Archivio per Francesco Merlo

Il Nobil Signore

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 23 marzo 2013 by Sendivogius

Barry Lyndon

L’Italia è da sempre canovaccio ideale per le ambizioni di idioti intraprendenti e di stolidi imbecilli impettiti dietro ad un blasone nobiliare. Entrambi sono in costante concorrenza, e comprensenza in triplice fusione, col vero protagonista del panorama nazionale: il buffone intronizzato.
Giulio Maria Terzi di Sant'AgataTuttavia, l’esuberanza un po’ gaglioffa e plebea del cretino in carriera cozza spesso con la sobrietà ingessata ed il prestigio dell’imbecille dal pedigree certificato: razza ‘barona’ prima ancora che ‘padrona’.
Se i primi abbondano ad ogni livello, nel tripudio dell’incompetenza al potere (e la democrazia in questo è pessimo filtro di selezione), gli imbecilli blasonati sono una specialità in genere circoscritta al rango ed al censo di oligarchie aristocratiche, che si credono ‘migliori’ per vocazione ereditaria. Indistintamente, passano dal boudoir di famiglia al gabinetto di governo, dove (in caso di errori) fanno molti più danni di quanti riescano ad un cretino ordinario di più basso lignaggio. E nella reiterazione del danno raggiungono a volte vette sublimi, inarrivabili per un idiota qualsiasi. Quando questo avviene (e accade di sovente!), Tesi e Antitesi confluiscono verso la Sintesi perfetta dell’imbecillità sovrana, dove il cialtrone incallito sposa il cretino assoluto in una unione di vaporosi sensi. Ma niente è più pernicioso di un imbecille che si crede furbo.
In merito, la Storia italiana abbonda di esempi illustri…
Alla categoria appartiene certamente il conte Urbano Rattazzi (1808-1873), ministro della Real Casa, soprannominato “Suburbano” per i suoi intrallazzi.
Urbano RattazziCome presidente del consiglio (1862), Rattazzi, che evidentemente si crede emulo di Cavour, in combutta col re, fa intendere a Giuseppe Garibaldi (il quale, da cretino generoso, si butta a capofitto in ogni impresa per ripensarci dopo i fuochi) che se proprio vuole marciare su Roma il governo piemontese non lo ostacolerà e che anzi gli fornirà supporti e vettovaglie, salvo sconfessarlo pubblicamente in caso di insuccesso. Poi, non appena i Garibaldi ed i suoi sbarcano indisturbati in Calabria, dopo aver proceduto ai reclutamenti in Sicilia col beneplacito delle autorità sabaude, il Re si defila e Rattazzi ci ripensa. Il ministro diventerà famoso per la cosiddetta infamia d’Aspromonte (29/08/1862), con Garibaldi preso a fucilate dal regio esercito ed i volontari passati per le armi, quale ricompensa per aver regalato un regno ad un monarca fellone: quel Vittorio Emanuele II, suino coronato di rara ottusità e pessime maniere, che con involontaria ironia l’agiografia post-risorgimentale ha rinominato re galantuomo.
Emanuele OrlandoAltri esempi di successo sono Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) ed il suo degnissimo compare Sidney Sonnino che, dopo aver trascinato gli italiani nell’immane carneficina della prima guerra mondiale, alla successiva conferenza di pace a Versailles pensano di convincere le potenze vincitrici a riconoscere le loro pretese territoriali, ricorrendo a sceneggiate melodrammatiche e lacrime copiose. Ridicolizzati pubblicamente, se ne tornano sdegnati a casa e fanno gli offesi col broncio, aspettandosi scuse ufficiali. Poi, siccome non se li caga nessuno, tornano in fretta e furia alla conferenza con la coda tra le gambe, per beccare le ultime briciole disponibili sul piatto. In tal modo daranno origine alla leggenda della “vittoria mutilata”, spianando le porte all’avvento del fascismo, al quale peraltro Orlando aderirà con entusiasmo, Ci ripenserà qualche anno dopo e, in polemica col nuovo regime, non troverà di meglio che intonare un accorato elogio della mafia quale tratto di sicilianità (mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!).

I soliti idioti

Come ebbe a dire Eco, per bocca dei personaggi de Il Pendolo di Foucalt, l’imbecillità è soprattutto comportamento sociale di una certa complessità (ne avevamo parlato in diverso contesto QUI):

«L’imbecille è quello che parla sempre fuori dal bicchiere (…) Lui vuole parlare di quello che c’è nel bicchiere, ma com’è come non è, parla fuori. È quello che fa le gaffe, che domanda come sta la sua bella signora al tizio che è stato appena abbandonato dalla moglie.
(…) L’imbecille è molto richiesto, specie nelle occasioni mondane. Mette tutti in imbarazzo, ma poi offre occasioni di commento. Nella sua forma positiva diventa diplomatico. Parla fuori del bicchiere quando le gaffe le fanno gli altri, fa deviare i discorsi.
(…) L’imbecille non dice che il gatto abbaia, parla del gatto quando gli altri parlano del cane. Sbaglia le regole di conversazione e quando sbaglia bene è sublime. Credo che sia una razza in via d’estinzione, è un portatore di virtù eminentemente borghesi.»

Meo PataccaDi solito, al potere ci arrivano seguendo le imperscrutabili vie della cooptazione per diritto di nascita, pescati a titoli dal villone avito su declamazione clanica; gravati più dal peso delle patacche appuntate sul petto, che dal senso di responsabilità. Il dramma è che una volta insediati si reputano insostituibili e (peggio ancora!) inamovibili.
Mutato nomine, l’eccellente accoppiata ‘tecnica’ tra Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (Affari Esteri) e l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (Difesa) sembrano fare il paio ad altri formidabili didimi della commedia, da Gianni e Pinotto, a Stanlio ed Ollio, fino ai più modesti Boldi e De Sica.
Gli intraprendenti ministri di un governo dimissionario, sulla pessima vicenda dei due marò in Kerala, hanno regalato al Paese intero una formidabile figura di merda dalle proporzioni titaniche. Nell’ordine sono riusciti:
A creare una crisi diplomatica senza precedenti con l’India; non prima di essere ridicolizzati in Europa che, come d’abitudine, ha declinato ogni interessamento comunitario che non riguardi banche e mercati.
A riconsegnare gli sventurati Latorre e Girone, dopo aver indispettito come non mai le autorità indiane, e senza ottenere alcuna garanzia o impegno certo sulla categorica esclusione di un eventuale ricorso alla pena capitale, fino all’istituzione (senza precedenti) di un tribunale speciale.
Qualunque sia l’opinione sui marò, sono riusciti a vanificare ed annullare tutte le attenuanti che potevano essere espletate in sede processuale, in risposta ad una condotta finora ineccepibile e ossequiosa della parola data.

Giulio Terzi di Sant'Agata - (foto di Resizer)

Se ancora ce ne fosse bisogno, è la dimostrazione provata che un imbecille, anche se “austero”, resta pur sempre tale…

«Spiace che Mario Monti, chiamato alla massima responsabilità proprio in virtù del suo prestigio internazionale, concluda la sua vicenda di statista con questo desolante pasticcio di politica estera. In fondo, il caso dei marò è stato l’unico episodio di risonanza mondiale del governo dei tecnici. Ed è stato un episodio in due atti. Primo: darsela a gambe fedifraghe. Secondo: arrendersi senza condizioni al primo “bau”. Il tutto a conferma del pregiudizio che da sempre l’Italia si porta dietro: è la nazione vaso di coccio, è il paese di don Abbondio e del miles “vana-gloriosus”, è lo Stato dello sbruffone che si infila a letto con un occhio rosso per evitare un processo, è l’esercito del capitano vanitoso e fellone che abbandona la Concordia nel momento del naufragio, è la Marina di “navi e poltrone”, è il governo astuto e ganzo che maramaldeggia con l’India…
Fossimo in altri tempi e con altre grammatiche, onore, buon senso e fegato vorrebbero che il nobile Giulio Terzi di Sant’Agata e l’ammiraglio Giampaolo Di Paola si consegnassero agli indiani al posto dei due marò.»

 Francesco Merlo
L’onore perduto della diplomazia

Ovviamente i due ministri interessati non ci pensano proprio a dare le dimissioni da un governo di non eletti che, nei fatti, non può essere nemmeno sfiduciato avendo già rassegnato le dimissioni tre mesi addietro, ma tuttora in carica e per giunta senza alcuna legittimazione parlamentare, in una situazione complessiva che definire surreale è riduttivo.

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Il Ritorno del ‘Monnezza’

Posted in A volte ritornano with tags , , , , , , , , , , on 23 ottobre 2010 by Sendivogius

Se la “munnizza” pare destinata a diventare una componente ordinaria del paesaggio partenopeo, ci sono rifiuti altamente tossici dal difficile smaltimento, destinati a ritornare sempre a galla in tutta la loro ingombrante presenza che non conosce imbarazzo di sorta.
Tra le scorie più perniciose, particolarmente coriaceo sembra essere l’incontenibile Guido Bertolaso: proconsole generale alle emergenze nazionali e prefetto del pretorio dell’Impero berlusconiano. Parliamo di un raro condensato di presunzione e ottusità, che deambula da un’emergenza all’altra coi poteri straordinari di un generalissimo sudamericano. Corazzato nella sua boriosa spocchia da hidalgo e rassicurato dalla semplificazione militaresca dei problemi, trasuda arroganza da tutti i pori.
Dispensa consigli all’ONU sulla gestione della crisi haitiana, bacchetta gli statunitensi, e si auto-propone come coordinatore generale; batte cassa presso la UE ma insulta i commissari europei che hanno osato criticare il suo ineccepibile piano-rifiuti. Si tratta dello stesso “piano” dai mefitici effluvi, i cui effetti si possono apprezzare a Terzigno e dintorni, con grande entusiasmo popolare, mentre la spazzatura trabocca dalle discariche abusive, regolarizzate per decreto da Guido l’Infallibile, spandendo miasmi e veleni per le campagne vesuviane.

Invischiato in affari (e sollazzi) con la famigerata cricca degli Anemone e soci, inquilino privilegiato nelle case di Propaganda Fide, previo finanziamento pubblico dell’ente immobiliare vaticano, Bertolaso è quanto di meglio (o di peggio) il governo ha da offrire per la risoluzione dei problemi che, con prepotenza, riemergono dai palinsesti narcotizzati della TV felicemente imbavagliata nella propria compiacenza censoria.
Dismessa la tutina della Protezione civile (avrà finalmente fatto il bucato?) eccolo ripresentarsi sul luogo del delitto, vestito a festa, con l’incredibile faccia da tolla che contraddistingue il recidivo incallito.
Un posto in discarica non dovrebbe negarglielo nessuno…
Altri hanno già confezionato per lui la cornice ideale:

 L’IMPUNITO OMEOPATICO
 di Francesco Merlo 
 La Repubblica
 (23/10/2010)

«Anziché una squadra di incorruttibili, armati di codice e protetti da una intelligenza anche militare, Silvio Berlusconi ha mandato a Napoli Guido Bertolaso, l’impunito.
Propone, dunque, un trattamento omeopatico: cura la malattia con la malattia stessa. L’emergenza spazzatura  –  è la sola certezza che tutti, a sinistra come a destra, ormai abbiamo  –  nasce infatti da una grande corruzione, non solo economica e morale, ma anche politica e intellettuale. È insomma uno scandalo nazionale, una malattia della democrazia italiana, che ha coinvolto anche il centrosinistra, ed è giusto ricordare che fummo noi a chiedere, per primi e con forza, le dimissioni dell’allora governatore della Campania, Antonio Bassolino. Ma solo Berlusconi poteva arrivare alla sfrontatezza di contrastare la corruzione con un presunto corrotto. Tanto più che Bertolaso è indagato per la più odiosa delle corruzioni: la sciacallaggine che specula sulla sofferenza e sulle disgrazie, trasforma i disastri in affari, ingrassa nella monnezza.
Ma fosse pure innocente, come noi ancora ci auguriamo, questo sottosegretario, che agli italiani aveva promesso di dimettersi entro l’anno, non ha più nessuna credibilità. La sua immagine è irrimediabilmente sporcata, anche fisicamente. E in lui c’è pure qualcosa di comico, di quella comicità grottesca che a volte accompagna le cose terribili. Una volta quando lo vedevano con quei suoi giubbottini, con gli scarponcini, i pulloverini, i cappellini da baseball, i caschetti di plastica dura, gli italiani pensavano agli abiti da lavoro, alla muta dell’operaio di Jünger, alla divisa del milite della fatica. Ma, dopo che lo hanno scoperto al centro di una cricca di arrembanti, vedono nei suoi abiti la tenuta da fuga, l’abbigliamento pratico di chi è pronto a scappare non perché inseguito dalla lava, da una frana o dagli energumeni della spazzatura, ma dalla finanza e dai carabinieri.
Come si vede, anche nelle situazioni da pianto si può trovare qualcosa da ridere. Non si è mai visto infatti in nessun paese del mondo un ministro della Sanità che va in giro con il camice bianco e i sabot, o della Funzione Pubblica in mezze maniche ed elastico al braccio, o della Pubblica Istruzione vestito da studente. Solo il ministro della Difesa La Russa, imitando Bertolaso, è arrivato a indossare la tuta mimetica e l’elmetto da carrista per farsi ammirare nella sua Paternò.
E anche quel corpo magro e scattante di Bertolaso non fa più pensare alla ginnastica da lavoro, ma alle massaggiatrici del Salaria Sport Village e agli ozi della casa a sbafo di via Giulia. Cosa penseranno vedendolo arrivare a Napoli, non solo le persone per bene che, con ragione, protestano, ma i plebei rivoltosi che bruciano la spazzatura e ora si armano pure di molotov? Probabilmente cercheranno i suoi cari attorno a lui, la sua famiglia allargata, il cognato, la moglie, i parenti che ha favorito e gli imprenditori della cricca pronti a sguazzare nella sofferenza. Insomma Bertolaso a Napoli è una provocazione, anche perché questi sono i luoghi del mondo dove si cerca sempre, e si trova anche quando non c’è, il rapporto stretto tra i profeti apocalittici e l’apocalisse, tra gli annunciatori della disgrazia e la disgrazia, tra gli imprenditori della monnezza e la monnezza. Ma ci spingiamo ancora più in là: a Napoli sono sempre speculari gli affaristi della disgrazia e gli energumeni della disgrazia.
Solo in tempi meno drammatici la capitale della cultura apotropaica avrebbe reagito all’arrivo di Bertolaso con lo sberleffo e con lo scongiuro, rumoreggiando e toccandosi. Ma qui c’è la prima prova generale di una orribile sommossa plebea. E si sa che, vili e ottusi, gli ossessi e gli invasati mai attaccano la miseria dentro la quale sono finiti, ma sempre colpiscono le persone migliori, scelgono gli obiettivi più innocenti e indifesi e, come insegna la storia partenopea, trovano sempre una Eleonora Pimentel Fonseca con cui prendersela. Mai contro quelli che, dall’altra parte, hanno affinità con loro, la stessa affinità che avevano i monatti con la peste.
Dunque Berlusconi ha mandato a Napoli il presunto capo dei monatti. Ha negato l’emergenza per la quale il Capo dello Stato prova invece “pena e allarme”, ha promesso di spazzare la Campania “in dieci giorni”, e “non è eversione”, e  “i disordini sono solo un fenomeno locale”. Forse perché la sola emergenza nazionale che conosce e combatte con tutte le sue forze si chiama Santoro, Berlusconi non ha ascoltato neppure Umberto Bossi che, sia pure senza alcuna grazia e parlando con lo stomaco, ha avvertito la gravità del pericolo e l’irresponsabilità del governo: “Bisogna intervenire, non possiamo aspettare che ci scappi il morto”.
Ovviamente neppure Bossi capisce che, anche senza morto, in una delle nostre più grandi regioni e in una delle più belle città del mondo la spazzatura sta seppellendo la democrazia. E che non si può parlare di lotta alla camorra, di rinascita, di sogno meridionale e di impegno contro la criminalità organizzata mandando a Napoli lo sfacciato Bertolaso.
Mai come nella conferenza stampa di ieri si era vista così forte e chiara la somiglianza tra Berlusconi e Bertolaso. Abbiamo assistito ad un tristissimo siparietto nel quale trionfava non solo l’impunità ma anche la “combriccolaggine”, l’appartenenza alla stessa antropologia. È infatti Berlusconi che in Italia ha buttato il Codice nella spazzatura e ora dalla spazzatura riemerge Bertolaso che della spazzatura è il codice.»

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