Ma davvero un placido vecchietto come l’ottuagenario Paolo Savona, economista liberale di lungo corso e comprovata esperienza, peraltro totalmente organico a quell’establishment finanziario e manageriale di cui ha fatto parte per una vita, e che ora si vorrebbe dipingere come sovversivo no-euro, sarebbe la minaccia in grado di destabilizzare la tenuta valutaria e la stabilità dei fantomatici “mercati”, ai quali tutto è supino prima ancora che subordinato?!?
«Parte importante dei problemi che ha incontrato e incontra l’Italia riguarda i modi in cui l’Unione europea è stata costruita e opera, ossia le strutture istituzionali e la politica economica decise nel 1992 con il Trattato di Maastricht e le successive scelte. […] Il mancato perseguimento degli obiettivi conduce a uno stato permanente di tensione all’interno dell’Europa per le ingiustizie che implica: i cittadini non sono tutti uguali nei diritti, ma solo nei doveri. L’esprit d’Europe si attenua e vengono meno le componenti sociali della pace, la vera forza che ha trainato all’inizio l’idea di Europa. I motivi di questa situazione sono due: l’unione non era ancora maturata nella coscienza dei popoli europei finendo con il peggiorarla per le cattive performance registrate nei momenti di crisi e perché le istituzioni create confliggevano con gli obiettivi. La scelta fu decisa da un’élite che procedette illudendo il popolo con le promesse contenute nell’articolo 3 riportato. Per l’euro, invece, la volontà delle élite divergeva e fu necessario un compromesso che assegnò compiti limitati all’eurosistema e condusse a una sua nascita prematura rispetto all’indispensabile unione politica. Le preoccupazioni erano dovute al fatto che l’assegnazione di poteri più ampi alla Banca centrale europea non avrebbe garantito un’inflazione contenuta e poteva condurre a una mutualizzazione dei debiti pubblici, entrambi aspetti che la Germania non intendeva accettare. Fu un atto di debolezza dovuto alla fretta. […] L’Italia era impreparata nel 1992 ed è ancor più impreparata oggi, per le difficoltà che si sono accumulate e perché ha capito con quali compagni di strada si è messa. Non accuso la sola dirigenza italiana della scelta errata, ma anche quella europea, che era ben conscia, anche spingendosi oltre la realtà fattuale, che l’Italia non fosse preparata per stare nella moneta unica così come era stata concepita. Nella riunione del 24 marzo 1997, tenutasi a Francoforte, l’Italia era fuori dall’euro, nonostante Ciampi, ministro del Tesoro del governo Prodi, avesse varato il 30 dicembre precedente una manovra fiscale di 4.300 miliardi di lire, imponendo quella che è ricordata come “eurotassa” per rientrare nei parametri fiscali concordati. L’Italia aveva chiesto inutilmente di prorogare l’avvio dell’euro, ma la Germania si oppose. Un anno dopo, il 28 marzo, l’Italia venne accettata nel gruppo di testa dei Paesi aderenti all’euro. Non si conosce che cosa sia esattamente successo nel corso di quell’anno; forse ha contato l’impegno della diplomazia monetaria, dove la Banca d’Italia svolgeva un ruolo importante, o forse il fatto che, fatti bene i calcoli, i Paesi-membri hanno compreso che, tenendoci fuori, avrebbero patito la nostra concorrenza sul cambio e, accettandoci, avrebbero bardato il nostro sviluppo. Ora la nuova sovranità da espugnare è quella fiscale con le stesse modalità che hanno ispirato la cessione della sovranità monetaria, ossia secondo una visione di parte, pregiudiziale, del suo funzionamento, accompagnata dalla solita dichiarazione che servirebbe a migliorare il benessere generale. Essa non sarebbe un passo verso un’unione dove i cittadini godono degli stessi diritti ma per consentire una buona performance dell’euro e del mercato unico che causa una divisione tra essi. L’uomo al servizio delle istituzioni e non viceversa, una concezione sovietica dietro il paravento della liberaldemocrazia. Semmai si decidesse di farlo – e i gruppi dirigenti italiani, la stessa cultura accademica prevalente sono pronti ad accettarlo – si rafforzerebbero ancor più le forme di coordinamento obbligatorio, di tipo burocratico, diminuendo quello spontaneo garantito dal mercato unico creato con gli Accordi di Roma del 1957. Il problema dell’Ue non è l’autonomia delle sovranità fiscali nazionali, peraltro già vincolate dai parametri di Maastricht e rafforzate con il fiscal compact, ma l’assenza di un’unione politica in una delle forme conosciute di Stato. Spiace doverlo evidenziare, ma, cavalcando l’ideale elevato di porre fine alle guerre tra Paesi europei, non potendo procedere per via politica, i gruppi dirigenti hanno deciso di seguire una soluzione dove i principi democratici non hanno accoglienza. La conseguenza di questa scelta ha i contenuti di un fascismo senza dittatura e, in economia, di un nazismo senza militarismo. […] I gruppi dirigenti apprezzano l’inversione dei rapporti di forza favorevole che l’Ue stabilisce tra loro e il popolo, in particolare i lavoratori, con i media che esaltano quasi quotidianamente “le magnifiche e progressive sorti” dell’Unione europea per il Paese, anche se esse non emergono dalla realtà. L’enigma (peraltro di facile soluzione) è a quale parte del Paese si riferiscono? Purtroppo la risposta è quella parte che già sta bene e sa difendersi, essendo in larga maggioranza. Siamo tornati indietro di secoli nelle conquiste raggiunte nella convivenza civile democratica. Poiché una politica monetaria comune non si adatta a tutte le esigenze o condizioni di fatto dei Paesi che aderiscono alla moneta unica, l’aggiustamento dovrebbe essere attuato con adeguate politiche fiscali, le quali, come si è ricordato, sono restate nelle mani dei singoli Paesi, ma sono vincolate da limiti ben precisi posti ai deficit del bilancio pubblico e al livello del debito sovrano sul Pil. Soprattutto per i Paesi, come l’Italia, che fin dall’inizio avevano una posizione squilibrata rispetto a questi due parametri fiscali (oltre il 7% nel deficit di bilancio e oltre il 100% nel rapporto debito pubblico/Pil), gli spazi per queste politiche sono di fatto attribuiti in modo asimmetrico, positivi per chi rientra nei parametri concordati, negativi per gli altri. L’ingiustizia è innata negli accordi. […] Non c’è verso di convincere i leader dell’Unione europea di seguire il principio di Franklin Delano Roosevelt che se qualcosa non funziona, si cambia. Ma il cambiamento richiede preparazione scientifica, fantasia creatrice e coraggio per intraprenderlo. Nell’Ue le forze della conservazione prevalgono. La storia economica brevemente percorsa suggerisce che è necessario mutare le politiche riguardanti gli investimenti, soprattutto pubblici, e la tutela del risparmio operando sui tassi dell’interesse e sul rischio, nonché il funzionamento del sistema monetario internazionale ed europeo, affrontando con adeguate politiche i divari di produttività tra aree geografiche, settori produttivi e dimensioni di impresa. Se non lo fa, la società prima o dopo si vendicherà, seguendo i movimenti di protesta non perché siano preparati ad affrontare il problema, ma solo perché insoddisfatti delle politiche seguite dai partiti tradizionali. […] Non ho mai chiesto di uscire dall’euro, ma di essere preparati a farlo se, per una qualsiasi ragione, fossimo costretti volenti o nolenti (il piano B da me invocato). Ritengo che uscire dall’euro comporti difficoltà altrettanto gravi di quelle che abbiamo sperimentato e sperimenteremo per restare. Il problema consiste nel fatto che non abbiamo né piano A, né B. Il piano A dell’Italia è quello della Ue con le conseguenze indicate. Ho il timore che il piano B sia quello di consegnare la sovranità fiscale alla “triade” (Fmi-Bce-Commissione) se le cose peggiorano, infilandoci nella soluzione greca. Il Paese è in un vicolo cieco. Le autorità hanno il dovere di approntare e attuare due diversi piani, quello necessario per restare nell’Ue e nell’euro, e quello per uscire se gli accordi non cambiano e i danni crescono. Invece si insiste nella loro inutilità essendo l’euro irreversibile e si è disposti a pagare qualsiasi costo pur di stare nell’eurosistema. La prima dichiarazione viene fatta a voce alta, la seconda raramente, ma viene comunque pensata dagli ideologi dell’Ue e dell’euro, ben sapendo che questo costo non verrebbe pagato da loro, ma da una minoranza, sia pure di dimensione significativa.»
A ben vedere, si tratta di argomentazioni di assoluto buonsenso (ed in gran parte condivisibili), nonché piuttosto ovvie per chiunque non sia accecato dai fumi tossici dell’ideologia ordoliberista che domina l’intera struttura dell’illusione europea, sotto il costante diktat di un allucinante Psycho-Reich a dominazione tedesca.
Quelle di Savona sono osservazioni che non contengono proprio niente di “estremistico” o “delirante”. E che tanto bastano però a terrorizzare l’elite degli euroburocrati, con la nutrita pletora dei volenterosi carnefici che gattonano ubbidienti a braghe calate nelle celle di rigore di quella distopia mercantilista che chiamano UE.
Gli stessi che tutti insieme ci hanno cacciato nelle peggiore recessione economica dai tempi della Grande Depressione del 1929, senza soluzione di uscita. Se così fosse, allora sarebbe davvero un’ottima notizia, nonché l’uomo giusto al Ministero dell’Economia.
In attesa del prossimo vertice della UE, che per certo sarà “storico”… “epocale”… “determinante”… secondo la scoppiettante salva di iperboli, che di solito accompagnano i giri di valzer europei e che di consueto vengono utilizzati per coprire la voragine della loro inconsistenza, una cosa sembra abbastanza chiara: la cosiddetta ‘Unione Europea’ (omaggio alle intenzioni nella contraddizione della pratica) appare sempre più come un guscio vuoto, priva di un animus fondativo che non sia mero esercizio contabile in tempi di post-mercantilismo. E questo al di là delle fumose dichiarazioni d’intenti ad usum populi, peraltro in piena crisi di rigetto nella sua disillusione per un’istituzione percepita sempre più come estranea ed invasiva, con la sua tecnocrazia oligarchica, consacrata alle divinità profane di un ‘mercato’ ormai cannibalizzato dai morsi di una crisi finanziaria, mai davvero affrontata se non con cataplasmi tardivi. In proposito, è interessante notare come la BCE si muova sul filo del rasoio, ottemperando a tutti i passaggi fondamentali per incappare come da manuale nella più classica “trappola della liquidità”. Del tutto sprovvista di una qualsivoglia visione strategica, la sedicente “unione” manca praticamente di quanto è più necessario per potersi definire tale: non ha una politica immigratoria, rimessa com’è all’improvvisazione dei singoli stati; non ha una politica estera condivisa (non è capace neanche di tutelare gli interessi economici continentali, figuriamoci la gestione delle emergenze umanitarie!); né una politica di difesa, al di fuori del coordinamento NATO. Nonostante sia alla base della sua costituzione, la UE non possiede una vera politica economica e finanche nemmeno il tanto decantato “mercato comune integrato”, a meno che non si voglia considerare tale il modello neo-camerale di ispirazione teutonica in un’Europa sempre più simile ad una sorta di Lebensraum, per incrementare la bilancia commerciale del nuovo reich germanico. Ed il surplus delle partite correnti sta lì a testimoniarlo, in barba ai sacralizzati “trattati” interpretabili (e violabili) a discrezione e senza timore di sanzioni che evidentemente, quando riguardano Berlino, sono sempre derogabili… Sono gli inconvenienti nei quali si incorre quando si pretende di costituire un’entità (con)federale attorno ad una moneta (creata in laboratorio) e non viceversa, pensando di compensare tale carenza con la costruzione di un’area valutaria ottimale (optimum currency area), fortemente integrata a livello economico e commerciale. In riferimento all’eurozona, è superfluo dire che l’area è assai meno ‘integrata’ di quanto non si vuole ammettere e tutt’altro che ‘ottimale’, incapace com’è di fronteggiare i cosiddetti “choc asimmetrici”. A dodici anni dall’immissione in circolazione dell’euro, è un fatto che l’Europa stia entrando nel suo ottavo anno di recessione e langua a tutt’oggi nella più grave depressione economica (peggiore persino di quella del 1929) della sua storia, senza che si intravedano concrete prospettive di ripresa. Se l’obiettivo della moneta unica era quello di favorire i processi di integrazione ed unificazione europea, si può dire senza falsi pudori che ha miseramente fallito nel suo scopo: mai gli stati europei sono stati tanti divisi nella reciproca diffidenza, negli egoismi nazionali, e nella totale assenza di coesione e solidarietà tra di loro, dalla fine della seconda guerra mondiale. Succede, quando si imposta un matrimonio unicamente sui soldi, combinando le nozze nell’interesse dei pochi e tirando di conto sulla dote da versare. A contrario di quanto vanno affermando gli stucchevoli filmini (per influenzare non per informare), che il nuovo Min.Cul.Pop per la propaganda manda in onda col nome di “Cantiere Europa”, l’esperimento monetario unitario era già stato tentato in passato con modalità totalmente diverse (il parametro fondamentale era il gold standard), rivelandosi ogni volta un fallimento. È stato il caso dell’Unione Monetaria Latina, che nell’ignoranza dei più rimase in vigore per oltre 60 anni (dal 1865 al 1927), e delle ancor meno conosciute “Unione monetaria scandinava” (1872-1914) e quella austro-germanica. Quest’ultima, stipulata a Vienna il 24/01/1857 nell’ambito della Deutscher Bund, includeva gli statarelli dello Zollverein germanico, il Regno di Prussia, l’Impero Austriaco ed il Principato del Liechtenstein, con l’introduzione di un rigido sistema di cambi fissi e, sul modello del tallero, l’adozione di una moneta comune da affiancare alle valute nazionali: il Vereinstaler, o anche Vereinsmünze. Tali accordi monetari (perché di questo e nient’altro si trattava) rimasero in piedi, più per gli oneri legati alla loro liquidazione che non per la loro effettiva efficacia, alla stregua di contratti con clausole di rescissione non convenienti. A dimostrazione che nessun processo è “irreversibile”, se non nella crisi che ne decreta la fine.
Particolarmente consigliato a chi non accende il proprio cervello per più di 10 secondi al giorno, e per i vostri spensierati momenti di relax estivo, vi proponiamo un piccolo quiz a tema, eventualmente da alternare alla settimana enigmistica, per testare le vostre capacità intuitive senza dovervi impegnare troppo la mente. Cosa c’è infatti di meno impegnativo, inconsistente, eppur divertente nella sua fanfaronesca demenzialità, del grillismo militante?!? Come nelle peggiori barzellette, ci sono tre cialtroni: un tedesco e due italiani… Quella che segue, è una piccola selezione di ‘frasi notevoli’ di personaggi altrettanto celebri. Provate ad indovinare gli autori. Per la serie: dimmi come parli e ti dirò chi sei…
1. “Io vi dico che, quando avrò conquistato legalmente il potere, istituirò, nel quadro di un ordinamento legale, tribunali di stato i quali saranno chiamati a giudicare secondo le leggi i responsabili della rovina del nostro popolo, ed è probabile in tal caso che alcune teste cadano del tutto legalmente.”
2. “Abbiamo delegato dei truffatori che dovranno rispondere di quello che hanno rubato […] ce lo ricordiamo come siamo finiti nella crisi. Quindi i responsabili saranno giudicati da un giudizio pubblico.”
3. “Io so benissimo che cosa quei signori hanno in mente: vorrebbero concederci alcune poltrone, e così metterci a tacere. Ma non potranno percorrere ancora molta strada, a bordo di quel loro decrepito carrozzone […] Credete forse che io sia disposto a lasciarmi adescare da un paio di poltrone ministeriali? Io non ho nessuno intenzione di entrare a far parte della vostra combriccola!”
4. “Come si è risposto a questo mio principio? ….Con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali! C’era veramente un accesso di necrofilia! Si facevano inquisizioni anche di quel che succede sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva.”
5. “Come si può parlare di alleanze con dei partiti la cui distribuzione di forze sul territorio é assolutamente diseguale. […] Accoglieremo quindi, al di fuori, al di sopra e contro i partiti, nelle nostre file.”
6. “Non è il caso di fare delle discussioni. Noi ci troviamo oggi di fronte a due coalizioni: conservatori e rivoluzionari. Gli uni che hanno tutto da conservare, gli altri che debbono tutto demolire. Noi non intendiamo di costituire un partito: dobbiamo semplicemente raggiungere un obiettivo. Dopo faremo, se sarà possibile un’altra tappa insieme e ci separeremo.”
7. “Ogni mattina, il signor rappresentante del popolo si reca alla sede del Parlamento; se non vi entra, almeno si porta fino all’anticamera dove è esposto l’elenco dei presenti. Ivi, pieno di zelo per il servizio della nazione, iscrive il suo nome e, per questi continui debilitanti sforzi, riceve in compenso un ben guadagnato indennizzo […] Come la larva non può far altro che trasformarsi in maggiolino, così questi bruchi parlamentari lasciano la grande serra comune ed, alati, svolazzano fuori, verso il caro popolo.”
8. “Deputati e senatori servono solo a prendere lo stipendio e a obbedire agli ordini di partito votando sì a qualunque porcata. Bisogna prenderne atto e licenziarli, approfittarne mentre trascorrono un agosto dorato […] Chiudete il Parlamento, sgombrate i loro uffici. Camera e Senato sono ormai ridotti peggio dell’ aula sorda e grigia evocata da Mussolini. I parlamentari a larve di democrazia ben pagate.”
SOLUZIONE: 1. Adolf Hitler (25/09/1930) 2. Beppe Grillo (01/06/2012) 3. Adolf Hitler (04/09/1932) 4. Benito Mussolini (03/01/1925) 5. Benito Mussolini (18/01/1924) 6. Benito Mussolini (Milano, 11/12/1914) 7. Adolf Hitler (in Mein Kampf) 8. Beppe Grillo (12/08/2012)
E infine, per concludere in bellezza, un test facile-facile per scoprire il grillino che è in te e quanto sono avanzati i sintomi del contagio… Segna ogni risposta e, in base alla prevalenza delle lettere, scopri qual’è il tuo profilo ideale.
Democrazia è: a) Se c’è qualcuno che reputa io non sia democratico, allora prende e se ne va fuori dai coglioni! b) Avere il 100% c) La peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre che sono state sperimentate di volta in volta. d) Vaffanculo!
Il Parlamento è: a) Un scatola di tonno, oltretutto vuota! b) Un’aula sorda e buia. c) È un organo costituzionale, di natura collegiale e con funzioni legislative. d) Vaffanculo!
Partiti politici: a) Vedo i partiti morti. b) Noi non siamo un partito, siamo un movimento. c) Libere associazioni con finalità politiche, per la promozione di propri candidati alle cariche elettive. d) Vaffanculo!
Dissenso é: a) Traditore, chiedi perdono in ginocchio! b) Il Movimento è un organismo grande e vivo che rifiuta, che allontana da se stesso le cose che gli fanno male. Se io prendo un virus, il mio corpo lo rifiuta e mi viene un attacco di diarrea o di vomito. c) Il sale delle democrazia d) Vaffanculo!
Cultura: a) Abbiamo sottolineato che nel nostro Movimento non ci sono intellettuali. b) Quando sento la parola cultura tolgo la sicura alla mia pistola. c) Il sonno della ragione genera mostri. d) Vaffanculo!
L’Euro è: a) La mossa massonica di un gruppo di banchieri, guidati dal Bilderberg e la Trilateral, per la conquista del mondo. b) Un bieco strumento del signoraggio bancario. c) Una moneta. d) Vaffanculo!
Media e Giornalisti: a) I giornalisti sono dei parassiti, che non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento. Vanno disciplinati in spazi appositi. b) Pagherete tutto. Io non dimentico nulla. State molto attenti… Non è un consiglio, è proprio una minaccia. c) Metro di misura delle opinioni e strumento di informazione d) Vaffanculo!
Imparzialità: a) Il Blog del capo politico. b) Il Capo ha sempre ragione. c) non esiste, ma ci si può sforzare di essere obiettivi. d) Vaffanculo!
Cancro é: a) Un’invenzione delle lobbies farmaceutiche: si cura con urina e aloe, aspirina e dicloroacetato, e soprattutto… eiaculare 21 volte al mese. b) Un segno zodiacale c) Una forma tumorale d) Vaffanculo!
Minacce globali sono: a) Microchip segretamente impiantati nel cervello per il controllo a distanza. b) Le scie chimiche c) I milioni di fanatici imbecilli, che credono ad ogni boiata. d) Vaffanculo!
Profilo A. Abile e arruolato! Sei pronto per l’interconnessione col magico reame di Gaia ed un Grillo per amico, contro la tirannia dei “poteri forti” e degli uomini malvagi della “casta”. Il mondo così come crediamo di conoscerlo è in realtà una dittatura occulta, segretamente dominata dalla regia globale degli Illuminati. Ma sotto la guida di “Beppe”, diventerai uno jedi del wired e potrai finalmente combattere il lato oscuro della forza, respingendo l’invasione degli agenti rettiliani che si celano dietro al Bilderberg ed alla Trilateral. Peccato però! Se ti iscrivevi al blog del Capo politico prima del Capodanno 2011, magari potevi vincere un fantastico seggio in parlamento. In compenso, potrai acquistare a prezzi scontati i meravigliosi gadget ed i dvd con le ispirate immagini del Maestro Grullo.
Profilo B. Sei un purista della tradizione. Nonostante una certa affinità ideale, continui a diffidare delle imitazioni… Non c’è niente di meglio del vecchio complotto demo-pluto-giudaico-massonico: il solo che sia unico e originale! Eppoi, una simile compagnia di citrulli tanto svitati è troppo da sopportare pure per te.
Profilo C. Sei sicuramente un troll infiltrato dalla Ka$ta e pagato dai partiti. Morto-zombie-che-cammina-pd-meno-elle sei vecchio! Sei finito! E presto verrai spazzato via dallo tsunami della riVoluzione che avanza.
Profilo D. Complimenti! Sei un vero coglione. Certificato a 5 stelle
«Dopo un anno l’Italia è saldamente sulla via del cambiamento, di certo è un’Italia che adesso può guardare con più fiducia verso il suo futuro. Un futuro che sarà prospero se si continuerà sulla strada intrapresa, senza disperdere il lavoro che è stato compiuto fino ad oggi.»
(Il Consiglio dei Ministri– Nov.2012)
Gli strabilianti risultati della terapia bocconiana li avevamo già ricapitolati QUI. È ovvio che un ‘lavoro’ così ben fatto vada continuato, onde non disperdere effetti tanto straordinari… Con un’economia reale stremata a condizioni post-belliche, senza alcuna prospettiva di “boom” se non il collasso di un intero tessuto sociale, in Italia siamo ormai alle verità di Fede. Il direttorio tecnocratico crede nei miracoli ed alla realtà dei fatti preferisce il culto delle visioni mistiche. Dall’alto del loro empireo accademico, lontani dalle anguste miserie dei comuni mortali, i professoroni preferiscono la libertà degli spazi siderali, dove l’aria rarefatta amplifica le allucinazioni nello stato comatoso di tunnel senza luci. E mentre i sacerdoti dell’Austerità per decreto trasformavano l’Italia in un immenso laboratorio accademico per i loro esperimenti sociali di teoria macroeconomica, ci hanno rifilato una riuscita serie di spauracchi costruiti ad hoc (la Grecia) e favolette di successo (secondo le quali avremmo vissuto al di sopra delle nostre possibilità), opportunamente amplificate dai media embedded dei potentati finanziari, interessati al grande piano di riorganizzazione post-democratica. Bocciata nei fatti su tutti i parametri [QUI]l’Agenda Montirimane la bibbia di riferimento per padroni e sindacati gialli, nella prosecuzione di un’esperienza che (per carità!) non va certo dissipata. Principale (se non unico) risultato, è il contenimento dello spread sui titoli di Stato, ovvero il differenziale con i bund tedeschi, ad una media di 360 punti, che comunque (a fronte di una cura da cavallo) rimane elevato e non giustificabile. Più è alto il differenziale di riferimento, più aumenta l’importo degli interessi da pagare ai sottoscrittori dei titoli pubblici, emessi per il finanziamento delle spese correnti inerenti il funzionamento della macchina statale, incrementando di converso l’enorme debito pubblico che grava sul bilancio italiano. Nella notte buia in cui tutte le vacche sono nere, ci si dimentica di dire però che nel 2007 lo spread era sotto i 50 punti e certo non costituiva un problema per l’incremento di un debito pregresso, in massima parte ereditato dalla finanza allegra degli anni ’80[QUI!], e nell’ultimo decennio tenuto costantemente sotto controllo, senza incidere sulla tenuta economica e la stabilità finanziaria di un intero Paese, fino a quando non è improvvisamente diventato un problema…
Infatti, bisognava scegliere se continuare a finanziare la spesa corrente degli Stati a sostegno delle politiche sociali o drenare risorse pubbliche per colmare la voragine del Credito privato, dissanguato dalle speculazioni della finanza strutturata. Ovviamente, si è optato per la seconda scelta col beneplacito delle oligarchie liberiste della UE ed il sostegno incondizionato dei nipotini di Milton Friedman (diffidare sempre dei nani!), tanto non pareva loro vero di poter ridisegnare la geografia sociale dell’Europa a immagine e somiglianza del Cile di Pinochet. Non per niente gli emuli nostrani dei Chicago Boys sono tra i più fieri sostenitori del Montismoad oltranza e rilascio rapido. Tanto per dire, un affresco del fallimento delle politiche rigoriste di ispirazione neo-monetarista ce lo danno i prudentissimi rapporti dell’ISTAT: nota congrega sovversiva di anarco-insurrezionalisti. Per questo i report in questione vengono di solito snobbati dalla grande stampa moderata e benpensante, sempre così pensosa dei destini del Paese e soprattutto del ‘mercato’. E dunque riscopriamoli insieme…
La Dittatura del Debito Nel Rapporto Annuale del 2010, prima della svolta tecnica, l’ISTAT esamina le cause della crescita del debito pubblico, nell’ambito della più generale crisi dell’euro (moneta nata male, strutturata peggio, ma la quale è vietato criticare) e soffermandosi sull’analisi del “saldo primario”, ovvero l’avanzo nei bilanci degli Stati. E viene calcolato al netto della spesa per interessi sui titoli emessi per il finanziamento corrente, che impropriamente chiamiamo “debito”. Il saldo primario è una diretta conseguenza delle politiche fiscali adottate dai singoli Paesi e riflette le decisioni dei governi in materia economica e gestione di spesa.
«Il saldo primario, nella media dell’area è andato progressivamente deteriorandosi, passando da un avanzo del 2,3 per cento del Pil nel 2007 a disavanzi superiori al 3 per cento negli ultimi due anni. Nel complesso del triennio 2008-2010, il saldo primario ha contribuito alla crescita del peso del debito sul Pil per 5,7 punti percentuali per l’insieme dell’UEM [Unione Monetaria Europea], ma per 47 punti percentuali in Irlanda, 20 punti in Grecia, 19 in Spagna, 14 in Portogallo e 10 punti in Francia. Solo in Finlandia, Italia e Germania ha offerto un contributo negativo, rispettivamente per 2,7, 1,7 e 1,5 punti percentuali. Nel 2010, il saldo primario è migliorato in tutti i paesi a esclusione di Irlanda, Paesi Bassi e Austria.»
Una situazione drammatica, ma non disperata. E soprattutto non tale da ingenerare il panico che ne è seguito. Le conseguenze (indirette) sul debito pubblico sono state esasperate in seguito all’esplosione della bolla speculativa statunitense, che ha travolto come un’onda lunga la finanza europea e in particolare le banche franco-tedesche sovresposte verso il sistema creditizio di Irlanda, Islanda e Grecia. L’Italia compariva perfino tra i paesi virtuosi! Insomma, nulla che avesse a che fare con l’andamento sostanziale dell’economia reale. E niente che giustificasse l’imposizione delle politiche di austerity teutonica, calibrate dai tedeschi in modo da essere etero-indirizzate pro domo sua.
«Nel nostro Paese, la crescita del rapporto tra debito e Pil durante la crisi è stata determinata prevalentemente dalla spesa per interessi derivante dall’elevato livello di debito ereditato dal passato e dalla contrazione dell’attività economica. La politica fiscale adottata dal Governo è risultata invece tra le più severe, con un ricorso molto limitato a interventi straordinari anticrisi rispetto agli altri paesi: l’Italia è, infatti, l’unica economia dell’Uem ad aver mantenuto in avanzo lungo tutto il triennio il saldo primario strutturale, calcolato depurando il saldo complessivo al netto della spesa per interessi dalla componente ciclica dovuta all’operare degli stabilizzatori automatici. […] Nel 2010, il saldo primario strutturale avrebbe, invece, continuato a segnare un ampio disavanzo in Irlanda (27,2 per cento del Pil), Spagna (6,2%), Francia (4,3%), Grecia (3,3%) e Paesi Bassi (3,2%).»
La mancanza di provvedimenti strutturali che hanno impedito di cogliere i vantaggi oggettivi (come avvenuto in Germania) che la moneta unica pure offriva, sono gli inconvenienti di aver posto alla conduzione dell’Italia un Pornocrate, molto più interessato alla “patonza” che non agli affari di Stato, funzionali più che altro agli introiti delle sue aziende di famiglia. Ma, si sa, gli italiani amano da sempre gli “Uomini della Provvidenza”… vogliono essere condotti per mano al suono di pifferi magici, come i ciuchini nel Paese dei Balocchi.
Il Pasto Greco La gestione del debito ellenico costituisce la più grande operazione congiunta di recupero crediti ai danni di una stato sovrano mai realizzata. In pratica, i governi conservatori di Germania e Francia, si sono comportati come la bassa manovalanza criminale, ingaggiata dagli usurai (le Banche d’affari private) per esigere i loro crediti a strozzo. La punizione collettiva del popolo greco (perché di questo si tratta), in nome degli Dei della Finanza, rimarrà un’onta indelebile a carico della UE e foriera di conseguenze sociopolitiche, ben peggiori di quanto una Merkel o le intelligenze artificiali del Governo Monti saranno mai in grado di elaborare. L’Italia partecipa a pieno titolo nel salvataggio della piccola Grecia, che a sua volta deve sottostare alle condizioni capestro imposte dalla Germania. In poco tempo, un onere contenibile in ambito europeo si trasforma in una voragine senza fondo, sotto i morsi dell’intransigenza interessata di Berlino. Ma, nella stampa teutonica e scandinava, lo sforzo italiano non viene tenuto in alcun conto ed anzi il Belpaese viene iscritto a forza nei Pigs del cosiddetto Club Med (non senza una punta di razzismo), descritto come un Paese indebitato coi creditori esteri (un falso clamoroso) e si acclara senza alcun riscontro la possibilità di un fantomatico rischio default. Per uno strano capriccio del caso, l’economia italiana è la principale rivale della pompata locomotiva tedesca, con la quale gareggia in esportazioni e acquisizione di quote di mercato europeo. Le prescrizioni rigorista dilatate su scala continentale provvederanno presto a deprimere il potenziale concorrenziale. Ovviamente, gli interventi congiunti di Francoforte e Berlino e Bruxelles sono stati fatti esclusivamente per il nostro bene. Come al solito, per la buona riuscita delle trattative in ambito europeo, non aiutano le perfomances dell’Innominabile che quietamente, nella gaia incoscienza dei controllori, viene lasciato gozzovigliare al governo italiano, umiliando le istituzioni repubblicane e sputtanando il paese in mondovisione.
«Nel 2010 è stato erogato circa un quarto del finanziamento speciale concesso alla Grecia dai paesi dell’Uem (21 miliardi su un totale di 80), il cui onere è stato ripartito tra i paesi membri in proporzione alla loro partecipazione al capitale della BCE: per Italia, Francia e Germania, questo intervento ha determinato un aumento del peso del fabbisogno sul PIL di circa un quarto di punto percentuale; nel 2011 si può stimare un impatto pari a circa 4 decimi di punto per l’Italia e solo marginalmente inferiore in Germania e Francia. La quota di finanziamento a carico di ciascun paese può essere confrontata con un indicatore dei potenziali effetti d’impatto che si ripercuoterebbero sulle rispettive economie in conseguenza di un eventuale consolidamento del debito pubblico greco, costituito dal grado di esposizione dei sistemi bancari nazionali verso operatori pubblici e privati greci. Emerge che le quote di finanziamento del prestito alla Grecia garantite dai principali tre paesi (circa il 27 per cento dalla Germania, il 20 dalla Francia e il 18 dall’Italia) non sono proporzionali al rischio relativo, che è elevato in Francia (con quasi il 40 per cento dei titoli greci collocati presso banche europee), significativo in Germania (con il 25 per cento) e molto ridotto in Italia(con meno del 3 per cento). Gli interventi che hanno inciso direttamente sul debito senza influenzare il saldo di bilancio sono soprattutto l’aumento delle riserve di liquidità e l’acquisizione di attività finanziarie delle banche da parte dei Governi.»
L’Italia e le Banche Sicuramente si tratterà di una coincidenza fortuita, ma la guerra dello spread, cominciata con gli avvertimenti intimidatori delle agenzie del rating organizzato e proseguita con le armi di distruzione di massa della finanza speculativa, sembra quasi essere proporzionale alla mancata esposizione del bilancio italiano alle tempeste del credito bancario ed alla mancata emissione di garanzie pubbliche e coperture finanziarie nei confronti delle potenziali perdite del sistema bancario e le esposizioni alle fluttuazioni di mercato. Nel corso del 2010 i principali governi europei, spaventati dalla crisi del credito privato, corrono a foraggiare gli istituti bancari con cospicue iniezioni di denaro pubblico, fornendo garanzie sui titoli emessi dalle banche in difficoltà finanziarie.
«Gli effetti correnti e potenziali sul debito pubblico dovuti all’adozione di misure straordinarie da parte dei Governi a sostegno del sistema bancario risultano, a fine 2010, eccezionalmente elevati in Irlanda (quasi il 150 per cento del Pil) e significativi in numerosi paesi (Grecia 27 per cento, Belgio 22, Germania 16, Spagna 8, Portogallo 6,8 e Francia 4,6 per cento). Per l’Italia il peso degli interventi attuati a sostegno del sistema finanziario è, invece, marginale (0,3 per cento).»
A dimostrazione forse di un sistema creditizio più sano rispetto agli omologhi europei. Con lo smantellamento accelerato delle tutele sociali, la cancellazione dei diritti e delle ultime garanzie nell’ambito del lavoro, insieme all’esposizione dello Stato italiano nei confronti delle eventuali banche a rischio insolvenza, coincidono con uno stemperamento dello spread che tuttavia rimane troppo alto e che il Governo Monti si guarda bene dal pubblicizzare troppo tra i suoi successi (presunti). Non per niente, tra i primi atti del decreto Salva-Italia c’è la presa in carico da parte dello Stato delle passività bancarie, con la concessione di garanzie di copertura…
La morsa del Debito Il peso del debito pubblico costituisce una morsa incontenibile, che condiziona le politiche economiche ed i piani di crescita da almeno un ventennio. Tuttavia, a fronte di un sistema produttivo ed industriale fortemente sclerotizzato, e refrattario alle innovazioni come agli investimenti, un mercato del lavoro ingessato con divaricazioni sempre più inique nel riconoscimento dei diritti, la tenuta dell’economia italiana è sostenuta in massima parte dai consumi delle famiglie. È questo l’elemento primario, se non unico, che finora ha garantito spinta propulsiva al cosiddetto sistema-paese:
«Nel periodo 1992-2000 la crescita dell’economia italiana è stata sostenuta dai consumi delle famiglie, dagli investimenti e rafforzata da un contributo positivo della domanda estera netta; il contributo dei consumi collettivi, invece, è leggermente negativo, conseguenza di una dinamica restrittiva della spesa delle amministrazioni pubbliche fino al 1995 e di una sua crescita a ritmi molto contenuti dal 1996 in poi. Nelle altre maggiori economie dell’Uem, costrette ad un processo di convergenza meno oneroso di quello italiano, invece, il sostegno della spesa pubblica, soprattutto nella fase recessiva, è stato positivo.»
Il godereccio ventennio berlusconiano, lungi dal risolvere i problemi li ha acuiti, e gli effetti si vedono…
«Nel periodo 2007-2011, la performance di crescita complessivamente negativa dell’Italia (-1,1 per cento in media d’anno) vede un contributo negativo di quasi tutte le componenti della domanda, in particolare degli investimenti, e un contributo nullo della spesa finale delle amministrazioni pubbliche. Tra gli altri principali partner, Francia e Germania conseguono una modesta crescita, complessivamente favorita dal sostegno della domanda privata e dei consumi collettivi, mentre nella media di periodo la domanda estera netta incide negativamente, principalmente a causa del pessimo risultato del 2009.»
L’equazione tra crescita ed equità è imprescindibile. In Italia si è costantemente proceduto in senso opposto.
L’Equità al tempo dei Tecnici Nel 2011 abbiamo un nuovo “salvatore della patria”: ce lo chiede l’Europa; lo vuole la BCE; ce lo impone il Colle. E, come tutte le imposizioni dall’alto, si tratta di un’offerta che non si può rifiutare… Nel solco di un processo di ristrutturazione a livello europeo, con la benedizione delle banche centrali e del Fondo Monetario, per il risanamento dei conti pubblici in nome dei sacri parametri, Mario Monti intraprende una cura fatta di lacrime, sangue e tagli. Il dolore è parte integrante della terapia e non prevede anestesia. Sostanzialmente si tratta di una vivisezione: se la cavia sopravvive alle asportazioni, si aprono per lui le aspettative di una non vita dalla lunga agonia. Nel rapporto annuale del 2012, l’Istat non manca di osservare come:
«In Germania e in Francia il maggior contributo al risanamento è stato fornito dalle imposte dirette, con incrementi in valore assoluto rispettivamente dell’8,1 e del 10 per cento; nel Regno Unito, invece, il supporto più rilevante alle entrate è giunto dalla dinamica delle imposte indirette (in aumento del 6,4 per cento in termini nominali).»
Le imposte dirette si basano sulla tassazione progressiva del reddito e sulla repressione dell’evasione fiscale, in proporzione alla ricchezza patrimoniale detenuta ed alla propria capacità contributiva. Nei paesi dove più forte è il divario sociale e maggiore l’impronta liberista si prediligono le imposte indirette, che toccano solo marginalmente i grandi capitali ed i redditi più elevati. In Italia, l’imposizione fiscale (e massimamente dopo l’avvento del Governo Monti) è basata quasi tutta sull’aumento delle imposte indirette, che spostano il peso del risanamento soprattutto a carico del reddito da lavoro dipendente e salariato:
«L’aumento di gettito è stato sostenuto esclusivamente dalla crescita delle imposte indirette (+2,0 per cento) realizzata attraverso interventi sull’Irap, l’introduzione della tassa di soggiorno, l’aumento di un punto dell’aliquota massima dell’Iva e aumenti delle imposte sugli olii minerali. […] In Italia si sono registrate diminuzioni dei redditi da lavoro dipendente (-1,2 per cento), delle prestazioni sociali in natura [forniture di beni e servizi alle famiglie n.d.r] (-2,2 per cento), dei trasferimenti di capitale (-8,8 per cento) e dei contributi alla produzione (-6,3 per cento). […] La dinamica negativa dei redditi da lavoro dipendente è stata determinata dalla contrazione dell’occupazione e dalla modesta flessione delle retribuzioni pro capite dovuta al congelamento dei rinnovi contrattuali.Il sensibile calo delle prestazioni sociali in denaro ha riflesso prevalentemente l’andamento di alcune componenti della spesa sanitaria (spesa per farmaci e spesa per la medicina di base) che, nel corso del 2010, avevano incorporato il costo dei rinnovi delle convenzioni dei medici di base.»
In pratica la gente risparmia sulle cure mediche, mentre migliaia di posti letto vengono tagliati e gli ospedali chiusi in nome del fiscal compact e dalla spending review che ne consegue. Il prossimo passo del Montismo è la privatizzazione della Sanità? Per crudele paradosso, mentre si pretende di inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione, si impone il fiscal compact che di fatto azzera ogni forma di spesa pubblica in Italia, si inaspriscono le politiche di rigore, mentre il debito pubblico esplode in concomitanza col crollo dell’economia e dell’occupazione. Il caso è da manuale: si tratta del carrettiere che ammazzò il cavallo, convinto che per spronare l’animale a trainare il carro bastassero le sole frustate; aumentando al contempo il volume del carico, nella convinzione che per risparmiare sui costi di trasporto sarebbe bastato eliminare il foraggio e le cure per la bestia da soma. Un anno dopo la cura Monti, questo è il risultato al settembre 2012, in merito alle prospettive per l’economia italiana, elaborate dall’Istat… Per quanto riguarda l’Industria:
«Le contrazioni più marcate si rilevano nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-15,5%), nella fabbricazione di articoli in gomma, materie plastiche e altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-8,3%) e nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-7,6%). Le variazioni negative più rilevanti dell’indice grezzo degli ordinativi hanno riguardato la metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-18,4%), la fabbricazione di macchinari e attrezzature n.c.a. (-17,3%) e l’industria del legno, carta e stampa (-13,1%).»
In merito all’industria automobilistica, Gli acquisti di autoveicoli sono crollati a -44,9%. Ma in questo ha contribuito molto la simpatia di Sergio Marchionne. Stroncato il mercato interno, in nome del risanamento e riordino dei conti che assomiglia ormai ad una composizione della salma prima della tumulazione, i restauri tombali del Governo Monti stanno portando i loro benefici effetti anche nell’ambito del commercio estero. Le esportazioni, seppur in difficoltà, sono sempre state un settore di punta dell’economia italiana ed una voce importante nella strutturazione del PIL nazionale e che, al contrario delle aspettative, non sono state poi così beneficiate dall’introduzione dell’euro come si credeva in origine:
«L’adozione dell’euro ha determinato un impatto positivo, ma non di grande entità, sul commercio bilaterale dei paesi europei. Per alcuni paesi membri (Grecia, Finlandia e Portogallo) l’effetto della moneta unica europea sul commercio sarebbe stato negativo. […] Nel caso dell’Italia l’impatto positivo si sarebbe esplicitato attraverso la riduzione dei costi variabili del commercio internazionale, mentre la riduzione dei costi fissi non avrebbe avuto alcun ruolo. La stima differenziata dell’effetto “introduzione dell’euro” rispetto ai mercati di destinazione ha, tuttavia, mostrato un impatto positivo per gli scambi commerciali con i paesi “periferici”, verso i quali le imprese italiane avrebbero aumentato le esportazioni in termini sia di valore sia di varietà dei prodotti esportati. Al contrario, l’effetto sull’export verso i mercati “core” (tra cui la Germania, principale destinatario dell’export italiano) sarebbe stato negativo, indicando il prevalere di un effetto competitività penalizzante per i beni italiani.»
I flussi del commercio estero, scalzati progressivamente dai mercati interni della UE a tutto vantaggio della Germania, si sono concentrati verso i paesi emergenti e le nuove economie dell’Asia, insieme ai mercati tradizionali del made in Italy di qualità, conquistando importanti quote nei nuovi blocchi economici transcontinentali. Verso le nuove tigri asiatiche (e tigrotti in crescita) dell’ASEAN: Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania, Cambogia. Verso i colossi dell’EDA: Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Malaysia Oppure puntando sulle grandi potenzialità del continente latinoamericano, puntando ai mercati unificati del MERCOSUR e dell’ANDEAN. E infatti,
“A settembre si rileva, rispetto al mese precedente [Agosto 2012], una flessione per entrambi i flussi commerciali, più intensa per l’import (-4,2%) che per l’export (-2,0%). La diminuzione dell’export è di intensità analoga per entrambe le aree di sbocco: -2,1% per i mercati UE e -2,0% per quelli extra UE. In flessione sono soprattutto le vendite di beni strumentali (-4,5%) e di prodotti energetici (-2,3%), mentre i beni di consumo durevoli registrano un aumento dell’1%. La flessione delle importazioni è rilevante sia dai paesi Ue (-4,4%) sia da quelli extra Ue (-3,9%). Particolarmente accentuata è la contrazione degli acquisti di beni strumentali (-9,7%).”
La flessione delle vendite riguarda tutti i potenziali partner commerciali, interessati alle nostre esportazioni:
Paesi EDA (-26%) Giappone (-35%) Cina (-18,8%) India (-30,9%) Paesi MERCOSUR (-13,7) Germania (-10,3%) Spagna (-12,8%) Romania (-13,6%)
Aumentano invece i flussi commerciali con i Paesi dell’ASEAN (+22,9%); Paesi OPEC (+18,0%); Russia (+16,7%); USA (+19,4%).
A conti fatti, più che dinanzi ad un governo di risanatori ci troviamo di fronte ad una squadra di becchini. Epperò, dopo Monti c’è solo Monti… per l’estrema unzione?
Attulamente der Professor è ad uno dei soliti, inconcludenti, vertici brussellesi che tanto fanno sghignazzare mercati e investitori di borsa ad ogni puntata. Il copione è sempre lo stesso: Angelona Merkel si impunta come Hitler nell’assedio di Stalingrado senza cedere di un millimetro; il presidente francese cerca di rintuzzare l’intransigenza tedesca, confidando invano nella risicata sponda italica; Mario Monti, nicchia, bluffa, minaccia veti che non porrà mai… ma, finita la recita, prima si piega e poi si spezza. Per non fargli perdere la faccia, l’inflessibile Angelona concede qualche osso al suo fedele cagnolino da riporto e il giorno dopo sconfessa i risultati del vertice, inviando i suoi sabotatori di fiducia (Olanda e Scandinavia). È una tecnica nota ormai a tutti, tranne che ai giornaletti nostrani, i quali celebreranno il ritorno a casa del Professorone con titoloni roboanti sui nuovi “successi epocali”.
All’atto pratico, dopo aver stroncato ogni possibilità di ripresa, estendendo la cura ultra-rigorista all’intera Europa, i tecnocrati della UE e del Fondo Monetario Internazionale hanno rivisto al ribasso tutte le stime di crescita, ammettendo che forse qualcosa non sta funzionando… E dopo aver trasformato una crisi congiunturale, in una devastante recessione su scala continentale, senza che si prospettino reali prospettive di uscita, iniziano a profilarsi all’orizzonte concreti timori sulla tenuta sociale e democratica negli stessi Paesi coinvolti nella ‘cura’. Se è vero che sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Ci troviamo di fronte ad un gruppo di cerusici ottocenteschi che, dinanzi all’aggravarsi della malattia, intensificano i salassi al paziente anemico, prescrivendo in aggiunta una serie di clisteri al malato rigorosamente tenuto a digiuno, pur di non rimettere in discussione le teorie del loro manuale scolastico. Evidentemente, è radicata la convinzione nietzschiana, secondo la quale ciò che non uccide fortifica.
«Supponiamo che la casa del mio vicino prenda fuoco e che io abbia un tubo innaffiatoio lungo quattro o cinquecento piedi e anche più. Se il mio vicino può prendere il mio tubo e collegarlo al proprio idrante, potrei aiutarlo a spegnere l’incendio… E non sto certo a dirgli prima: “Vicino, il mio tubo da giardino costa 15 dollari; pagami 15 dollari per averlo”… Io non li voglio i 15 dollari! Rivoglio il mio tubo indietro una volta che l’incendio è spento.»
Franklin Delano Roosevelt (17/12/1940)
Tra gli economisti di matrice classica che furbescamente considerano l’euro (e le sue debolezze) come un insperato grimaldello con cui scardinare il public welfare in Europa, ed i sacerdoti del monetarismo più estremo, che guardano i ‘mercati’ alla stregua di una divinità trascendente alla quale prostrarsi deferenti, offendo sacrifici (meglio se umani) sull’altare di una turbo-finanza senza regole, prospera lieta in vaporosi fumi la nutrita processione di candide vestali dell’Austerità, che declamano il nuovo Wirtschaftswunder della Germania virtuosa e della ritrovata Austria Felix, finalmente riunite nel mitico modello tedesco contrapposto alle frivole cicale latine e all’appestato greco. E, per l’appunto, seppur abilmente costruito, di un mito si tratta…
LA REGOLA DEL RIGORE Per prassi consolidata, i rigorosi parametri per il contenimento del debito sono inflessibili e contemplano misure draconiane, ma solo quando vengono applicati agli ‘altri’. Diventano improvvisamente iperflessibili, aggirabili o semplicemente violabili, senza timore di incorrere in sanzione alcuna, quando invece vengono applicati ai ‘Grandi’: i virtuosi dei conti in ordine, i custodi del rigore più estremo… che dettano l’agenda all’intero continente, incassando utili e benefici, ma senza distribuire i dividendi agli altri azionisti i quali, più che condividere, subiscono oneri e rigori della moneta unica. Ciò che vale per la Grecia, e Italia… Irlanda… Spagna… Portogallo… Francia… Con ogni evidenza non vale però per la Germania. Per dire, i rigidissimi “Parametri di Maastricht”, fortissimamente voluti dal Paese di Goethe, sono stati da questo sistematicamente violati ogni qualvolta la loro applicazione non era più conveniente. C’è da aggiungere che, se tali parametri fossero stati in vigore e applicati alla lettera ai tempi della riunificazione tedesca, questa non sarebbe mai stata possibile. E forse, col senno di poi, non sarebbe stato affatto un male.
I VIRTUOSI DEI CONTI IN ORDINE Si obietterà: ma la Germania ha i conti in ordine, grazie ad una gestione oculata delle finanze pubbliche e alla trasparenza del bilancio statale… FALSO! La Germania non disdegna, se la circostanza lo richiede, di ricorrere agli artifici contabili della finanza creativa, senza farsi troppi scrupoli. E del resto non sarebbe nemmeno la prima volta nel corso della sua storia recente. Insomma, la Germania si comporta ne più ne meno di quanto non facciano altri paesi dalla reputazione ben più spregiudicata. In fondo, si tratta di consuetudini universalmente praticate, unanimemente risapute, e ampiamente tollerate fintanto che garantiscono un ritorno anche agli investitori. Perciò non lasciatevi ingannare dal cipiglio severo del crucco da esportazione che vi guarda dall’alto in basso, reputandosi il prediletto dal Signore. In dettaglio, nel 2011 la Germania è stata richiamata dalla Corte di Giustizia europea, in Lussemburgo, per l’applicazione di un’aliquota ridotta (7%) sulla riscossione dell’IVA (la Mehrwertsteuer) e ritenuta illegittima perché in contrasto con le regole europee sulla concorrenza. Ma già nel 2010 la Corte di Giustizia UE aveva in corso contenziosi giuridici aperti in materia fiscale, su versamenti ed esenzioni IVA, con la Repubblica Federale tedesca. ..Epperò la Germania ha un debito pubblico molto basso… VERO; o forse no..! In base ai rapporti statistici di Eurostat 2011, il debito della Germania in effetti è contenuto intorno al 81,2% sul PIL e viene dato in potenziale ribasso. Si tratta di un buon risultato (non ottimo) rispetto al 120% del debito italiano, che comunque è in grandissima parte un’eredità craxiana degli anni ’80, quando l’infame triade Brunetta-Tremonti-Sacconi forniva le sue competenze (oggi come allora) al Tesoro [QUI]. E comunque, in termini monetari, il debito tedesco è più alto di quello italiano: 2.088 miliardi di euro contro 1.897 miliardi dell’Italia. Quello francese è dato all’86% con 1717 miliardi di debito. Tanto per dire, il debito della famigerata Grecia è stimato a 355 miliardi. Soprattutto, ad inizio 2011, prima che la Spagna venisse travolta dall’esplosione della bolla immobiliare, e dalle prescrizione rigoriste teutoniche che hanno gettato il paese iberico nella depressione economica con lo spread oltre i 500 punti, c’è da rivelare che il debito pubblico della Spagna (66%) era tra i più bassi della UE. Nel computo del debito pubblico, ed in particolare di quello tedesco, si è soliti distinguere tra:
1. “debito esplicito” (obbligazioni e buoni del Tesoro emessi per rifinanziare la spesa dello Stato); 2. “debito implicito” (Stipendi pubblici, Pensioni, Sanità, politiche sociali e spesa assistenziale);
Secondo gli economisti convertiti al miracolo teutonico, nel computo del debito di uno Stato, va considerato unicamente il “debito esplicito”, ovvero gli interessi da pagare sull’emissione di titoli pubblici; e non il “debito implicito”, con le sue spese assistenziali e previdenziali, nelle quali si accumula il grosso del passivo di bilancio. L’affascinante disamina si può leggere sull’International Business Times del dicembre 2011, in risposta ad uno dei soliti articoli farlocchi pubblicati dall’immancabile “Libero”:
«Uno studio del CERP (Centre for research on pension and welfare policies), ad opera di Beltrametti – Della Valle, due economisti dell’Università di Genova, intende analizzare proprio questo tema: è opportuno considerare la spesa assistenziale e pensionistica presente e futura, alla stregua del debito e degli interessi su di esso pagati? Beltrametti e Della Valle concludono che, mentre la spesa pensionistica e assistenziale non sono un “bene di mercato”, i buoni del tesoro e quindi il debito pubblico “esplicito” sono oggetto del giudizio degli investitori, ed è su questo giudizio che si basano le oscillazioni dei rendimenti che lo stato deve pagare per ottenere capitali in prestito. Le dimensioni di un sistema previdenziale/assistenziale, dunque, non possono essere computate nel calcolo del debito pubblico totale perchè non pesano allo stesso modo sul mercato del debito, bensì costituiscono un fattore interno ad ogni singola economia, che si riflette sul prelievo che lo Stato deve attuare sul settore privato per ripagare i trattamenti pensionistici e la spesa assistenziale.»
Tutto estremamente interessante. Peccato che questa indulgente distinzione venga applicata unicamente nel caso della Germania, in qualità di fortunata eccezione, mentre in tutto il resto d’Europa la sommatoria si pratica eccome. Altrimenti non si spiegherebbero le cure “lacrime e sangue” tutte incentrate sui tagli alla spesa pubblica e previdenziale e sanitaria.
IL BISCOTTO DI BILANCIO (ovvero come ti pareggio i conti) Cambiate le variabili di calcolo, il risultato sarà sempre quello giusto… La chimera del “pareggio di bilancio” da raggiungere in tempi impossibili è il perno della politica economica tedesca: si impone alla UE e, come al solito, non si applica a se stessi se non barando sui saldi. La disamina del prof. Matthias Hartwig, del Max Planck Institut di Heidelberg, è abbastanza illuminante:
«Nonostante il generale apprezzamento a cui va incontro il “modello tedesco” di costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (da intendersi qui in senso stretto, al contrario dell’Italia), le criticità non sono poche. Innanzitutto le ragioni che hanno condotto alla riforma costituzionale del 2009 sono varie: contenere la forte crescita del debito tedesco, registratasi dal 1949 al 2009; costituzionalizzare i parametri di Maastricht, sistematicamente violati dalla Germania dal 2002; limitare la possibilità di accendere crediti. Un altro problema prima del 2009, peraltro solo parzialmente risolto oggi, riguarda la mancanza di un controllo giurisdizionale effettivo. Il Tribunale costituzionale federale tedesco si è sempre astenuto dal decidere su questioni di politica fiscale, nonostante fossero stati presentati ricorsi in via principale da parte dei Länder. Peraltro, quando il Tribunale costituzionale federale giungeva a decidere su un ricorso mediamente passavano alcuni anni: la Corte scontava infatti un grande arretrato. Successivamente, con una decisione del 2007, che poi è stata interpretata come un avallo alla successiva riforma costituzionale del 2009, il Tribunale costituzionale federale ha assunto un orientamento più restrittivo quanto al suo intervento sulla sostenibilità della finanza pubblica. Nel 2009, il nuovo articolo 115, comma 2 GG, introduce l’obbligo di pareggio senza ricorso a crediti. Previsione, quest’ultima, che però vale solo per i Länder e non anche per lo Stato, che quindi è senz’altro più libero dei Länder di derogare ai vincoli all’indebitamento (un indebitamento strutturale dello 0,35% è ammissibile per lo Stato). Inoltre i bilanci delle municipalità non sono sottoposti al vincolo costituzionale del pareggio di bilancio, innescando in questi anni una dinamica incrementale della spesa. Il nodo ancora aperto, come si accennava, riguarda proprio il controllo di queste norme introdotte nel 2009. La strada che pare più facilmente percorribile è quella dell’accesso in via principale al Tribunale costituzionale. Dall’altra parte, però, se nel 2007 il giudice costituzionale era sembrato disposto a procedere ad un vaglio più rigoroso sulle norme riguardanti le entrate e le spese, cionondimeno in quella occasione la reticenza del Tribunale costituzionale federale in materia ha avuto modo di manifestarsi su un fronte decisamente contiguo. Infatti, nella già richiamata sentenza del 2007 il Tribunale ha comunque negato la sua competenza a decidere sul rispetto del principio del pareggio di bilancio. Pertanto, modificato il parametro costituzionale, nulla sembra cambiato. Il bilancio federale non è mai stato dichiarato incostituzionale dalla Corte; in senso diverso si è proceduto a livello dei Länder: i Tribunali costituzionali di tre Länder hanno ritenuto i bilanci statali incostituzionali.»
Matthias Hartwig – “La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio in Germania” Intervento al convegno organizzato dalla Fondazione CESIFIN su “Crisi economica e trasformazioni della dimensione giuridica” – Firenze, 15/05/2012.
GLI EUROPEI VOGLIONO VIVERE SULLE SPALLE DELLA GERMANIA È la più furba (e la più infame) delle favolette interessate, messe appositamente in circolazione…
«LA GERMANIA usa l’Europa per i propri fini, non viceversa. La dimostrazione è quanto accaduto alla Grecia. All’inizio della crisi greca sarebbe bastato dare 140 miliardi a quel paese per evitare il contagio che da Atene sta impoverendo tutta Europa. Ma l’ostinazione della Merkel è nel fatto che le banche tedesche erano esposte verso la Grecia per 400 miliardi. Se la Grecia avesse imboccato un regolare risanamento i crediti tedeschi si sarebbero allungati nel tempo. E così la Germania ha cercato di salvare le sue banche facendo pagare i propri errori a tutti i partners europei. LO STESSO DISCORSO vale per gli Eurobond che, va ricordato, sono stati invocati ben prima dell’esplodere di questa terribile fase due della crisi dall’allora ministro dell’economia italiano Giulio Tremonti. Tutti sanno che l’Europa per fronteggiare la crisi, ma soprattutto per rilanciare il ciclo economico avrebbe bisogno (anche) di queste tre mosse: far diventare la Bce un istituto di emissione e prestatore di ultima istanza, emettere Eurobond in modo da omogeneizzare in un unico titolo i debiti sovrani degli Stati membri, svalutare parzialmente l’Euro immettendo liquidità nel sistema.»
Ci sarebbe da aggiungere che le banche tedesche, lungi dall’essere solide, dopo la farsa degli stress-test che hanno spostato i problemi del credito alla detenzione dei titoli pubblici, sono tra le più indebitate ed esposte al contagio dei titoli tossici, detenendo nello stomaco migliaia di derivati spazzatura.
«Se infatti l’economia ripartisse gli investitori avrebbero meno interesse a finanziare il debito e più a sostenere la produzione. E questo sarebbe un danno per la Germania. Primo perché la Germania sta guadagnando sul suo debito. Il Bund tedesco a dieci anni viene remunerato sotto il tasso di inflazione a dispetto peraltro dei fondamentali dell’economia tedesca. LA GERMANIA può così ricapitalizzare le sue banche che sono intossicate molto di più delle altre da titoli spazzatura consentendo una sorta di riciclaggio del denaro. E inoltre deprimendo le economie dei suoi competitor e in particolare dell’Italia che è il secondo Paese europeo esportatore la Germania si assicura i mercati. Non a caso la Germania sta vivendo un periodo di euforia economica. Nel primo trimestre di quest’anno il Pil tedesco fa più 1,2% quello italiano fa il meno 0,8. Ma è un’euforia pericolosa. LA MERKEL sa perfettamente che l’export tedesco dipende per il 60% dall’Europa. Se l’Europa si ferma rischia, appena i partners del Vecchio Continente ripiglieranno fiato, di vedersi sorpassare dalle altre economie. Per questo la Merkel ha bisogno di tempo, per iniziare a importare di più dai Paesi extra Ue a prezzi più bassi e sganciarsi dalla dipendenza economica europea. […] QUINDI la Germania ha tutto l’ interesse a frenare queste economie, a finanziare il suo debito a tassi di guadagno, a non creare un’unità economica dell’Europa ma solo a una unità fiscale che imbavaglia le altre economie.»
Marilena Palazzo (23/05/2012)
In pratica la Germania sta rastrellando i capitali in fuga dagli altri paesi europei, in seguito alla crisi del sistema creditizio, indotta anche dalle politiche di ricapitalizzazione bancaria richieste da Francoforte, e soprattutto dall’implosione dei debiti sovrani generata dalla speculazione finanziaria e dalle politiche recessive imposte dalla Merkel e la Bundesbank al resto dei partners europei. In questo modo la Germania sta rifinanziando il proprio debito pubblico a costo zero, ma a scapito del resto della UE, drenando capitali per lo sviluppo dei paesi che più avrebbero bisogno di rilanciare gli investimenti, bloccati però in nome del “fiscal compact” (che impedisce ogni spesa pubblica fuori bilancio). Un’altra trovata teutonica. Al contempo, boicotta o lascia cadere ogni piano di rilancio economico, concentrando tutte le sue politiche nell’imposizione del rigore fiscale e rifiutandosi di ripartire gli oneri. Di fatto è una politica volta a distruggere i potenziali rivali commerciali. Questa, sotto la maschera del rigorismo, assomiglia molto ad una forma di neo-colonialismo.
«Eppure la Germania non può chiamarsi fuori, affermando che spetta ad ogni paese risolvere i problemi che esso stesso si è creato. Non può – non potrebbe, non dovrebbe – perché la moneta unica, se comporta vantaggi, comporta anche oneri. E la Germania dei primi ha usufruito e usufruisce. La Germania è stata certamente la “prima della classe”. Dopo l’introduzione dell’euro ha ristrutturato la sua industria (lì, al contrario che da noi, i capitalisti investono); con le riforme a più riprese della commissione Hartz ha ridotto le spese del welfare; soprattutto, ha imposto la moderazione salariale, tenendo per molti anni il tasso di disoccupazione sopra la media europea. In questo modo ha messo a segno forti guadagni di competitività, collocandosi così nel Gotha dei grandi esportatori mondiali, insieme alla Cina e addirittura davanti al Giappone. Attenzione, però: l’aumento del suo export è avvenuto soprattutto all’interno dell’area euro, mentre al di fuori ha addirittura perso qualche posizione. Ha cioè sfruttato la sua virtù a scapito dei paesi meno capaci di seguire un analogo sentiero di aumento della competitività. Ha potuto farlo, però, anche perché c’era l’euro. In passato – e noi italiani lo sappiamo bene – i paesi che perdevano competitività erano costretti, ad un certo punto, a svalutare la loro moneta. Il che, per il paese interessato, non era certo una soluzione ottimale, perché anche quella ha dei costi, ma da una parte impediva l’avvitamento dell’economia, dall’altra riequilibrava gli scambi con l’estero. In altre parole, in uno scenario del genere, la Germania non sarebbe riuscita a mantenere quell’alto livello di esportazioni verso i paesi dell’area. C’è un altro aspetto almeno altrettanto importante. E’ stata appena diffusa la notizia che la Germania ha collocato 4,5 miliardi di titoli a due anni al fantastico tasso di rendimento dello 0,07%. Fantastico, perché significa che il rendimento reale è negativo, essendo l’inflazione intorno al 3%. In altre parole, gli investitori pagano la Germania perché custodisca i loro soldi, come se affittassero una cassetta di sicurezza. Pagano anche per i titoli a lungo termine, visto che i Bund decennali viaggiano a circa l’1,5%. Perché accade questo? Perché in una situazione di grande incertezza, come quella attuale, il denaro cerca porti sicuri, e la Germania indubbiamente lo è. Logico quindi che attiri capitali. Ma se non ci fosse l’euro questo provocherebbe un apprezzamento della valuta, con ovvie conseguenze negative sull’andamento delle esportazioni. Invece c’è l’euro, la stessa moneta che hanno anche gli altri paesi europei in difficoltà, che quindi ne tirano al ribasso la quotazione. E dunque la Germania può beneficiare di un afflusso di capitali – con cui si finanzia a costo sottozero – senza doverne subire contraccolpi.»
Carlo Clericetti Repubblica.it– 23/05/2012
È chiaro anche che l’economia tedesca non può espandersi all’infinito, come è evidente che il suo punto di forza è fondato soprattutto sulle esportazioni, che ormai si concentrano quasi tutte in Europa, potendo contare su una moneta unica, sull’assenza di tassi di cambio e di dazi doganali, sulla libera circolazione delle merci ed una normativa condivisa.
«L’Europa è, per la nazione della signora Merkel, una specie di Pozzo di San Patrizio, da cui trae buona parte della sua ricchezza odierna. Basti pensare che il 75,7 per cento del surplus commerciale del 2011, pari a 158 miliardi di euro, proviene dalla Ue. A questo vantaggio derivante dal mercato unico, si aggiunge quello che proviene dalla moneta unica. Non bisogna infatti dimenticare che l’introduzione della moneta unica non è stata solo il frutto di un innamoramento collettivo verso un nuovo traguardo del processo di integrazione europea, né una semplice logica conseguenza del mercato unico, bensì anche uno strumento di convenienza economica per il commercio intracomunitario. Il vantaggio economico derivante dalla moneta unica è presto quantificabile. Le aziende che esportavano verso gli altri paesi comunitari oggi parte dell’Eurozona, anche in assenza di dogane, affrontavano due tipi di costo, derivanti dalla presenza di valute diverse. Un primo costo consisteva nella commissione di cambio, che gli operatori economici, al pari delle persone che si recano all’estero per vacanza o affari, devono pagare alle banche per trasformare la valuta estera nella propria moneta. Questo costo è in genere non inferiore al 2-3% del valore della transazione. Vi è poi un ulteriore costo, che è dovuto alla copertura dei rischi di cambio, ossia al rischio che il tasso di cambio esistente al momento della sottoscrizione del contratto di vendita, risulti poi diverso da quello in vigore al momento del pagamento, possibilità esistente anche nel precedente sistema dello Sme (Sistema Monetario Europeo), in cui le oscillazioni previste potevano raggiungere la soglia massima del 4,5% (+/-2,25% rispetto all’Ecu). In sostanza, il rischio di cambio poteva costituire un costo pari a 2-3 punti percentuali del valore dell’esportazione. In altre parole, l’introduzione dell’euro ha consentito di risparmiare almeno il 5% sul valore degli scambi intracomunitari tra i paesi dell’Uem (Unione economica e monetaria). Nel caso della Germania, applicando quel 5% ai 3.645 miliardi di euro di prodotti venduti negli altri 16 paesi dell’Eurozona negli ultimi 10 anni, si ottiene il non trascurabile importo di 182 miliardi di euro, che costituisce poco meno di quanto la Germania ha dato (211 miliardi) al fondo salva stati (Efsf). In sostanza, la Germania si è impegnata (senza però spendere) per un importo di poco inferiore al risparmio effettivo già ottenuto dalle sue imprese grazie all’euro. Un vantaggio che si aggiunge a quello derivante dall’avanzo commerciale, dovuto all’esistenza di un mercato unico.»
Si tratta di una situazione ideale che, ovviamente, non è destinata ad essere eterna.
I TEDESCHI PAGANO SEMPRE I LORO DEBITI Da ciò scaturirebbe l’intransigenza e l’inflessibile severità dimostrata nei confronti dei greci e dei paesi UE in difficoltà con la quadratura dei conti pubblici. Peccato che proprio i rigorosi tedeschi siano usciti dai loro momenti di maggior difficoltà economica NON pagando mai i propri debiti… Nel corso della sua storia recente, l’Austria (quella che ci viene a fare i conti in tasca) ha dichiarato bancarotta per ben 6 volte, impiegando anni a rifondere parzialmente il default: Anno 1802 Anno 1868 Anno 1914 Anno 1932 Anno 1938 Anno 1940
La virtuosa Germania è andata in bancarotta per motivi bellici (aveva attaccato e invaso mezza Europa) nel 1932 e nel 1939. Superfluo dire che la Germania non ha mai estinto il debito, glissando sulle riparazioni, e spalmando i pagamenti (poi sospesi) su scala pluridecennale. Con la Conferenza di Londra del 1953 fu deciso che il debito tedesco della prima metà del ventesimo secolo avrebbe goduto di straordinarie agevolazioni che si risolsero, in realtà, nella sostanziale cancellazione.
«Il London debt agreement del 1953 divise l’esposizione tedesca globale in due capitoli. Il primo precisava che il debito accumulato fino al 1933 andava pagato subito, ma a condizioni di straordinario vantaggio, con interessi così bassi da determinare uno sconto che alcuni hanno fissato nella metà, circa, del totale dovuto. Il secondo, quello su debito e riparazione dei danni dell’epoca nazista e della guerra, era messo in correlazione con la riunificazione tedesca»
Albrecht Ritschl, tedesco, docente di storia dell’economia alla London School of Economics
All’epoca, ad opporsi agli accordi di Londra furono propri i greci, appena affrancatisi dalla brutale occupazione nazista…
«Gli Usa non volevano commettere gli stessi errori emersi dopo il primo conflitto e per questo imposero ad Atene di abbassare la voce. La Grecia non era favorevole e cercò di opporsi alle condizioni del London debt agreement. Prevalse la tesi americana e dei maggiori alleati che non volevano zavorrare Berlino con un debito asfissiante. Quanto? Secondo calcoli approssimativi un anno di Pil, ovvero 90 miliardi di marchi nazisti del 1944. Il cambio alla valuta di oggi è impossibile. Per questo si potrebbe parlare di un debito semplicemente pari a un anno di Pil». Oggi siamo a circa 3.600 miliardi di dollari (nominale). Non è a oggi che si deve guardare, ma al 1990 (all’epoca era 1.500 miliardi di dollari), quando il debito, invece, di essere saldato con l’atto di riunificazione in ottemperanza agli accordi di Londra, sparì del tutto. “Atene contestò un’altra volta quell’intesa – ricorda Ritschl – ma il passaggio giuridico era inoppugnabile. Nei documenti finali sulla riunificazione delle due Germanie non si fa alcun riferimento agli impegni del London agreement e tanto basta per considerare nullo il debito pregresso”. Una dimenticanza, piuttosto costosa se fosse una dimenticanza che, ovviamente, non fu. Il cancelliere Helmut Kohl lo disse chiaramente: una richiesta del genere non era sostenibile dalle casse di Berlino e ribadì, in cambio, il forte impegno economico tedesco nello sviluppo del progetto europeo»
Leonardo Maisano “Il Sole 24 Ore” – 03/04/2012
Nell’Accordo sui debiti germanici, concluso il 23/02/1953 a Londra, si può leggere:
“I Governi degli Stati Uniti d’America, del Belgio, del Canada, di Ceylon, della Danimarca, della Spagna, della Repubblica Francese, del Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, della Grecia, dell’Iran, dell’Irlanda, dell’Italia, del Liechtenstein, del Lussemburgo, della Norvegia, del Pakistan, della Svezia, della Svizzera, dell’Unione Sudafricana e della Jugoslavia, da una parte animati dal desiderio di rimuovere gli ostacoli che impediscono di stabilire relazioni economiche normali tra la Repubblica federale di Germania e gli altri paesi e di contribuire in tal modo allo sviluppo di una comunità prospera di nazioni; considerando che da circa vent’anni i pagamenti relativi ai debiti esterni germanici non sono in generale più stati eseguiti conformemente alle stipulazioni dei contratti; che dal 1939 al 1945 lo stato di guerra ha impedito qualsiasi pagamento a conto di un gran numero di questi debiti; che dal 1945 siffatti pagamenti sono stati in generale sospesi e che la Repubblica federale di Germania desidera mettere fine a questa situazione: considerando che gli Stati Uniti d’America, la Francia e il Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord hanno prestato alla Germania, dopo l’8 maggio 1945, un’assistenza economica che ha notevolmente contribuito alla ricostruzione dell’economica germanica, favorendo una ripresa dei pagamenti a conto dei debiti esterni germanici […] detta Commissione ha comunicato ai rappresentanti del Governo della Repubblica federale di Germania che i Governi degli Stati Uniti d’America, della Repubblica Francese e del Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord erano disposti a consentire notevoli concessioni circa la priorità dei loro crediti concernenti l’assistenza economica del dopoguerra rispetto a tutti gli altri crediti verso la Germania e i suoi cittadini nonchè l’importo totale di tali crediti, alla condizione che fossero regolati in modo equo e soddisfacente i debiti esterni d’anteguerra della Germania.”
Oggi, in virtù della generosa lungimiranza di allora, veniamo ripagati con la favoletta rigorista da raccontare, alla luce di algidi neon, mentre un pupazzo meccanico si accinge ad asportare pezzi carne viva da offrire al dio dei mercati, prescrivendo i compitini da fare al riottoso donatore legato sulla tavola operatoria. È ovvio che l’aspetto punitivo serva ad insegnare il valore della sopravvivenza attraverso la sofferenza, secondo una riedizione estrema dell’etica protestante nello spirito del capitalismo. A tal proposito, l’insufflata seriale di NEIN! che Angelona Merkel continua ad inzaccherare di fila, ad ogni proposta o tentativo di porre un argine all’avanzata della spirale recessiva, ricordano la parodia di altri ‘bastardi’ più o meno senza gloria…
Con le economie europee strettamente interconnesse attraverso il sistema della moneta unica, non esistono paesi immuni al contagio della crisi. Ma questo i tedeschi fanno finta di non saperlo, trincerati come sono nel loro ricostituito Reich che prospera sulle disgrazie altrui, esternalizzando i danni collaterali della ritrovata supremazia tedesca, ripetendo il mantra della “stabilità di bilancio”. E quella che si è rivelata una circostanza favorita da una serie di condizioni fortunate è diventata una condizione ideale da imporre al resto della UE in tempi strettissimi, tali (come sta avvenendo) da stroncare ogni economia in difficoltà. C’è da chiedersi se la cosa non sia intenzionale…
Se esistesse una reale visione europea, con una effettiva unità di intenti e di prospettive condivise, sarebbe evidente che ad essere sotto attacco non è l’euro o il cosiddetto “fondo salva-stati” ma lo stesso concetto di Unione Europea, intesa come soggetto politico unitario che possa influire con efficacia sulle dinamiche economiche globali. Dietro l’alibi della nuova recessione (creata proprio dalla finanza liquida) si nasconde in realtà una guerra non dichiarata del capitale finanziario, prevalentemente anglosassone, contro le politiche fiscali delle democrazie (ancora) sovrane, nella negazione del concetto stesso di Società e nella destrutturazione del capitale imprenditoriale, funzionale alla de-responsabilizzazione tramite deregolamentazione. Da questo punto di vista, le famigerate agenzie di rating, attraverso il condizionamento interessato del downgrading, sono i B-52 impegnati nei bombardamenti a tappeto, prima dell’assalto in massa degli speculatori finanziari, onde disinnescare ogni possibile contromisura. Le agenzie di rating, emanazione diretta e braccio armato dei grandi fondi d’investimento statunitense e relative banche d’affari, con un mostruoso groviglio di interessi, non sono affatto organismi imparziali, ma agiscono con un preciso intento politico. Soprattutto, hanno una sola finalità: fare quattrini (tanti e subito!), incrementando i dividendi delle principali holding che sponsorizzano ed usano il rating come grimaldello nei mercati azionari della finanza globale. Il loro tempismo è emblematico: il presidente francese parla di istituire una penale in caso di valutazioni errate? A Bruxelles si discute di introdurre una tassazione (minima) delle transazioni finanziarie, con una blanda rivisitazione della Tobin-tax? La BCE preme per l’istituzione di un fondo che dia garanzia e solidità alla sottoscrizione dei debiti sovrani? Le tre agenzie di rating americane, con in testa la famigerata Standard & Poor’s, intervengono a tempo di record stilando le loro inappellabili (e soprattutto non richieste) pagelline di merito, per sabotare sul nascere ogni possibile iniziativa di intervento e correzione. Si tratta di un tavolo da gioco, dove il cartaio usa mazzi truccati, ogni giocatore segna le carte, e il banco bara spudoratamente. Gli investitori del grande capitale finanziario prediligono la massima stabilità, con interlocutori certi, referenti unici, nessun vincolo, flessibilità estrema delle Istituzioni pubbliche allo strapotere economico, con massima libertà di movimento (e disimpegno). Attualmente i Paesi europei, e quel simulacro di “Unione” che li rappresenta, non offrono queste garanzie. E non le possono offrire, senza stravolgere la natura stessa del patto sociale che lega i cittadini ai propri amministratori e rappresentanti. Di conseguenza i cosiddetti “speculatori”, e la finanza che dietro loro si muove attraverso le agenzie di rating, hanno scelto una linea di continuità continuando ad appoggiare il colosso statunitense dai piedi sempre più d’argilla, che risponde però ai requisiti fondamentali del capitale finanziario nella sua vocazione imperiale. Intendiamoci, gli speculatori d’oltreoceano non puntano al tracollo dell’Europa, ma ad un suo ridimensionamento in posizione subalterna di contrafforte dell’egemonia USA. La ricapitalizzazione dei fondi sovrani europei, il drenaggio di risorse ed investimenti finanziari per il sostegno del debito pubblico dei Paesi dell’Unione, viene percepito come un’inutile sottrazione di risorse che potrebbero invece essere impiegate per colmare la spaventosa voragine del disavanzo degli Stati Uniti: soggetto politico ed economico che meglio della debole Unione può imporsi sullo scacchiere internazionale e gestire la globalizzazione, contrapponendosi alle ambizioni del gigante bicefalo dell’Estremo Oriente (India e Cina). In questa prospettiva, le agenzie di rating, insieme agli hedge-fund ed alle business bank che ne muovono i fili dietro le quinte (JPMorgan Chase; Goldman Sachs; Morgan Stanley e l’onnipotente Blackstone Group..) guardano all’Europa come ad un mercato periferico, saldamente inserito nell’orbita dell’Impero e opportunamente depotenziata da ogni velleità decisionale: Abbastanza ricca per poter acquistare merci (ed armamenti) in eccedenza sulla piazza statunitense. Sufficientemente debole da non rappresentare un valido concorrente. Coerentemente, un euro troppo forte costituisce un problema, giacché la stabilità monetaria renderebbe tale valuta assai più appetibile e solida rispetto al dollaro nelle transazioni commerciali e negli scambi internazionali, a partire dalle quotazioni delle materie prime come nel caso del petrolio. Ma un euro troppo debole e svalutato, favorirebbe l’esportazione e la vendita di prodotti europei, inibendo però il consumo interno e danneggiando le importazioni statunitensi in Europa. Perciò, la parità dell’euro col dollaro non è opinabile. E meno che mai lo è una sua eccessiva svalutazione. Un’oscillazione stabile intorno ad 1,20 euro per un dollaro sarebbe ottimale. E vedrete che i mercati speculativi faranno in modo che le quotazioni se ne discostino di poco. In tal senso, la prospettiva ideale per il capitale finanziario è un’Europa ininfluente politicamente ed economicamente frazionata in macroaree continentali che in qualche modo ricordino le gilde mercantili del medioevo, con una Gran Bretagna ridotta a satellite USA.
In questa prospettiva, per azzardo, l’Europa centrale, con a capo una Germania asfissiata dalla sua stessa intransigenza rigorista, rischia di trasformarsi in una nuova Lega Anseatica: egemone a livello regionale ma dalle prospettive comunque limitate in ambito internazionale. L’Europa mediterranea, per gioco-forza, si vedrebbe invece costretta a costituire una sorta di alleanza con le varie cenerentole d’Europa, proiettando investimenti ed estendendo le sue politiche commerciali verso i paesi del Nord-Africa e la Turchia, con una difficile diarchia tra Italia e Francia a contendersi la leadership di un nuovo blocco che paradossalmente ricalcherebbe grossomodo i confini dell’antico impero romano.
Ma questa è solo un’ipotesi fantapolitica. Sostanzialmente, i mercati internazionali non si fidano dell’Europa né la ritengono un soggetto politico all’altezza delle sfide. E la disastrosa conduzione della crisi economica da parte della UE, insieme all’irrilevanza nelle grandi decisioni internazionali, difficilmente potrebbero dar torto ai detrattori di un futuro ruolo dell’Unione che nei fatti non decolla. E questo dall’altra parte dell’Atlantico lo hanno capito fin troppo bene… da almeno trenta anni! In proposito, è curioso leggere un semi-sconosciuto apologo del giornalista e politico Pierre Salinger, ex addetto stampa del presidente J.F.Kennedy, che fu pubblicato nell’Ottobre del 1982 su “Panorama Mese”: all’epoca una delle migliori riviste italiane, prima di diventare una propaggine delle varie Agenzie Stefani di Arcore. Confezionato come un immaginario memorandum consegnato a Mr President, l’apologo di Salinger ha un titolo evocativo: “L’Europa non esiste”…
«Uno dei maggiori miti del periodo del secondo dopoguerra è che esista un’entità indipendente che si chiama Europa. Con certezza si può dire che vi è soltanto una massa di territorio che per secoli è stata chiamata Europa. Ma l’Europa di cui lei ed i precedenti presidenti degli Stati Uniti hanno discorso non esiste. Infatti, per esistere, dovrebbe possedere una unità economica, politica e militare. Mentre una analisi seria di questi tre requisiti dimostra che il primo a malapena sussiste e gli altri non ci sono affatto. L’Europa è in effetti null’altro che un gruppo di nazioni sovrane, ciascuna con i propri obiettivi e con proprie ambizioni nazionali. Tali ambizioni e obiettivi sono il più delle volte contraddittori e radicati da secoli di conflitti sanguinosi. Tre almeno di queste nazioni hanno la pretesa di avere qualche ruolo nella direzione del mondo, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna. Esse l’hanno avuto un tempo, ma oggi il loro influsso individuale sulla politica globale è limitato alla loro dimensione, spogliata dagli imperi coloniali. Vi è diffidenza verso la Germania in Francia; diffidenza verso la Gran Bretagna in Francia; diffidenza verso la Francia in Gran Bretagna. Pur non essendovi una Europa, esistono tuttavia alcuni europei […] Ed essi amerebbero vedere la fondazione di un’Europa coerente. Hanno avuto qualche successo limitato. Il più recente è stato quello dell’instaurazione di un parlamento europeo eletto a suffragio universale. Pur non possedendo alcun potere reale, si tratta di un terreno d’incontro per quel piccolo gruppo di persone che credono davvero possibile la creazione dell’Europa. Ma essi vanno costantemente ad urtare contro il muro compatto della sovranità nazionale. Difatti ben poche sono le nazioni europee disposte a cedere parte delle loro prerogative nazionali ad una entità pi vasta; cosa che sarebbe necessaria alla creazione dell’Europa. E durante questo periodo di crisi economica (che va di pari passo con la peggiore disoccupazione dalla fine della seconda guerra mondiale) il continente europeo è percorso dalla crescente tendenza verso il protezionismo ed il nazionalismo, due gravi barriere che intralciano la creazione dell’Europa. […] Oggi non sembra esagerato affermare che tutto ciò che resta è una unione doganale, spesso messa in discussione dalle dispute tra i membri […] Per non parlare poi del fallimento dei paesi europei nel coordinare le loro politiche economiche, cosa che darebbe le migliori probabilità di emergere dall’attuale crisi globale. Ogni paese va per la propria strada, dalla Gran Bretagna monetarista, alla Francia socialista, all’austera Germania. Per cui, se vi è stato un sia pur piccolo progresso nell’unione economica, oggi è minacciato come non era mai avvenuto nella formazione del mercato comune. Diciamo le cose come stanno, l’unità politica europea semplicemente non esiste. E siccome non esiste, l’Europa come entità non ha influenza comunitaria nella politica mondiale. Da tempo è svanito il sogno di un’Europa che diventasse la terza superpotenza, situabile tra Stati Uniti e Russia, più legata agli USA grazie al comune terreno di libertà e democrazia, ma conservando una propria indipendenza su temi e interessi di speciale importanza per chi vive sul continente europeo. Le nazioni europee non sono state capaci di mettere insieme alcuna significativa ed efficace azione politica propria.»
«Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica che ha il mio passato, che ha la storia che ho io. Da un punto di vista personale se c’è qualcuno che ha una posizione di vantaggio questo qualcuno sono io. Quando mi siedo a fianco di questo o quel premier o capo di stato, c’è sempre qualcuno che vuole dimostrare di essere il più bravo, e questo qualcuno non sono io. La mia bravura è fuori discussione. La mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano.»
Silvio Berlusconi (7 Marzo 2001)
“Anche un maiale riesce ad arrampicarsi su un albero quando viene adulato” Yatterman(2009)
È talmente bravo, invidiato, osannato, che tutto il mondo gli ride dietro: dagli Appennini alle Ande; dal Manzanarre al Reno… scansato come un appestato nei consessi internazionali. È così capace, che pur di restare asserragliato nel suo fortino delle impunità, ha messo un’intera nazione tra le fauci del Fondo Monetario Internazionale. Fenomeno psicopatologico, prima ancora che antropologico, è il campione incontrastato del bispensiero orwelliano in continuo delirio dissociativo, dove le paranoie e le ossessioni di un ego smisurato tracimano in una distopia pornocratica, capace di surclassare qualsiasi finzione nell’oscenità del reale.
«È terribile assistere impotenti alla televisione al dramma di Genova che ha coinvolto così tante persone. Ma le parole servono a poco. Vediamo se ci sarà il modo di intervenire per evitare che quello che è successo non possa succedere più in futuro. E’ evidente che si è costruito là dove non si doveva costruire, ma forse si possono trovare interventi che scongiurino il ripetersi di questi disastri e di queste tragedie» (05/11/2011)
Magari ricorrendo all’ennesimo condono edilizio. Sarebbe il terzo dopo quelli del 2003 (Governo Berlusconi) e del 2009 (sempre Governo Berlusconi), che hanno visto schizzare l’abusivismo con la costruzione di 250.000 nuovi immobili, là dove non si sarebbe potuto costruire, opportunamente da sanare tramite la moratoria di turno. Ma la dissociazione mentale ormai incontrollabile di questo Hop-Frog fuggito dai racconti dell’incubo di E.A.Poe sembra rispondere a fasi cicliche con manie consolidate. Adesso tocca di nuovo alla moneta unica: l’Euro; odiato e amato a fasi alterne, a seconda delle instabilità emotive del momento…
«Noi siamo contrari ad un rinvio dell’euro su richiesta unilaterale italiana, sarebbe un dramma in termini di inflazione, export e occupazione.» (6 Marzo 1997)
«Con l’euro ci sono le premesse di una nuova stabilità. Diamo il benvenuto alla nuova moneta, è un’idea straordinaria che è diventata realtà. Con l’euro è stato bandito il peccato monetario.» (26 Novembre 2001)
«Qualche difficoltà l’avremo tutti, ma il vantaggio per il Paese è enorme perché tutta l’Europa, con 300 milioni di persone avrà la stessa moneta e tutti potremo operare senza incontrare difficoltà di cambio. Questo aumenterà gli scambi e le esportazioni. Soprattutto avremo una moneta forte che eliminerà i rischi di inflazione.» (27 Novembre 2001)
«L’Euro funziona, questa è una verità e incontestabile» (15 Gennaio 2002)
«Siamo tutti uniti da un comune destino. L’Euro si è imposto positivamente, diventando un simbolo dell’Europa» (16 Gennaio 2002)
«Il governo non ha posizioni di scetticismo sull’euro, non credete a quelli che lo dicono» (04 Marzo 2002)
Poi è chiaro che di fronte ai rialzi dei prezzi ed alle speculazione sulla conversione della moneta, durante il passaggio tra lira ed euro, si è guardato bene dall’attivare i meccanismi di controllo, dopo aver pervicacemente negato l’aumento incontrollato dei prezzi, ma consigliando alle massaie di prendere ad esempio la sagacia di “mamma Rosa” e delle “zie suore” nel fare la spesa. Naturalmente, quei bottegari che ora piangono miseria ne hanno approfittato in massa, premiandolo con un sostegno incondizionato.
«Con l’adozione dell’euro si sono verificati degli impoverimenti di una fascia importante della popolazione italiana[…] è colpa del cambio lira-euro che è stato fatto da quel governo» (04/11/2011)
Inutile dire che il valore di cambio dell’euro è stato deciso in sede europea, dai diciassette Paesi che aderiscono all’Unione Monetaria, sotto la supervisione della BCE, avendo come parametri le disposizioni del Trattato di Maastricht del 1992 (di scuola monetarista che tanto piace alle destre continentali). E non dai singoli governi degli Stati membri. È bene invece precisare che i meccanismi di controllo sul cambio erano rimessi all’iniziativa dei singoli governi e che, nonostante i fenomeni di rialzo inflazionistico, solo in Italia si è verificato lo scandaloso raddoppio generalizzato dei prezzi. L’euro è entrato ufficialmente in vigore il 1 Gennaio del 2002. Presidente del Consiglio italiano, già da sei mesi, era (manco a dirlo) il sig. Silvio Berlusconi: dal 11/06/2011 al 23/04/2005.
Ma a rassicurare sul contenimento dei prezzi al consumo e dell’inflazione c’era l’allora (come oggi) Ministro dell’EconomiaGiulio Tremonti (non è un’omonimo): quello che avrebbe cancellato la povertà e sconfitto la crisi con la “social card”… se la ricorda nessuno?!?
«Non ci si possono aspettare altro che effetti economici positivi. Non ci sarà nessun rischio di inflazione, in base alle nostre informazioni il pericolo non esiste» (01 Gennaio 2002)
Salvo poi ripensarci in seguito:
«L’unica cosa negativa del governo Berlusconi è stata l’euro, che non abbiamo voluto noi e che ha creato un disastro nei conti delle famiglie italiane.» (16 Marzo 2005)
Strano, perché a sentire lo statista di Arcore, tutti i meriti (come sempre) appartengono a lui, tant’è che l’euro sembra essere addirittura una sua invenzione; la più berlusconiana di tutte contro gli esecrati kommunisti che vede ovunque:
«Noi non abbiamo niente contro la moneta unica, che non si sarebbe mai fatta senza l’impulso decisivo delle classi dirigenti democratiche e liberali del continente. Quando l’Europa liberale e popolare lavorava per l’integrazione monetaria, i comunisti, le sinistre, si opponevano all’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo.» (19 Febbraio 2004)
Certo non si può chiedere coerenza di idee e prospettive ad uno schizofrenico. E davvero i posteri studieranno l’Italia, senza riuscire a capacitarsi come milioni di individui abbiano potuto consegnare il cuore e (soprattutto) il culo ad un simile caso clinico ai limiti della psicopatia.
«Ho sempre saputo che in questo paese è pericoloso avere delle opinioni. Un pericolo sottile ma controllabile… Almeno fin quando non ci inciampi»
(Alack Sinner)
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«…conto su pochi lettori e ambisco a poche approvazioni. Se questi pensieri non piaceranno a nessuno, non potranno che essere cattivi, ma se dovessero piacere a tutti li considererei detestabili…»
I commenti sono liberi, ma voi non ve ne approfittate o verrete trattati di conseguenza. E senza troppi complimenti.
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«Il bene di un libro sta nell’essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto»
(U.Eco – “Il Nome della Rosa”)
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(U.Eco – “Il Nome della Rosa”)
«Riempi i loro crani di dati non combustibili, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto sono pieni, ma sicuri di essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione di movimento, quando in realtà son fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch’è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza»
(R.Bradbury – “Fahrenheit 451”)
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(U.Eco – “Il Nome della Rosa”)
«…Scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio»
(J.L.Borges)
“Io non sono mai stato un giornalista professionista che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione, e non ho mai dovuto nascondere le mie profonde convinzioni per fare piacere a dei padroni manutengoli.”
(A.Gramsci - 'Lettere dal carcere')
“Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza, se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero degno di ogni più scandalosa ricerca”
(P.P.Pasolini)
“Nulla potrebbe essere più irragionevole che dare potere al popolo, privandolo tuttavia dell’informazione senza la quale si commettono gli abusi di potere. Un popolo che vuole governarsi da sé deve armarsi del potere che procura l’informazione. Un governo popolare, quando il popolo non sia informato o non disponga dei mezzi per acquisire informazioni, può essere solo il preludio a una farsa o a una tragedia, e forse a entrambe”
(J. MADISON - 4 Agosto 1822. Lettera a W.T. Barry)
“Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo; una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello.”
(Joseph Pulitzer)
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fortezza_bastiani@hotmail.com
Scrivere è un diritto.
Rispondere non è un obbligo
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