Archivio per Grande Guerra

IRON MEN

Posted in Kulturkampf, Risiko! with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 19 settembre 2017 by Sendivogius

È rassicurante sapere che nei prossimi anni la presidenza Trump destinerà almeno 55 miliardi di dollari del bilancio federale in spese militari, per fare di nuovo grande l’America, preparandosi evidentemente a fronteggiare un’invasione aliena dallo spazio profondo. È infatti risaputo da tutti lo stato di profonda prostrazione e di drammatica arretratezza tecnologica in cui versano le forze armate statunitensi, soprattutto in considerazione delle nuove minacce globali, e massimamente se si considera il formidabile apparato bellico a disposizione dei mutandari salafiti del Daesh…
Si capisce bene che, dinanzi ad un branco di allucinati che combattono in sottana, meglio se armati con coltellacci da cucina, la risposta migliore sia la realizzazione di gingilli offensivi sempre più sofisticati e costosi. Com’è noto, il segreto della vittoria risiede nella preparazione…
A meno che l’obiettivo primario non sia inaugurare invece una nuova guerra fredda (di cui davvero si sentiva la mancanza) con la Russia e la Cina, in una corsa a perdere verso il riarmo globale, e spianare la strada ad un’altra mezza dozzina di conflitti.
 Ad ogni modo, a dispetto dei pregiudizi, i militari sono dotati in realtà di una fervida fantasia… amano giocare con la playstation nelle noiose ore trascorse in caserma… ed è lecito credere si esaltino con la serie completa di “Star Wars”, presumibilmente facendo il tifo per l’Impero galattico.
Per questo sono ormai una ventina di anni che fantasticano a colpi di milioni di dollari in progetti per la realizzazione di nuove tute da combattimento, esoscheletri potenziati e bio-armature, per rendere i “soldati del futuro” delle inarrestabili macchine individuali da guerra, nella presunzione tutta illusoria della invulnerabilità. Insomma, una specie di incrocio tra le armored suits già viste nei videogame di “Halo” e “Mass Effect”, sulla falsariga delle stormtroopers di Star Wars.
In pratica, si tratta di una masturbazione continuativa che va avanti almeno dal 1997, dai tempi infausti del vecchio PNAC (il progetto per il nuovo secolo americano); mai archiviato nelle stanzette del Pentagono.

Army of the Future: “Consider just the potential changes that might effect the infantryman. Future soldiers may operate in encapsulated, climate-controlled, powered fighting suits, laced with sensors, and boasting chameleon-like ‘active’ camouflage. ‘Skin-patch’ pharmaceuticals help regulate fears, focus concentration and enhance endurance and strength. A display mounted on a soldier’s helmet permits a comprehensive view of the battlefield – in effect to look around corners and over hills – and allows the soldier to access the entire combat information and intelligence system while filtering incoming data to prevent overload. Individual weapons are more lethal, and a soldier’s ability to call for highly precise and reliable indirect fires – not only from Army systems but those of other services – allows each individual to have great influence over huge spaces. Under the ‘Land Warrior’ program, some Army experts envision a ‘squad’ of seven soldiers able to dominate an area the size of the Gettysburg battlefield – where, in 1863, some 165,000 men fought”.

Ovviamente, negli ultimi decenni il progetto è proseguito, conoscendo nuovi sviluppi. E ora questa strana copula meccanica tra Robocop ed Iron Man, si chiama TALOS (Tactical Assault Light Operator Suit): una specie di robottone con dentro l’omino corazzato, che prevede sensori di posizione e sistemi di raffreddamento, con una pompa idraulica che si attorciglia per tre metri all’interno dell’armatura; o cose così… molto utili e soprattutto economiche. Ed i prototipi in circolazione iniziano ad essere parecchi…
L’efficacia in combattimento sui teatri di guerra è tutta da provare, ma insomma la speranza è anche l’ultima a morire.
 C’è da dire che l’idea, ancora a livello sperimentale, ha avuto successo un po’ in tutto il mondo… Anche l’Esercito italiano ne ha varato una sua versione improntata al massimo risparmio, rispetto agli ingenti investimenti americani. Nel nostro caso, il pezzo forte sono gli indispensabili “guanti termici”, che alla modica cifra di 650 euro a paio, costituiscono la dotazione più costosa (ed inutile) dell’intero kit di equipaggiamento. Si tratta dell’elemento che farà certamente la differenza sui nuovi campi di battaglia per il soldato del futuro!
Certo, a ben vedere, la Storia ci fornisce i riuscitissimi esempi del passato… E, visti i risultati, ci sarebbe da ridere se questi non fossero tragici. Insomma, la guerra può essere un’esperienza incredibilmente esaltante, soprattutto per chi non l’ha mai provata, come dicevano gli antichi. Perché dunque non cercare di farla in sicurezza?!? Non per niente, ogni aspirante guerriero ha sempre accarezzato l’idea di rendersi invulnerabile ai nemici, salvo scoprire quanto la realtà possa spesso essere assai diversa dalla fantasia.
Per dire, nel Tardo Antico, i Romani impararono presto a proprie spese, quanto le sofisticate armature dei loro comitatenses fossero inutili dinanzi alla potenza di penetrazione degli archi compositi, utilizzati dai pur infinitamente più arretrati popoli nomadi delle steppe.
Nel IX secolo d.C. gli anglo-sassoni affrontarono quasi con sufficienza i primi invasori vichinghi, nella certezza di ributtare a mare i feroci pagani giunti dalla Scandinavia. Almeno finché non scoprirono che le loro possenti armature venivano facilmente trapassate dalle frecce armate con punte di tipo bodkin, che affusolate e sottili, ma ben temprate, si infilavano negli anelli delle cotte di maglia, o sfondavano giubboni e corazze, pur nella loro letale semplicità.
Messe da parte per quasi tutta l’epoca moderna in seguito all’avvento delle armi da fuoco, le armature riscoprirono un inaspettato ritorno di fiamma in tempi assai più recenti, durante la prima guerra mondiale, che nella sua immane mattanza rappresentò pure una straordinaria occasione di innovazione militare. Certo gli esordi furono assai lenti… Per dire, al Comando francese (che per la sua straordinaria ottusità non aveva eguali) gli ci vollero mesi (e diverse migliaia di morti) per capire che pantaloni e kepì di un rosso sgargiante non erano esattamente del colore più indicato per passare inosservati ai tiratori nemici.
Ma vuoi mettere l’elàn guerriero, e scenografico, che i calzoni vermigli rappresentavano per una truppa lanciata a passo di carica sotto il fuoco nemico?!? E per giunta schierata come le vecchie fanterie di linea napoleoniche, per essere meglio falciata dalla fucileria avversaria?
Fortunatamente, non mancarono innovazioni importanti, tanto che per l’occasione l’Armée francese riscoprì pure l’uso della catapulta..!
Viste le perdite spaventose, e la riottosità crescente delle truppe a farsi macellare per la gloria dei generali nelle retrovie, verso la metà del conflitto, sui vari teatri di guerra cominciarono a fare la loro comparsa una notevole varietà di protezioni ed armature, che certo avrebbero reso invulnerabili i fantaccini alle pallottole.
Niente a che vedere con i khevsur della Georgia che ancora nel 1913 si presentavano in battaglia, bardati così…
Fu allora che l’ineguagliabile tecnologia teutonica mise a disposizione delle proprie fanterie la sua insuperabile corazza da combattimento…
Scenicamente imponente, la protezione si rivelò scomoda, ingombrante, e naturalmente inefficace, rendendo i fanti simili a gasteropodi, per una vaga somiglianza con le aragoste.
Va da sé che le nuove “sappenpanzer” non fecero mai la differenza in battaglia, ma almeno regalavano alla truppa la consolatoria illusione di essere immune ai proiettili.
Peccato che poi alla riprova dei fatti le cose non andassero esattamente per il verso sperato, dal momento che le corazze si rivelarono forabili eccome…
L’effetto palliativo però era assicurato, dal momento che divennero una preda di guerra ambitissima; soprattutto dalle truppe anglo-canadesi che combatterono alla Battaglia della Somme.
Certo, niente di paragonabile all’incredibile catafalco che per un certo periodo venne rifilato alle unità dell’esercito austro-ungarico. Una specie di kit componibile, che poteva fungere da corazza, parapetto, e casamatta portatile. E che con ogni probabilità veniva abbandonata dalla truppa, così camuffata da contrabbasso, alla prima occasione disponibile.

Ovviamente la cosa non passò inosservata agli alti comandi strategici dell’Intesa… E vista l’alta funzionalità di impiego dell’ultimo ritrovato bellico, ognuno si dette a fabbricarne di sue.
Tra i soldati britannici le corazze non ebbero molto successo… E certo gli inglesi preferirono di gran lunga continuare a riutilizzare quelle sottratte ai crucchi, finché non si resero conto che si trattava soltanto di un inutile ingombro da trascinarsi dietro.

Ma nessuno si dette più da fare dello USArmy. E lo straordinario risultato finale di tante fatiche furono le imbarazzanti armature Brewster..!
La Brewster Body Shield fece la sua comparsa nel 1918 sul fronte francese di Verdun. E si può solo immaginare l’incontenibile entusiasmo dei fortunati prescelti, che si trovarono costretti ad indossare un simile scafandro.
Realizzata in acciaio al nickel-cromo dalla Brewster Steel Company, l’armatura pesava oltre 40 kg ed è fin troppo facile intuire che fosse pure di rara scomodità.
Come si potesse correre su un terreno brullo e sconnesso, saltare tra una fossa e l’altra, e scavalcare trincee con una simile roba addosso, resta difficile da immaginare. Però si può ben supporre quale fosse l’esito finale…
Per proteggere le sentinelle, e soprattutto le vedette che costituivano il bersaglio preferito dei cecchini, vennero elaborate delle protezioni di rinforzo per gli elmetti. E le più funzionali furono probabilmente le placche d’acciaio che venivano applicate sugli stahlhelme tedeschi, i quali in alcuni casi vennero ridipinti in un primo esempio di mimetizzazione policroma.
I piastroni d’acciaio in forma trapezzoidale venivano agganciati ai chiodi ai lati dell’elmetto e fornivano così una protezione aggiuntiva, che però non garantiva la salvezza da un colpo frontale e diretto allo stirnpanzer.
Poi come al solito, si volle esagerare e cominciarono a circolare degli inquietanti mascheroni da saldatore di fonderia, a visibilità sempre più ridotta.

Siccome i cecchini più bravi miravano generalmente agli occhi, vennero realizzate fessure sempre più strette col risultato che la sentinella finiva per non vedere più un cazzo.
Gli americani, insuperabili come sempre, fecero un’eclatante invenzione ispirata direttamente al medioevo e mai (ri)messa in circolazione…

Sul fronte italiano, il Regio Esercito si dette da fare anch’esso e nel 1915 fecero la loro comparsa sul campo le mitiche corazze Farina, che avrebbero dovuto fornire un’impagabile protezione ai genieri inviati a tagliare i reticolati attorno alle trincee austriache.

Testate contro armi di medio e piccolo calibro, le corazze dimostravano una buona resistenza, a patto che ci si tenesse almeno a 150 metri (!) dal nemico.

Utilissime contro le schegge di rimbalzo degli shrapnel (e grazie al cazzo!), venivano forate come il burro dai proiettili calibro 8 mm dei fucili Steyr-Mannlicher M1895 in dotazione all’esercito austro-ungarico.
Emilio Lussu, volontario nella Grande Guerra, ridicolizza le corazze ampiamente, avendo avuto modo di verificare sul campo la loro straordinaria efficacia di impiego:

«Le corazze ‘Farina’ erano armature spesse, in due o tre pezzi, che cingevano il collo, gli omeri, e coprivano il corpo quasi sino alle ginocchia. Non dovevano pesare meno di cinquanta chili. Ad ogni corazza corrispondeva un elmo, anch’esso a grande spessore. Il generale era ritto, di fronte alle corazze….. Ora parlava, scientifico: “Queste sono le famose corazze ‘Farina’…. che solo pochi conoscono. Sono specialmente celebri perché consentono, in pieno giorno, azioni di una audacia estrema. Peccato che siano così poche! In tutto il corpo d’armata non ve ne sono che diciotto. E sono nostre! Nostre!” […] “A noi soli” continuava il generale “è stato concesso il privilegio di averle. Il nemico può avere fucili, mitragliatrici, cannoni: con le corazze ‘Farina’ si passa dappertutto”.
“Dappertutto per modo di dire” osservò il colonnello, che quel giorno era in vena di eroismo…. “io ho conosciuto le corazze Farina – spiegò il colonnello – e non ne conservo un buon ricordo, ma forse queste sono migliori”.
“Certo, certo. Queste sono migliori – riprese il generale – con queste si passa dovunque. Gli austriaci…”
Il generale abbassò la voce sospettoso e dette un’occhiata alle trincee nemiche, per accertarsi che non fosse sentito.
“Gli austriaci hanno fatto delle spese enormi per carpirci il segreto, ma non ci sono riusciti. Il capitano del Genio che è stato fucilato a Bologna, pare fosse venduto al nemico per queste corazze. Ma è stato fucilato a tempo. Signor colonnello vuole avere la compiacenza che esca il reparto dei guastatori?”
Il reparto dei guastatori era stato preparato dal giorno prima e attendeva d’essere impiegato. Erano volontari del reparto zappatori, comandati da un sergente, anch’egli volontario. In pochi minuti furono in trincea, ciascuno con un paio di pinze. Essi indossarono le corazze in nostra presenza. Lo stesso generale si avvicinò a loro ed aiutò ad allacciare qualche fibbia. ‘Sembrano guerrieri medioevali’ osservò il generale. I volontari non sorridevano. Essi facevano in fretta e apparivano decisi. Gli altri soldati, dalla trincea, li guardavano con diffidenza. Accanto al cannone praticammo un’altra breccia, nella trincea. Il sergente volontario salutò il generale. Questi rispose solenne, dritto sull’attenti, la mano rigidamente tesa all’elmetto. Il sergente uscì per primo; seguirono gli altri, lenti per il carico d’acciaio, sicuri di sé, ma curvi fino a terra, perché l’elmetto copriva la testa, le tempie e la nuca, ma non la faccia. Il generale rimase sull’attenti finché non uscì l’ultimo volontario, e disse al colonnello, grave: “I romani vinsero per le corazze”.
Una mitragliatrice austriaca, da destra, tirò d’infilata. Immediatamente, un’altra, a sinistra, aprì il fuoco. I volti si deformarono in una contrazione di dolore. Essi capivano di che si trattava. ‘Avanti!’ gridò il sergente ai guastatori. Uno dopo l’altro, i guastatori corazzati caddero tutti. Nessuno arrivò ai reticolati nemici. ‘Avan…’ ripeteva la voce del sergente rimasto ferito di fronte ai reticolati. Il generale taceva. I soldati del battaglione si guardavano terrorizzati

Emilio Lussu
“Un anno sull’altipiano”
(1938)

Essendo disponibile in numero limitato, un così straordinario artefatto venne distribuito soprattutto tra gli Arditi volontari delle cosiddette “compagnie della morte”: nome quanto mai azzeccato per gli aspiranti suicidi, che venivano inviati armati di cesoie e guantoni a tagliare i reticolati nemici.
Le protezioni Farina non si rivelarono più utili dei loro omologhi impiegati sugli altri fronti di guerra, ma la propaganda bellica dei comandi italiani vi aggiunse quel tocco di minchioneria in più, che fa sempre la differenza…
Immaginate voi la praticità (e soprattutto l’utilità) di correre e saltare e strisciare nella terra di nessuno, stringendo una baionetta tra i denti, con mezzo quintale di ferraglia tintinnante addosso, mentre scoprite con sorpresa che le vostre cesoie non riescono a tagliare un filo spinato rinforzato con più di 5 cm di spessore. Senza considerare l’estensione dei campi da bonificare…
I carriarmati si sarebbero rivelati assolutamente più funzionali, ma vabbé! All’epoca venne considerata inizialmente come un’invenzione poco utile e di scarso impiego.

Eppoi vuoi mettere il fascino di una specie di cavaliere medievale schierato in trincea?!?
Assolutamente inutili come protezione, le armature avevano l’indiscutibile svantaggio di rendere subito individuabili i guastatori nel buio, giacché bastava aguzzare l’udito al rumore del ferro che cozzava sulle pietraie insieme al ticchettio delle cesoie. Una volta scoperti, l’esito era in genere assai scontato…
Né migliorò l’utilizzo di scudi protettivi, che a parte l’evidente ingombro non garantivano granché…
Pertanto, vista la loro collaudata efficacia, di corazze pettorali ed armature ne circolarono ancora parecchie fino al 1945.
Dalla Polonia…
Alla Russia sovietica, con le sue Stalnoi Nagrudnik, che forse tra tutti i modelli messi in circolazione si rivelarono tra i più resistenti e forse non tra i più comodi, visto che i due piastroni imbottiti, una volta legati tra loro comprimevano la cassa toracica rendendo difficile la respirazione in caso di affanno.
Stalnoi NagrudnikAnche l’esercito imperiale nipponico realizzò una propria versione, riservata ai signori ufficiali, ed utilizzata durante l’invasione della Cina.
Sull’efficacia del soldato corazzato del futuro non è dato ancora di sapere. Certo per i profitti delle aziende impegnate nella ricerca sarà un successo di sicuro.

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SEPTEMBER-PROGRAMM

Posted in Kulturkampf, Masters of Universe with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 13 luglio 2015 by Sendivogius

Germany wallpaper by Vortigauntdpr

Nel 1961, con la pubblicazione del suo Assalto al potere mondiale, lo storico Fritz Fischer sollevava un putiferio negli ambienti accademici tedeschi, mettendo in discussione uno dei totem nazionali, che vuole la Germania come una vittima delle circostanze, nella declinazione di ogni responsabilità per costante auto-assoluzione, sottolineando invece l’esistenza di un filo conduttore che accomunerebbe la politica estera ed economica del Reich guglielmino con lo stato nazionalsocialista, il quale nella sua eccezionalità pure agì in sostanziale continuità ereditandone molte delle linee guida.
GermanysaimsinthefirstworldwarSecondo l’analisi di Fischer, al principio del XX secolo il Reich perseguiva con lucidità il consolidamento di una posizione egemonica a livello continentale, tramite la creazione di una grande sfera di influenza su scala globalizzata, col suo “power-core” in una Mittleuropa sotto la diretta direzione tedesca, ed al contempo con la costituzione di una serie di stati-vassalli a sovranità limitata, posti sotto il controllo germanico. E ciò sarebbe dovuto avvenire, attraverso la costituzione di una specifica area economica di scambio, a garanzia delle industrie tedesche ed a vantaggio esclusivo della propria bilancia commerciale.
Cover Contro rivoluzioniLa supremazia teutonica, garantita dalla preponderanza dell’elemento militare, sarebbe stata ulteriormente puntellata da una serie di annessioni ai propri confini, con la creazione di una cintura di stati-cuscinetto nell’Europa Orientale e l’annessione di ampie porzioni di territorio francese e belga ad Occidente.
Bundesarchiv_Bild_183-R52907,_Mannschaft_mit_Gasmasken_am_Fla-MGIl progetto di natura geopolitica a trazione economica avrebbe contato sul convinto appoggio della cancelleria imperiale e dei principali gruppi finanziari ed industriali del paese, potendo altresì contare sulla sponda di gran parte del mondo intellettuale tedesco. Lo scoppio della prima guerra mondiale sarebbe stato dunque solo la diretta conseguenza di una simile impostazione, costituendo a suo modo una “opportunità” per la realizzazione di un tale progetto.
Theobald von Bethmann-HollwegNel 1914, dopo l’offensiva della Marna, gli obiettivi di guerra tedeschi vengono condensati e ricapitolati in un controverso documento conosciuto come il “Programma di Settembre” (Septemberprogramm). Il capitolato, che costituiva una sorta di “lista della spesa” con le pretese e la raccolta di proposte informali, da parte dei vari gruppi di potere che si muovevano all’ombra dell’apparato politico-industriale e militare tedesco, raggiunge la sua stesura definitiva il 9 Settembre del 1914 (da lì il nome), ad opera del cancelliere Theobald von Bethmann-Hollweg. A compilare la stesura del programma provvede però Kurt Riezler, segretario generale del cancelliere.
septemberprogramA livello strettamente economico, una peculiarità piuttosto curiosa del piano consisteva nella creazione di una grande unione doganale, con la creazione di un’area di ‘libero’ scambio. Si tratta della “Mitteleuropäischer Wirtschaftsverband” (associazione economica mitteleuropea), che avrebbe dovuto comprendere la Francia, il Benelux (Belgio, Olanda e Lussumburgo), , l’Austria, l’Ungheria, l’Italia, i paesi Nazisti in Ucrainascandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia) ed i futuri stati cuscinetto dell’Europa Orientale: dai paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia), passando per la Polonia e l’Ucraina, in funzione anti-russa.
In particolare, Kurt Riezler ipotizzava la creazione di una confederazione di stati, concepita come una società per azioni nelle quali l’azionista di maggioranza sarebbe stata la Germania, in grado di condizionare e determinare col suo peso egemonico le scelte e le condizioni di tutti gli altri.
NeinSilhouetteBLUEglassLo scopo di questa sorta di unione economica europea allo stato embrionale era quello di stabilizzare il dominio economico tedesco sull’Europa centrale. I partecipanti all’unione mittleuropea, nominalmente uguali sarebbero stati in realtà subordinati agli interessi tedeschi.
manifesto-propaganda-tedesco Nel caso della Francia era prevista poi l’annessione dei distretti minerari di Brey e della Lotaringia, la totale chiusura degli scambi commerciali con la Gran Bretagna e la trasformazione del territorio francese in un immenso mercato per le merci e gli investimenti tedeschi. Il Belgio sarebbe stato ridotto ad un protettorato tedesco, da tenere sotto occupazione militare.
È interessante notare come alcuni dei propositi contenuti all’interno del sedicente “programma” costituiscano una variabile costante della politica germanica: dalla creazione di una unione doganale per lo smercio delle proprie manifatture, alla creazione di un’area egemonica a trazione tedesca su base mitteleuropea, che abbia il suo punto di forza nell’area Baltica, puntando sul sostegno di Lituania ed Estonia per sottrarre l’Ucraina dalla sfera di influenza russa. In pratica è esattamente quanto sta accadendo oggi, col conflitto ucraino che oppone Berlino (e Washington) a Mosca per interposti contendenti.
Ucraina democraticaPertanto, Fritz Fischer individuava nelle aspirazioni egemoniche dell’espansionismo teutonico le cause che condussero l’Europa alla catastrofe della “Grande Guerra”, suscitando la stizzita reazione dei conservatori. Soprattutto, riaccendeva l’attenzione sull’anomalia tedesca, che nella sua specificità corre lungo le vie tortuose del “Sonderweg”, che in passato sono confluite in quel cocktail venefico ad alta gradazione tossica di intransigenza luterana ed ipocrisia moralista, autoritarismo prussiano ed elitismo reazionario, nazionalismo estremo e darwinismo sociale, che sono alle origini dello stato tedesco ed alla base di uno sviluppo patologico, di cui il nazismo non sarebbe che una “variante”; a tal punto da costituire un risultato storico inevitabile riflesso nei difetti unici del “carattere nazionale tedesco”, secondo l’analisi alquanto impietosa di certa storiografia britannica.
WW-I soldiersC’è da dire che il progetto economico di una Mitteleuropäischer Wirtschaftsverband non viene abbandonato con la fine della guerra, ma viene fatto proprio dai nazisti che riprendono l’idea conferendogli una dimensione prevalentemente economica, attraverso la costituzione di una “comunità europea” (Europäische Wirtschaftsgemeinschaft) d’impronta tedesca, attraverso l’istituzione di una moneta unica e la creazione di un grande spazio economico (Großwirtschaftsraums), da costruire sotto la guida della GEWG (Società per la programmazione economica europea).
Second_world_war_europe_1941-1942Nel Luglio del 1940, Walther Funk, ministro dell’Economia e presidente della Reichsbank, presenta il suo progetto per la “riorganizzazione economica dell’Europa”, meglio conosciuto come Piano Funk, finché nel Settembre del 1942 le fatiche di Funk confluiranno in un articolato documento dal titolo assai evocativo: “Comunità economica europea” (Europäische Wirtschaftsgemeinschaft). Alla stesura oltre allo stesso Walther Funk, partecipano: Gustav Koenigs, segretario di Stato; Philipp Beisiegel, ministro del Lavoro; Heinrich Hunke, presidente della Camera di commercio e industria di Berlino… Ma ci sono anche esponenti del mondo economico tedesco come Anton Reithinger, direttore del dipartimento economico della IG Farben, e Bernhard Benning, direttore del Reichs-Kredit-Gesellschaft.
Tedeschi ad AteneIn quanto circoscritti ad un periodo oscuro della storia recente, alla luce delle vicende del tempo presente, ci sarebbe da chiedersi quanto il “percorso solitario” dei popoli tedeschi verso la cosiddetta integrazione europea, sempre in bilico tra Est ed Ovest, pulsioni isolazioniste e sindrome da accerchiamento, sia davvero compiuto. E quanto il ritrovato orgoglio nazionale che sembra degenerato in una nuova arroganza totalitaria, che ha nell’ordoliberismo tedesco il suo punto di forza, sia del tutto scevro da pretese di superiorità culturale ed etnica, mentre pretende di dare lezioni di etica ad un intero continente.
NEU_GE2_01La differenza che intercorre tra una Germania europea ad un’Europa tedesca risiede nell’allucinante abnormità dello sciagurato caso ellenico, con l’imposizione di una serie di diktat che lungi dall’assomigliare ad una “trattativa” si configurano piuttosto come un ultimatum, fissato in 72 ore, finalizzato più che altro all’annientamento della Grecia a scopo intimidatorio, concepito come una sorta di atto di guerra attraverso la “conventrizzazione” di un intero paese per la sua capitolazione incondizionata.

Massacro di Distomo

L’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia, che determinò lo scoppio della prima guerra mondiale, si reggeva su condizioni lungamente più sostenibili e meno umilianti di quelle che la Germania ‘democratica’ sta imponendo alla Grecia nell’ignavia del resto d’Europa, a vergogna perenne di una “Unione” utilizzata come arma di distruzione di massa e che ha interamente smarrito le ragioni del suo essere.

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Medz Yeghern

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 17 aprile 2015 by Sendivogius

Paolo Cossi

“Avrei potuto espellere 100.000 armeni,
ma finora non l’ho ancora fatto”
Recep Tayyip Erdoğan
(15/04/2015)

Recep Tayyip ErdoğanIl presidente turco Erdogan, quando non blatera di cospirazioni straniere ed altre amenità complottarde, non è nuovo a certe uscite pubbliche che ricordano vagamente il Discorso del bivacco di Mussolini.
D’altra parte, questo pigmeo islamofascista in ribollita ultra-nazionalista, con un’altra delle sue sparate che tanto l’hanno reso famoso all’estero, ci aveva già elucubrato le sue perle di saggezza a misura di un’altezza che non supera i tacchi dello statista:

“Se fosse stato un genocidio, come potrebbero esserci ancora armeni nel nostro Paese?”
(29/04/2015)

Provate soltanto ad immaginare se un cancelliere tedesco pronunciasse una simile frase a proposito dello sterminio degli ebrei…!
ErdoganOrdunque, che cos’è esattamente un “genocidio”?
Raphael Lemkin a cui si deve l’elaborazione originaria del concetto, ne delineò le linee fondamentali nel 1944:

«Generalmente parlando, un genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una nazione, ad eccezione di quando viene effettuato eliminandone tutti i membri. È da intendersi piuttosto come un ‘piano coordinato’, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo

CossiPer la cronaca, gli Armeni censiti ufficialmente in Turchia sono meno di 25.000 (dei circa due milioni di fine ‘800) e risultano più rari dei panda.
Evidentemente, il presidente Erdogan dev’essere uno di quelli convinti che la sola presenza di un sopravvissuto, tra milioni di morti, possa escludere l’effetto genocida della pratica eliminazionista.
Non per niente gli Armeni, a scanso di equivoci, usano il termine “Medz Yeghérn” (il Grande Male), ma la sostanza rimane la stessa.

Paolo Cossi - Il Grande Male

D’altronde, lo sterminio messo in atto nel 1915 dal governo nazionalista dei “Giovani Turchi” non era che la prosecuzione in chiave moderna (e per questo più ‘efficiente’) delle stragi del ventennio precedente, per la soluzione finale della “questione armena”. Né le persecuzioni, che avevano raggiunto il loro acme coi massacri hamidiani del 1894-1896, erano mai cessate, continuando a fasi alterne ed intensità variabile anche negli anni successivi, fino al loro ultimo epilogo…
Paolo Cossi Medz YeghernDopo un tentativo di insurrezione a Sassun nel 1904, gli scontri con gli Armeni che ormai si sono organizzati militarmente sotto la guida dell’Hunchakian e del Dashnak proseguono sporadicamente fino al 1908, secondo le solite modalità di azione. E non riuscendo ad avere ragione militarmente degli insorti, l’esercito regolare e le milizie ausiliarie al suo seguito rivolgono le loro rappresaglie terroristiche contro la popolazione civile.

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I Giovani Turchi
Giovani Turchi (quelli veri) Le repressioni continuano fino all’estate del 1908, quando (il 24/07/1908) la III Armata di stanza a Salonicco, ispirata dall’esempio del maggiore di origini albanesi Ahmed Niyazi, si solleva contro il sultano Abdul Hamid II, chiedendo il ripristino della Costituzione del 1876 e l’indizione di libere elezioni. A guidare la rivolta militare è una eterogenea alleanza di ambiziosi ufficiali di formazione europea e piccoli funzionari della burocrazia imperiale, di ispirazione liberale e progressista, ma soprattutto nazionalista, che si fanno chiamare “Giovani Turchi” sulla falsariga della Giovine Italia” di Mazzini.

Giovani Turchi«Il golpe del 1908 segna l’ingresso in scena dei cosiddetti “Giovani Turchi”, eredi dei “Giovani Ottomani” che nel 1876 erano stati la spina dorsale del movimento costituzionalista. I Giovani Turchi sono una galassia di gruppi uniti da alcuni obiettivi comuni, che vanno dalla difesa dell’integrità territoriale dell’Impero alla instaurazione di un regime democratico-parlamentare. Auspicano uno stato laico e puntano al primato della cultura e dell’etnia turca in un paese modernizzato. All’interno di questo quadro generale di riferimento convivono però due tendenze divergenti: una liberale in politica, liberista in economia, e favorevole ad una evoluzione dell’impero in senso federalista; l’altra invece favorevole all’instaurazione di un regime autoritario, ultranazionalista e fortemente accentrato.
Soldati turchi della III ArmataÈ questa seconda concezione che predomina nell’Ittihad Ve Terakki Comyeti (Comitato per l’Unione e il Progresso), che ha guidato la rivoluzione di luglio e raccoglie adesioni soprattutto tra i giovani ufficiali superiori che ne costituiscono lo zoccolo duro

Sergio De Santis
“Il genocidio degli Armeni”
(Marzo, 1996)

sultans-cavalryIn un primo momento, gli Armeni salutano con entusiasmo l’avvento del nuovo regime costituzionale, tanto che alla coalizione aderiscono anche i socialrivoluzionari armeni del Dashnaktsutiun, che stilano una piattaforma comune di riforme da condividere con l’Ittihad.
Anno 1909Il 13 Aprile del 1909 il governo costituzionalista deve fronteggiare un ultimo tentativo di restaurazione ad opera del vecchio sultano Abdul Hamid che, secondo una tattica già collaudata in passato, impiega gli studenti (taliban) delle scuole coraniche della capitale, come forza d’urto per ripristinare il suo potere assoluto (di natura califfale) ed il ritorno alla piena applicazione della sharia. Al contempo, soffiando sui rancori ed i pregiudizi degli strati più arretrati della popolazione rurale, i sostenitori del sultano aizzano la plebaglia delle campagne contro i soliti Armeni, i quali vengono investiti dallo spaventoso pogrom di Adana, che si estende ben presto a tutta la Cilicia in una esplosione di violenza primordiale. Dei circa 30.000 Armeni periti nella mattanza, molti vengono impalati, squartati, o spellati vivi.
1908 - Ingresso del generale Sevket a CostantinopoliIl 24 Aprile, il tentativo controrivoluzionario è già fallito, con l’intervento del generale Mahmud Sevket che al comando Abdul Hamid IIdell’Armata di Macedonia occupa Costantinopoli e costringe il sultano Abdul Hamid II ad abdicare, a favore del suo imbelle fratello (Mehmet Raschid) che assume il nome di Maometto V.
Tuttavia, il fatto che l’esercito regolare, inviato a sedare i disordini, si unisca invece ai massacratori nella loro caccia selvaggia, contribuisce non poco a pregiudicare in fretta i rapporti tra i partiti armeni e l’Ittihad, che si guastano in un clima di profonda diffidenza fino all’inevitabile rottura del 1911.
italsavoiaAd aggravare la situazione interna e la tenuta di governo, contribuisce inoltre l’annessione della Bosnia Erzegovina all’Impero asburgico e l’esito disastroso della prima guerra balcanica (che tanto contribuiranno all’incidente di Sarajevo), unitamente alla guerra italo-turca per il possesso della Libia. Sono eventi che, insieme all’ampio ricorso ai brogli elettorali, contribuiscono a minare profondamente la legittimazione ed il sostegno popolare verso l’esecutivo liberaldemocratico, dove la componente autoritaria e militarista diventa sempre più preponderante. Tra i più oltranzisti, si distinguono i colonnelli Enver e Jemal, nonché il funzionario delle poste Mehemed Talaat.
Lanceri 1890E ciò avviene in un Paese profondamente traumatizzato e confuso che, nella sua sindrome di accerchiamento, teme la dissoluzione, mentre al contempo vede affluire al suo interno milioni di profughi musulmani in fuga dai nuovi regni balcanici, dove sono oggetto di una vendetta feroce soprattutto ad opera di Serbi e Bulgari.

«La nuova situazione geopolitica dell’impero ottomano provoca una svolta sociale anche sul piano interno. Fallita la promessa di salvaguardare l’integrità dell’impero, arenata la politica di riforme, ed entrato in crisi anche il sistema democratico-parlamentare va sempre più rafforzandosi nell’Ittihad l’ala militare ultranazionalista.
Ismail Enver La rottura avviene il 23/01/1913 con “l’incidente della Sublime Porta”: Enver Bey alla testa di un drappello di militari irrompe nel palazzo imperiale, abbatte a colpi di rivoltella il Ministro della Guerra, Nazim Pascià, e costringe il gran visir (cioè il primo ministro) a cedere l’incarico al generale Sekvet. Ma anche Sekvet dura poco: il 21 Giugno di quello stesso anno viene assassinato e la carica di gran visir passa al presidente dell’Ittihad, il principe egiziano Said Halim.
1st Regiment of Lancers of the Imperial GuardIl potere reale si concentra in realtà nelle mani di Talat (ormai Talat Pascià), segretario generale dell’Ittihad e membro eminente del Djemiet, il circolo ristretto che controlla il vertice del partito. Talat torna ad occupare il Ministero dell’Interno (dove già era passato fuggevolmente durante il governo Sekmet) e nel giro di pochi mesi insedia i suoi allievi Enver e Jemal (anche essi elevati al rango di pascià), rispettivamente al Ministero della Guerra e a quello della Marina. Così, nel Febbraio del 1914 si insedia al potere il cosiddetto “Triumvirato” che resterà in sella fino alla fine della prima guerra mondiale, nel 1918.
Il potere è ormai nelle mani di un gruppo di fanatici del “governo forte” che punta verso la creazione di uno stato ultracentralizzato nel quale non c’è più posto per ‘millet’ autonomi

Sergio De Santis
“Il genocidio degli Armeni”
(Marzo, 1996)

armenia1

Il Triumvirato della morte
Soprannominati i “tre pascià”, Enver, Jemal e Talaat sono gli esponenti di una nuova generazione di quarantenni e uomini forti del regime. Stipuleranno un’alleanza suicida con la Germania e porteranno il paese alla disfatta della prima guerra mondiale.
1916, one of the Camels Raiders Troop companies became a 4th Army HQ Protection unitIl nuovo gruppo dirigente si riconosce in un’ideologia panturca, per la creazione di uno Stato identitario ed etnicamente omogeneo. L’obiettivo di questo progetto politico è la fondazione di una nazione basata sul primato esclusivo della componente turca (dagli azeri, ai tatari, ai turcomanni dell’Asia centrale), attraverso l’omogeneizzazione etnica dei territori dell’Anatolia e l’assimilazione forzata delle minoranze.
Jemal Pasha nel 1915 Djemal (Jamal) Pascià, il cui vero nome è Ahmed Gamal, coi suoi 42 anni è il più anziano del terzetto. È nato il 06/05/1872 sull’isola di Lesbo ed è il figlio di un medico militare. Seguendo le orme avite intraprende Djemal Pasciàla carriera militare e frequenta le migliori accademie; diventa geniere ed inaugura una brillante carriera. I suoi nemici (e ne ha parecchi) insinuano che l’origine dei suoi successi sia da ricercarsi nei favori, che come mignon ha dispensato a pascià dai gusti particolari…
Djemal pashaVersatile, efficiente, è un organizzatore nato, esperto in questioni di logistica. Sono tutte doti che gli torneranno utile nella pianificazione e realizzazione degli omicidi di massa, che persegue con spietata determinazione. Assertore del darwinismo sociale e fanatico sostenitore della superiorità razziale del ceppo turco, lui che probabilmente turco non è mai stato, ha fama di macellaio. È ossessionato da complotti e tradimenti che vede ovunque. Durante il suo mandato in Siria e Libano si distingue per i rastrellamenti e le esecuzioni sommarie. Egalitarista, non fa torto a nessuno: sciiti, alawiti, cristiano maroniti, assiro-caldei, armeni, arabi sunniti… tutti salgono sui patiboli che allestisce ovunque mette piede. Ma lui si definisce uno ‘statista’ ed un grande riformatore.
Djemal Mehmed Talat (1874-1821) è nato ad Edirne (l’antica Adrianopoli) e discende da una famiglia bulgara convertita, di origine pomaka (allevatori di bufali e pastori delle montagne). Come si conviene per le sue origini, è un uomo rude e dai modi spicci, piantato su un fisico imponente, da lottatore, e la faccia da pugile suonato. Inizia la sua carriera pubblica come impiegato per la società dei telegrafi. Per ragioni disciplinari viene trasferito a Salonicco, dove fa il postino e si avvicina al movimento dei “Giovani Turchi”. Come tutti i mediocri, trova una ragione di vita nel partito, facendo una sfolgorante carriera politica. All’interno del triumvirato, è l’unico che non possa vantare trascorsi militari. E la cosa gli pesa alquanto. Però è intelligente, freddo e metodico. Ha gusti semplici e vive in maniera spartana. Ama ostentare una certa bonomia, persino più minacciosa dei suoi scatti d’ira.

24-Mehmet-Talaat-Pasha-1915

In qualità di Ministro agli Interni prima e Gran Visir poi, è il principale artefice dello sterminio degli Armeni, che persegue con lucida determinazione, animato com’è dalla convinzione ideologica ed il rancore per le persecuzioni patite dai musulmani nei Balcani.
Enver Pasha Ismail Enver è il più giovane del terzetto (è nato il 22/11/1881 a Costantinopoli). Ha praticamente combattuto su tutti i fronti di guerra ai quali gli è stato fisicamente possibile partecipare. Si conquista sul campo i gradi di colonnello, combattendo contro gli Italiani in Libia e tenendo peraltro una condotta sempre impeccabile, specialmente coi prigionieri di guerra, che gli farà guadagnare il rispetto del comando italiano. Tornato in Europa, combatte contro Bulgari, Serbi, Greci, Romeni, Russi… Respinge l’avanzata bulgara verso Costantinopoli, riconquista Edirne e l’entroterra tracico, guadagnandosi il titolo di pascià.
albero di nataleSi crede una specie di eroe romantico ed in patria è considerato un’icona nazionale, ma l’ostentazione marziale del suo elàn guerriero sono in controtendenza col suo aspetto. Ha un fisico minuto, i lineamenti morbidi e quasi efebici, con mani piccole e affusolate. Peggio ancora è terribilmente basso e compensa la cosa con tacchi rialzati e colbacco fuori ordinanza, per sembrare più alto in parallelo con la sua vanità. Però è dotato di un ego smisurato e trova la sua naturale prosecuzione in politica. Durante la sua permanenza a Salonicco si avvicina al “Comitato per l’Unione ed il Progresso” e nell’ambito del partito incarna l’ala destra e più oltranzista. Si reputa una grande condottiero e ricerca la collaborazione dei tedeschi, che invece lo reputano un incompetente totale. Di conseguenza, dopo il colpo di stato, diventa Ministro della Guerra, porta la Turchia nel grande mattatoio della prima guerra mondiale e, come comandante generale, va incontro ad una disfatta dietro l’altra, delle quali ovviamente incolpa gli Armeni.
Enver BeyÈ un sostenitore della laicità dello stato, per questo proclama la “guerra santa” e costituisce un suo personale “Esercito dell’Islam”. Avverso al potere del sultano, sposa una principessa imparentata con la casa reale degli Osmanli, che gli conferirà la qualifica di “genero all’ombra di Allah in terra”…

«…un titolo di cui si glorierà fino alla morte. È ambizioso, arrogante e magalomane. Nel suo studio tiene i ritratti di Federico il Grande e Napoleone. E “Napoleonik lo hanno soprannominato per dileggio i suoi numerosi nemici. È stato attaché militare a Berlino ed è tornato in patria con una sconfinata ammirazione per l’esercito e la disciplina prussiani

Sergio De Santis
(1996)

Enver e signora Dopo la caduta del regime dei “Giovani Turchi”, condannato in contumacia, Enver ripara all’estero e si reinventa agente segreto per conto della Repubblica di Weimar. Traffica in armi; viaggia in Russia dove si avvicina ai bolscevichi. Cerca di rientrare in Turchia e di accordarsi con l’uomo forte del momento, Kemal “Ataturk”, che non l’ha mai potuto soffrire. Nel Novembre del 1921 Lenin lo invia in Turkestan a combattere contro le armate bianche; quindi Enver passa dai bolscevichi ai “controrivoluzionari”, per cercare di unire tutte le popolazioni turco-islamiche in una grande “federazione caucasico-caspiana”. È talmente convincente che il suo esercito personale si defila alla svelte ed Enver praticamente si suicida in una carica di cavalleria, contro un battaglione armeno dell’Armata rossa che lo tira giù con un paio di fucilate.

White cavalry in Siberia

La Razza Panturanica
Mongol Della modernità europea nell’architettura del nuovo stato, i “Giovani Turchi” riprendono il darwinismo sociale e tutta l’accozzaglia di dottrine razzialiste, che vanno per la maggiore nel più civile Occidente.
Per dare una base scientifica ai deliri identitari, ci si affida a due medici organici al partito…

«Il Triumvirato infatti, aizzato da una coppia di fanatici dell’ideologia razzista, il dottor Nazim ed il dottor Behaeddin Chakir, ha cominciato ad accarezzare un ambizioso sogno destinato a esorcizzare la triste realtà quotidiana del declino ottomano: quello di unire in un nuovo impero panturanico (dall’antico termine “turan” usato per indicare le steppe dell’Asia centrale) tutti i popoli turchi, omogenei per lingua, etnia, cultura, dai Dardanelli a Samarcanda»

Marco Buttino
(1992)

Bahaeddin Shakir Il dottor Behaeddin Chakir, fautore di una politica di aperta discriminazione razziale e di eliminazione, è stato uno dei principali ispiratori del “Comitato di Unione e Progresso”. A lui si deve la creazione della struttura operativa dell’Ittihad, conosciuta come “organizzazione speciale”. È il famigerato Techkilat i Mahsousse (da distinguere dall’omonimo servizio segreto istituito da Enver Bey), che avrà un ruolo fondamentale nelle operazioni di sterminio su scala di massa. Si tratta di un organismo paramilitare costituito nel Luglio del 1914 sotto la supervisione del Ministero dell’Interno (e quindi di Talat pascià). L’Organizzazione speciale è guidata da un direttorio composto da due membri politici, dei quali si distingue il dottor Nazim, e due ufficiali militari con funzioni operative: Aziz Bey (capo dei servizi di sicurezza) e Djevad Bey (comandante della guarnigione di Costantinopoli). Il dott. Chakir si occupa della direzione del centro operativo di Erzerum, dal quale coordina tutte le operazioni, supervisionando i commissari politici inviati nelle province. cache_29036832Agli omicidi di massa ed alle stragi, provvede invece una manovalanza di 30.000 energumeni reclutati nelle prigioni, tra i criminali comuni e gli irregolari albanesi. Sono i Tchetté e si occupano di svolgere il lavoro sporco.
Doktor Nâzim Bey Il dottor Nazim dirige invece il Comitato centrale dell’Ittihad ed è il Ministro dell’Educazione. Da bravo medico, per lui la questione armena è soprattutto un problema di profilassi e di “microbi”. E le minoranze non turche sono la componente batterica che infesta il corpo sano della nazione.

«Ad eccezione dei Turchi, tutti gli altri elementi devono essere sterminati, senza badare a quale religione appartengano. Questo paese deve essere ripulito da elementi stranieri ed i Turchi devono effettuare la pulizia

Zadeh Riflat
“The Inner facet of the turkish revolution”
(1968)

esercito ellenicoNazim Bey è originario di Salonicco ed ebbe a patire duramente l’occupazione greca della città nel 1912. Il suo caso costituisce un tipico esempio di come una vittima possa trasformarsi facilmente in carnefice, una volta mutati i rapporti di forza. Ma Nazim è anche animato da un odio non comune contro gli Armeni. Le sue conclusioni sono semplici: il problema armeno si estingue con la scomparsa della “razza maledetta”.
bonesDopo il 1918, Nazim praticamente sfugge alla condanna a morte, alla vendetta armena e ad ogni altra spiacevole conseguenza. Ma finisce giustiziato nel 1926 per aver tentato di assassinare Kemal Ataturk.

L’Interludio
Fante bulgaro C’è da dire (e ribadire) che l’eliminazione di massa delle minoranze, al di là dei suoi postulati teorici, e di documenti molto contestati non solo in ambito turco, almeno nell’immediato non ebbe alcuna applicazione pratica di una qualche rilevanza. Così come moltissime furono le resistenze e l’elusione delle disposizioni all’interno dello stesso apparato amministrativo e militare, che pure avrebbe dovuto occuparsi materialmente delle eliminazioni. E che il passaggio di consegne e la loro esecuzione non fu così diretto ed immediato come solitamente si vuole far credere.
Sullo sterminio degli Armeni, troppo spesso, ci si concentra sugli aspetti “sensazionalistici” e orripilanti che, ovviamente, hanno più facile presa sull’immaginario collettivo e sono tesi ad impressionare con le loro evocazioni terrifiche.
Ma ci si dimentica con altrettanta facilità, senza nulla voler sminuire o negare del crimine genocida, che all’inizio del XX secolo le deportazioni forzate, i campi di internamento, le marce della morte, gli omicidi di massa… non erano una rarità né un eccezione. E gli anni successivi dimostreranno fino a che livelli possa spingersi la volontà genocida, sulla spinta dell’odio e della paura…
Rappresaglie bulgareInoltre, in Turchia veniva vissuta come un’intollerabile sperequazione il silenzio con cui le potenze occidentali (anche se in realtà denunce ve ne furono eccome), sempre solerti nel condannare la barbarie ottomana, accoglievano i massacri (che furono numerosi e non meno feroci) consumati nei territori occupati dai Serbi, dai Bulgari, e dagli stessi Greci, che meriterebbero una trattazione a parte ed in altra sede. Il ché non giustifica assolutamente, ma aiuta a comprendere la spirale di vendette, di ritorsioni e di rappresaglie, che si innestarono con lucida follia omicida su un disegno criminale ben più grande e pilotato, alla cui realizzazione infame contribuì non poco lo scoppio del primo conflitto mondiale, quando sugli Armeni cominciò a gravare pure l’accusa di tradimento in tempo di guerra.

Lanceri turchi«Quanto accadde nel 1915 seguì in parte le dinamiche sociali e politiche che ormai ci sono note: il riaccendersi del conflitto etnico in forme cruente, un intervento dall’esterno in funzione di detonatore degli scontri, il connotarsi quindi di uno schieramento musulmano contrapposto a uno cristiano. Nel 1915 vi fu indubbiamente una differenza di intensità rispetto al passato: le province armene furono a lungo campo di battaglia tra l’esercito turco e quello turco; la comunità armena si organizzò anche militarmente; Costantinopoli fu la più decisa a voler eliminare tutti gli armeni dalla regione; i curdi furono i più spietati

Marco Buttino
(1992)

Per gli Armeni, già sospettati di intesa col nemico russo, in seguito all’entrata in guerra dell’Impero ottomano, le cose precipitano drasticamente a partire dall’inverno del 1914.
Accantonato ogni scrupolo di tipo laico, il 16 Novembre del 1914 il Triumvirato induce le autorità islamici ad indire la jihad contro gli infedeli, col risultato di scatenare una sorta di isteria collettiva contro i non musulmani, in un paese già eccitato dalla propaganda di guerra.
Cosacchi contro turchiIl 18 Dicembre, Enver pascià, che ha assunto il comando diretto della III Armata, in pieno inverno e con equipaggiamenti inadeguati, lancia un’offensiva sulle montagne del Caucaso contro i reparti russi che aspettano un nemico semi-assiderato e affamato, restando trincerati nelle loro solide posizioni difensive, supportati da una Legione di volontari armeni che accorpa circa 8.000 combattenti. Per i turchi è un disastro: il generalissimo Enver perde 75.000 effettivi e riesce a sopravvivere a stento, pare, soccorso proprio da un soldato armeno. E, se fosse vero, mal gliene incolse!

1915 - Volontari armeni nell'Armata russa del Caucaso

La Grande Purga
l_8274_turkish_cavalry Il 25/02/1915, Enver pascià emana una direttiva a tutti i comandi militari in cui ordina il disarmo dei soldati armeni all’interno dell’esercito imperiale, giudicati inaffidabili, e dispone il loro accorpamento in piccoli reparti del Genio, da impegnare in lavori lontano dalla linea del fronte. Si tratta di almeno 300.000 uomini tra i 16 ed i 60 anni, che costituiscono il grosso della popolazione maschile più valida della comunità armena. E quindi il nucleo principale su cui intervenire subito e mettere in condizioni di non nuocere. Le singole compagnie di genieri vengono condotte alla spicciolata nelle retrovie e fucilate in blocco.
Nel frattempo, per contenere la controffensiva di primavera dell’esercito russo, lo stato maggiore turco mobilita una nuova armata rinforzata dalle milizie irregolari dei curdi e mercenari turcomanni reclutati nella provincia persiana dell’Azeirbaijan ad est del vilayet di Van e nell’Hakkari, dove è forte la presenza degli Assiro-Caldei che vengono investiti dalla rappresaglia.
Come d’abitudine, ogni volta che l’esercito turco non riesce a contrapporsi militarmente ai suoi nemici, infierisce sulla popolazione locale, molto meglio se indifesa, che dopo il ripiegamento dei Russi viene sottoposta ad ogni atrocità possibile.

armenia04

Purgato l’esercito ed ogni possibilità di sollevazione, nel mese di Aprile la comunità armena viene decapitata del suo ceto dirigente, con l’arresto di tutti gli intellettuali, professori universitari, medici, liberi professionisti, esponenti politici e persino deputati, presenti a Costantinopoli, che vengono dapprima imprigionati e successivamente assassinati in carcere o giustiziati in pubbliche esecuzioni.
1915 - Impiccagione dei leaders del DashnakA questo punto, è la volta del grosso della comunità, che inizia a capire bene qual’è il destino che le è stato riservato….

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MATERIALE RESISTENTE

Posted in Kulturkampf, Roma mon amour with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 25 aprile 2009 by Sendivogius

 

C’era una volta il 25 Aprile…

 

vauro-25-aprile-2009Annegata nei fiumi della retorica istituzionale, irrisa dagli eredi della RSI al governo e platealmente snobbata dal ducetto di Arcore, quella del 25 Aprile 2009 sarà una strana Festa della Liberazione dove non si parlerà di ‘Resistenza’ e, soprattutto, non si pronuncerà mai la parola ANTIFASCISMO. Sarà la celebrazione dei “vincitori e dei vinti”, “delle ragioni condivise”, “della libertà”: un’orgia bipartisan nell’alcova del negazionismo revisionista, in nome della ritrovata “concordia nazionale”. In pratica, si consumerà una non-festa svuotata di senso e di ideali, manipolata per esigenze di ritorno elettorale, con l’ennesima passerella abruzzese del premier in cerca di consensi. L’ascesa al Colle di Re Silvio val bene l’adesione ad almeno un 25 Aprile, dopo 14 anni di assenza. 

E siccome nessuna ‘ascesa’ è irresistibile, in questa ricorrenza celebreremo quegli eroi sconosciuti che al fascismo si opposero prima che questo diventasse regime. Uomini liberi che combatterono (e morirono), in totale solitudine, tra l’ostilità istituzionale di coloro che dell’antifascismo fecero una professione rituale, piuttosto che una militanza attiva.

Pertanto, tracciare una breve storia dello spontaneismo militante e dei movimenti che si opposero al fascismo al suo nascere è un lavoro complesso che, speriamo, non deluderà quei lettori eventualmente interessati ad una sintesi d’insieme.

 

Le prime organizzazioni antifasciste

Dopo la grande mobilitazione popolare del 1919-1920 e l’inconcludente sbornia collettiva del cosiddetto Biennio Rosso, si scatena la reazione di agrari e industriali coagulati attorno al nascente movimento fascista, che agisce in maniera capillare dai piccoli centri alle grandi città. Con l’intensificarsi dello squadrismo, nel primo semestre del 1921 si registrano 726 distruzioni operate dalle squadre fasciste: 17 giornali e tipografie, 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 8 società di mutuo soccorso, 141 sezioni socialiste, 100 circoli di cultura, 10 biblioteche, 28 centri sindacali, 53 circoli operai ricreativi, una università popolare. A questo si aggiungono intimidazioni, pestaggi e uccisioni, ai danni di sindacalisti, militanti di sinistra ed esponenti socialisti, nella sostanziale indifferenza del governo liberale e delle forze di polizia che, di fatto, tollerano lo squadrismo, quando non lo agevolano apertamente. Il Partito Socialista ed il Partito Repubblicano considerano il fascismo un fenomeno transitorio, come un’influenza di passaggio. Perciò scelgono una politica attendistica basata sulla resistenza passiva, confidando nell’intervento governativo e nel ripristino dell’ordine pubblico. E infatti la Regia Guardia e Reali Carabinieri intervengono eccome: nei quindici mesi conosciuti come “biennio rosso”, uccidono circa 150 operai e ne feriscono quasi 500 in modo grave. Forniscono armi e sostegno logistico ai fascisti, intervengono in loro aiuto quando questi sono messi in difficoltà dalla reazione popolare.

Per difendersi dalle violenze fasciste, nascono (soprattutto nel Centro-Nord) comitati di autodifesa su base spontanea, insieme alle prime “formazioni di difesa proletaria” legate alle posizioni politiche di partito, ma scarsamente efficaci in quanto prive di coordinamento e di appoggi concreti, nonostante molti degli appartenenti fossero reduci di guerra. I rapporti di forza cambiano notevolmente con l’entrata in scena degli “Arditi del Popolo”: uomini di comprovata esperienza militare, versati nell’uso delle armi e nelle tattiche di guerra. Si trattava spesso di ex militari pluridecorati e di ufficiali competenti, provenienti dai reparti d’assalto e da corpi scelti come gli Arditi: temprati dall’esperienza sul campo negli spietati fronti della “Grande Guerra” e specialisti in missioni impossibili.

Benché l’antifascismo – inteso sia come teorizzazione politica che come risposta militare – nasca quasi contemporaneamente alla comparsa dello squadrismo, le prime forme di resistenza al fascismo sono sicuramente meno note di quelle legate alle esperienze della guerra civile spagnola e della Resistenza. Nel secondo dopoguerra, l’antifascismo sconfitto degli Arditi del popolo è stato relegato ai margini della storiografia, benché dietro esso vi fossero le stesse ragioni fondanti della Resistenza. Tra le ragioni di questa parziale rimozione, vi possono essere quella delle origini e della natura della prima associazione antifascista (permeata da miti arditistico-dannunziani, successivamente fatti propri dal fascismo e, al contempo, attestata su posizioni genericamente rivoluzionarie) e quella della difficile autocritica degli attori di allora (dalle istituzioni alle forze politiche e sociali) le quali non compresero appieno la portata del fenomeno fascista e che, tranne qualche eccezione, ostacolarono la diffusione dell’antifascismo del 1921-22. Un antifascismo forse (e comunque solo per taluni aspetti) distante, per contenuti e forme, da quello istituzionalizzatosi nell’Italia repubblicana; ma pur sempre un antifascismo nel quale l’esperienza resistenziale e il movimento democratico sorto da essa trovano la loro origine.

[Fonte: romacivica.net/anpiroma. Il testo integrale lo avreste potute leggere qui. Coerentemente con il nuovo corso politico, al momento il sito risulta oscurato, pare, per intervento dello stesso Comune di Roma. Confidiamo in un rapido ripristino.]

 

ARDITI DEL POPOLO (1921-1922)

arditi-del-popolo “Essi furono il primo movimento antifascista, organizzato militarmente, che la nostra storia abbia conosciuto in quanto combatté duce e compari prima ancora che questi stessi prendessero il potere. Gli Arditi del Popolo, ovunque si sentisse puzza di imminenti aggressioni squadristiche, si piantavano lì arrabbiati e soli, dannatamente soli, pronti a spezzare il sopruso.

 [Gli Arditi del Popolo di A. Liparoto]

Gli Arditi del Popolo nascono tra il 27 Giugno e il 2 Luglio 1921 all’interno della sezione romana dell’Associazione Nazionale Arditi Italiani, in contrapposizione con la sede milanese schierata apertamente col fascismo. Il nuovo direttorio romano è guidato da Argo Secondari, anarchico, e da altri sottufficiali di idee libertarie, provenienti dalla sinistra interventista. Al fianco di Secondari si schierarono altri ex-arditi di diversa matrice politica: dannunziani, repubblicani, anarchici individualisti, motivati da un medesimo obiettivo: Fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando i fascisti assassineranno i fratelli operai, fino a quando continueranno la guerra fratricida gli Arditi d’Italia non potranno con loro aver nulla di comune. Un solco profondo di sangue e di macerie fumanti divide fascisti e Arditi.

[Dichiarazione di Argo Secondari all’assemblea degli Arditi del Popolo del 27 giugno 1921, riportata da “Umanità Nova” del 29 giugno 1921]

L’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (A.N.A.I.), era stata costituita il 1° Gennaio 1919 da Mario Carli, un ex capitano degli Arditi, orientato su posizioni di sinistra e vicino ai futuristi di Marinetti: nel 1918 Carli aveva fondato il periodico Roma Futurista. L’A.N.A.I, creata da Carli, si proponeva come punto di riferimento per quei 40.000 ex Arditi che, da osannata truppa di elite durante il conflitto, erano diventati degli spiantati di difficile ricollocazione in tempo di pace. Uniti dal comune disprezzo dei reduci per gli “imboscati”, disgustati dal pacifismo socialista, molti ex arditi sono sensibili alle lusinghe del fascismo emergente. Nonostante l’assalto del 15 Aprile 1919 alla sede del quotidiano socialista L’Avanti! il connubio tra arditi è fascismo non è né scontanto né unanime. A tal proposito Carli, facendosi interprete dei malumori all’interno del movimento, si dissociava apertamente con un indignato articolo dal titolo inequivocabile: Arditi non gendarmi!  

Nel settembre del 1919 gli Arditi aderiscono in massa all’Impresa di Fiume. E nel 1920 anche Carli raggiunge Gabriele D’Annunzio, che intanto ha proclamato la Reggenza del Carnaro alla quale aderirono non pochi socialrivoluzionari. A Fiume, Guido Carli rappresenta la parte filobolscevica e, da esterno, appoggerà il nuovo movimento creato a Roma da Secondari, prima di convertirsi anche lui al fascismo.

Si trattava di una importantissima svolta nella storia degli arditi. Su forte impulso di Secondari si decideva infatti di virare la sezione romana in senso antifascista. L’imperativo categorico era proteggere le associazioni proletarie dagli attacchi degli squadristi.

 [Gli Arditi del Popolo di A. Liparoto]

argo-secondari-e-arditiArgo Secondari è un ex tenente delle “fiamme nere” (Arditi provenienti dalla fanteria), decorato con la medaglia d’argento al valor militare.

Nel 1919 ha cercato di promuovere una insurrezione anarchica  a Roma, con elementi repubblicani, nota come “Complotto di Pietralata”, insieme al ten. Ferrari ed al sergente maggiore Pierdominici.

Il 6 Luglio 1921, Secondari partecipa con i suoi Arditi del Popolo, circa 2000 reduci, alla manifestazione organizzata all’Orto Botanico di Roma dal “Comitato romano di difesa proletaria” contro lo squadrismo fascista.

 “La nuova associazione veniva inizialmente ben accolta dai cosiddetti partiti sovversivi (Partito socialista, Partito repubblicano, Partito comunista, Unione anarchica), oltre che dai sindacati di classe (Cgl e Usi), tanto che numerosi proletari e militanti antifascisti aderirono alla neonata formazione, nella speranza e con la determinazione di difendere le strutture del movimento operaio dalle sistematiche aggressioni compiute, con metodi paramilitari, dallo squadrismo fascista (…) Secondo un rapporto dello stesso prefetto di Roma, agli Arditi del Popolo si andavano iscrivendo numerosi simpatizzanti appartenenti ai vari partiti rivoluzionari, nonché lavoratori postelegrafonici facenti capo al comunista Cesare De Fabiani e molti fornaciai anarchici del quartiere di Porta Trionfale, dove abitava anche Errico Malatesta.”

[Marco Rossi. “Una storia romana: gli Arditi del Popolo”]

malatesta-con-gli-arditi_del_popoloConsiderando le sole sezioni la cui esistenza è certa, gli Arditi del Popolo contano, nell’estate del 1921, 144 sezioni con 20 mila aderenti circa: Lazio (12 sezioni, 3.340 associati), Toscana (18 sezioni, 3.056 iscritti), Umbria (16 sezioni, 2000 aderenti), Marche (12 strutture organizzate, circa 1000 iscritti), Lombardia (17 sezioni, più di 2.100 Arditi del popolo), nel Veneto e Friuli (15 nuclei, circa 2.200 militanti), Emilia Romagna (18 sezioni, 1.400 associati), Liguria (1080 associati, 4 battaglioni nella sola Genova), Piemonte (8 raggruppamenti, circa 1.300 aderenti), Trentino (1 sezione con 200 associati), Sicilia (7 sezioni, circa 600 aderenti), Campania (536 aderenti), Puglia (6 sezioni, circa 500 aderenti), Abruzzo e Calabria (1 sezione, circa 200 aderenti), Sardegna (2 sezioni, 150 iscritti). Insieme a simpatizzanti e sostenitori esterni, non iscritti, è possibile che l’organizzazione raggiungesse però le 50.000 unità.

Agli Arditi del Popolo aderiscono pure ferrovieri e operai delle ferrovie, metalmeccanici, braccianti agricoli e contadini, metalmeccanici, operai edili, operai dei cantieri navali, portuali e marittimi. “Ma vi sono anche, in misura minore e soprattutto tra i gruppi dirigenti, impiegati, pubblicisti, studenti, artigiani e qualche libero professionista”. Agli occhi dei ceti operai e dei lavoratori infatti gli Arditi del Popolo appaiono come l’unica organizzazione in grado di tutelarli con successo contro le violenze fasciste. E il movimento di Secondari si estende a macchia d’olio nelle varie città italiane, diventando un’organizzazione strutturata a livello nazionale nella quale confluiscono le precedenti formazioni di difesa proletaria, ripartite su base locale e politica:

§   Abbasso la legge: anarchici (Carrara) 

§   Gruppi Arditi Rossi, o semplicemente Arditi Rossi: socialisti, poi comunisti (Venezia Giulia) di Vittorio Ambrosini, capitano degli Arditi, vicino all’ambiente futurista, personaggio singolare che attraverserà lo scenario combattentistico di entrambi i conflitti mondiali, fonda con Giuseppe Bottai, Mario Carli, ed altri la “Associazione fra gli Arditi d’Italia” e segue Argo Secondari nella scissione che da vita agli Arditi del Popolo, dai quali Giuseppe Bottai prende le distanze.

§   Gruppi rivoluzionari di azione: anarchici e socialisti (Torino e centri industriali dintorni)

§   Guardie Rosse: socialisti, poi comunisti (Empoli, Torino, Alessandria e centri industriali dei dintorni) ad Empoli è importante il meccanismo di provocazione (poi ripetuto innumerevoli volte) messo in atto da organi istituzionali d’accordo con i fascisti; una forte formazione di Guardie Rosse agisce anche ad Imola in collaborazione con le formazioni antifasciste anarchiche

§   Squadre di azione antifascista: anarchici e comunisti (Livorno) 

§   Centurie proletarie: comunisti e socialisti (Torino)

§   Figli di nessuno: anarchici (Genova, Vercelli, Novara)

§   Lupi Rossi: socialisti (Genova)

Nel “Fronte unito nazionale degli Arditi del Popolo” militavano in comune sinergia:

§   Legione Arditi Proletari Filippo Corridoni (Legione Proletaria Filippo Corridoni): repubblicani, socialisti rivoluzionari, sindacalisti rivoluzionari (Parma)

§   Arditi Ferrovieri: fronte unito riconducibile al battaglione Arditi del Popolo (Milano e dintorni)

§   Centurie proletarie: fronte unito riconducibile a battaglione/i Arditi del Popolo (basso Friuli)

§   Ciclisti Rossi: socialisti, comunisti, anarchici fronte unito riconducibile a battaglione/i Arditi del Popolo (Cremona e provincia, Venezia Giulia)

§   Corpo di Difesa Operaia: fronte unito riconducibile a battaglione/i Arditi del Popolo (Torino e centri industriali dintorni)

§   Guardie Rosse Volanti: fronte unito riconducibile a battaglione/i Arditi del Popolo: comunisti e socialisti (Crema e dintorni)

§   Squadre Comuniste d’Azione: comunisti (Italia nord-occidentale)

§   Squadre Difesa Proletaria: anarchici e comunisti (Fermo)

§   Squadre Azione Repubblicana: repubblicani (Romagna, Marche; zone di intensa attività furono anche il Lazio, e specificatamente Roma: forte fu la presenza di tale organizzazione dopo la scissione avvenuta nella capitale fra gli Arditi ed avendo la città stessa una forte tradizione insurrezionale. Anche la zona di Bari, dove agiva Giuseppe Di Vittorio, in quanto pur essendo generalmente riportate le formazioni di difesa proletaria come Arditi del Popolo, nella realtà l’insieme dei combattenti antifascisti in quell’area era più complessa)

bandiera-arditi1 “Sotto il profilo tecnico-militare, gli Arditi del popolo sono una struttura militare agile, poichè devono essere capaci di convergere in poco tempo laddove si presuma possa avvenire un aggressione fascista. L’organizzazzione antifascista esercitava il suo controllo anche sotto forma di vera e propria milizia di quartiere, pattugliando il territorio e identificando gli elementi fascisti. Gli arditi del popolo erano strutturati in Battaglioni, a loro volta suddivisi in compagnie (altrimenti dette Centurie) e in squadre. Ogni squadra era composta da 10 elementi più il caposquadra, più battaglioni formavano una compagnia. L’addestramento dei partecipanti avveniva nelle campagne alle porte della città, oppure in montagna. Dal punto di vista organizzativo la struttura del movimento non è eccessivamente accentrata. Al primo congresso dell’associazione vengono nominati dei Direttorii dei Comitati Regionali (i quali esistevano solo sulla carta), ai quali sarà dato un ampio margine di autonomia. Nella pratica ogni sezione decide autonomamente il proprio lavoro. In alcune città, come Livorno ad esempio, accade che le varie compagnie di Arditi si raggruppino a seconda dell’orientamento politico.

L’adesione sostanzialmente libera, non vincolata dalle fedeltà di partito e dai rigori ideologici, insieme alla presenza di una forte componente anarchica, insospettisce le segreterie di partito che guardano con diffidenza al movimento, come ad uno sgradito concorrente. Nonostante gli esordi positivi, supportati dall’adesione di molti militanti, gli apparati di segreteria decidono quindi di isolare gli Arditi del Popolo, marcandone nettamente le distanze. Il primo a dissociarsi è il Partito Repubblicano, già dalla fine del Luglio 1921, anche se la sua struttura giovanile continuò a parteciparvi attivamente.

Il 2 agosto 1921, viene firmato il “Patto di Pacificazione” tra PSI, CGL e Fasci di Combattimento, subito disatteso da quest’ultimi. Col “Patto”, il governo Bonomi disarticola ogni possibile resistenza al fascismo, spezzando le prospettive di un fronte unitario. L’Italia liberale ha fatto la sua scelta di campo con le irreversibili conseguenze. Coerenze del ‘moderatismo’. Peggio di tutti fanno però i comunisti del neonato PCd’I che, oltre ad interdire ogni collaborazione, imbastiscono una campagna di stampa calunniosa: gli Arditi vengono definiti avventurieri e nittiani, considerati pericolosi perché non controllabili dal partito e “insufficientemente rivoluzionari”.

È deplorevole che in alcune province i comunisti si confondano ancora con i cosiddetti Arditi del Popolo. Ciò non deve continuare. È un errore politico e tecnico da cui deriveranno conseguenze morali e materiali deleterie!

[Comunicato direttivo del 7 Agosto 1921]

Nonostante la lucidità analitica di Antonio Gramsci che guarda che non estremo favore alle formazioni di autodifesa, il settarismo di Amedeo Bordiga non ammette alcuna deviazione eterodossa. Ma già dal 10 luglio del ’21, in merito ai gruppi di resistenza spontanea, il Comitato esecutivo aveva disposto perentoriamente: Poiché intanto sorgono in diversi centri italiani iniziative di tal genere da parte di elementi non dipendenti dal Partito comunista, si avvertono tutti i compagni di restare in attesa di disposizioni… I comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito… La parola d’ordine del Partito comunista ai suoi aderenti e ai suoi seguaci è questa: formazione delle squadre comuniste, dirette dal Partito comunista…

Simili direttive contribuirono non poco a confondere i militanti di partito che pure continuarono, almeno in parte, a sostenere le formazioni spontanee contrapponendosi all’inerzia dei propri dirigenti.

Con l’eccezione del Lazio, del Veneto e della Federazione giovanile, per quanto riguarda i repubblicani, e del Parmense e di Bari, per sindacalisti rivoluzionari e legionari fiumani, le forze politiche della “sinistra interventista” si orientano quasi subito anch’esse verso soluzioni di autodifesa che escludono la confluenza o la collaborazione con gli Arditi del popolo. Anche queste formazioni preferiscono organizzare l’autodifesa a livello partitico, teorizzando, nella maggioranza dei casi, la perfetta equidistanza tra “antinazionali” (anarchici, socialisti e comunisti) e “reazionari” (fascisti, nazionalisti e liberal-conservatori). L’unica componente proletaria che sostiene apertamente l’arditismo popolare è quella libertaria. Un’area composita e numericamente consistente al cui interno vi sono anime tra loro assai diverse. In ogni caso, sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana sono, per tutto il biennio 1921-22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. Dopo l’allineamento di Gramsci e de ‘L’Ordine nuovo’ alle direttive del partito, il quotidiano anarchico ‘Umanità Nova’ rimane infatti l’unica voce proletaria a perorare la causa degli Arditi del popolo.

[Fonte: romacivica.net/anpiroma]

A sostegno degli Arditi del Popolo, rimangono perciò l’Unione anarchica italiana così come il resto del movimento libertario, la sinistra repubblicana, l’Unione sindacale italiana e lo SFI, il sindacato dei ferrovieri, nonché un elevato numero di proletari senza partito e sovversivi di ogni tendenza in disaccordo con i propri dirigenti. Eppure gli Arditi del Popolo combattono, resistono e vincono: a Sarzana, a Viterbo, a Parma che nell’agosto 1922 respinge l’assalto degli squadristi comandati da Italo Balbo. Proprio il futuro quadrumviro annoterà amaramente: “Parma è rimasta impermeabile al fascismo”.

E forse gli Arditi del Popolo avrebbero davvero potuto fermare il fascismo, combattendolo attivamente sul suo stesso terreno, prevenendone le mosse, e disarticolandone la macchina militare. Almeno questa è la tesi di storici come Tom Behan e Renzo del Carria.

 

LA RESISTENZA ROMANA

DEGLI ARDITI POPOLARI

Nonostante tale indebolimento del fronte antifascista e la repressione statale sempre più pesante nei confronti degli Arditi del Popolo, a Roma e nel Lazio (in particolare a Citavecchia e a Genoano) l’organizzazione fondata da Secondari registrò il maggiore radicamento e l’adesione più forti, tanto che per ben tre volte il fascismo dovette fare i conti con l’antifascismo popolare romano.

bandiera-arditi-di-civitavecchiaLa prima fu nel novembre del ’21, in occasione del 3° Congresso nazionale dei Fasci. Già alla fine del giugno precedente, gli Arditi del Popolo avevano costituito un primo battaglione di circa 400 aderenti, suddiviso in tre compagnie denominate Temeraria, Dannata e Folgore. In breve tempo furono costituiti 5 battaglioni nei quartieri Trionfale, Porta Pia – Salario, Testaccio – S.Saba – S.Paolo, Esquilino – S.Lorenzo, Trastevere, oltre a distaccamenti nei rioni di Ponte Milvio, Ponte, Parione e Borgo, collegati tra loro mediante squadre di ciclisti. Così quando il fascismo decise di compiere una prova di forza proprio nella Capitale, convocandovi il suo Congresso, dovette mobilitare circa 33 mila squadristi armati, anche provenienti in gran parte dalla Toscana e dall’Emilia Romagna, nonostante l’appoggio del governo Bonomi che non esitò a far intervenire le forze dell’ordine, dotate anche di autoblindo, ogni qualvolta i fascisti e le squadre nazionaliste dei ‘Sempre pronti’ si trovarono in difficoltà.

Il 7 novembre, con l’arrivo e le prime aggressioni fasciste, tra le quali l’assassinio del ferroviere Guglielmo Farsetti, veniva proclamato lo sciopero generale dalle due Camere del Lavoro, quella della Cgl e quella dell’Usi, mentre scattava la mobilitazione degli Arditi del Popolo, giunti anche dalla regione e da Terni, che resero inaccessibili i quartieri popolari. Per quattro giorni, dal 9 al 13 novembre, si susseguirono gli scontri in tutta la città. Per decine di volte gli Arditi del Popolo, assieme alle squadre comuniste e ai gruppi anarchici, respinsero sulle barricate gli attacchi fascisti diretti a S.Lorenzo, Trastevere, Trionfale, Testaccio, impedendo la distruzione delle sedi e dei giornali proletari. A S.Lorenzo la partecipazione popolare vedeva coinvolti sia i ragazzi impegnati a disselciare le strade per recuperare materiale da tirare dalle terrazze e dai tetti, che le donne del quartiere. A Valle Aurelia, zona dove vi erano le fornaci per la cottura dei laterizi, i fascisti ebbero la peggio negli scontri con i fornaciai in rivolta.

Alla fine, dopo la ritirata degli squadristi da Roma protetti dalle forze dell’ordine, si contarono almeno 7 morti e 120 feriti. I fascisti, avendo contato solo un caduto tra le loro file (anche se qualche fonte riferisce di 4 o 5) cercarono di cantare vittoria, vantando i sei assassini compiuti ai danni di persone isolate e disarmate, ma in realtà avevano subito una sconfitta politico-militare senza precedenti, definita da più parti come una vera Caporetto, tanto che lo stesso Mussolini ritenne che una strategia basata solo sulla violenza non fosse più vincente.

La seconda volta che Roma antifascista si rivoltò contro le camicie nere fu nel maggio del ’22, in coincidenza con la solenne traslazione della salma dell’eroe di guerra Enrico Toti al cimitero del Verano. Ripetutamente attaccati e fatti segno di sparatorie da parte delle Squadre comuniste e degli Arditi del Popolo asserragliati a S.Lorenzo, i fascisti furono costretti a rifugiarsi all’interno del Mausoleo di Augusto, finché furono tratti in salvo dalle autoblindo della polizia. Il bilancio della giornata del 24 maggio fu di 3 morti, una cinquantina di feriti e quasi 200 operai arrestati che furono liberati dopo 36 ore a seguito dello sciopero generale immediatamente proclamato dal Comitato di difesa proletaria.

Nel contesto nazionale, dopo i risultati fallimentari dello sciopero generale “legalitario” contro le violenze fasciste iniziato il 1° agosto ’22, gli Arditi del Popolo come tutto l’antifascismo, risultavano ormai in grave difficoltà a fronteggiare una situazione caratterizzata da una sempre più stretta alleanza tra i fascisti e gli apparati repressivi e militari dello Stato che fornivano sistematicamente armi, mezzi ed ogni protezione possibile alle squadre di Mussolini. In tale, scoraggiante, quadro soltanto in alcune zone la resistenza proletaria riusciva a fermare l’ondata reazionaria, come avvenuto a Civitavecchia, Bari e Parma: città dove gli Arditi del Popolo erano ancora forti, organizzati e radicati nel rispettivi contesti sociali. Tra l’estate e l’autunno del ‘22, anche a Roma il numero e l’attività degli Arditi del Popolo risultavano ridotti e facenti capo soprattutto al battaglione di Trastevere; le assemblee erano ospitate presso la sezione socialista di via Santini nel quartiere, mentre gli aderenti erano ormai perlopiù anarchici e repubblicani, oltre a qualche socialista e comunista dissidente e la Lega Fornaciai, notoriamente vicina agli anarchici.

(…) La Marcia su Roma e la formazione del primo governo Mussolini rappresentarono quindi anche l’epilogo per il primo antifascismo armato, almeno come fenomeno di massa, ma anche in tale circostanza dimostrò una sua persistente vitalità; nonostante che, a permettere e in alcuni casi anche a proteggere, la farsesca conquista di Roma da parte di 25-30 mila camicie nere fosse intervenuto l’esercito con 28.400 soldati che presidiarono la Capitale non certo con l’ordine fermare il fascismo. Come accaduto l’anno precedente, gli antifascisti si asserragliarono nei quartieri proletari, reagendo ai tentativi fascisti di penetrarvi e compiere rappresaglie.

(…) Uno scontro avvenne il 29 ottobre nei pressi di Borgo Pio, dove 15 camion di fascisti, dopo aver superato lo sbarramento di Castel Sant’Angelo, furono accolti e respinti dalla popolazione con lanci di tegole e rivoltellate. I carabinieri, intervenuti dopo che i fascisti si erano ritirati, eseguirono vari arresti tra gli operai scesi in strada. Scontri a fuoco anche a S.Lorenzo, tra gli antifascisti appostati dietro le barricate e alle finestre delle case contro due diverse colonne fasciste, provenienti una da Tivoli e una dal centro della città. Di fronte alla decisa resistenza armata popolare, interveniva la forza pubblica, anche con due autoblindo, mentre gli squadristi ricevevano l’ordine di ritirarsi. Altri scontri si accesero pure in via Trionfale, sulla Prenestina e sulla Nomentana, con morti fra entrambi gli schieramenti.

Diverse le cifre delle vittime nei giorni della Marcia su Roma: 22, secondo Il Popolo d’Italia; 17 in città e due nelle campagne per il Questore; 13 nel rapporto del generale Pugliese, comandante dei reparti dell’esercito: in ogni caso, molti di più di quelli registrati nei precedenti conflitti.

 (…) Iniziava quindi un ventennio di reazione, durante cui fu soppressa anche l’organizzazione degli Arditi del Popolo, ma non la volontà di tanti di loro che -dalla Spagna alla lotta partigiana- avrebbero continuato a combattere il fascismo. Così come testimonia, tra le tante, la vita dell’anarchico Aldo Eluisi conclusasi tragicamente alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944: già combattente nei Reparti d’assalto era stato Ardito del Popolo a Roma ed aveva preso parte alla resistenza nelle brigate di Giustizia e Libertà guidate proprio dal repubblicano Vincenzo Baldazzi, già amico personale di Malatesta e dirigente nazionale degli Arditi del Popolo. Nel 1926 lo stesso “Cencio” Baldazzi aveva fornito la pistola che fu trovata in possesso di Gino Lucetti, anarchico ed ex-volontario dei Reparti d’assalto, in occasione del fallito attentato a Mussolini dell’11 settembre nella capitale. Quasi a suggerire che, nella ricerca storica sugli Arditi del Popolo, tutte le strade portano a Roma…

[UNA STORIA ROMANA: GLI ARDITI DEL POPOLO intervento di Marco Rossi presentato alla “Due giorni contro i Fascismi”, tenutasi a Roma il 4 e 5 maggio 2007]

 

ULTIME FIAMME

argo-secondari Il 22 ottobre 1922, Argo Secondari (Roma 1895 – Rieti 1942) venne aggredito da una squadraccia fascista, mentre camminava solo e disarmato. Il pestaggio gli procura una grave commozione cerebrale che lo invaliderà in modo permanente. Il fratello Epaminonda, medico cardiologo negli USA, tentò invano di farlo espatriare al fine di assicurargli cure migliori. Il permesso venne sempre negato ed Argo Secondari venne internato nel manicomio di Rieti fino alla sua morte, il 17 maggio del 1942.

antonio-cieri Antonio Cieri, anarchico, ex ufficiale degli arditi assaltatori, eroico protagonista della difesa di Parma, per aver difeso il quartiere di Oltretorrente con un battaglione di 250 arditi e la popolazione tutta dall’assalto di 10.000 squadristi in armi (dal 2 al 5 agosto del ’21), fu perseguito dal governo Bonomi, “per attentato alla integrità dello Stato”. In seguito, si unì alle Brigate internazionali e morì in combattimento nella Guerra di Spagna (Huesca, 07 Aprile 1937).

gino-lucetti Gino Lucetti, ex Ardito Assaltatore, anarchico, nel 1926 attentò alla vita del Duce. Durante la Resistenza il suo nome fu dato ad un reparto partigiano: il battaglione Lucetti, che combattè con valore nell’alta Toscana. Gli arditi del popolo, come anche il battaglione Lucetti sono ricordati anche in alcune canzoni popolari toscane (battaglion Lucetti…anarchici e nulla più…fedeli a Pietro Gori… Siam del popolo gli arditi…)

Ma la scomparsa degli Arditi del Popolo segnerà non la fine ma l’inizio della resistenza, saranno molti gli (ex) Arditi che andranno a combattere in Spagna come Giuseppe di Vittorio, Picelli, De Ambris, Teresa Noce, per citarne alcuni, e che in seguito combatteranno i nazifascisti nelle file della resistenza. Come già detto, quella degli Arditi del popolo resta, comunque, la prima organizzazione antifascista a livello nazionale, che saprà unire la necessità di autodifesa della classe proletaria e le rivendicazioni della classe lavoratrice. E rimane, soprattutto, una delle verità più scomode per quegli antifascisti che si ricordano di esserlo giusto il 25 aprile.

[http://www.ewriters.it/leggi.asp?W=20919%5D

“…E un’Italia diversa, non sporca di astuzie vergognose e codardia

[Gli Arditi del Popolo di A. Liparoto]

 

 

Bibliografia

AA.VV., Dietro le barricate, Parma 1922, testi immagini e documenti della mostra (30 aprile – 30 maggio 1983), edizione a cura del Comune e della Provincia di Parma e dell’Istituto storico della Resistenza per la Provincia di Parma

AA.VV., Pro Memoria. La città, le barricate, il monumento, scritti in occasione della posa el monumento alle barricate del 1922, edizione a cura del Comune di Parma, Parma, 1997

AA.VV, La resistenza sconosciuta, Zero in Condotta, Milano 2005.

Balsamini Luigi, “Gli arditi del popolo. Dalla guerra alla difesa del popolo contro le violenze fasciste, Galzerano Ed. Salerno.

Behan Tom, The Resistible Rise of Benito Mussolini

Cacucci Pino, Oltretorrente, Feltrinelli, Milano, 2003

Cordova Ferdinando, Arditi e legionari dannunziani, Marsilio, Padova 1969;

Del Carria Renzo, Proletari senza rivoluzione, Milano, Savelli, 1975.

Di Lembo Luigi, Guerra di classe e lotta umana, l’anarchismo in Italia dal Biennio Rosso alla guerra di Spagna (191-1939), edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2001

Francescangeli Eros, Arditi del popolo, Odradek, Rom, 2000

Furlotti Gianni, Parma libertaria, edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2001

Rochat Giorgio, Gli arditi della grande guerra, Milano, Feltrinelli, 1981.

Rossi Marco, “Arditi, non gendarmi! Dall’arditismo di guerra agli Arditi del Popolo, 1917-1922, edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 1997

 

Altre fonti (per una breve storia dell’arditismo):

http://arditodelpopolo.splinder.com/

http://www.ewriters.it/leggi.asp?W=20919

WIKIPEDIA

 

 

 

 

“GRAZIE RAGAZZI!”

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90° Anniversario della Vittoria. L’ante-festival

 

mitraglieri-austriaci1 Pompata da una insolita grancassa mediatica nella sostanziale indifferenza generale, oggi si celebra la Giornata delle Forze Armate nonché il “90° Anniversario della Vittoria” dell’Italia monarchica e reazionaria alla I Guerra Mondiale.

Le celebrazioni, fortissimamente volute dal ministro La Russa, si trascineranno per ben tre giorni in una stucchevole sagra patriottarda di revanchismo nazionalista e di propaganda militare, annacquata (oltre che dalla pioggia) da una abbondante spruzzata di retorica istituzionale sulle virtù civiche e morali del buon soldato italiano. Ma la Grande Guerra non fu né popolare né condivisa se non nella coscrizione di massa e nella partecipazione coatta all’enorme mattanza.

A distanza di novant’anni ci si domanda che cosa sia diventata la memoria storica della Grande Guerra. Talora ridotta a pura commemorazione, col passare del tempo e con l’avvicendarsi delle generazioni essa rischia di svuotarsi e di tramandare al futuro soltanto un armamentario anacronistico di retorica, canzoni e miti controversi, spesso infondati storicamente.

  (Gianluca Cinelli, in Attualità della Grande Guerra. 2005 )

In un Paese che sembra impazzito, diamoli un po’ di numeri.

In tre anni e mezzo di guerra circa il 15% dei cittadini mobilitati vennero denunciati ai tribuni militari. Su circa 5 milioni e 200.000 italiani che furono mandati al fronte tra il 1915 e il 1918, ci furono 870.000 denunce:

§     470.000 Renitenti alla leva (in massima parte emigrati impossibilitati a rispondere alla precettazione di guerra)

L’ingente numero dei ricorsi e dei processi da doversi ancora tenere, a fronte di un esercito in via di smobilitazione, indusse a promulgare, il 2 settembre 1919, un’amnistia che interessò, oltre agli emigranti che man mano regolarizzarono la propria posizione presso le rispettive ambasciate, circa 370.000 persone. Furono 20.000 le persone non amnistiate perchè condannate per reati gravi o perchè giustiziate in precedenza.

§     189.425 Disertori

Alla rivolta i soldati erano indotti dalla profonda stanchezza per la guerra, dal senso della giustizia offeso e dalla disperazione. Soldati fuggiti dal fronte, una volta tratti in arresto e crollate le speranze di sfuggire a un destino di morte, diedero libero sfogo alla propria rabbia: «In trincea dovrebbero mandarci tutte le persone che vogliono la continuazione della guerra»

[Sentenza di morte emessa dal tribunale del VI corpo d’armata l’11 dicembre 1916] (B.Bianchi)

Si badi bene che per “diserzione” si intendeva anche l’allontanamento provvisorio, ma non autorizzato, del proprio reparto. “In maggioranza i soldati si allontanarono per ragioni familiari (oltre il 64%), le loro assenze furono brevi (il 52% si allontanò per non oltre 10 giorni), seguite da spontaneo rientro (61%). Si trattava quindi di soldati che non avevano intenzione di abbandonare definitivamente le file dell’esercito e che avevano fino ad allora tenuto buona e ottima condotta. Soprattutto tra i soldati settentrionali prevalsero le fughe brevissime (da 1 a 3 giorni), motivate dal desiderio di riabbracciare i congiunti prima di partire per il fronte.

Oltre alla punizione di disertori e fiancheggiatori (nel settembre 1917 a Stienta presso Rovigo la popolazione civile aggredì i Carabinieri delle compagnia di disciplina, a caccia di disertori, e li gettò nel canale), furono previste ritorsioni anche nei confronti dei famigliari, come la confisca dei beni e la privazione del sussidio per effetto della sola denuncia.

§     31.000 casi di “indisciplina”

In tempo di guerra […] soltanto le condanne capitali possono avere efficacia intimidatrice, ma nei processi contro molti imputati […] gli elementi di accusa sono spesso soltanto indiziari, e perciò i tribunali militari non possono – come sarebbe salutare – concludere con esemplari condanne a morte. E’ quindi vivamente da deplorare che l’attuale codice penale militare non conceda più, nei casi di gravi reati collettivi, la facoltà della decimazione dei reparti colpevoli, che era certamente il mezzo più efficace – in guerra – per tenere a freno i riottosi e salvaguardare la disciplina.

(Lettera del 14 gennaio 1916 del generale Cadorna, diretta a Salandra, il Presidente del Consiglio)

Bastava poco per finire davanti al plotone di esecuzione: un moto di rabbia, insubordinazione agli ordini, insulto ai superiori, ma anche un semplice atteggiamento di sfida, un tono irriverente o atteggiamenti scomposti (fumare in presenza di ufficiale; non salutare militarmente).

Alla fucilazione non si fece ricorso soltanto in situazioni estreme, ma anche per riaffermare i rapporti gerarchici: soldati indisciplinati e ribelli furono considerati elementi dannosi, da eliminare non soltanto dalle file dell’esercito, ma dalla convivenza sociale. Ne è un esempio il caso del soldato Paolo Arnoldi, fucilato il 22 agosto 1917. Dal rapporto informativo che accompagna la notifica della sua esecuzione si viene a sapere che era considerato indifferente, cinico, ribelle, privo di ogni sentimento e che «fu colta l’occasione per eliminarlo». Più volte ammonito, fu passato per le armi per essersi rifiutato di partecipare a una esercitazione e aver minacciato il suo superiore.

[“Relazione sulle decimazioni”, cit., all. 20. Invece di ricorrere alla denuncia a un tribunale militare, da parte del quale probabilmente si temeva un atto di clemenza, il soldato fu fucilato senza processo 48 ore dopo i fatti]  (B.Bianchi)

Le mancanze disciplinari dei soldati che furono freddati dai loro ufficiali non avevano un carattere di particolare gravità: «Non vado più avanti perché non ne posso più, non vado più avanti aspirante del cazzo», aveva gridato nel giugno 1917 un soldato durante una marcia verso le prime linee. Il soldato faceva parte di una pattuglia incaricata di un trasporto di cavalli di Frisia. Il cammino era faticoso e i cavalli si impigliavano continuamente nella vegetazione. All’altezza della terza linea di resistenza gli uomini in testa alla colonna si fermarono chiedendo qualche minuto di riposo. Al rifiuto dell’ufficiale esplose la rabbia del soldato, subito soffocata da un colpo partito dalla pistola dell’aspirante.

[“Relazione sulle decimazioni”, all. 13. Il soldato, Gregorio G., fu fucilato il 14 giugno 1917] (B.Bianchi)

la-grande-guerraNella migliore delle ipotesi, eventuali mancanze disciplinari come canzoni antimilitariste, lettere considerate disfattiste, o semplici atti di umana solidarietà col nemico, venivano considerate forme di follia. “In una ricognizione di pattuglia eseguita la notte della Vigilia di Natale potetti acciuffare una dozzina di austriaci che placidamente dormivano in una grotta […]. Ebbene detti soldati non erano uomini, ma scheletri, non mangiavano da due giorni per mancanza di pane. Intanto i miei soldati con sollecitudine offrirono loro delle pagnotte e alla vista di quel ben di Dio per loro, allegri presero la via delle nostre linee. Non dimenticherò mai in vita mia quei baci ricevuti dai nostri nemici. 

[Archivio ospedale psichiatrico di Treviso, cartella clinica 2865]

Persino il colonnello Douhet, capo del neonato spionaggio militare, fu condannato a un anno di reclusione per aver inviato una memoria critica al consiglio dei ministri circa l’operato dei generali. In pratica aveva comunicato con largo anticipo la preparazione dell’offensiva austriaca di Caporetto allo Stato Maggiore italiano, che semplicemente ignorò i dispacci.

§     15.000 denunce per autolesionismo o mutilazioni volontarie

Così alta era l’adesione e l’entusiasmo per questa “grande guerra patriottica sul campo del sacrificio e dell’onore” che gli autolesionisti si “sottoponevano alle torture più incredibili: gocce di acido muriatico nelle orecchie; iniezione di petrolio nella spina dorsale; timpani forati con chiodi; cecità procurate spalmandosi negli occhi secrezioni blenorragiche; ascessi ottenute con iniezioni sottocutanee di benzina, petrolio, piscio; mani mozzate con colpi di vanghetta o stritolate sotto grossi massi; colpi d’arma da fuoco sparati a bruciapelo sugli arti.  (Revelli)

§     8.500 denunce per “resa o sbandamento”

Cadorna “aveva fatto fucilare, nel corso delle decimazioni da lui ordinate, anche dei soldati che non si trovavano in zona di operazioni nei giorni in cui si erano verificati gli eventi per i quali erano stati condannati. Cadorna non aveva mai creduto doversi preoccupare troppo per le condizioni materiali dei suoi uomini.  (Mack Smith)

In condizioni normali, la truppa veniva stimolata all’assalto “con colpi di moschetto” alle spalle. I soldati italiani non avanzano contro il nemico allorché ne vien dato loro l’ordine dai superiori e occorre spingerli in avanti con il fucile e a ogni ostacolo si fermano e che egli dovette far fuoco sui soldati della sua compagnia.

[Tribunale supremo (ts), Atti diversi (ad), Processi ufficiali]

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Le condanne a morte furono 4028, quelle all’ergastolo più di 15 mila.

Per quanto riguarda le pene capitali emesse esse furono, secondo fonti dell’ufficio statistico del ministero della guerra, 1.066 più altre 3.000 in contumacia, ma non tutte fortunatamente vennero eseguite e quindi il numero delle fucilazioni scende a 750. Si tratta di dati ufficiali che non tengono conto però delle esecuzioni sommarie eseguite in zona di guerra dai graduati e dai Carabinieri, pertanto non si potrà mai giungere ad un computo definitivo degli uccisi: si pensi al barbaro metodo del sorteggio, tramite il quale venivano scelti i fucilandi per reprimere i reati di natura collettiva. (Forcella-Monticone)

L’Italia perse nella guerra oltre 600.000 uomini “in un enorme spreco di energie e di risorse naturali in cambio di poche soddisfazioni e molte amarezze (…) Un complotto tramato da Salandra con la complicità del re (…) avrebbe condotto l’Italia a 25 anni di rivoluzioni e tirannia.(Mack Smith)

 

Ministro La Russa, che cazzo c’è da ringraziare?!?

Bibliografia essenziale:

BIANCHI Bruna “La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918. Bulzoni; Roma  2001.

FORCELLA Enzo, MONTICONE Alberto; “Plotone d’esecuzione. I processi della prima Guerra Mondiale”. Laterza; Bari 1968.

ISNENGHI Mario, “Il mito della Grande Guerra”. Il Mulino; Bologna 1979.

MACK SMITH Denis, “Storia d’Italia 1861-1969.  Laterza; Bari 1987.

REVELLI Nuto, “Il mondo dei vinti”. Einaudi; Torino 1977.