali del prof. Becchi (lo specchio del degrado accademico italiano), fino all’immancabile Carlo Sibilia, che come uno scolaretto inetto sbaglia la lezioncina antropologica imparata a memoria e scambia i misteriosi “Kaka’i” con i fantomatici “Cagai” (forse un lapsus in riferimento alla sua inesauribile produzione scatologica), nel fondo del loro letamaio certificato a 5 stelle, non fanno altro che confermare la fondamentale distinzione insita nella categoria di riferimento, tra imbecilli profondi ed imbecilli superficiali.
Ai posteri l’ardua sentenza…
Ma la categoria in oggetto è tanto numerosa quanto trasversale. E la cacofonia scatenata attorno all’invio di “armamenti leggeri” e relativo “munizionamento” ai peshmerga curdi, sta lì a dimostrarne tutta l’insipienza.
Le armi che il governo italiano si impegna ad inviare sono scarti di produzione post-sovietica sequestrati tra il 1992 ed il 1995, durante il conflitto nella ex Jugoslavia. Si tratta di vecchi kalashnikov assemblati con pezzi scadenti (e per questo chiamati ‘kalakov’), stoccati per oltre un ventennio in bunker seminterrati in vecchie ‘polveriere’ male impermeabilizzate dell’Esercito, prevalentemente in Piemonte (dalle parti del Sestriere), e lì dimenticate. Ignorano i ministri Mogherini e Pinotti, e massimamente il ciarliero Telemaco, che dopo 20 anni il “munizionamento” si deteriora diventando inservibile. E lo stesso accade per i fucili mitragliatori che, senza un’adeguata manutenzione e oliatura, rischiano di diventare un pericoloso giocattolo nelle mani di chi li usa. Di solito, le prestazioni non sono delle migliori…
Le forniture in questione dovranno, legittimamente, passare prima per Baghdad. E possiamo dire con discreta certezza che ai combattenti curdi di Kirkuk non arriveranno mai, o comunque saranno consegnate con ampio ritardo e in numero ridotto. Cosa del resto già avvenuta, nel caso dei ben più efficienti e moderni armamenti che lo USArmy aveva lasciato in abbondanza nelle disposizioni del governo iracheno, il quale si è guardato bene dal fornire il materiale bellico all’amministrazione autonomista del Kurdistan, preferendo piuttosto ammucchiare le dotazioni militari in depositi lasciati poi incustoditi al saccheggio dell’ISIS che adesso può contare su forniture di primissima scelta. Dunque, tanto rumore per nulla. O poco più.
In alternativa, la proposta pentastellata verte sulla “disponibilità a fornire equipaggiamenti non letali a protezione della vita umana”… Ovvero sia giubbotti antiproiettile (tanto scomodi quanto totalmente inutili contro un calibro 7,62 mm, che poi è il munizionamento standard di un comune kalashnikov) ed elmetti (non è dato sapere se in kevlar, o vecchi caschetti in disuso risalenti al 1970), fondamentali per respingere un attacco in forze dei massacratori dell’ISIS!
Si aggiunga “l’apertura di corridoi umanitari, il ripristino delle forniture di acqua potabile” che non si capisce bene come e da chi dovranno essere garantiti e soprattutto difesi (a sassate?!?); insieme “ad una iniziativa internazionale per il cessate il fuoco”, che di fatto coinvolgerebbe ed implicherebbe un riconoscimento internazionale ed una legittimazione legale alle bande di tagliateste e stupratori che scorrazzano indisturbate nel sedicente Califfato salafita (geniale!), perché come dice l’onorevole Manlio Di Stefano: “serve rispetto per capire l’ISIS”.
Diversamente, bisogna coinvolgere l’ONU e chiedere l’intervento di una forza internazionale di interposizione, vale a dire i “caschi blu” dei quali si
ricorda la proverbiale determinazione e l’efficacia dimostrata a suo tempo nel grande mattatoio bosniaco. Quest’ultima trovata è scaturita dalla fantasia delle animelle belle di SEL, che per non diventare una “costola del PD” si sono ridotte ad andare a rimorchio (per giunta senza alcuna contropartita) della Setta pentastellata, subendone supinamente l’iniziativa in un
cascame di sterili distinguo. E si ignora che i famosi “caschi blu” altro non sono che soldati professionista con l’elmetto coperto da una calottina turchese ed i blindati da combattimento verniciati di bianco, imbrigliati in una inefficiente e rissosa (tante sono le nazionalità) catena di comando.
Ma un coinvolgimento delle Nazioni Unite, con mobilitazione del Consiglio di sicurezza e di interminabili “tavoli di discussione” dove nulla mai si decide tra i veti incrociati, avrebbe il duplice vantaggio di posticipare sine die ogni decisione rendendo inutile qualsivoglia intervento. Ad essere ottimisti, si rimanderà tutto da qui a sei mesi. A quel punto, “in IRAQ e in Siria le minoranze perseguitate, non sono solo quelle cristiane ma anche quelle di yazidi, shabak, bahá’í, armeni, comunità di colore, circassi, Kaka’i, kurdi faili, palestinesi, rom, turkmeni, mandei sabei” cesseranno di esistere del tutto. E quindi non si porrà più l’annoso problema della loro protezione. E potremo così continuare a baloccarci con qualche altra polemica su f/b tipo le presunte censure omofobe della Barilla o le cretinate di un Tavecchio. Sicuramente molto più rassicuranti nel nulla che nasconde l’abisso.
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Isl’Amico mon cheri
Posted in Kulturkampf, Muro del Pianto with tags Al Qaeda, Alessandro Di Battista, Attentati, Decapitazioni, Esecuzioni, Fanatismo religioso, Fondamentalismo, Fronte al-Nusra, Guerra, Integralismo islamico, Iraq, ISIS, Islam, Jihad, Khaled Sharrouf, Kharigiti, Liberthalia, Londra, M5S, Madrid, Manlio Di Stefano, Metropolitana, Mohammed Atta, Salafiti, Sgozzamento, Siria, Stazione di Atocha, Terrorismo on 17 agosto 2014 by Sendivogius
«Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. E’ triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche non violente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore.»
Alessandro Di Battista
(16/08/2014)
In tutta franchezza, abbiamo sempre dato per scontato che il ‘Dibba’ capisse più nulla che poco delle questioni sulle quali va blandamente fanfaronando, nella sua gaia incoscienza beotamente incontinente, mentre si sbrodola addosso in un allucinato pippone anti-americano, ovviamente pubblicato sul blog del ‘capo politico’. L’intero delirio lo potete leggere QUI.
Il belloccio della Setta a 5 stelle era più che altro famoso per le fotine piacione, con le quali ha disseminato il webbé esibendosi in pose plastiche. Ma la sua produzione ‘culturale’ non ha prezzo: dimostrazione empirica di come si può anche viaggiare per i quattro angoli del globo e continuare a rimanere il più minchione dell’intera piazzetta di Borgo Citrullo.
Di Battista è il falchetto spelacchiato del moVimento che mai avrebbe parlato con un Pierluigi Bersani e si è sempre dichiarato chiuso ad ogni rapporto col governo “golpista” del Bambino Matteo, ma è assolutamente pronto ad “intavolare una discussione” con le belve dell’ISIS, insieme a “tutti gli attori coinvolti”, ovvero i ‘terroristi’ del peggior fondamentalismo salafita.
Evidentemente ognuno si sceglie l’Interlocutore a sé più affine…
Nella declinazione temporale che ha condotto i tagliateste dell’ISIS ad impadronirsi di ampie aree centrali delle Mesopotamia, deve essere sfuggito al Dibba che il massiccio utilizzo dei droni da combattimento, con l’intervento armato su vasta scala dell’esercito statunitense, è avvenuto DOPO gli attentati dell’11/09/01.
Prima che Mohammed Atta e “martiri” al seguito si facessero esplodere sopra i cieli di NY e della Pennsylvania, in Iraq regnava ancora incontrastato Saddam Hussein ed il governo talebano dell’Afghanistan inviava sue delegazioni ‘commerciali’ negli USA in visita ufficiale.
Mohammed Atta, il capo del commando suicida, non era un fanatico beduino analfabeta, cresciuto in qualche villaggio sperduto nel deserto, ma un architetto egiziano di origine saudita, proveniente da una ricca famiglia cairota, che aveva studiato e vissuto in Germania. Come lui, gli altri attentatori appartenevano tutti alla privilegiata borghesia saudita e yemenita. La cogente motivazione dell’attacco risiedeva nell’esistenza di installazioni militari statunitensi in territorio saudita, giacché la presenza dei miscredenti è giudicata contaminante per la terra d’origine del Profeta.
Ma al lungimirante Di Battista non sarà certo sfuggito quanto gli attentati del 9/11 siano in realtà tutto un complotto del Bilderberg, organizzato con l’aiuto della CIA, come sicuramente sarà corso a spiegargli un Carlo Sibilia formatosi sulle opere di Giulietto Chiesa.
Allo stellato Giustificazionista, indecentemente defecato in parlamento, che considera un atto di difesa il terrorismo indiscriminato con le stragi esplosive in metropolitana, sarà bene ricordare gli illustri precedenti e come gli attentatori suicidi fossero tutt’altro che “ribelli” alla disperazione…
L’11 Marzo 2004, quando una cellula salafita di immigrati magrebini, in parte balordi di strada dediti alla delinquenza comune, si rese responsabile delle stragi alle stazioni dei treni di Madrid.
Il 07 Luglio 2005. Anglo-Pakistani di seconda generazione, e cittadini britannici a tutti gli effetti, apparentemente integrati e con buone occupazioni, sono stati gli autori degli attentati suicidi contro la metropolitana di Londra e la rete di trasporto pubblico.
A quanto pare, persino il terrore stragista è un lusso per ‘ricchi’, in cui la realtà tribale di miseri villaggi bombardati da “aerei telecomandati” rimane in massima parte o del tutto estranea, ad eccezione delle fantasie mitologiche del pentastellato mitomane.
In fondo, il buon Dibba sta solo provando a capire. All’occorrenza, ci spieghi questo…
Quella che il pargolo sorridente stringe a fatica tra le mani è una testa mozzata. Il bimbo, sette anni, è uno dei tre figli di tale Khaled Sharrouf, cittadino australiano, partito dalla terra dei canguri per partecipare alla jihad, portandosi dietro l’intera prole nel paradiso in terra che agli occhi di questi psicopatici deve rappresentare il costituendo “califfato” dell’ISIS.
Sharrouf fa parte delle migliaia (perché i numeri sono incerti) di francesi, britannici, belgi, statunitensi, australiani… partiti alla volta della Siria e dell’Iraq per partecipare alla “guerra santa”. Sarebbe curioso chiedere al buon Di Battista quali atroci sofferenze e terribili privazioni abbiano dovuto patire dalle democrazie occidentali nelle quali sono nati e cresciuti e dove, spesso e volentieri,
sono vissuti mantenuti a carico dei servizi sociali e sistemati in alloggi pubblici, prontamente messi a disposizione dagli esecrati infedeli. Ed è un fatto che tra i più fanatici tagliagole confluiti nell’ISIS si distinguano i neo-convertiti delle metropoli occidentali, ansiosi di dimostrare la loro devozione tramite la rescissione di ogni vincolo e appartenenza alla loro vita precedente, prima della conversione, ovvero un ritorno alla tradizione più intransigente.
Mohammed Elomar dall’Australia. Compagno di viaggio di Sharraf
La loro specialità sono le esecuzioni sommarie. E siccome da qualche parte
hanno letto che i corpi dei senza testa non entrano nei giardini di Allah, si dilettano senza posa a tagliare più teste che possono, immortalando le loro gesta in foto e filmini amatoriali, che corrono a caricare su internet per gli amici rimasti a casa. Tanto che delle imprese di simili “interlocutori” girano ormai da tempo immagini raccapriccianti, a tal punto da renderne difficile la divulgazione. In realtà, efferratezze e crudeltà non sono molto dissimili da quelle messe in atto dalle Zetas nel cristianissimo Messico, per ragioni completamente diverse, ma la metodica e indiscriminata gratuità degli orrori siro-iracheni ha forse qualcosa di ancor più perverso nel suo esibizionistico compiacimento barbarico.
ATTENZIONE! Le immagini, racchiuse nelle apposite icone segnalate, possono risultare repellenti o disturbanti, per un pubblico particolarmente sensibile o impressionabile al quale è sconsigliabile la visione. Le immagini in questione possono essere visualizzate con un click sull’icona contraddistinta; lo fate a vostro disgusto.
L’antica arte della decapitazione richiede precisione, mano ferma, rapidità di esecuzione, ed una certa abilità nell’uso della spada.
Al contrario, questi sadici sociopatici omicidi prediligono l’uso di rozzi coltellacci e tecniche di sgozzamento imparate probabilmente in qualche macelleria halal, con le quali procedono a staccare la testa del disgraziato di
turno: taglio della carotide e coltello usato come un seghetto, nella recisione di tendini, muscoli e tessuti, fino a raggiungere l’osso del collo. Va da sé che la vittima rimane cosciente fino alla fine dell’operazione, mentre viene afferrata per il naso, con le dita spinte contro le narici per aumentare la presa ed
il pollice cacciato in un occhio; oppure viene tirata per i capelli, all’indietro onde facilitare la ‘strappata’.
Per quanto, fino a poco tempo fa circolavano in rete filmini di produzione cecena, con mutilazioni e decapitazioni effettuate con una motosega. Ma quelle ve le risparmiamo.
Tanto per “comprendere” meglio.
Quello che il patetico Dibba (e non solo lui) sicuramente non comprende è che il conflitto portato avanti dalle formazioni combattenti dell’ISIS in Iraq e nel “Levante” (la Siria), non è una guerra di ‘liberazione’ e tanto meno di
‘resistenza’, ma una guerra di purificazione (ancor prima che “santa”), volta a mondare le terre dei fedeli, il Dar el-Islam, dai kafirun (o kuffars), i miscredenti, che con la loro sola presenza costituiscono un elemento di corruzione e di contaminazione per ogni “vero fedele” della Sunna. Va da sé
che i cristiani nestoriani della Chiesa assiro-caldea, quanto le comunità Yazide del Sinjar, che per inciso vivono in Iraq da ben prima dell’islamizzazione della regione, così come qualsiasi altra componente musulmana giudicata eretica o comunque non abbastanza ortodossa, deve essere estirpata con la forza, secondo una visione che prima ancora che all’integralismo salafita sembra ispirarsi al fanatismo kharigita del VII secolo d.C. con la sua estremizzazione della guerra totale contro gli infedeli.
All’occorrenza ci si può sempre convertire… L’uccisione degli uomini, meglio se davanti alle loro famiglie, ed il rapimento in massa di donne e bambine è funzionale a questa strategia di persuasione: le vedove e le orfane potranno aspirare a diventare le concubine o le mogli di qualche devoto fedele, ma prima devono essere convertite o finiranno per contaminare il povero
tapino nell’apostasia. I metodi possono essere molti… ma a volte i jihadisti vanno di fretta e per essere più convincenti ricorrono all’esempio intimidatorio per dissuadere le più riottose…
L’ideale di purezza astratta e misticheggiante, di cui l’ISIS si fa promotore nel suo totalitarismo sanguinario, non è concetto suscettibile di interpretazioni ‘moderate’ o di compromessi accettabili. Oltre i confini del Dar el-Islam (la terra dell’Islam), che ogni musulmano devoto ha il dovere di espandere attraverso il Jihad al-Asghar, vi è solo il Dar el-Harb, la terra della guerra (contro gli infedeli), contro cui si scagliano i “ghazi”.
Infatti, il pilastro fondamentale (arkan) su cui poggia l’intero impianto teologico e politico dell’ISIS è sostanzialmente il ricorso ad oltranza della jihad indistinto e incondizionato. E per giunta in aperta contraddizione con la seconda Sura coranica che ne disciplina l’azione.
La distinzione che di solito si usa fare in ambito umanistico tra Jihad al-Akbar (grande sforzo) contro le tentazioni individuali per la propria elevazione spirituale e Jihad al-Asghar (la “piccola guerra” contro gli infedeli) è pressoché estranea tanto ai nuovi kharigiti del fondamentalismo salafita, quanto alla quasi totalità dei credenti musulmani. Si tratta infatti di un’interpretazione eterodossa, legata sopratutto alla lettura simbolica operata dal sufismo, peraltro da sempre in odore di eresia presso l’Islam più radicale, e riservata ai circoli intellettuali dei guenoniani convertiti, ma di scarsa o nessuna rilevanza presso le grandi masse musulmane che peraltro aspirano solo al quieto vivere.
A tal proposito, per comprendere quanto la visione trucemente fondamentalista dell’ISIS sia tutt’altro che isolata e marginale, basti ascoltare il silenzio assordante del grande mondo sunnnita contro le stragi di cristiani in Siria ed Iraq, la distruzione dei luoghi di culto e la persecuzione di qualunque minoranza religiosa, la caccia spietata e l’etnocidio della popolazione Yazida, il rapimento di donne e bambine… ad eccezione della tardiva condanna, levata dagli ulema dell’università di Al-Azhar. Su sollecitazione papale (!), dopo mesi di assoluto silenzio, si è fatta sentire anche l’UCOII e le altre organizzazioni islamiche, solitamente così solerti nel prendere posizione su imprescindibili questioni come il consumo di tortellini nelle mense scolastiche in nome della libertà religiosa (che, come in ogni credo religioso, consiste nell’estendere le proprie proibizioni a tutti gli altri).
Per contro, la missione ideologica del sedicente Califfato dello “stato islamico” è abbastanza evidente, così come i suoi barbuti ostensori non ne hanno mai fatto mistero… Quando i massacratori dell’ISIS avranno
‘purificato’ l’Iraq dalla presenza degli infedeli, cancellando ogni eterodossia al suo interno, è ovvio che volgeranno lo sguardo agli stati confinanti (Dar el-Harb) per continuare la loro opera di pulizia, a partire dagli altri stati musulmani della regione, in quanto considerati “empi” ed “apostati”.
Contro gli sciiti dell’Iran, perché “apostati”. Contro gli alawiti della Siria, perché eretici. Contro i cristiani maroniti del Libano, perché miscredenti. Contro le monarchie del Golfo, che pure non hanno mai lesinato i loro finanziamenti, perché “empie”. Contro Israele e contro gli stessi palestinesi. Per dire, Hamas, che è una filiazione della “Fratellanza Musulmana” egiziana (di ispirazione salafita), è stata giudicata dai terroristi dell’ISIS come un’organizzazione moderata di “apostati”, colpevoli di essere troppo laici e di aver instaurato la democrazia (!?) nella Striscia di Gaza. Il ché è tutto dire!
Per renderci conto di cosa stiamo parlando, l’ISIS in Siria ha troncato ogni rapporto (nel senso letterario del termine, a colpi di teste tagliate) con i salafiti del Fronte Al-Nusra, a sua volta sponsorizzato da Al-Qaeda che ha duramente criticato la ferocia dei suoi ex alleati.
Il ‘comandante’ dell’ISIS Abu Abdelrahman con le teste dei suoi ex alleati di Al-Nusra
E, parafrasando il “Cavaliere oscuro”, chiunque sia troppo estremo persino per Al-Qaeda non è organizzazione da sottovalutare. Ma forse l’onorevole Di Battista troverebbe un interlocutore ragionevole persino in Ra’s al Ghul (basta che non sia del PD!).
Epperò, tornando ai fondamentali “interlocutori da elevare” dell’ISIS, convinto com’è di contenerne la follia assassina con qualche chiacchiera all’ingrosso, sarebbe assai interessante sapere quale dialogo pensa di stabilire il Dibba con questa orda di esaltati maschi psicopatici, per i quali nessuna efferatezza sembra essere troppo estrema, mossi come sono da un raro furore omicida e da un odio patologico contro le donne, che sembra esplicarsi in forme di raro sadismo…
Forse sarebbe assai più opportuno per il governo italiano paracadutare l’onorevole Alessandro Di Battista, possibilmente accompagnato dal suo degno compare Manlio Di Stefano, direttamente nelle zone controllate dall’ISIS affinché possano ‘comprenderne’ meglio le ragioni.
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Gli Adoratori del Diavolo
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Ammantati dal mito e dal fascino esotico di una delle culture meno conosciute e forse più interessanti del pianeta, gli Yazidi si affacciano alla conoscenza del grande pubblico italiano attraverso le strisce magiche e
bellissime di Hugo Pratt in una delle sue opere più famose e intense, “La casa dorata di Samarcanda”, nella metà degli anni ’70, in cui il grande Autore romagnolo rivisita un’antica leggenda di George Gurdieff, sedicente mago e iniziato, secondo il quale per imprigionare uno yazida è sufficiente tracciargli un cerchio attorno, dal quale gli sarà impossibile uscire, costringendolo a volteggiare su se stesso fino allo spasimo.
Per sfuggire alle persecuzioni islamiche, nel corso dei secoli gli Yazidi si sono concentrati, insieme ad altre minoranze confessionali, principalmente nelle zone
montuose, dall’Anatolia ai monti del Caucaso, e soprattutto nel Kurdistan iracheno tra Mosul e Sinjar. Gli Yazidi sono infatti un popolo di etnia curda, unici nel loro genere, per la complessa teologia che racchiude in un sincretismo straordinario elementi attinti dalle più diverse tradizioni religiose: culti pre-islamici di origine siriaco mesopotamica ed iranica; zoroastrismo; misticismo sufi e componenti paleocristiane riconducibili allo gnosticismo manicheo… Ma non mancano aspetti legati all’Islam sciita (soprattutto l’eresia ismailita) ed al mazdeismo.
Dal mitridaismo hanno ripreso la preghiera rivolta verso il sole ed il sacrificio di un toro per le cerimonie più solenni; dal cristianesimo nestoriano il rito del battesimo e la celebrazione del natale di Issah (Gesù); dall’ebraismo la pratica della circoncisione (peraltro facoltativa), lo studio dei numeri magici, e parte del loro stesso alfabeto; dalle confraternite sufi, il culto dei santi devoti, la danza mistica dei dervisci, e le pratiche di iniziazione; dallo gnosticismo ellenico, la venerazione per il Demiurgo e per gli arcangeli della creazione; dagli antichi culti orfici, la simbologia del serpente inteso come metafora di rigenerazione.
Spregiativamente chiamati “adoratori del diavolo” dai loro nemici, gli Yazidi
(ma anche Ezidi) sono in realtà il “popolo degli angeli” (dal termine yazd, che in lingua pharsi significa appunto “angelo” ovvero “essere divino”), ma esplicitamente il loro nome si richiama a Yazīd ibn Mu‛āwiyah (fratello del primo califfo ommayade), oggetto di una particolare devozione presso i loro insediamenti.
Popolo di pastori semi-nomadi e di piccoli agricoltori, gli Yazidi sono una comunità endogamica, organizzata in confraternite chiuse, gerarchicamente regolate e suddivise in “iniziati” ed “aspiranti”, sotto la guida di uno Sheikh e di vari Agha tribali. Un tempo temibili guerrieri di montagna, decimati dalle feroci persecuzioni delle quali sono state vittime, sono un popolo sostanzialmente pacifico e ritirato.
La complessa teogonia yezida si compone di sette arcangeli creatori (demiurghi) e delle loro successive emanazioni, che si manifestano in cicli di reincarnazioni (metempsicosi greca) tra gli uomini comuni, che diventano a loro volta mistici e capi religiosi della comunità. Al vertice della gerarchia celeste vi è Melek Ta’us: l’angelo creatore dalla natura tripartita, rappresentato in forma di pavone, che con le sue lacrime avrebbe estinto le fiamme dell’inferno.
Secondo una forzatura semantica, lo stesso nome di Melek Ta’us, variamente associato all’angelo caduto (e pentito), Lucifero (in qualità di portatore di luce), Iblis o Shaitan (il Satana della tradizione islamica), viene ritenuta una traslitterazione di Moloch, antica divinità siriaco-fenicia, e Teus/Zeus (dio), ma anche “Malik” (Re).
Va da sé che nell’ambito dell’islam sunnita gli Yazidi costituiscono gli eretici per eccellenza, associati ai pagani e dunque odiatissimi, tanto da scampare alla bellezza di 72 tentativi di sterminio nel corso degli ultimi 1.500 anni.
Ci vanno assai vicino i mongoli di Hulagu Khan al principio del XIII° secolo, anche se il rischio di estinzione totale si palesa per gli Yazidi in tempi ben
più moderni ad opera dell’Impero Ottomano. A partire dal 1802 i Turchi organizzano infatti una serie di campagne di guerra violentissime contro gli Yazidi, che peraltro si rifiutano di prestare servizio militare, ai quali sostanzialmente offrono due possibilità: conversione o morte. Il tentativo di annientamento: deportazioni e conversioni forzate, rapimento delle donne, eccidi di massa, cancellazione di interi villaggi, distruzione dei mausolei e dei luoghi di culto… si protrarrà per oltre un secolo, tanto che lo sterminio degli Armeni durante la prima guerra prosegue di pari passo con quelle degli Yazidi e della comunità greca di Smirne.
Oggi l’etnocidio della popolazione yazida, insieme alla cancellazione delle ultime comunità cristiane sopravvissute in Mesopotamia, assiro-caldei e nestoriani, viene portato avanti con bestiale determinazione dalle orde nere dei nuovi mongoli dell’ISIS: le bande di massacratori salafiti del sedicente Stato islamico dell’Iraq e del Levante. E questi sì, sono davvero quanto di più demoniaco si sia mai incarnato sulla faccia della terra in rappresentazione del Male, tanto da rappresentare con il loro truce fondamentalismo sanguinario i veri “adoratori del diavolo”. Ammesso si possa conferire una personificazione concreta alla malvagità ed ai suoi adepti.
Abbondantemente foraggiate dai capitali sauditi in funzione anti-sciita, i miliziani dell’Isis sono il giocattolo impazzito, sfuggito al controllo delle monarchie teocratiche del Golfo, e costituiscono l’ultimo frutto avvelenato dell’allucinante parabola irachena, alla quale ora (suo malgrado) la titubante Amministrazione Obama è chiamata a porre un qualche rimedio prima che sia davvero troppo tardi.
La storia, come la strada dell’inferno, è lastricata di buoni propositi, ottime intenzioni, e clamorosi insuccessi. Se gli errori non mancano mai, raramente si è assistito a fallimento più grande dell’Iraq, che per gli entusiasti “esportatori di democrazia” avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello di un ricostituito giardino dell’Eden, a consolidamento di un “nuovo secolo americano”. Almeno secondo le fantasie visionarie della destra neo-con cresciuta attorno a quel cenacolo straussiano, che ha condotto gli Stati Uniti in una delle sue più catastrofiche avventure dalla fine della guerra della Vietnam.
Dieci anni di occupazione militare, miliardi di dollari spesi per una ‘ricostruzione’ mai davvero avvenuta, una classe politica tra le peggiori del pianeta, un paese dilaniato dalle faide tribali e la guerra civile, vicino alla catastrofe umanitaria, e quanto mai prossimo a sprofondare nell’abisso del più cupo totalitarismo salafita ispirato all’islamismo wahabita.
Dinanzi alle orde fondamentaliste dell’ISIS, l’indecente esercito iracheno si è sciolto come neve al sole al primo colpo di cannone. Tanto che l’orda salafita ha potuto occupare agevolmente e quasi indisturbata le grandi aree petrolifere dei distretti centrali e della provincia di Mosul, tagliando il paese a metà, mentre l’imbelle governo del settario Al-Maliki rimane trincerato nelle ridotte tribali del Sud, insieme alle sue milizie sciite male armate e ancor peggio addestrate, frettolosamente reclutate in sostituzione dell’inaffidabile esercito nazionale.
A tutt’oggi l’Iraq liberato, e che di fatto non esiste più, coi suoi strascichi velenosi, costituisce l’eredità infetta delle fallimentari politiche messe in atto dagli apprendisti stregoni alla destra di George W. Bush, che per la bisogna si erano affidati ciecamente ad un bugiardo matricolato ed un ladro come Ahmed Chalabi (su cui incredibilmente si continua ancora a puntare!), dopo aver scoperchiato il vaso di Pandora che non avrebbe mai dovuto essere aperto, e finendo con lo scatenare i peggiori djinni del deserto e che ora è quanto mai difficile ricacciare dentro.
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WAR GAMES (Part 2) – I falchi di Bush
Posted in Risiko! with tags Banca Mondiale, Centro America, CIA, Destra Americana, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, El Mozote, Elliott Abrams, George W. Bush, Guerra, Iraq, Leo Strauss, Lewis Libby, Neo-Conservatorism, Paul Wolfowitz, PNAC, Richard Armitage, Richard Perle, Think Tank, USA on 14 ottobre 2008 by Sendivogius
I FALCHI DI BUSH
Who is who”
Lungi dall’essere un “normale” gruppo di pressione tra i tanti, il PNAC non si limita ad annoverare tra i suoi ranghi solo tecnocrati dell’amministrazione dipartimentale o del comparto militare. Al contrario, si pone come interlocutore privilegiato dell’Amministrazione di George W. Bush. Al PNAC hanno aderito, tra gli altri, personaggi di primo piano dello staff presidenziale, con importanti incarichi pubblici. Sarà il caso di fare qualche nome, sul quale vale la pena di soffermarsi: D. Cheney; D. Rumsfeld; J. Bush; W. Kristol; la famiglia Kagan al completo; R.Perle; R.Armitage; E.Abrams; P. Wolfowitz ed il suo sodale L. Libby;
È quasi imbarazzante abbozzare qui, in poche righe, una biografia di Dick Cheney (vicepresidente USA nell’era Bush): è difficile trovare qualcuno che si sia prodigato con tanto accanimento contro il genere umano. Originario del Wyoming, in politica da ben 6 legislature, Cheney è un mastodonte del conservatorismo a stelle e strisce: fervente anti-abortista, ha votato contro ogni finanziamento a tale pratica anche in caso di incesto o stupro. Cheney si è espresso anche contro il sostegno alla pubblica istruzione; contro le politiche di assistenza sanitaria; contro l’assistenza federale agli indigenti e persino contro la liberazione di Nelson Mandela, quando questi era detenuto in Sudafrica. Imboscato durante la guerra del Vietnam, l’elan guerriero di Cheney è però incontenibile quando a combattere ci manda gli altri: dalla guerra di Panama all’invasione dell’Iraq. Amministratore delegato del colosso petrolifero Halliburton, continua a fare affari nell’Iraq “liberato”, così come quando c’era Saddam (pecunia non olet).
Donald Rumsfeld, attuale segretario al Dipartimento della Difesa, ha svolto importanti incarichi nell’Amministrazione Nixon e in quella Ford. Si è opposto ad ogni trattato di disarmo, di controllo degli armamenti e riduzione dei missili balistici a testata nucleare (degli USA, s’intende!). È un guerrafondaio convinto e nel tempo libero si dedica all’amministrazione di numerose società multinazionali. Dopo la sconfitta elettorale dei repubblicani alle elezioni del novembre 2006. Rumsfeld è stato sacrificato come capro espiatorio per la disastrosa conduzione della guerra in Iraq e costretto alle dimissioni.
Paul Dundes Wolfowitz è un altro falco repubblicano, esperto in strategia militare e pianificazione economica, è stato il vice di Rumsfeld alla Difesa.
“Wolfowitz, uno studioso, è il teorico che predica la fede nella superiorità etica e nel destino imperiale dell’America, da lui considerata l’erede dell’antica Roma”.
(Ennio Caretto, I 4 falchi della Casa Bianca, in Sette, settimanale del Corriere della Sera, 10 ottobre 2002, pp.112-115).
È noto inoltre per le sue posizioni intransigenti e per l’incondizionato sostegno ad Israele, dove risiede parte della sua famiglia. A Wolfowitz si deve la postulazione di “quadri di strategia regionale” con particolare attenzione al Sud-Est Asiatico (dal 1986-1989 è stato ambasciatore in Indonesia) ed al Medio Oriente. Nel 2005 giunge ai vertici della Banca Mondiale.
“Nel mondo islamico il nome di Wolfowitz riassume tutto ciò che è andato storto nella politica americana in Medio Oriente da almeno trent’anni. Allevato alla scuola intellettuale dei filosofi Leo Strauss ed Allan Bloom, membro di quel gruppo di ex radicali di sinistra “pentiti” durante gli anni della guerra fredda, Wolfowitz comincia a occuparsi del mondo arabo quando è ancora membro del partito democratico.
Nel 1977 lavorando al Pentagono sotto l’Amministrazione Carter si fa notare per un grintoso studio su “Radicalismo arabo e atteggiamenti anti-occidentali”, e per la sua precoce ossessione sull’Iraq.
Nel 1980 passa in area repubblicana, al Dipartimento di Stato arruola alcuni dei più radicali neocon, da Francis Fukuyama a Lewis Libby, e scavalca a destra il presidente Ronald Reagan contestando ogni tentativo di dialogo con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Negli anni Novanta è uno dei fondatori del Project for the New American Century, il think tank che elabora piani di politica estera per Dick Cheney e Donald Rumsfeld. Come sottosegretario alla Difesa nell’Amministrazione Bush, anima una “intelligence parallela” al servizio esclusivo del vicepresidente Cheney, l’Office of Special Plans (Osp), decisivo per costruire il teorema delle armi di distruzione di massa e preparare la guerra in Iraq. Anche nel suo nuovo mestiere alla World Bank, l’eminenza grigia di “Enduring Freedom” continua a eccitare le controversie. La Banca Mondiale, creata nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods, per statuto deve offrire ai paesi del Terzo mondo “finanziamenti e assistenza per promuovere lo sviluppo ed eliminare la povertà”. Non sempre è all’altezza della sua missione. Uno degli effetti perversi delle sue politiche: per pagare gli interessi sui prestiti ricevuti dalla World Bank i paesi più poveri del pianeta trasferiscono ogni anno 1,7 miliardi di dollari ai paesi ricchi. Un Robin Hood alla rovescia. Sotto la gestione del suo predecessore, il banchiere-umanista James Wolfensohn, la World Bank cercò di reagire alle critiche e di incarnare una via progressista allo sviluppo, includendo nei suoi progetti l’impatto ambientale, lo studio delle diseguaglianze sociale, della condizione femminile, distanziandosi dal “gemello” neoliberista, il Fondo monetario internazionale. L’arrivo di Wolfowitz ai comandi della Banca Mondiale è stato interpretato come un golpe della destra americana per riprendere il controllo di un’istituzione che condiziona un centinaio di paesi del Terzo mondo. Dal suo insediamento il nuovo presidente si è distinto per una raffica di nomine di amici neocon ai piani alti della banca. In omaggio all’avversione di Bush per le istituzioni multilaterali, Wolfowitz ha anche annunciato spietati tagli al budget dell’istituzione.”
(La Repubblica, 30/01/2007)
Nel 2007, è stato costretto alle dimissioni per aver favorito la carriera della sua amante: la signora Shaha Riza, dirigente della stessa Banca Mondiale
Lewis Libby è stato capo dello staff di Cheney. Nell’ottobre 2005 è stato costretto alla dimissioni a seguito dello scandalo CIA-gate. Avvocato ed allievo prediletto di Wolfowitz, grazie all’appoggio del suo mentore ha occupato posti di responsabilità presso il Dipartimento di Stato ed al Pentagono, durante la presidenza Reagan e Bush. Come Wolfowitz, intrattiene stretti rapporti con il Likud israeliano, opponendosi strenuamente ad ogni concessione territoriale e politica nei confronti dei palestinesi.
Jeb Bush è il fratello dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Al tempo della contestata elezione presidenziale del 2001, Jeb era governatore della Florida ed è superfluo ricordare quanto lo sfoglio “taroccato” dei voti di questo Stato del Sud sia stato fondamentale per l’elezione di G.W. Bush.
William Kristol è il direttore del PNAC e figlio del più noto Irving Kristol, intellettuale di spicco dell’Enterprise Institute, professore, editorialista ed editore.
Discendente da una famiglia di ebrei ultraortodossi di Brooklyn, Irving Kristol si distacca dalle tradizioni di famiglia distinguendosi in gioventù per le sue accese posizioni trozkiste, salvo approdare su lidi sempre più conservatori fino a diventare uno dei più importanti ideologi del pensiero Neo-Con.
Richard Perle ha un soprannome evocativo: “Il Principe delle Tenebre”. Insieme a Wolfowitz, è stato il principale architetto delle strategie politiche di Bush a sostegno dell’unilateralismo interventista e della guerra preventiva. Perle è la classica eminenza grigia, abituata ad agire in incognito, senza cariche ufficiali, ma con libero accesso nelle stanze del potere. È stato presidente del Defense Policy Board: (un organo consultivo in termini di difesa e armamenti presso il Pentagono), carica dalla quale si è dovuto dimettere per “conflitto d’interessi” (si vede che non vive in Italia!). Il nostro eroe aveva pensato bene di dirottare le commesse militari verso aziende amiche delle quali deteneva forti pacchetti azionari. Anche Perle, sul piano intellettuale fa riferimento all’American Enterprise Institute.
Attualmente, “Perle sembra in declino, ma c’è tempo: la merda resta a galla per questioni non di volume, quanto di peso specifico. Va detto poi che bisogna fare molta attenzione ad attaccare Perle: si rischia l’accusa di antisemitismo, come sottolinea Eric Alterman, columnist di The Nation. Alterman sottolinea i rapporti stretti che intercorrono tra Richard Perle e la destra israeliana”.
(http://www.kelebekler.com/caimani/05.htm).
Richard Lee Armitage (vice-segretario di Stato dal 2001 al 2005) faccia simpatica e profilo inquietante. Sul personaggio è abbastanza esplicativo un intervento pubblicato in Carmilla:
“Richard è una leggenda vivente. Faceva parte del gruppo che guidò l’Operazione Phoenix in Vietnam, un programma di “counter insurgency”, ideato da Ted Shakcley, “il fantasma biondo”, che “liquidò” una cifra compresa fra i 20.000 e i 40.000 civili vietnamiti, sospetti viet-cong.
Richard fu accusato di gestire il traffico di eroina dal “triangolo d’oro” attraverso una rete che andava dagli “hmong” ai “signori della guerra” vietnamiti e cambogiani, fino a Santo Traficante, mafioso americano. Richard se la cavò.
Richard fu sfiorato anche dall’Iran-Contras Affair. La fece franca, fino a diventare il consigliere dei militari pakistani nella guerra contro l’URSS in Afghanistan.
Richard riforniva di armi Bin Laden, attraverso l’I.S.I., il servizio segreto pakistano. Fu decorato per questo. Sia prima che dopo l’11 settembre incontrò in più occasioni il Generale Mahmoud Ahmad, principale sostenitore di Al Qaeda, poi licenziato da Musharaf, il presidente pakistano. Si sospetta che il generale fosse in contatto con Mohammed Atta, uno dei dirottatori dell’11 settembre.
Diventò Deputy Secretary of State con Colin Powell.
Coinvolto nello scandalo Valerie Plame, nel ruolo di “gola profonda” nella rivelazione ai giornali del nome di una agente “operativa” della C.I.A., ha abbandonato gli incarichi pubblici. E’ diventato un lobbista della L-3 Communications Corporation, una società che si occupa di difesa, sicurezza e, guarda caso, di intelligence”.
(www.carmillaonline.com/archives/2007/01/002102.html)
Elliott Abrams è un avvocato esperto in Affari Esteri. Come molti altri discepoli del pensiero straussiano, è anch’egli di religione ebraica (che sembra assumere una forte valenza identitaria nella successiva evoluzione politica) parte da posizioni di estrema sinistra (tanto da iscriversi alla Lega dei Giovani Socialisti durante in periodo universitario), prima della svolta ultra-conservatrice. Abrams ha ricoperto incarichi importanti nelle amministrazioni repubblicane: assistente speciale del Presidente e Senior Director al Consiglio di Sicurezza Nazionale per il Medio Oriente e gli Affari Nord-africani.
La carriera di Abrams comincia sotta la presidenza Reagan, nel 1980, prima come assistente del Segretario di Stato con delega ai Diritti Umani e successivamente come delegato agli Affari Centro-Americani. Incarichi svolti egregiamente. Abrams passa i successivi due anni a coprire, negare, ridimensionare le atrocità perpetrate dalle spietate dittature sostenute dagli USA (quelli che esportano la libertà) in Nicaragua, El Salvador, Guatemala, Honduras… In El Salvador, l’11 dicembre 1982 il Battaglione Atlacatl, addestrato da “consiglieri militari” statunitensi, trucida circa 900 campesinos nel villaggio di El Mozote, a scopo intimidatorio, in quanto sospetti sovversivi. Abrams mette a frutto la lezione di Strauss sull’Arte della Menzogna come pratica politica; per il nostro esperto in diritti umani la politica reaganiana in Salvador è stata “un’impresa favolosa”. Il resto del tempo lo trascorre foraggiando i Contras in Nicaragua con finanziamenti illeciti (scandalo Iran-Contra), dopo la caduta del Somoza, il “nostro figlio di puttana” secondo Henry Kissinger. In tempi più recenti (2002) lo troviamo impegnato in Venezuela ad organizzare attentati contro Chavez.
Nel 1997, Abrams pubblica “Faith or Fear”, libro tramite il quale ammonisce gli ebrei americani del pericolo che un’assimilazione con la cultura americana, fortemente secolarizzata, costituisce nella progressiva perdita di identità.
Insieme a Richard Perle, per il Medio Oriente è per il sostegno incondizionato a Israele in favore di una strategia aggressiva e interventista in funzione anti-siriana. Se possibile, ha posizioni ancora più intransigenti di Libby. Naturalmente è stato un entusiasta promotore della guerra in Iraq, propugnatore dell’attacco all’Iran, e sostenitore dell’invasione del Libano nel 2006.
Lo sforzo più notevole di questo interessante “gruppo di lavoro” è la produzione di un rapporto tecnico-militare, conosciuto come “Rebuilding America’s Defences: Strategies, Forces And Resources For A New Century” (“Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”)…