Archivio per Intelligence

E adesso sono KATZ!!!

Posted in Business is Business, Ossessioni Securitarie with tags , , , , , , on 25 agosto 2017 by Sendivogius

Ad ogni cacatina improvvidamente rilasciata nelle pieghe profonde del web dallo psicopatico barbuto di turno, ecco che puntuale giunge il fondamentale supporto mediatico della signora Katz, la quale con il suo “SITE” assicura ogni volta la massima rilevanza possibile anche al più insignificante rigurgito della propaganda “jihadista”, offrendo canali di diffusioni altrimenti impensabili persino ai messaggi più scalcagnati del salafismo militante. Specializzata nella ricerca delle entità terroristiche internazionali (da cui l’acronimo del suo “Istituto”), la signora Katz non agisce certo per disinteressato spirito di servizio, visto che si fa profumatamente retribuire per il disturbo. Come una pseudo agenzia di intelligence privata possa poi offrire performance e standard operativi migliori di un qualsiasi ente governativo preposto ai servizi di sicurezza, e farlo meglio della CIA o della NSA per dire, è cosa tutta da dimostrare. Né si capisce perché dati sensibili per l’attività anti-terroristica debbano essere monitorati da una società privata a scopo di lucro, che certo tra le sue finalità ha tutto l’interesse (perché remunerato sulla quantità) a ‘pompare’ la rilevanza mediatica della minaccia presunta ed ingigantirne l’eventuale portata. Ed in tal modo finisce col diventare la migliore cassa di risonanza, per la propaganda e la veicolazione dei messaggi proprio di quei gruppi che dice di voler combattere…

Ora, siccome per una serie di fortunate circostanze, l’Italia è stata risparmiata dalla follia del terrorismo di matrice islamista (guarda le coincidenze!?), dal magico cilindro della signora Katz ecco che spunta fuori la minaccia fresca di giornata, contro l’Italia ed il Vaticano (giusto per non farsi mancare nulla). A pensar male, si direbbe che il suo “SITE”, in piena campagna promozionale, sia alla ricerca di nuovi clienti ai quali proporre il prodotto delle proprie ‘ricerche’, pescate a strascico sulla rete e riconfenzionate per la vendita. E questo può costituire per paradosso un ulteriore problema, perché poi le informazioni di SITE finiscono col condizionare l’agenda politica dei governi e (peggio ancora) l’attività dei veri servizi di intelligence, senza che nessuno scorga l’anomalia insita in un meccanismo, che in fin dei conti mira al profitto e non alla reale prevenzione…

Ad accorgersi dell’anomalia, iniziano ad essere in parecchi. Per la bisogna riportiamo la più anonima e forse tra le più azzeccate delle critiche:

«Durante gli anni di piombo, in Italia, i comunicati delle BR venivano giustamente censurati dalle autorità di polizia, che ne proibivano la pubblicazione.  Lo scopo era evidente: evitare che le minacce del gruppo terroristico creassero inutilmente allarme nell’opinione pubblica: uno degli scopi principali della pratica terroristica è esattamente quello di creare allarme; che tramite i mass media i comunicati servissero a trasmettere indicazioni organizzative tra le cellule sparse sul territorio; che i comunicati stimolassero comportamenti emulativi e arruolamenti.  Con l’ISIS questa banale e doverosa pratica di polizia non viene attuata: i comunicati dell’organizzazione che incitano ad atti di terrorismo vengono scrupolosamente tradotti in varie lingue e diffusi integralmente su tutti i mass media mondiali; i filmati con le atrocità dimostrative e le minacce, peraltro realizzati con una competenza professionale inusitata per una organizzazione di quel genere, arrivano direttamente sui canali video dei TG di tutto il mondo a inorridire l’opinione pubblica; alle indicazioni programmatiche del centro di comando dell’ISIS viene fatto fare il giro del mondo.

Il “merito” di tutto questo va attribuito al SITE di Rita Katz, società notoriamente collaterale al Mossad, che costantemente monitora i canali comunicativi dell’ISIS, ne carica i contenuti, li prepara e li trasmette debitamente tradotti alle redazioni dei mezzi di informazione affinché siano diffusi.  Tornando agli anni di piombo: se una organizzazione avesse svolto questa funzione di servizio per le BR sarebbe stata sicuramente oggetto delle “attenzioni” di polizia e servizi di intelligence: i suoi membri sarebbero stati indagati, e certamente denunciati per complicità con le Brigare Rosse; i comunicati sarebbero stati censurati e i mezzi di comunicazione sarebbero stati invitati a non diffonderli.  Niente di tutto questo avviene nei confronti del SITE, che di fatto agisce come efficace megafono dell’ISIS. Al contrario: al SITE viene espressa la stima e l’apprezzamento delle autorità e dei mass media per l’opera di diffusione di messaggi e contenuti che da una parte creano raccapriccio, paura, ansia, nell’opinione pubblica e dall’altra vanno ad infiammare gli integralismi in tutto il mondo islamico e a fornire indicazioni organizzative e programmatiche alle cellule jihadiste nei cinque continenti.  Il “mistero” è che nessuna autorità statale e nessuno dei mass media mondiali rileva la necessità di contenere l’attività del SITE (e del Mossad dietro di esso) e di approfondire le finalità di questa agenzia. Il mistero si infittisce ulteriormente se si pensa che il SITE preleva i contenuti che diffonde da canali accessibili anche alla più scalcinata delle agenzie di intelligence, a qualunque privato cittadino minimamente preparato, a qualsiasi redazione di giornale o TG.  Ora l’agenzia di Rita Katz sta diffondendo ai jihadisti di tutto il mondo, e specificamente a quelli che si presume risiedono nel nostro Paese, l’invito a colpire l’Italia. E poiché anche gli integralisti seguono i TG e leggono i giornali, c’è da aspettarsi che l’invito giunga forte e chiaro a tutti e a ciascuno di essi. E se qualcuno di essi dovesse ritenere suo dovere aderirvi: ad esempio accoltellando in strada passanti a caso; scagliandosi con l’automobile contro le persone a passeggio; preparando qualche bomba artigianale da far esplodere in un centro commerciale affollato, sappiamo chi dovremo ringraziare: il SITE di Rita Katz; l’ignavia delle nostre autorità di polizia e di intelligence; la supina e acritica complicità dei mass media; la subordinazione della nostra diplomazia, incapace di esercitare pressioni sugli sponsor del SITE

“Persio Flacco”

Diceva qualcuno che a pensar male si commetteva peccato… Però spesso si aveva ragione nel farlo…

 

 

ACCADDE DOMANI

Posted in Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 4 gennaio 2010 by Sendivogius

  Con la lucida lungimiranza che da sempre ne contraddistingue gli affari esteri, gli Stati Uniti si preparano ad aprire l’ennesimo fronte di guerra, stavolta nello Yemen, con un perverso gusto per le ‘incompiute’ (Somalia, Iraq, Afghanistan) e la tendenza a scegliersi l’alleato peggiore nel posto sbagliato…
Come l’ennesimo “bombardamento chirurgico” riuscirà a cogliere di sorpresa i presunti terroristi accampati tra le pietraie yemenite, e debellare gli emuli di Al-Qaeda nella regione dell’Hadramout, è un segreto noto solo ai cervelloni dell’intelligence ed ai mastini del Pentagono. Infatti, con largo anticipo sul blitz, l’imminenza dell’attacco statunitense è ormai chiara anche al più ottuso tra i guerriglieri tribali, che quindi avrà tempo e modo di levare le tende, ben prima dello strombazzato arrivo del 7° Cavalleggeri giunto a castigare il cattivone di turno.
Senza essere un fulmine di guerra, chiunque abbia un minimo di conoscenza della sanguinosa ‘Arte’ sa che requisiti fondamentali per la riuscita di una operazione militare sono: Sorpresa; Velocità; Coordinamento.
Per neutralizzare l’effetto ‘sorpresa’ basta sintonizzarsi sulla CNN.
Sulla ‘velocità’ di attivazione, la gigantesca macchina da guerra americana ha i tempi di reazione e la visibilità di un brachiosauro. E dunque è prevedibile.
Sul ‘coordinamento’ invece ci si aspetterebbe una maggiore collaborazione tra agencies, impegnate piuttosto a nascondersi informazioni a vicenda.
Invece, a funzionare benissimo è la propaganda securitaria nella sua variante bellico-patriottica. Questo perché i governi in calo di consenso restano convinti che un popolo spaventato sia più docile all’obbedienza. Anche perché alla comprensione dei problemi e delle dinamiche geopolitiche si preferisce l’entusiasmo bambinone di una “superpotenza” che, sul campo, dalla Corea in poi, non vince più una guerra vera!
 Di sicuro, la ricca dose di “missili intelligenti”, e relativi collateral damages, contribuiranno moltissimo a rafforzare il regime yemenita, instillando commossi sentimenti di gratitudine nella popolazione, beneficiata in modo così esplosivo. Più che mai, il preannunciato raid riuscirà a prosciugare i consensi attorno alla propaganda wahabita, abbondantemente annaffiata dai petrodollari sauditi (ma di questo è meglio tacere), alla base del terrorismo jihadista.
Eppure, a volte, basterebbe poco capire che esistono vespai nei quali è d’obbligo muoversi con estrema cautela, ovvero non entrarvi affatto! Basterebbe fare tesoro delle esperienze passate… Cosa che per esempio non è avvenuta in Afghanistan: la scabrosa disfatta strategica da nascondere sotto il tappetino dell’informazione mediatica; la rachitica piantina morente da innaffiare di tanto in tanto con un po’ di retorica celebrativa. Che la missione in Afghanistan sia un fallimento è ormai evidente persino ai suoi più accesi fautori; per questo se ne parla il meno possibile. E ci si riferisce ad un Paese dove il tempo sembra trascorrere immutabile, in un ciclo perennemente avvitato su sé stesso. Cambiano i protagonisti, ma circostanze e problematiche restano invariate nel corso dei secoli, quasi fossero ascritte in un limbo atemporale. Tant’è che un osservatore dell’800 troverebbe poche differenze con la situazione attuale: 
 a) L’assenza di un governo centrale, abbastanza forte da accentrare su di sé i pieni poteri ed il controllo sui riottosi signori della guerra locali;
 b) Il conflitto endemico tra i vari gruppi etnici in un continuo attrito di forze contrapposte, secondo gli equilibri mutevoli di fragili alleanze siglate sulla necessità del momento… Gli Hazara sciiti, fieramente opposti agli Aimak sunniti. I Tagiki del Badakhshan. Gli Uzbeki e le popolazioni turcomanne del nord-ovest. L’etnia dominante dei Pashtun (o Afghan), che costituisce la maggioranza del Paese al quale dà il nome e che i coloniali britannici chiamavano “Phatan”.  
 c) La costante pressione destabilizzante verso la turbolenta Peshawar.
 d) Una ostilità endemica con l’Iran (Persia).
 e) La funzione strategica che l’Afghanistan ha rivestito, come ridotta di contenimento per l’espansionismo russo (zarista prima e sovietico poi) e per le ambizioni persiane. In quanto cuscinetto ideale a difesa dell’India, ha costituito la valvola di sfogo ideale, tramite interposizione di forze, per le tensioni imperiali delle grandi superpotenze: Impero Britannico nell’800 e USA nel ‘900 versus il gigante chiamato Russia. 
 f) I disastrosi fallimenti che hanno caratterizzato ogni tentativo di invasione e di occupazione diretta del territorio.

Un illustre precedente
 Sorvolando sulla disfatta sovietica negli anni ‘80, durante il XIX sec. i britannici si impegnarono in Afghanistan in tre distinte campagne di guerra, a distanza di 40 anni l’una dall’altra: 1839-1842; 1879-1880; 1919. Evidentemente, le esperienze passate (e gli errori) hanno insegnato poco…
Particolarmente sfortunata è la prima guerra anglo-afgana, che comportò la distruzione di un intero corpo d’armata coloniale durante una disastrosa ritirata: 6 reggimenti di fanteria, in massima parte fucilieri indigeni del Bengala; un reggimento di cavalleggeri ed un altro di artiglieria ippotrainata.
Fu una disfatta che per molti versi ricorda quella subita dalle legioni romane di Publio Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo (9 d.C.).
Riportiamo le fasi salienti dell’episodio nella prosa scorrevole e accattivante di Stefano Malatesta, nella sua opera dedicata all’avventurosa vita del generale borbonico Paolo Avitabile.
Si tratta di una lettura assai evocativa… 

   Una gelida mattina del gennaio 1842, regnando graziosamente la regina Vittoria non ancora imperatrice, un ufficiale medico dell’esercito coloniale inglese, di nome Brydon, comparve stremato alla porta principale di Jalalabad, un forte dell’Afghanistan vicino alla frontiera indiana, lungo la pista tra Kabul e il Khyber Pass. Fino a pochi minuti prima lui stesso aveva creduto di non potercela mai fare. Inseguito tra le alture coperte di neve da un gruppo di cavalieri afghani e oramai quasi circondato, aveva già spezzato la sciabola perché non finisse intatta nelle mani di chi l’avrebbe tra poco sgozzato senza pietà, come aveva visto fare innumerevoli volte durante quella spaventosa ritirata da Kabul, fossero donne, uomini o bambini. Improvvisamente gli afghani erano spariti e nello stesso tempo l’ufficiale medico si era trovato di fronte le mura di fango di Jalalabad, dove sventolava la Union Jack. Aveva allora raggiunto lentamente il forte senza sapere ancora di essere l’unico superstite di una delle più umilianti sconfitte che avessero mai subito le truppe britanniche, avviate a conquistare un glorioso, ma effimero impero.
(…) Tutto era cominciato nel 1839 con l’occupazione di Kabul, allora come adesso circondata da un altopiano inospitale e privo di vegetazione, abitata da una popolazione di cui si sapeva poco, e quel poco doveva bastare per tenersi alla larga. Gli afghani potevano essere vivaci, coraggiosi, persino amichevoli, ma una tradizione consolidata li presentava come di animo estremamente mutevole, pronti a trasformarsi in bande assai temibili di traditori e assassini. Non solo odiavano qualsiasi straniero osasse mettere piede nel paese, per una ragione o per l’altra, ma erano incessantemente in guerra tra loro, uno dei popoli più naturalmente portati a cercare e a trovare nel combattimento la soluzione di tutti i problemi.
La divisione in grandi clan tribali, i Durrani, i Ghilzai, i Barakzai, con i loro usi, costumi, lealtà particolari, che venivano in parte ereditati dagli innumerevoli sotto clan, a loro volta divisi tra loro, pronti ad allearsi come a diventare nemici per molto poco, rendevano l’Afghanistan un paese estremamente difficile da capire e assolutamente impossibile da governare. Già allora la sua fama era tale che quando arrivò a Londra la notizia, quattro o cinque mesi più tardi, che
Lord Auckland, governatore generale dell’India, aveva mandato una spedizione a Kabul, una parte dell’establishment, quella più informata della situazione nel lontano oriente come i direttori della East India Company, aveva commentato che entrare in Afghanistan poteva essere facile, uscirne vivi sarebbe stato molto più difficile. Ma Palmerston, ministro degli Esteri del governo Wigh, aveva appoggiato l’iniziativa, come faceva sempre quando c’era da tenere alto l’onore britannico servendosi dei cannoni. Anche perché Auckland si era mosso dopo aver saputo della presenza di inviati russi alla corte del re afghano Dost Mohammed, che apparteneva all’ultima tra le otto casate reali alternatesi in mezzo secolo: erano le prime avvisaglie di un magno confronto imperiale, The Great Game o il Grande Gioco, (come sanno tutti quelli che hanno letto Kim di Kipling) paradossalmente basato su falsi presupposti, ma che terrà desta e pronta a intervenire l’Inghilterra durante tutto l’Ottocento.
È quasi impossibile rendersi conto oggi della paranoia che attraversava l’opinione pubblica inglese e i circoli governativi ad ogni mossa nei russi in Asia. Dai primi del Settecento l’impero degli zar non aveva fatto che espandersi dagli Urali verso Oriente e ora gli inglesi cominciavano a temere per l’India, l’inestimabile gioiello senza il quale le colonie britanniche erano solo dei litorali selvaggi, come pezzi gettati alla rinfusa di un mosaico privato nel motivo centrale. Di volta in volta la Persia, l’Egitto, la Turchia, persino i Balcani erano stati considerati dagli strateghi di Londra come la chiave per il loro amato possedimento e più tardi e a lungo anche la frontiera montagnosa del Nord-Ovest, che si rivelerà assolutamente invalicabile da eserciti.
Ma il primo, se non il più classico Great Game verrà giocato tutto nell’Afghanistan, che nell’ottica della geopolitica britannica doveva avere un ruolo di Stato cuscinetto. Poi, nel 1837, un agente inglese era stato a Kabul e aveva trovato conferma della presenza dei russi, e anche se nessuno sapeva cosa erano venuti a fare, i coloniali britannici erano entrati in fibrillazione, immaginando gli squadroni della cavalleria cosacca risalire al galoppo il Khyber Pass. Passando le informazioni agli uffici governativi di Simla, dove il governatore generale andava a risiedere durante l’estate, trasferendosi dalla bollente Calcutta alle alture pre-himalayane, l’agente aveva raccomandato di considerare Dost, con tutti i suoi possibili flirt con i russi, come un potenziale alleato e un personaggio ragguardevole. Auckland lo riteneva invece un uomo assolutamente infido e dando l’ordine a 9500 soldati della Corona e della East Indian Company di marciare su Kabul, aveva anche spedito un sostituto alla poltrona regale,
Shah Shuja, un elegante vegliardo totalmente inetto, famoso unicamente per essere stato il proprietario del diamante Koh-i-nor, la Montagna di Luce, che oggi riposa negli scrigni del tesoro reale inglese. Shuja si era portato dietro circa seimila sepoys e un paio di squadroni di autentici predoni, gli “Yellow Boys”, che insieme con gli altri formavano quella che pomposamente venne chiamata “L’Armata dell’Indo”.
Come operazione militare, l’invasione si rivelò un pieno successo. Presi di sorpresa gli afghani tardarono a reagire e la più minacciosa fortezza di tutto il paese, Gazhni, fu catturata con un abile e coraggioso colpo di mano di un ufficiale,
Henry Durant, uno degli eroi prototipi dell’epopea coloniale, come Gordon nel Sudan, il tenente Manners Smith tra i Dardi del Karakorum, i soldati sopravvissuti all’attacco dei battaglioni zulù a Rorke’s Drift, tutti decorati con la Victoria Cross. Dost era fuggito, andando a mettersi incautamente nelle mani dell’emiro pazzo di Buchara, l’aveva poi scampata, rientrando in Afghanistan alla testa di un contingente di irriducibili, ma per ragioni che non sono mai state spiegate con chiarezza, e meno di tutti dagli afghani, si era arreso agli inglesi ed era stato mandato in India sotto scorta. Così i rappresentanti di Lord Auckland, dopo aver trasformato il paese in un protettorato britannico, si erano assicurati con un trattato firmato da Shuja appena salito al trono la permanenza per un tempo indefinito delle truppe anglo-indiani, sicuri di costringere i riottosi guerrieri tribali a cooperare alternando la minaccia di usare la forza alla corruzione dei capi tribù. Questa sicurezza era solo un’illusione, derivata dalla non conoscenza dell’indole degli afgani. Intanto alcuni gruppi, come i fondamentalisti islamici chiamati Ghazi, e gli uomini della tribù Ghilzai, che controllavano i principali passi di montagna per l’India, non avevano mai accettato la presenza occidentale e continuavano a muoversi in modo turbolento. Ma anche degli altri apparentemente sottomessi c’era pochissimo da fidarsi, considerando che la simulazione aveva sempre avuto nei costumi tribali uno status paragonabile a quello del coraggio.
A questo punto ci furono due errori di Auckland, uomo di intelligenza modesta e di scarsa immaginazione: pensando che non fosse più necessario mantenere tanti soldati accampati scomodamente intorno d Kabul, aveva fatto ritirare oltre il Khyber buona parte della truppa, lasciando una divisione di fanteria, un reggimento di cavalleria e una batteria di cannoni. E al posto del
generale Keane, il comandante dell’armata che si era mosso con abilità tra le montagne afghane e che ora rientrava anche lui in India, aveva nominato una nullità paragonabile a quell’altra nullità che era il re: il maggior-generale William Elphinstone, un imbambolato reduce di Waterloo, indeciso a tutto. Nessuno di questi ultimi due si era reso conto di quanto il protettorato inglese rendesse furibondi tutti gli afghani, e che il loro intuito politico fosse vicino allo zero fu chiaro quando il linciaggio del residente britannico da parte di una folla inferocita li colse completamente impreparati.

[Ad essere fatti a pezzi furono il capitano Alexander Burnes ed il suo attendente William Broadfoot, entrambi trucidati insieme alla loro piccola scorta indiana. A.Burnes era uno scozzese entrato giovanissimo nella Compagnia delle Indie Orientali. Avventuriero, esploratore, poliglotta, interprete, è uno dei primissimi occidentali a visitare in incognito Kabul e la città di Bukhara dominata con pugno di ferro dal sanguinario emiro Nasrallah. È Burnes l’agente infiltrato in territorio afgano. È sempre lui che si preoccupa della logistica e dei contatti diplomatici, dopo aver invano caldeggiato il sostegno a Dost Mohammed, presso l’ottuso lord Auckland.]

Quasi di colpo, tutto quello che sembrava andare favorevolmente, ora aveva preso un andamento negativo, tra fatti grandi e fatti piccoli, tra i quali si contavano una caduta da cavallo di Elphinstone, diventato ancora più indeciso e anche un po’ suonato, e l’arrivo sulla scena di un formidabile leader della rivolta, Akhbar Khan, il figlio di Dost.
Alla fine del 1841 la situazione era tale per cui le truppe di occupazione, fino a poche settimane prima sicure di controllare gli irriducibili guerriglieri delle montagne, ora si sentivano assediate e non pensavano che andarsene via da quell’orribile paese. Volevano solo la garanzia di non venire ammazzati come cani infedeli lungo la strada di ritorno e una deputazione guidata dal rappresentante del governatore generale andò a chiederla a Akhbar, che aspettava vicino Ghazi. Come risposta e perché non ci fossero equivoci sulla fine prevista per tutti, i componenti della deputazione furono sgozzati e l’Inviato – questo era il suo titolo – ucciso dallo stesso Akhbar.

[È il baronetto William Hay Macnaghten, l’agente politico che aveva convinto il governatore britannico a sostenere le pretese al trono del debole Shuja. Tra le altre cose, sir Macnaghten era il diretto superiore di Burnes, che già aveva provveduto a fare una pessima fine.]

Il 6 gennaio del 1842 quello che rimaneva dell’Armata dell’Indo cominciò la ritirata, la più tremenda della storia militare inglese. La colonna, sparpagliata per una lunghezza di una quindicina di chilometri e composta di oltre sedicimila profughi di cui settecento europei e quasi quattromila soldati indiani, sarebbe stata al sicuro a Jalalabad, distante solo centocinquanta chilometri. Ma era inverno, la strada saliva fino a passi ricoperti di neve e sulle montagne erano in agguato trentamila afghani che cominciarono ad attaccare a piccoli gruppi, come animali da preda. I primi ad essere eliminati furono tutti quelli incapaci di difendersi, la parte più debole della massa fluttuante che seguiva ovunque l’esercito inglese. I resoconti dell’epoca parlano di centinaia di donne indiane spogliate, violentate e sgozzate, i cui corpi venivano lasciati a imputridire lungo la pista. Poi fu la volta dei servi – ogni ufficiale inglese ne aveva da sei a dieci a disposizione – dei portatori semplici e di quelli che trasportavano l’acqua, dei maniscalchi, dei sellai, dei fabbri, dei sarti, degli uomini che pulivano gli ottoni, o che tiravano su le tende, dei cuochi e degli stallieri, dei pastori e dei macellai: tutta l’infinita varietà dei lavoratori che stavano alle dipendenze dell’esercito più viziato che ci fosse, a partire dal tenente in su. Furono massacrati inesorabilmente. I loro padroni non fecero una fine migliore. La ritirata durò sei giorni e durante questo tempo andarono avanti trattative che si risolvevano in altre trappole e altri tradimenti, consumati con gusto dagli afghani, che non vedevano nulla di disonorevole nel non tenere fede alla parola data a un nemico. Disonorevole sarebbe stato non essere riusciti a ucciderlo.
Convocato al comando di Akhbar, il generale Elphinstone venne trattenuto come ostaggio e non se ne seppe più nulla. Un gruppo di soldati inglesi che era riuscito miracolosamente a raggiungere un paese a venticinque chilometri da Jalalabad, fu ospitato con segni di amicizia dai paesani e trucidato di notte.

[Sono i soldati inglesi del 44° Rgt dell’Essex. O meglio, è ciò che ne rimane: 20 ufficiali ed una cinquantina di fanti (sui 670 unità alla partenza). Arrivati a Gandamak, gli inglesi vengono totalmente sopraffatti. Si salvano in 4.]

Qualche giorno più tardi al forte inglese arrivò un lugubre omaggio mandato da Akhbar: era il corpo del povero Elphinstone, avvolto in erbe aromatiche e seguito dal suo valletto, risparmiato per poter accompagnare il comandante inglese nell’ultimo viaggio di ritorno. Degli altri protagonisti della vicenda, il re burattino Shuja fu naturalmente eliminato, ma anche Akhbar morì qualche anno più tardi, probabilmente avvelenato.
Lord Auckland, dopo aver scritto che la catastrofe era stata per lui totalmente incomprensibile, invece di passare il resto dei suoi giorni a meditare delle umane sorti in qualche villa del Surrey, diventò Primo Lord dell’Ammiragliato: una di quelle eccentricità di cui gli inglesi sono stati maestri. Le forze britanniche ritornarono in Afghanistan l’anno successivo, facendo saltare il bazaar di Kabul come inutile intimidazione, perché non riuscirono mai a normalizzare, come si dice, la regione e quarant’anni più tardi furono trascinati in un’altra guerra.”

  STEFANO MALATESTA
  “Il napoletano che domò gli afgani”
  Neri Pozza Editore;
  Vicenza 2002

Homepage

La bomba di Stato

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 2 agosto 2009 by Sendivogius

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.

(Pier Paolo Pasolini – 14 Novembre 1974)

L'ora della strageBologna, 2 Agosto 1980. Fa caldo alla Stazione Centrale, nonostante sia mattina, e la sala d’attesa è già piena: comitive di ragazzi; giovani coppie in partenza; anziani. C’è chi aspetta un amico e chi invece ha perso una coincidenza. Chi parte per la prima volta e chi, come la piccola Angela, si è affacciata da poco alla vita.
Ore 10,25. Un lampo improvviso e Angela non esiste più. Il boato schiaccia i timpani e investe i presenti con una scarica di schegge, di vetri e detriti. L’onda d’urto è devastante. Risucchia i polmoni. Strappa gli arti. Si porta via i vestiti e la pelle. Sconquassa i corpi e li spazza lontano. Sui binari. Contro le carrozze del treno Ancona-Chiasso. La fiammata arriva subito e brucia la carne viva dei superstiti: un vento bollente che corrode le ferite fino alle ossa.
Polvere. Macerie. Morte.

“È esplosa una caldaia!”

Lo scrive in prima pagina ‘Il Resto del Carlino’. Lo dice la Polizia. Lo sostiene il Governo Cossiga.
Si scoprirà poi che ad esplodere è stata una valigia, appesantita con qualche chilo di esplosivo di uso militare. Per l’esattezza, si tratta di una miscela di RDX e TNT, esplosivo al plastico ad alto potenziale distruttivo: una carica di T4, ulteriormente arricchita con nitroglicerina gelatinata ad effetto detonante. La valigetta è stata opportunamente collocata su di una mensolina portabagagli, a ridosso di un muro portante nell’ala ovest della stazione, per meglio aumentare l’impatto esplosivo. L’esplosione investe la biglietteria ed i locali della ristorazione ferroviaria. Provoca il crollo del tetto della sala d’attesa della II° e della I° classe, che collassa addosso ai viaggiatori senza fare distinzioni. I cadaveri sono così tanti che un autobus della linea 37 viene dirottato e adibito ad obitorio provvisorio. Le ambulanze non bastano e si usano i taxi. I feriti sono più di duecento. Molti sono piagati da ustioni gravissime. E molti di loro moriranno dopo il ricovero.
Che si tratti di un attentato terroristico se ne renderà conto pure il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, immediatamente giunto sul posto. ‘Basta guardare il cratere lasciato dalla detonazione’ gli fanno notare i primi soccorritori. Ma Cossiga ed i suoi ministri ancora tergiversano. Qualcosa… e soprattutto qualcuno… deve essere sfuggito al controllo…

Carlino

Una lunga scia di sangue segna l’Italia dal 1969 al 1984. La strage di Bologna è sicuramente la più odiosa, ma è anche l’ennesimo tassello insanguinato di una strategia criminale, comunemente chiamata “Strategia della tensione”, che gode di appoggi politici e coperture istituzionali inconfessabili. Alla sua origine vi è un network politico-militare, con finalità atlantiche ed obiettivi ideologici precisi, ulteriormente cementato dal collante massonico offerto dalla Loggia P-2.
Si tratta di un connubio incestuoso tra apparati dello Stato, ‘Servizi’ di intelligence, ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, criminalità organizzata ed eversione neo-fascista:

  1. La Mafia è un potentato locale che dispone di un disciplinato apparato organizzativo su base regionale, sul quale fare affidamento, con interessata sinergia, nel controllo del territorio e dei ‘rossi’. Inoltre, le sue clientele elettorali possono condizionare le elezioni, influendo nettamente sulla formazione delle compagini di governo.

  2. L’eversione nera di matrice fascista costituisce un irrequieto vivaio di sicura fede anticomunista dal quale attingere ‘combattenti irregolari’ e ‘utili idioti’ a pronto uso per operazioni sporche sotto copertura.

È, nel suo complesso, un’articolata struttura di potere parallelo e con i suoi meccanismi di difesa, che non manca di far scattare le proprie maglie protettive nei confronti di mandanti ed esecutori, come nel caso bolognese.

Stazione

Nonostante tutto, la procura felsinea imbocca subito la pista dell’eversione nera, spiccando mandati di cattura per mezza fascisteria romana, vecchi ordinovisti in armi, e nuovi “guerrieri senza sonno”. 

“L’intervento della Procura della Repubblica di Bologna fu tempestivo e l’approccio serio: gli investigatori misero subito a fuoco le protezione di cui il frastagliato mondo del terrorismo eversivo di destra aveva goduto e continuava a godere a Roma malgrado la città fosse stata sottoposta negli ultimi due anni ad una escalation di violenze e di attentati. Già alla fine di agosto comincia ad essere abbozzata una ipotesi accusatoria indirizzata anche verso ideatori e depistatori, ma il passaggio dell’inchiesta dalla Procura all’Ufficio Istruzione segna una sorta di inversione di tendenza: l’indagine comincia ad essere spezzettata. Viene inviata a Roma per competenza l’indagine sull’associazione eversiva. Si fanno più pesanti i depistaggi.”

(Associazione familiari vittime della strage alla stazione di Bologna)

In realtà, l’iter processuale fu contrassegnato da esiti altalenanti e non sempre lineari. Le indagini si rivelarono difficili e, soprattutto, furono caratterizzate da una sistematica opera di depistaggio messa in atto dai vertici del ‘servizio segreto’ militare. I sabotaggi del SISMI furono denunciati anche dai giudici Vito Zincani e Sergio Castaldo, nella sentenza istruttoria del 14 giugno 1986:

“L’accertamento della verità, opera di per sé sempre difficoltosa, è stato in questo processo ostacolato in ogni modo, poiché le menzogne, gli inquinamenti e le congiure di ogni genere hanno raggiunto un livello talmente elevato da costituire una costante.
(…) L’opera di inquinamento delle indagini appare così imponente e sistematica da non consentire alcun dubbio sulle sue finalità: impedire con ogni mezzo l’accertamento della verità!
(…) Soltanto l’esistenza di un legame di qualche natura tra gli autori della strage, benché autonomamente organizzata ed eseguita, rientrava in un comune progetto politico, la cui gestione richiedeva necessariamente che non fossero scoperti gli autori.”  

LE DEVIAZIONI DEL SISMI
NELLA STRAGE DI BOLOGNA
Stragedibologna-1 Nel 1980, il servizio informazioni militare è diretto dal gen. Giuseppe Santovito (affiliato alla P2 con tessera n° 1630). Il SISMI non ha mai brillato per fedeltà democratica e rispetto costituzionale, ma sotto la gestione Santovito, se possibile, degenera ulteriormente trasformandosi in

“un centro di potere arbitrario ed occulto, comprendente più persone, alcune organicamente inserite nel Servizio ed altre esterne ad esso, ma tra loro unite dall’intesa programmatica di abusare del Servizio stesso per finalità proprie ed incompatibili con quelle istituzionali”
(Roma, 29 Luglio 1985 – Sentenza della Quinta Corte d’Assise)

Il generale Santovito, in una lotta di potere intestina tutta interna al Sismi, per la bisogna fa affidamento su Pietro Musumeci, un colonnello dei Carabinieri, proveniente dalla Divisione “Pastrengo” i cui ufficiali hanno solidi legami col neofascismo milanese. È proprio tra gli alti comandi della ‘Pastrengo’ che matura l’idea dello stupro punitivo ai danni di Franca Rame.
Il col. Musumeci, che come molti suoi colleghi aderisce alla P2 (tessera 1604), soggetto ad un’inchiesta disciplinare per una cresta sulle forniture alimentari nella scuola sottufficiali di Velletri (RM), è il responsabile dell’Ufficio controllo e sicurezza del SISMI, ufficio con compiti di vigilanza interna ma autorizzato ad attività operative. Il gen. Santovito lo metterà anche a capo della sua segreteria particolare.

“L’operato del gruppo di potere costituitosi all’interno del Sismi tra il 1978 ed il 1981 con a capo Santovito e Musumeci si differenzia da altri precedenti episodi di cosiddetta “deviazione” dei servizi segreti per la molteplicità delle attività esplicate. Nel 1962-1964 il generale De Lorenzo e il SIFAR predisposero principalmente un’attività di schedatura dei cittadini e di preparazione di un possibile colpo di Stato. Negli anni ’70 i dirigenti del SID esplicarono soprattutto azioni volte a proteggere eversori di destra e sospetti autori di stragi. Gli ufficiali che ne costituirono le strutture occulte nel 1978-1981 spaziarono dalla trattativa trilaterale con Brigate Rosse e camorra per la liberazione di Ciro Cirillo [esponente DC] al depistaggio dei giudici impegnati nella strage del 2 Agosto, al peculato, dalle macchinazioni nei confronti dei collaboratori del Capo dello Stato, alla diffusione di notizie calunniose attraverso la stampa da loro stessi finanziata. A somiglianza della P2 (della quale la struttura era per altro un’articolazione), il Supersismi svolgeva un amplissimo ventaglio di attività, tutte direttamente o indirettamente finalizzate a intervenire nella sfera politica, il che era con tutta evidenza incompatibile con le finalità d’istituto.”

(Giuseppe De Lutiis; “Storia dei Servizi Segreti in Italia”. Editori Riuniti, Roma 1993)

Tra i collaboratori ‘esterni’, spicca il faccendiere Francesco Pazienza, con solidi contatti nel mondo della finanza e ben inserito nel sottobosco democristiano. Pazienza è il trait d’union tra la P2 di Gelli coi servizi segreti italiani e statunitensi, ma possiede anche ottime referenze nel mondo arabo e, per tramite del Venerabile, controlla Roberto Calvi e con lui il Banco Ambrosiano, senza per questo tralasciare i rapporti con la mafia siciliana e i romani della Banda della Magliana.
La “collaborazione” si traduce in pratica nella produzione di una serie di falsi documentali, informative pilotate, volte a stornare le indagini della magistratura. Musumeci, con l’aiuto del col. Belmonte, cerca di accreditare una pista estera indirizzando le indagini su gruppi terroristici tedeschi e francesi. Il 10 gennaio 1981 il Sismi fa pervenire al Comando generale dei Carabinieri notizie riservate circa un presunto piano eversivo, che prevede attentati alle linee ferroviarie e attentati dinamitardi. Gli ispiratori del gruppo terroristico sarebbero i neo-nazisti Freda e Ventura, con la collaborazione dei tedeschi del “Gruppo Hoffman” e in collegamento con un latitante Stefano delle Chiaie, a sua volta in combutta coi neofascisti francesi del FANE. Secondo il rapporto messo in piedi da Musumeci e Belmonte, le cellule venete di Freda e Ventura provvederebbero alla logistica. A mettere le bombe ci penserebbe invece un gruppo di nazisti austraci che si spostano in camper per riparare oltre confine subito dopo gli attentati. Ad avvalorare la pista francese ci pensa Marco Affatigato, un neofascista a libro paga del Sismi che, opportunamente imboccato, tira in ballo “er Caccola” e la FANE.
Naturalmente servono le ‘prove’ del complotto estero. Al loro reperimento ci pensa Francesco Pazienza ed il colonnello Belmonte, che fanno posizionare su un treno fermo alla stazione di Bologna un borsone contenente armi, micce e lo stesso tipo di esplosivo usato nella strage, accompagnato con tanto di documenti d’identità (stranamente abbandonati) di due noti estremisti di destra: un francese ed un tedesco… 

Stazione 2

Qui però ci fermiamo. Pensare di riassumere in poche righe più di mille pagine di atti processuali, ripercorrere l’intera vicenda giudiziaria, con tutti gli sviluppi di un intreccio decennale, sarebbe solo opera di mera presunzione per un risultato mediocre. Parte della documentazione inerente la potete però  trovare qui: è il sito ufficiale dell’associazione.
Molto resta ancora da scoprire, a partire dai possibili mandanti e gli ispiratori politici, compresa la vasta rete di coperture che ne hanno reso possibile l’operato e l’impunità.
Il processo per strage appurò il coinvolgimento dei neofascisti dei NAR e delinquenti della malavita comune, immersi nel torbido dello spionaggio. Meno lineari sono, forse, le responsabilità dei condannati. Le udienze si sono concluse con la condanna all’ergastolo dei “ragazzini terribili” della Banda Fioravanti: un gruppo di psicopatici pluriomicidi.
Naturalmente godono già tutti della semi-libertà.
Soprattutto venne appurata:

“L’esistenza di una complessa strategia eversivo-terroristica dispiegatasi nel corso di più anni, della quale la strage di Bologna aveva costituito uno dei momenti più significativi, in un cinico piano di controllo del potere istituzionale, nel quale erano confluite tendenze eversive di segno anche diverso, tuttavia di ispirazione ideologica di destra.
(…) Dopo la sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite del 12 febbraio 1992, la Corte di assise di Bologna con sentenza del 13 maggio 1994 ritenne responsabili della strage, quali autori materiali, Mambro e Fioravanti, e un personaggio indubbiamente minore, Sergio Picciafuoco, un delinquente comune collegato peraltro alla destra eversiva e sicuramente presente sul luogo della strage dove rimase ferito. Assolse invece dall’imputazione di strage un altro noto esponente della destra eversiva, Massimiliano Fachini; sanzionò le responsabilità per gli episodi di depistaggio che avevano inquinato le indagini due personaggi vicini ai servizi, Gelli e Pazienza, e due ufficiali del Sismi, Musumeci e Belmonte.”

(Commissione Stragi. Relazione Pellegrino, 2001)

Negli ultimi anni, non sono mancate ipotesi alternative e nuove teorie sulle possibili cause che ispirarono l’eccidio. Alcune genuinamente originali, altre subdolamente interessate.
Invece, su certi tentativi di ‘riabilitare’ lo spontaneismo armato dell’estrema destra e lavare il loro “onore fascista” ingiustamente sporcato, non sprecheremo  una sola parola. Non meritano più commenti di quanti se ne possano fare davanti ad un secchio ripieno di merda.

LE VITTIME
La strage della stazione di Bologna provocò 85 morti ed oltre 200 feriti, molti dei quali con lesioni permanenti.
Circa la metà delle vittime non aveva nemmeno compiuto 30 anni.

Antonella Ceci, anni 19  Lapide commemorativa
Angela Marino, anni 23
Leo Luca Marino, anni 24
Domenica Marino, anni 26
Errica Frigerio In Diomede Fresa, anni 57
Vito Diomede Fresa, anni 62
Cesare Francesco Diomede Fresa, anni 14
Anna Maria Bosio In Mauri, anni 28
Carlo Mauri, anni 32
Luca Mauri, anni 6
Eckhardt Mader, anni 14
Margret Rohrs In Mader, anni 39
Kai Mader, anni 8
Sonia Burri, anni 7
Patrizia Messineo, anni 18
Silvana Serravalli In Barbera, anni 34
Manuela Gallon, anni 11
Natalia Agostini In Gallon, anni 40
Marina Antonella Trolese, anni 16
Anna Maria Salvagnini In Trolese, anni 51
Roberto De Marchi, anni 21
Elisabetta Manea Ved. De Marchi, anni 60
Eleonora Geraci In Vaccaro, anni 46
Vittorio Vaccaro, anni 24
Velia Carli In Lauro, anni 50
Salvatore Lauro, anni 57
Paolo Zecchi, anni 23
Viviana Bugamelli In Zecchi, anni 23
Catherine Helen Mitchell, anni 22
John Andrew Kolpinski, anni 22
Angela Fresu, anni 3
Maria Fresu, anni 24
Loredana Molina In Sacrati, anni 44
Angelica Tarsi, anni 72
Katia Bertasi, anni 34
Mirella Fornasari, anni 36
Euridia Bergianti, anni 49
Nilla Natali, anni 25
Franca Dall’olio, anni 20
Rita Verde, anni 23
Flavia Casadei, anni 18
Giuseppe Patruno, anni 18
Rossella Marceddu, anni 19
Davide Caprioli, anni 20
Vito Ales, anni 20
Iwao Sekiguchi, anni 20
Brigitte Drouhard, anni 21
Roberto Procelli, anni 21
Mauro Alganon, anni 22
Maria Angela Marangon, anni 22
Verdiana Bivona, anni 22
Francesco Gomez Martinez, anni 23
Mauro Di Vittorio, anni 24
Sergio Secci, anni 24
Roberto Gaiola, anni 25
Angelo Priore, anni 26
Onofrio Zappala’, anni 27
Pio Carmine Remollino, anni 31
Gaetano Roda, anni 31
Antonino Di Paola, anni 32
Mirco Castellaro, anni 33
Nazzareno Basso, anni 33
Vincenzo Petteni, anni 34
Salvatore Seminara, anni 34
Carla Gozzi, anni 36
Umberto Lugli, anni 38
Fausto Venturi, anni 38
Argeo Bonora, anni 42
Francesco Betti, anni 44
Mario Sica, anni 44
Pier Francesco Laurenti, anni 44
Paolino Bianchi, anni 50
Vincenzina Sala In Zanetti, anni 50
Berta Ebner, anni 50
Vincenzo Lanconelli, anni 51
Lina Ferretti In Mannocci, anni 53
Romeo Ruozi, anni 54
Amorveno Marzagalli, anni 54
Antonio Francesco Lascala, anni 56
Rosina Barbaro In Montani, anni 58
Irene Breton In Boudouban, anni 61
Pietro Galassi, anni 66
Lidia Olla In Cardillo, anni 67
Maria Idria Avati, anni 80
Antonio Montanari, anni 86

Homepage