Archivio per Iran

Rogue Nation

Posted in Masters of Universe, Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , on 6 gennaio 2020 by Sendivogius

Qual’è il colmo di uno “stato canaglia”, che ama immaginare se stesso come la patria della democrazia?
Armare formazioni terroristiche, organizzare squadroni della morte e altri gruppi paramilitari clandestini, sovvertire ed appoggiare golpe militari contro i governi non graditi, per instaurare regimi dittatoriali sì, ma assai malleabili e disponibili verso gli interessi della superpotenza egemone, che con ogni evidenza trova nelle dittature militari il miglior strumento di controllo funzionale ai propri obiettivi di ‘democrazia’ esclusiva ed escludente. A tutt’oggi, la sedicente Land of Freedom resta il miglior interprete del pensiero di Carl Schmitt, mentre se ne fotte bellamente di ogni parvenza di diritto internazionale.
Destabilizzare l’intera regione mediorientale, organizzando guerre per procura (Siria), invadendo e trasformando stati sovrani in protettorati coloniali (Iraq), onde potersi impadronire delle risorse petrolifere. E pretendere di farsi rifondere i costi di 15 anni di occupazione militare, a meno di non incorrere in “enormi sanzioni” punitive, qualora il paese beneficiato osi chiedere timidamente di togliere il disturbo dopo aver tanto contribuito alla sua liberazione (4 milioni di sfollati; mezzo milione di morti; un paese lacerato e danni per miliardi di dollari).
Il ché rende chiarissime due cose:
1) Che il “Liberatore” non intende assolutamente levare le tende; se non di sua sponte, per decisione unilaterale e certo non concordata col Liberato.
2) Che il discorso si estende alle centinaia di basi militari sparse per tutto il pianeta da oltre mezzo secolo, nella galassia di ubbidienti “stati clienti” che ipocritamente chiama “alleati” e che impudicamente usa come potenziale prima linea del fronte, esponendoli ad ogni possibile rappresaglia e devastazione nell’esportazione della guerra. Gli stessi che all’occorrenza vengono omaggiati da dazi e sanzioni doganali, per dirimere questioni commerciali. Tra amici e partner alla pari si usa così. Un tempo la si chiamava diplomazia delle cannoniere, o anche politica del grosso bastone, da sempre una specialità tipicamente americana. Oggi i tempi sono indubbiamente cambiati…
Da noi, ad applaudire l’unilateralismo trumpiano, con le sue rodomontate machiste via twitter, resta solo quell’edizione italiana del Völkischer Beobachter che si fa chiamare “Libero”, per la raccolta liquami dell’italico ur-fascismo. Il prodotto vende sempre bene…

E ovviamente non poteva mancare l’ineffabile Matteo Salvini, il Capitan Mitraglia del fucile e rosario per tutti. Con ogni evidenza, tra nazisti ci si intende.
Poi, siccome i tempi richiedono un salto di qualità, ci sarebbe anche la propensione sempre più sfacciata nel programmare (al riparo da noiose pastoie legali) rapimenti a scopo di tortura (extraordinary rendition) dei potenziali oppositori politici; nonché organizzare, forte della più assoluta impunità, l’assassinio seriale di leader stranieri sgraditi (in questo, la dottrina israeliana ha fatto scuola), nella sfacciata arroganza del compiacimento omicida e nella libidine dello stesso.
Giusto per non farci mancare nulla, segue il minacciare “rappresaglie spropositate” in caso di (naturale) reazione; ovvero colpire (volutamente) obiettivi civili e siti culturali in spregio ad una mezza dozzina di convenzioni internazionali, quella di Ginevra in primis, circa la definizione di “crimini di guerra”.
Naturalmente, i “terroristi” sono tutti quanti gli altri, con buona pace dello stato di diritto ed almeno 200 anni di civiltà giuridica.

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SURREALISMI

Posted in Risiko! with tags , , , , , , , , on 10 giugno 2017 by Sendivogius

Se gli effetti sul piano pratico non fossero poi tragici, ci sarebbe quasi da ridere sul rinsaldato fronte mediorientale, per la lotta al terrorismo islamista e nel nome delle libertà democratiche, tramite il ritrovato flirt tra USA ed Arabia Saudita…
Cioè, da una parte abbiamo la superpotenza imperiale, specializzata in colpi di stato su scala globale; nonché sponsor diretto e gran protettrice della quasi totalità dei più spietati regimi militari, che mai abbiano insanguinato il pianeta dalla caduta del nazifascismo (e ad esso apertamente ispirati), purché servilmente funzionali agli “interessi americani” per la tutela dei quali, con ogni evidenza. Perché all’Impero serve una cintura di stati clienti, dove la forma di governo migliore viene considerata la dittatura. Niente infatti sembra garantire più stabilità ed affidabilità di una dittatura, senza le noie di una società civile, le incertezze elettorali, e gli intoppi di un ordinamento costituzionale che ne garantisca le libertà.Ovvero parliamo del più invasivo complesso industriale e militare del cosiddetto “mondo libero”, che più di ogni altro ha contribuito a destabilizzare il mondo non-libero, facendo dello sfruttamento capillare il metro di misura del proprio profitto; che ha fomentato e poi coccolato l’integralismo islamico, creando di fatto il jihadismo come strumento armato da impiegare nelle guerre coloniali per procura di quell’Impero di fatto, che ama definire se stesso la “patria delle libertà”. E peccato solo che, una volta esaurita la sua funzionalità d’uso, questa armata ausiliaria di askari a buon mercato, come i foederati della tarda antichità romana, non abbia tardato a dissaminare i frutti perversi (e giunti ormai a maturazione) di un patto scellerato con il diavolo.
Dall’altra parte abbiamo invece uno dei più oppressivi e oscurantisti despotati del pianeta, che ha trasformato il fondamentalismo islamico in un’ideologia politica di dominio e di infiltrazione radicale, rifornendola di mezzi e risorse. Collaterale quanti altri mai a quel terrorismo che finanzia alla luce del giorno e che esporta in una rete di protezioni globali, nella diffusione del wahabismo che ne sottende il corpo dottrinario inteso nell’interpretazione più cupa e reazionaria di un islam medioevale. Il regime degli al-Saud dovrebbe in pratica combattere la propria ombra, che si distende dalla longa manus della sua proiezione geopolitica. La sostanziale differenza che intercorre tra l’ISIS e l’Arabia Saudita, per dirla con le parole dello scrittore algerino Kamel Daoud, risiede nel fatto che l’Arabia Saudita è un Daesh realizzato, un ISIS che ce l’ha fatta.
Va da sé che dopo aver distrutto l’Iraq, polverizzato lo Yemen, e smembrato la Siria, sia adesso la volta dell’Iran, che evidentemente non ha ancora aperto le sue frontiere ad una siffatta “esportazione di democrazia”, vista la sua impermeabilità alle “rivoluzioni arancioni” a marchio CIA e le sedicenti “primavere” presto trasformatesi nell’inverno artico della ragione.
È la democrazia ai tempi di Trump (as usual): un energumeno fascista che ci spiega cosa sia la libertà, col suo codazzo di dittatori amici, entrando a gamba tesa come terzo incomodo nello scontro millenario che oppone sunniti contro sciiti, nella nostalgia dei tempi belli di un Reza Pahlavi: assai più fotogenico di un truce Khomeini e sempre meglio di un Mossadeq.

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BELLEZZA IN SCATOLA

Posted in Muro del Pianto with tags , , , , , , , , , , , , , , , , on 29 gennaio 2016 by Sendivogius

Andy Warhol - Campbell's soup

Il vanaglorioso fanfarone dalle pretese regali, quello che occupa abusivamente Palazzo Chigi, con vista su un parlamento scambiato per la sua personale dépendance adibita all’alloggio della servitù, ci tiene molto alla “bellezza”; specialmente se intesa come concetto astratto in funzione del valore d’uso.
imagesQuando non sa cosa farsene, quando non è immediatamente capitalizzabile o da affidare in leasing, quando questa non è fruibile nelle finzioni scenografiche per il consueto teatrino dei pupi, la “bellezza” diventa ingombrante e perde di interesse. Semplicemente, non torna “utile” come sfondo per la farsa retorica, diventando una ‘vergogna’  da coprire.
DidimiPer questo va rimessa alla custodia provvisoria di organismi dalla pleonastica inutilità barocca, come quel fondamentale “Ufficio per il Cerimoniale e le Onorificenze”, che già s’era tanto distinto durante la trasferta saudita sulla faccenda dei rolex spariti e, pare, attualmente rientrati nella disponibilità della Presidenza del Consiglio; o per meglio dire nel polso del presidente del consiglio, meglio conosciuto dagli sceicchi come Rolex d’Arabia.
L'OrologiaioLe “istituzioni”, e massimamente quelle escrescenze burocratiche che pendono all’ombra del potere, abbondano di cretini ossequienti con la tendenza a strafare. Da lì, la scelta di imburqare le statue capitoline, che sia mai qualche chierico possa rimanere turbato dalla sconcia esposizione delle artistiche nudità! Una persona nemmeno troppo intelligente non condurrebbe mai il proprio ospite in un museo, se davvero pensa che questo sia talmente idiota da rimanere ‘offeso’ dalle opere in mostra.

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Gli zelanti funzionarini della Presidenza del Consiglio e le maestrine di cerimonie invece hanno ritenuto che la soluzione migliore fosse sì, portare gli ospiti al museo, ma nascondendo le statue e velando gli affreschi, per uno straniante effetto cantiere da allestimento Ikea. Evidentemente, deve essersi trattata di una loro particolarissima reinterpretazione del “cubismo” in chiave post-moderna…

Statue coperte ai Musei Capitoli in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani, Roma, 25 gennaio 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Cercare la logica di simili colpi di genio non è mica roba da tutti… Ci fanno un esame di stato con una selezione, per occupare simili uffici! Non per niente, le vie dell’imbecillità sono infinite ed ancor più imperscrutabili ogni volta si intersecano con quelle della “sensibilità religiosa”. E poco importa che ci sia stato chi per difendere quella “bellezza”, che qui si copre per opportunismo e altrove si distrugge per fanatismo, si sia fatto ammazzare. Per loro fortuna, i nostri imbelli burocrati di Palazzo non corrono certo di simili rischi.
Distruzione delle statue di PalmyraD’altra parte, la “cultura” sta molto a cuore al tronfio ducetto di Rignano, specialmente se può collegarla a qualche altro concetto che gli preme, in quanto elettoralmente spendibile, come la “sicurezza”, in uno di quegli accostamenti a lui consueti dove è inutile tentare di trovare la correlazione, tra accostamenti improbabili, tanto è ampio lo scollamento tra realtà e finzione.

Luisella Costamagna

«Io credo che la politica debba adottare un nuovo stile. Uno stile che riporti la passione al centro, che sappia emozionare, che riparta dalla bellezza. Perché mi hanno insegnato che la bellezza non può essere inutile.
[…] Vincerà chi saprà raccontare la bellezza utile di un’Italia che si nasconde timida in un mondo che avrebbe ancora molto bisogno di lei. Chiedono bellezza i cittadini globali del XXI secolo. Chiedono emozioni e un progetto nel quale credere. Chiedono di essere coinvolti, non di essere ammaestrati tra slide e battute

renzi-fonzieNo, non sono i tentativi espressivi di qualche cerebro-contuso in riabilitazione neurologica, ma uno dei massimi prodotti culturali del nostro Pittibullo quando gioca a fare l’intellettuale, peraltro con risultati drammatici..!

«Ogni giorno mentre vado al lavoro, mi perdo nella contemplazione della bellezza dei monumenti. Non di rado, però, inciampo in una buca delle sconnesse strade del centro storico. Lo vivo come un immediato richiamo al mio lavoro. Mi piace passare in trenta secondi dalla riflessione culturale sul mondo che cambia al tombino da ripulire.
[…] Rischiando il disprezzo dei turisti abbiamo scelto di invertire e siamo partiti dalle periferie.
[…] Mi viene in mente Steve Jobs, che a Firenze si innamora del colore della pietra serena e impone che tutti i suoi Apple Store siano realizzati con quelle caratteristiche

Matteo Renzi
“Stil novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter”
Rizzoli (2012)

Potrei vomitareTra formato cartaceo e digitale, ne abbiamo sfogliata di merda nella vita, ma mai si era scivolati così in basso tra simili forme nauseadi degrado estremo; asfissiati dai miasmi di una povertà lessicale che esalano dalle sdruciture di tanta miseria umana e culturale, articolata in banalità imbarazzanti che non superino mai le 100 battute tra un punto e l’altro. Per non parlare del suo ostentato linguaggio minimo, a portata di ogni deficiente che abbia a malapena raggiunto l’alfabetizzazione primaria.
Merda d'artistaAffondare le mani in quella cloaca trasformistico-dorotea che chiamano “renzismo”, cercando invano di tirarne fuori un barlume di senso o qualsivoglia spessore, è un’impresa assolutamente ingrata ed ancor più degradante nella sua inutilità; col rischio concreto di affogare nei gorghi di una minchioneria siderale, che trasuda dall’hybris del suo ridanciano ostensore.
Essere o Non EssereVa da sé che interrogandosi sul pensoso concetto di “bellezza utile”, questo lardoso scarto da Bar-Sport non manchi di porsi domande epocali, all’origine di una così incontenibile peristalsi editoriale:

“Mentre torno a stupirmi di tanta meraviglia, improvviso mi assale un dubbio: ma serva ancora la bellezza oggi?”

To be or not to beSì, serve. E non solo per un mero appagamento visivo. La bellezza serve come valore propedeutico nella sua eterologicità paradossale, perché ci ricorda come dinanzi ad una così schiacciante predominanza di simili cazzoni allo stato brado, nonostante tutto, l’umanità riesca a produrre opere straordinarie grazie al genio isolato di un’infima minoranza.

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SYRIANA (I)

Posted in Kulturkampf, Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 4 ottobre 2014 by Sendivogius

Hellblazer - Constantine - PandemoniumIn merito alla strategia di contenimento da attuare contro il sedicente “califfato” dell’ISIS, è difficile dire cosa sia preferibile (o peggiore) tra l’esibizione muscolare della macchina bellica statunitense alla sua ennesima potenza, tramite un precipitoso interventismo militare a scopo punitivo; oppure l’inconcludente irrisolutezza per eccesso di prudenza di una presidenza indecisa su tutto, in assenza di prospettive definite.
Tagliagole dell'ISIS  D’altronde, dopo i catastrofici precedenti del passato, ed il caos della situazione presente, non si può certo biasimare il cauto Barack Obama per la sua riluttanza ad infilarsi a piedi nudi nel ginepraio mediorientale, per giunta in prossimità con le Midterm Elections (e con sondaggi per lui tutt’altro che confortanti).

I resti di James Foley

I resti di James Foley

Del resto, nessun Mr President avrebbe potuto restare inerte dinanzi all’esecuzione a freddo di cittadini statunitensi, macellati in pubblico ed esibiti come trofeo, con tanto di trasmissione in mondovisione.
Il problema risiede semmai nelle modalità di azione e di coinvolgimento sul campo. E, ad essere sinceri, finora la coalizione dei nuovi “volenterosi”, messa in piedi a difficoltà, con estenuanti trattative e diplomazie sotterranee, non è andata oltre l’impegno formale, più di facciata che di sostanza, con l’apporto riluttante di ingombranti alleati divisi su tutto.

Puericoltura nel Califfato dell'ISISPuericoltura nel Califfato dell’ISIS

Di fatto, i raids aerei in Siria sono tanto più inutili quanto inefficaci, dal momento che non esiste alcuna pianificazione o strategia condivisa con le formazioni combattenti operanti sul territorio (e sull’argomento dovremo tornare con una trattazione a parte…), in assenza di una qualunque logistica degna di questo nome, e senza che intercorrano scambi di informazioni nel terrore di dover dare l’impressione di una qualche collaborazione col regime del dittaroe siriano Bashar al-Assad.
Bashar al-AssadAl di là di un pletorico dispiegamento di cacciabombardieri, per altro sotto-utilizzati contro bersagli totalmente marginali se non addirittura risibili, la coalizione nei fatti non c’è, mancando di tutti i requisiti fondamentali per potersi definire tale: coordinamento tattico, organizzazione strategica, collegamenti logistici e comunicazione, con una totale assenza di controllo del territorio e della presenza di truppe operative di supporto, là dove più forte è la pressione delle milizie dell’IS.

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Il simpatico “emiro” canadese Abu Abdul Rahman al-Iraqi coi suoi giocattoli

A maggior ragione che delle forze combattenti del cosiddetto “Califfato”, ad eccezione delle efferatezze e della brutalità dei suoi capi-banda, si conosce ben poco: non l’esatta consistenza numerica, non l’effettivo potenziale bellico a disposizione, non gli scenari di battaglia. È difficile infatti credere che 15.000-20.000 psicopatici omicidi possano controllare con successo un fronte di guerra di oltre 1000 km². E la sensazione dominante è che siano stati altamente sottovalutati.
ISIS-truck-convoy-Anbar-ProvinceDalle poche informazioni disponibili, si ha più che altro l’impressione di una forza elastica, che possiede il suo punto di potenza sull’altissima mobilità delle proprie truppe, capaci di creare diversivi strategici, con attacchi su più obiettivi secondari, per disorientare i comandi avversari e concentrare poi l’offensiva su un preciso saliente di guerra, scatenando con successo offensive mirate su più direttrici d’attacco. E lo fa, tramite un dispiego minimo di mezzi pesanti e l’efficace utilizzo di artiglieria leggera, con improvvisate batterie mobili montate su pick-up riadattati per la guerra nel deserto. Con assalti mordi e fuggi, sortite ed incursioni, e ricongiungimenti improvvisi di unità autonome con rapidi movimenti sul terreno, l’ISIS sembra applicare la più classica ed antica, tra le tattiche di combattimento beduine.

isis

Non serve essere un Rommel per capire come attacchi mirati e bombardamenti a distanza siano assolutamente inutili, contro uno schieramento tanto flessibile; oltre all’assurdo economico di sprecare missili per centinaia di migliaia di dollari, contro un minivan adibito al trasporto delle munizioni di riserva.
raidI limiti della strategia obamiana diventano evidenti in tutta la loro inefficacia, volgendo lo sguardo alla scelta dei partner strategici sul terreno di guerra, che dovrebbero supplire all’assenza di una forza davvero reattiva e propria di una efficiente fanteria meccanizzata.

ALERT

Soldati iracheni sulla via di Kirkuk

Certamente non è il caso del vaporoso e demoralizzato esercito iracheno, falcidiato dalle disfatte e dalle diserzioni, sconquassato dalle divisioni tribali al suo interno, nonché totalmente inaffidabile. Ma nell’ottica strategica di Washington, Zbigniew Brzezinskidove ancora forte è l’impronta di un Zbigniew Brzezinski (che peraltro ha platealmente sconfessato la strategia presidenziale in Siria) con la guerra per procura, utilizzando milizie ausiliarie, reclutate ed addestrate tra i combattenti locali, proprio l’esercito regolare di Baghdad dovrebbe costituire la principale forza di intervento sul campo. L’inconveniente non da poco consiste nel fatto che le armate di Baghdad oramai esistono solo sulla carta: le sue brigate sono sotto organico e totalmente inadatte al combattimento, come i fatti hanno ampiamente dimostrato, per giunta comandate da generali inetti quanto intriganti.
Esecuzioni dell'ISISSicuramente più efficienti sono i combattenti peshmerga, per giunta logorati da anni di guerra, dell’autoproclamata “Regione autonoma del Kurdistan iracheno”, entità semi-indipendente ritagliata nelle montagne a nord dell’Iraq, nel distretto di Mosul, al confine con l’Iran. All’atto pratico si tratta di un’enclave tribale, dominata dal PDK (partito democratico del Kurdistan) di Masud Barzani, e divisa al suo interno dalla storica rivalità col progressista UPK (Unione Patriottica del Kurdistan) del socialista Jalal Talabani, con cui è in rotta da sempre. Entrambi sono visti col fumo negli occhi dal governo di Baghdad, a sua volta diviso tra sciiti e sunniti, che considerano la “Regione Autonoma” curda come una usurpazione della sovranità nazionale.

Kurdish pop star Helly Luv poses in front of Kurdish Peshmerga troops at a base in DohukLa popstar curda Helly Luv in posa con la milizia di Dohuk

Ovvio che le autorità centrali centellino al massimo sostegno economico ed aiuti militari, in attesa della resa finale dei conti. Per contro, le squadracce dell’ISIS devono essere state implicitamente viste da Baghdad come un utile strumento, per svolgere il lavoro sporco che Baghdad non è in forza di realizzare. È non è un caso che nessun supporto sia mai arrivato durante l’attacco a Mossul, abbandonata al suo destino come gli Yazidi del Sinjar o le comunità cristiane della Chiesa assiro-caldea.
June 12 - Terrorists Stealing Control of IraqQuando, su pressione degli statunitensi, il governo centrale si è finalmente deciso, con ampio ritardo, ad inviare un risicato contingente della Brigata ‘Skorpio’, unità speciali della polizia militare (indiziata di gravi abusi ai danni della popolazione civile), per difendere la fondamentale diga di Mossul, invece di combattere contro i miliziani dell’Isis, i ‘rinforzi’ hanno trascorso la gran parte del tempo a contrapporsi coi guerriglieri curdi, boicottandone le controffensive e arrivando sul punto di spararsi addosso tra di loro. Approfittando delle divisioni tra il catastrofico governo settario dello sciita al-Maliki costretto alle dimissioni, milizie sunnite, ed autonimisti curdi, nella regione di confine di Mosul si sono progressivamente insinuati Pasdaranuomini e mezzi dall’Iran, che invece non lesina combattenti ed aiuti militari, contribuendo a rendere ancora più ingarbugliata la situazione nel nord del Kurdistan iracheno, in un groviglio di alleanze e di interessi geopolitici in continua evoluzione. Tant’è, che a tutt’oggi la più efficace difesa contro le orde dell’ISIS nella regione risultano essere i battaglioni scelti della Brigata Al-Quds (tra cui la famigerata “Unità 400”), ovvero i pasdaran iraniani della “Guardia rivoluzionaria”.
Brigata navale iraniana dei Guardiani della RivoluzioneParadossalmente, le forze in campo davvero operative sul teatro di guerra siro-iracheno, e finora le uniche che combattano davvero con una qualche determinazione le orde dell’Isis, sono proprio quelle di cui gli USA farebbero Truppe iranianevolentieri a meno, nell’impossibilità di sancire alleanze strategiche a geometria variabile senza rompere il fronte (ancor più infido) degli storici ‘alleati’ sunniti, ovverosia: le monarchie assolute del Golfo arabico, che l’Isis hanno sostenuto, finanziato e armato, in chiave anti-sciita, condividendo almeno in parte il medesimo fondamentalismo salafita di ispirazione wahabita.
ISIS in IrakL’unica armata moderna davvero in grado di contrastare con successo l’ISIS sul suo stesso terreno è forse l’esercito turco, che però non ha alcuna intenzione di lasciarsi trascinare in un conflitto che avvantaggerebbe due Bashar Assaddei suoi nemici storici: i Curdi e la Siria di Bashar al-Assad. Dopo il respingimento della sua ammissione nella UE, il governo di Ankara è ormai proiettato ad Oriente in una deriva neo-ottomana, cercando di TAF - Esercito turcoritagliarsi un ruolo come potenza regionale e trescando segretamente tanto con le formazioni jihadiste della “resistenza” siriana, tanto con le fazioni siriane dell’IS, mantenendo una sostanziale ambiguità di fondo. Nell’immediato sta a guardare, in attesa di cogliere il momento propizio per intervenire nell’area contesa.
RojavaSul confine turco-siriano, nella totale indifferenza della “coalizione” anti-califfo, resistono nel più disperato isolamento i curdi della confederazione del Rojava, da non confondersi coi peshmerga del PDK. People's Protection Units FlagSono i miliziani delle unità di difesa popolare (YPG) quelli che hanno organizzato un ponte di soccorso, spezzando l’assedio di cristiani e yazidi accerchiati sul Monte Sinjar, permettendone la salvezza, mentre i peshmerga titubavano nelle loro ridotte attorno a Mosul in attesa di aiuti occidentali mai arrivati. E sempre l’YPG ha costituito un’enclave di protezione per le popolazioni civile, in contrapposizione tanto al regime siriano di Damasco quanto alle bande sanguinarie dell’ISIS, senza distinzione etniche o religiose. Ma figuriamoci! Si tratta di una confederazione anarco-comunista a trazione PKK.

Raid USAF

E dunque indegna di qualsiasi protezione e sostegno da parte dei raid aerei, blindo YGPche infatti a contro tutto sono diretti, tranne dove gli assembramenti delle squadracce del Califfato sono più consistenti e le loro offensive più virulente. Ed è ovvio che non saranno i trattori trasformati in improvvisati ‘tanko’ corazzati in lamiere saldate, o improbabili autoblindo (più che altro lenti bersagli mobili) a respingere l’assalto dei salafiti.
TankoLa presa della città di Kobane, stretta d’assedio dai mujaheddin ceceni Kobaneconfluiti nell’ISIS sta lì a dimostrare tutta la pletorica inutilità dei “volenterosi” di O’Banana che nella migliore delle ipotesi sbagliano clamorosamente bersaglio e nella peggiore giocano una partita che nulla ha a che vedere con la causa ‘umanitaria’, contro la barbarie del terrorismo islamico fattosi ‘Stato’.

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UNITED BOMBER

Posted in Masters of Universe, Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 6 settembre 2013 by Sendivogius

Hellblazer - Pandemonium

Qualcuno di voi si ricorda del sig. Iyad Allawi?
Fondatore della Intesa Nazionale Irachena, sedicente capo dell’opposizione democratica in esilio, è stato l’inutile idiota pescato dalla CIA e sponsorizzato dal Dipartimento di Stato statunitense, per rappresentare quella solida democrazia che è l’Iraq pacificato dal dopo-invasione.
Peraltro si trattava di un uomo di paglia di seconda scelta, giacché inizialmente tutte le preferenze erano state accordate a tale Ahmed Chalabi ed al suo fantomatico Congresso Nazionale Iracheno (INC), la cui influenza e radicamento nella realtà irachena era tale quanto un pinguino può essere rappresentativo della fauna sub-sahariana.
Ahmed Chalabi Accreditatissimo presso l’amministrazione Bush, viene presentato come un eroe della democrazia (secondo il modello petrolifero-coloniale dei neocon) e definito contro ogni sprezzo del ridicolo il “George Washington dell’Iraq”, aggiungendo la farsa alla tragedia. Chalabi è in realtà un noto bancarottiere, truffatore internazionale, nonché mitomane conclamato, doppiogiochista e sospetto spione al soldo degli ayatollah iraniani, senza alcun seguito politico o legame con l’opposizione anti-saddamita in Iraq. Al contempo, l’INC è una protuberanza personale del furbo avventuriero levantino, che la usa per rastrellare (e mettersi in tasca) le decine di milioni di dollari destinati alla ricostruzione nel dopoguerra iracheno. Verrà subito nominato Ministro del Petrolio dai “Liberatori”, nel nuovo Iraq trasformato in colonia da estrazione.
IraqiFreedom-XD’altronde, Ahmed Chalabi è stato anche colui che ha prodotto le prove ‘inoppugnabili’ sui legami del regime laico ed ultra-nazionalista dei baathisti di Bagdhad con gli integralisti transnazionali di Al-Quaeda. Più facile che un cobra e una mangusta convivano insieme nella stessa tana. Altresì, sempre Chalabi è la fonte ‘incontrovertibile’ che a suo tempo fornì le Colin Powellcartucce esplosive alla famosa “smoking gun”, creando la strampalata favoletta sui laboratori mobili per la produzione delle “armi di distruzione di massa”, montati dagli iracheni su tir in movimento, ed esposta al Consiglio di sicurezza dell’ONU con dovizia di particolari (05/02/93) da un Colin Powell senza alcuna ombra di imbarazzo.
Adesso, con dieci anni di distanza e di guerre infinite che dallo scacchiere mediorientale si trascinano senza soluzione di causa tra gli altipiani dell’Afghanistan e le valli dello Swat pakistano, la nuova amministrazione USA si prepara a trascinare nell’ennesimo conflitto una nazione che, con ogni evidenza, non riesce proprio a stare lontano dalla guerra.
Obiettivo di turno è la Siria dello stralunato Bashar al-Assad, nella convinzione che per alleviare le sofferenze della popolazione civile non ci sia niente di meglio che innaffiarla con una pioggia di bombe.
if you don't come to democracySe le motivazioni e le manovre che nel 2003 portarono alla seconda Guerra del Golfo furono oggetto di critiche serrate, l’operazione condotta all’epoca dall’amministrazione Bush rischia di apparire addirittura un capolavoro politico e diplomatico, a paragone della raffazzonatissima strategia messa frettolosamente in piedi da O’Banana e dai bravi ragazzi del suo groupthink, dopo i conclamati successi in Libia ed Egitto.
Il mio amico GheddafiIl contestatissimo Bush jr, in flagrante violazione delle disposizioni ONU, riuscì comunque a mettere insieme una “coalizione di volenterosi” con una cinquantina di paesi compiacenti.
O'BananaIl presidente “Hope & Change”, premio Nobel alle intenzioni per la pace, e attuale commander in chief della nazione più guerrafondaia del pianeta si accinge ad attaccare la Siria, ovviamente senza mandato ONU, con l’apporto delle due principali ex potenze coloniali della regione: una recalcitrante Gran Bretagna e la fanfaronesca Francia del ‘socialista’ Hollande.
Inoltre, l’intervento militare è fortissimamente caldeggiato da noti baluardi democratici, oltremodo famosi per la difesa dei diritti umani, come quel campione della laicità e della libertà religiosa che è l’Arabia Saudita. All’atto pratico, i diretti beneficiari dell’attacco saranno i simpatici tagliagole barbuti delle formazioni salafite: gli affidabili “ribelli” che combattono per l’instaurazione della sharia e si dedicano alla caccia delle minoranze (a partire dai cristiani) in tutti i territori ‘liberati’, che finora ci hanno deliziato col solito corollario di decapitazioni, mutilazione dei prigionieri, e (davvero ci mancavano!) atti di cannibalismo immortalati nei loro filmini amatoriali orgogliosamente caricati su internet.
L’America dei neocon, traumatizzata dagli attentati del 9/11, pensò comunque di dover fornire le “prove” a legittimazione del proprio intervento armato, spendendosi nella pantomima dei mobile production facilities for WMD all’ONU.
O’Banana ed il suo staff invece si guardano bene dal presentare, e tanto meno dall’esporre pubblicamente, le indiscutibili informazioni sull’uso indiscriminato di armi chimiche da parte del famigerato regime siriano. In tal modo non si corre il rischio di venire smentiti, o di fare incresciose figure come quella fatta all’epoca dallo zelante Colin Powell.
Nel 2013 come nel 2003, il referente naturale dell’amministrazione USA è un evanescente “Consiglio” dell’opposizione in esilio, di cui non si sa assolutamente nulla e di cui si ignorano totalmente gli interlocutori e le reali influenze.
democracy coming soonSarà meglio invece sorvolare sulle ipocrite giustificazioni all’ennesima “guerra umanitaria”. La motivazione ufficiale con la quale O’Banana sta cercando di ammansire un’opinione pubblica sempre più scettica, in soldoni, è: “in Siria è stata violata la linea rossa con l’uso delle armi chimiche”. A dire il vero, finora l’uso conclamato dei gas asfissianti è stato attribuito con una certa soglia di sicurezza ai sedicenti “ribelli”, che in Afghanistan ed in Iraq vengono chiamati “terroristi” ma che in Siria tornano utili come i talebani nella guerra contro i sovietici. La cosiddetta “linea rossa” era già stata violata a maggio, senza che l’amministrazione USA si sia impensierita troppo: non era il sanguinario regime di Assad ad aver premuto il bottone e dunque tanto valeva fare finta di nulla. Del resto, era già avvenuto nel 2009, quando Tsahal non si faceva certo remore ad usare il fosforo bianco su Gaza (la città più densamente affollata al mondo); tra gli obiettivi, la scuola dove aveva sede l’agenzia ONU per i rifugiati ed il principale ospedale della città. All’epoca gli USA intervennero eccome, con assoluta prontezza, per mettere il veto ad ogni risoluzione di condanna per i crimini di guerra perpetrati dal comando militare israeliano.
D’altra parte, armi chimiche sono state utilizzate dallo USArmy durante la cosiddetta battaglia di Falluja. Proiettili all’uranio impoverito (il miglior modo per liberarsi delle scorie radioattive) sono stati sparacchiati senza riserva un po’ ovunque: dalla Bosnia al Kosovo, e per tutto l’Iraq.
Su quali presupposti etici, il Paese che detiene il più grande arsenale di armi chimiche e batteriologiche del pianeta; l’unico che abbia mai usato la bomba atomica, nuclearizzando un paio di città; lo stesso che ha scaricato tonnellate di Napalm sui villaggi vietnamiti, inondando le campagne con il famigerato Agente Orange… si permetta di ergersi a giudice morale è cosa ben curiosa. In quanto a crimini di guerra, la più grande democrazia del mondo li ha perpetrati praticamente tutti, nella più assoluta impunità.
VietnamI tentennamenti di Obama, che si è infilato da solo in un cul-de-sac coi controfiocchi, sono stati sprezzantemente liquidati da un certo Bill Clinton come “vigliaccheria”. È certo prova di grande coraggio invece lanciare missili dal largo delle coste siriane, in acque internazionali, mentre si sta al sicuro a migliaia di chilometri dal teatro delle operazioni. Mr Clinton è lo stesso presidente (“democratico”) che nel 1998 i missili li lanciò su un deposito di medicinali in Sudan, scambiato per una fabbrica di armi chimiche, a dimostrazione di una politica particolarmente intelligente e coraggiosa.
Attualmente il problema si chiama Iran, divenuto senza colpo ferire una macropotenza regionale, dopo la scomparsa dei suoi principali nemici alle frontiere: l’Iraq di Saddam Hussein ad ovest ed il regime feudale dei talebani in Afghanistan, per provvidenziale intervento USA su entrambe i fronti di guerra. Abbattere il regime degli Assad in Siria, priverebbe Teheran di un prezioso alleato e ne ridimensionerebbe l’influenza nella regione, rassicurando i falchi della destra israeliana.
Insomma, parlare a nuora (Siria) affinché suocera (Iran) intenda . In fondo è da oltre un decennio che al Pentagono si studia una possibile guerra con gli eredi di Serse… Oramai non se ne fa mistero neppure nell’industria dell’intrattenimento: da film come “300” a videogame come “Battlefield”.
Battlefield 3La scomparsa di uno dei pochi stati laici del Medio Oriente, con la creazione dell’ennesima ierocrazia di ispirazione wahabita, dove scorrazzano indisturbati gruppi di jihadisti armati fino ai denti che premono contro il fragilissimo Libano, e si incuneano nel bel mezzo di Stati amici come la Giordania ed Israele, con l’Egitto ridotto ad una polveriera pronta ad esplodere, denota invece una lungimiranza fuori dal comune. Straordinaria se si pensa che per ottenere l’eccezionale risultato, si vanno a pestare i piedi pure a superpotenze come la Russia e la Cina, irrompendo a suon di bombe in un paese da sempre sotto la loro influenza geopolitica.
Ma oramai Mr President mica può perdere la faccia. E dunque comincino i fuochi d’artificio!

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Posted in Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 4 gennaio 2010 by Sendivogius

  Con la lucida lungimiranza che da sempre ne contraddistingue gli affari esteri, gli Stati Uniti si preparano ad aprire l’ennesimo fronte di guerra, stavolta nello Yemen, con un perverso gusto per le ‘incompiute’ (Somalia, Iraq, Afghanistan) e la tendenza a scegliersi l’alleato peggiore nel posto sbagliato…
Come l’ennesimo “bombardamento chirurgico” riuscirà a cogliere di sorpresa i presunti terroristi accampati tra le pietraie yemenite, e debellare gli emuli di Al-Qaeda nella regione dell’Hadramout, è un segreto noto solo ai cervelloni dell’intelligence ed ai mastini del Pentagono. Infatti, con largo anticipo sul blitz, l’imminenza dell’attacco statunitense è ormai chiara anche al più ottuso tra i guerriglieri tribali, che quindi avrà tempo e modo di levare le tende, ben prima dello strombazzato arrivo del 7° Cavalleggeri giunto a castigare il cattivone di turno.
Senza essere un fulmine di guerra, chiunque abbia un minimo di conoscenza della sanguinosa ‘Arte’ sa che requisiti fondamentali per la riuscita di una operazione militare sono: Sorpresa; Velocità; Coordinamento.
Per neutralizzare l’effetto ‘sorpresa’ basta sintonizzarsi sulla CNN.
Sulla ‘velocità’ di attivazione, la gigantesca macchina da guerra americana ha i tempi di reazione e la visibilità di un brachiosauro. E dunque è prevedibile.
Sul ‘coordinamento’ invece ci si aspetterebbe una maggiore collaborazione tra agencies, impegnate piuttosto a nascondersi informazioni a vicenda.
Invece, a funzionare benissimo è la propaganda securitaria nella sua variante bellico-patriottica. Questo perché i governi in calo di consenso restano convinti che un popolo spaventato sia più docile all’obbedienza. Anche perché alla comprensione dei problemi e delle dinamiche geopolitiche si preferisce l’entusiasmo bambinone di una “superpotenza” che, sul campo, dalla Corea in poi, non vince più una guerra vera!
 Di sicuro, la ricca dose di “missili intelligenti”, e relativi collateral damages, contribuiranno moltissimo a rafforzare il regime yemenita, instillando commossi sentimenti di gratitudine nella popolazione, beneficiata in modo così esplosivo. Più che mai, il preannunciato raid riuscirà a prosciugare i consensi attorno alla propaganda wahabita, abbondantemente annaffiata dai petrodollari sauditi (ma di questo è meglio tacere), alla base del terrorismo jihadista.
Eppure, a volte, basterebbe poco capire che esistono vespai nei quali è d’obbligo muoversi con estrema cautela, ovvero non entrarvi affatto! Basterebbe fare tesoro delle esperienze passate… Cosa che per esempio non è avvenuta in Afghanistan: la scabrosa disfatta strategica da nascondere sotto il tappetino dell’informazione mediatica; la rachitica piantina morente da innaffiare di tanto in tanto con un po’ di retorica celebrativa. Che la missione in Afghanistan sia un fallimento è ormai evidente persino ai suoi più accesi fautori; per questo se ne parla il meno possibile. E ci si riferisce ad un Paese dove il tempo sembra trascorrere immutabile, in un ciclo perennemente avvitato su sé stesso. Cambiano i protagonisti, ma circostanze e problematiche restano invariate nel corso dei secoli, quasi fossero ascritte in un limbo atemporale. Tant’è che un osservatore dell’800 troverebbe poche differenze con la situazione attuale: 
 a) L’assenza di un governo centrale, abbastanza forte da accentrare su di sé i pieni poteri ed il controllo sui riottosi signori della guerra locali;
 b) Il conflitto endemico tra i vari gruppi etnici in un continuo attrito di forze contrapposte, secondo gli equilibri mutevoli di fragili alleanze siglate sulla necessità del momento… Gli Hazara sciiti, fieramente opposti agli Aimak sunniti. I Tagiki del Badakhshan. Gli Uzbeki e le popolazioni turcomanne del nord-ovest. L’etnia dominante dei Pashtun (o Afghan), che costituisce la maggioranza del Paese al quale dà il nome e che i coloniali britannici chiamavano “Phatan”.  
 c) La costante pressione destabilizzante verso la turbolenta Peshawar.
 d) Una ostilità endemica con l’Iran (Persia).
 e) La funzione strategica che l’Afghanistan ha rivestito, come ridotta di contenimento per l’espansionismo russo (zarista prima e sovietico poi) e per le ambizioni persiane. In quanto cuscinetto ideale a difesa dell’India, ha costituito la valvola di sfogo ideale, tramite interposizione di forze, per le tensioni imperiali delle grandi superpotenze: Impero Britannico nell’800 e USA nel ‘900 versus il gigante chiamato Russia. 
 f) I disastrosi fallimenti che hanno caratterizzato ogni tentativo di invasione e di occupazione diretta del territorio.

Un illustre precedente
 Sorvolando sulla disfatta sovietica negli anni ‘80, durante il XIX sec. i britannici si impegnarono in Afghanistan in tre distinte campagne di guerra, a distanza di 40 anni l’una dall’altra: 1839-1842; 1879-1880; 1919. Evidentemente, le esperienze passate (e gli errori) hanno insegnato poco…
Particolarmente sfortunata è la prima guerra anglo-afgana, che comportò la distruzione di un intero corpo d’armata coloniale durante una disastrosa ritirata: 6 reggimenti di fanteria, in massima parte fucilieri indigeni del Bengala; un reggimento di cavalleggeri ed un altro di artiglieria ippotrainata.
Fu una disfatta che per molti versi ricorda quella subita dalle legioni romane di Publio Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo (9 d.C.).
Riportiamo le fasi salienti dell’episodio nella prosa scorrevole e accattivante di Stefano Malatesta, nella sua opera dedicata all’avventurosa vita del generale borbonico Paolo Avitabile.
Si tratta di una lettura assai evocativa… 

   Una gelida mattina del gennaio 1842, regnando graziosamente la regina Vittoria non ancora imperatrice, un ufficiale medico dell’esercito coloniale inglese, di nome Brydon, comparve stremato alla porta principale di Jalalabad, un forte dell’Afghanistan vicino alla frontiera indiana, lungo la pista tra Kabul e il Khyber Pass. Fino a pochi minuti prima lui stesso aveva creduto di non potercela mai fare. Inseguito tra le alture coperte di neve da un gruppo di cavalieri afghani e oramai quasi circondato, aveva già spezzato la sciabola perché non finisse intatta nelle mani di chi l’avrebbe tra poco sgozzato senza pietà, come aveva visto fare innumerevoli volte durante quella spaventosa ritirata da Kabul, fossero donne, uomini o bambini. Improvvisamente gli afghani erano spariti e nello stesso tempo l’ufficiale medico si era trovato di fronte le mura di fango di Jalalabad, dove sventolava la Union Jack. Aveva allora raggiunto lentamente il forte senza sapere ancora di essere l’unico superstite di una delle più umilianti sconfitte che avessero mai subito le truppe britanniche, avviate a conquistare un glorioso, ma effimero impero.
(…) Tutto era cominciato nel 1839 con l’occupazione di Kabul, allora come adesso circondata da un altopiano inospitale e privo di vegetazione, abitata da una popolazione di cui si sapeva poco, e quel poco doveva bastare per tenersi alla larga. Gli afghani potevano essere vivaci, coraggiosi, persino amichevoli, ma una tradizione consolidata li presentava come di animo estremamente mutevole, pronti a trasformarsi in bande assai temibili di traditori e assassini. Non solo odiavano qualsiasi straniero osasse mettere piede nel paese, per una ragione o per l’altra, ma erano incessantemente in guerra tra loro, uno dei popoli più naturalmente portati a cercare e a trovare nel combattimento la soluzione di tutti i problemi.
La divisione in grandi clan tribali, i Durrani, i Ghilzai, i Barakzai, con i loro usi, costumi, lealtà particolari, che venivano in parte ereditati dagli innumerevoli sotto clan, a loro volta divisi tra loro, pronti ad allearsi come a diventare nemici per molto poco, rendevano l’Afghanistan un paese estremamente difficile da capire e assolutamente impossibile da governare. Già allora la sua fama era tale che quando arrivò a Londra la notizia, quattro o cinque mesi più tardi, che
Lord Auckland, governatore generale dell’India, aveva mandato una spedizione a Kabul, una parte dell’establishment, quella più informata della situazione nel lontano oriente come i direttori della East India Company, aveva commentato che entrare in Afghanistan poteva essere facile, uscirne vivi sarebbe stato molto più difficile. Ma Palmerston, ministro degli Esteri del governo Wigh, aveva appoggiato l’iniziativa, come faceva sempre quando c’era da tenere alto l’onore britannico servendosi dei cannoni. Anche perché Auckland si era mosso dopo aver saputo della presenza di inviati russi alla corte del re afghano Dost Mohammed, che apparteneva all’ultima tra le otto casate reali alternatesi in mezzo secolo: erano le prime avvisaglie di un magno confronto imperiale, The Great Game o il Grande Gioco, (come sanno tutti quelli che hanno letto Kim di Kipling) paradossalmente basato su falsi presupposti, ma che terrà desta e pronta a intervenire l’Inghilterra durante tutto l’Ottocento.
È quasi impossibile rendersi conto oggi della paranoia che attraversava l’opinione pubblica inglese e i circoli governativi ad ogni mossa nei russi in Asia. Dai primi del Settecento l’impero degli zar non aveva fatto che espandersi dagli Urali verso Oriente e ora gli inglesi cominciavano a temere per l’India, l’inestimabile gioiello senza il quale le colonie britanniche erano solo dei litorali selvaggi, come pezzi gettati alla rinfusa di un mosaico privato nel motivo centrale. Di volta in volta la Persia, l’Egitto, la Turchia, persino i Balcani erano stati considerati dagli strateghi di Londra come la chiave per il loro amato possedimento e più tardi e a lungo anche la frontiera montagnosa del Nord-Ovest, che si rivelerà assolutamente invalicabile da eserciti.
Ma il primo, se non il più classico Great Game verrà giocato tutto nell’Afghanistan, che nell’ottica della geopolitica britannica doveva avere un ruolo di Stato cuscinetto. Poi, nel 1837, un agente inglese era stato a Kabul e aveva trovato conferma della presenza dei russi, e anche se nessuno sapeva cosa erano venuti a fare, i coloniali britannici erano entrati in fibrillazione, immaginando gli squadroni della cavalleria cosacca risalire al galoppo il Khyber Pass. Passando le informazioni agli uffici governativi di Simla, dove il governatore generale andava a risiedere durante l’estate, trasferendosi dalla bollente Calcutta alle alture pre-himalayane, l’agente aveva raccomandato di considerare Dost, con tutti i suoi possibili flirt con i russi, come un potenziale alleato e un personaggio ragguardevole. Auckland lo riteneva invece un uomo assolutamente infido e dando l’ordine a 9500 soldati della Corona e della East Indian Company di marciare su Kabul, aveva anche spedito un sostituto alla poltrona regale,
Shah Shuja, un elegante vegliardo totalmente inetto, famoso unicamente per essere stato il proprietario del diamante Koh-i-nor, la Montagna di Luce, che oggi riposa negli scrigni del tesoro reale inglese. Shuja si era portato dietro circa seimila sepoys e un paio di squadroni di autentici predoni, gli “Yellow Boys”, che insieme con gli altri formavano quella che pomposamente venne chiamata “L’Armata dell’Indo”.
Come operazione militare, l’invasione si rivelò un pieno successo. Presi di sorpresa gli afghani tardarono a reagire e la più minacciosa fortezza di tutto il paese, Gazhni, fu catturata con un abile e coraggioso colpo di mano di un ufficiale,
Henry Durant, uno degli eroi prototipi dell’epopea coloniale, come Gordon nel Sudan, il tenente Manners Smith tra i Dardi del Karakorum, i soldati sopravvissuti all’attacco dei battaglioni zulù a Rorke’s Drift, tutti decorati con la Victoria Cross. Dost era fuggito, andando a mettersi incautamente nelle mani dell’emiro pazzo di Buchara, l’aveva poi scampata, rientrando in Afghanistan alla testa di un contingente di irriducibili, ma per ragioni che non sono mai state spiegate con chiarezza, e meno di tutti dagli afghani, si era arreso agli inglesi ed era stato mandato in India sotto scorta. Così i rappresentanti di Lord Auckland, dopo aver trasformato il paese in un protettorato britannico, si erano assicurati con un trattato firmato da Shuja appena salito al trono la permanenza per un tempo indefinito delle truppe anglo-indiani, sicuri di costringere i riottosi guerrieri tribali a cooperare alternando la minaccia di usare la forza alla corruzione dei capi tribù. Questa sicurezza era solo un’illusione, derivata dalla non conoscenza dell’indole degli afgani. Intanto alcuni gruppi, come i fondamentalisti islamici chiamati Ghazi, e gli uomini della tribù Ghilzai, che controllavano i principali passi di montagna per l’India, non avevano mai accettato la presenza occidentale e continuavano a muoversi in modo turbolento. Ma anche degli altri apparentemente sottomessi c’era pochissimo da fidarsi, considerando che la simulazione aveva sempre avuto nei costumi tribali uno status paragonabile a quello del coraggio.
A questo punto ci furono due errori di Auckland, uomo di intelligenza modesta e di scarsa immaginazione: pensando che non fosse più necessario mantenere tanti soldati accampati scomodamente intorno d Kabul, aveva fatto ritirare oltre il Khyber buona parte della truppa, lasciando una divisione di fanteria, un reggimento di cavalleria e una batteria di cannoni. E al posto del
generale Keane, il comandante dell’armata che si era mosso con abilità tra le montagne afghane e che ora rientrava anche lui in India, aveva nominato una nullità paragonabile a quell’altra nullità che era il re: il maggior-generale William Elphinstone, un imbambolato reduce di Waterloo, indeciso a tutto. Nessuno di questi ultimi due si era reso conto di quanto il protettorato inglese rendesse furibondi tutti gli afghani, e che il loro intuito politico fosse vicino allo zero fu chiaro quando il linciaggio del residente britannico da parte di una folla inferocita li colse completamente impreparati.

[Ad essere fatti a pezzi furono il capitano Alexander Burnes ed il suo attendente William Broadfoot, entrambi trucidati insieme alla loro piccola scorta indiana. A.Burnes era uno scozzese entrato giovanissimo nella Compagnia delle Indie Orientali. Avventuriero, esploratore, poliglotta, interprete, è uno dei primissimi occidentali a visitare in incognito Kabul e la città di Bukhara dominata con pugno di ferro dal sanguinario emiro Nasrallah. È Burnes l’agente infiltrato in territorio afgano. È sempre lui che si preoccupa della logistica e dei contatti diplomatici, dopo aver invano caldeggiato il sostegno a Dost Mohammed, presso l’ottuso lord Auckland.]

Quasi di colpo, tutto quello che sembrava andare favorevolmente, ora aveva preso un andamento negativo, tra fatti grandi e fatti piccoli, tra i quali si contavano una caduta da cavallo di Elphinstone, diventato ancora più indeciso e anche un po’ suonato, e l’arrivo sulla scena di un formidabile leader della rivolta, Akhbar Khan, il figlio di Dost.
Alla fine del 1841 la situazione era tale per cui le truppe di occupazione, fino a poche settimane prima sicure di controllare gli irriducibili guerriglieri delle montagne, ora si sentivano assediate e non pensavano che andarsene via da quell’orribile paese. Volevano solo la garanzia di non venire ammazzati come cani infedeli lungo la strada di ritorno e una deputazione guidata dal rappresentante del governatore generale andò a chiederla a Akhbar, che aspettava vicino Ghazi. Come risposta e perché non ci fossero equivoci sulla fine prevista per tutti, i componenti della deputazione furono sgozzati e l’Inviato – questo era il suo titolo – ucciso dallo stesso Akhbar.

[È il baronetto William Hay Macnaghten, l’agente politico che aveva convinto il governatore britannico a sostenere le pretese al trono del debole Shuja. Tra le altre cose, sir Macnaghten era il diretto superiore di Burnes, che già aveva provveduto a fare una pessima fine.]

Il 6 gennaio del 1842 quello che rimaneva dell’Armata dell’Indo cominciò la ritirata, la più tremenda della storia militare inglese. La colonna, sparpagliata per una lunghezza di una quindicina di chilometri e composta di oltre sedicimila profughi di cui settecento europei e quasi quattromila soldati indiani, sarebbe stata al sicuro a Jalalabad, distante solo centocinquanta chilometri. Ma era inverno, la strada saliva fino a passi ricoperti di neve e sulle montagne erano in agguato trentamila afghani che cominciarono ad attaccare a piccoli gruppi, come animali da preda. I primi ad essere eliminati furono tutti quelli incapaci di difendersi, la parte più debole della massa fluttuante che seguiva ovunque l’esercito inglese. I resoconti dell’epoca parlano di centinaia di donne indiane spogliate, violentate e sgozzate, i cui corpi venivano lasciati a imputridire lungo la pista. Poi fu la volta dei servi – ogni ufficiale inglese ne aveva da sei a dieci a disposizione – dei portatori semplici e di quelli che trasportavano l’acqua, dei maniscalchi, dei sellai, dei fabbri, dei sarti, degli uomini che pulivano gli ottoni, o che tiravano su le tende, dei cuochi e degli stallieri, dei pastori e dei macellai: tutta l’infinita varietà dei lavoratori che stavano alle dipendenze dell’esercito più viziato che ci fosse, a partire dal tenente in su. Furono massacrati inesorabilmente. I loro padroni non fecero una fine migliore. La ritirata durò sei giorni e durante questo tempo andarono avanti trattative che si risolvevano in altre trappole e altri tradimenti, consumati con gusto dagli afghani, che non vedevano nulla di disonorevole nel non tenere fede alla parola data a un nemico. Disonorevole sarebbe stato non essere riusciti a ucciderlo.
Convocato al comando di Akhbar, il generale Elphinstone venne trattenuto come ostaggio e non se ne seppe più nulla. Un gruppo di soldati inglesi che era riuscito miracolosamente a raggiungere un paese a venticinque chilometri da Jalalabad, fu ospitato con segni di amicizia dai paesani e trucidato di notte.

[Sono i soldati inglesi del 44° Rgt dell’Essex. O meglio, è ciò che ne rimane: 20 ufficiali ed una cinquantina di fanti (sui 670 unità alla partenza). Arrivati a Gandamak, gli inglesi vengono totalmente sopraffatti. Si salvano in 4.]

Qualche giorno più tardi al forte inglese arrivò un lugubre omaggio mandato da Akhbar: era il corpo del povero Elphinstone, avvolto in erbe aromatiche e seguito dal suo valletto, risparmiato per poter accompagnare il comandante inglese nell’ultimo viaggio di ritorno. Degli altri protagonisti della vicenda, il re burattino Shuja fu naturalmente eliminato, ma anche Akhbar morì qualche anno più tardi, probabilmente avvelenato.
Lord Auckland, dopo aver scritto che la catastrofe era stata per lui totalmente incomprensibile, invece di passare il resto dei suoi giorni a meditare delle umane sorti in qualche villa del Surrey, diventò Primo Lord dell’Ammiragliato: una di quelle eccentricità di cui gli inglesi sono stati maestri. Le forze britanniche ritornarono in Afghanistan l’anno successivo, facendo saltare il bazaar di Kabul come inutile intimidazione, perché non riuscirono mai a normalizzare, come si dice, la regione e quarant’anni più tardi furono trascinati in un’altra guerra.”

  STEFANO MALATESTA
  “Il napoletano che domò gli afgani”
  Neri Pozza Editore;
  Vicenza 2002

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