Archivio per Commissari straordinari

Letture del tempo presente (V)

Posted in Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , on 21 marzo 2020 by Sendivogius

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia.
[…]
Nessuno scrittore d’epoca posteriore s’è proposto d’esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l’idea che se ne ha generalmente, dev’essere, di necessità, molto incerta, e un po’ confusa: un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori (e per verità ci fu dell’uno e dell’altro, al di là di quel che si possa immaginare), un’idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d’effetto, di corso, di progressione.
[…]
Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatre anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo.
[…]
Il protofisico Lodovico Settala, ché, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione.
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, “o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste” (Tadino, ivi.); ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace. Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi: “et ci parevano, – dice il Tadino, – tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d’aceto”. S’informarono del numero de’ morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre, “si dispose”, dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato; “et mentre si compilaua la grida”, ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a’ gabellieri. Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
[…] Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla.
[…]
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri. Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano. Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.
[…] Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì. Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati.

Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio. Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati. Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, “della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe”, dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti. Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento.
[…]
Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti 700 alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all’erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore, ch’era andato di nuovo a metter l’assedio a quel povero Casale; faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica dagli altri paesi; perché trovassero il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari per via d’imprestiti, d’imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po’ alla Sanità, un po’ a’ poveri; un po’ di grano compravano: supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancor venute. Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de’ soggetti abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro, per principale, un padre Felice Casati, uomo d’età matura, il quale godeva una gran fama di carità, d’attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d’animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto. Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gl’impiegati d’ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò crescendo, v’accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando un’asta, talvolta non armato che di cilizio; animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza. Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò.
[…] Ma due fatti, l’uno di cieca e indisciplinata paura, l’altro di non so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d’un attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a’ due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere all’immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito.
[…] In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
[…] Divenendo sempre più difficile il supplire all’esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de’ decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il governatore, marchese d’Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l’imposizioni fossero sospese, come s’era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare 712 che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que’ signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren. E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo; ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni.
[…] S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: 714 e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno (P. Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d’economia politica: parte moderna, tom. 17, pag. 203.), le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito.
[…] Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.
[…]
La frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione.
[…]
Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé. Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità 721 giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, “per le diligenze fatte”, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso. Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta.
[…]
I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva. E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera.
[…]
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego.
[…]
I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione d’attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi, l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non s’adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de’ commissari, come abbiam detto; sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l’autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa.
[…]
Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell’unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità.
[…]
Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.

Alessandro Manzoni
“I Promessi Sposi”
(Cap. XXX-XXXI)

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Alla fine ci sono riusciti! Dopo due anni di purghe tremontiane, protettorati proconsolari di Bertolaso, e pasticcini alla Bondi, cominciano a vedersi i primi effetti concreti sul nostro patrimonio artistico. E così, dopo i crolli della Domus Aurea a Roma, dopo la morte de L’Aquila, trasformata in sfondo coreografico per ‘new towns’ elettorali della propaganda di regime, è ora il turno di Pompei (una volta) gioiello inestimabile della cultura mondiale.
La disintegrazione dell’antica schola armaturarum juventutis pompeiani, impropriamente chiamata “Casa dei Gladiatori”, rappresenta l’annichilente metafora di un Paese in dissolvimento.
 In merito alla vergognosa polverizzazione del complesso archeologico, il ministro-fantasma alla Cultura, il poetico Sandro Bondi, ha piagnucolato qualcosa sulla “necessità di disporre di risorse adeguate per provvedere a quella manutenzione ordinaria, che è necessaria per la tutela e la conservazione dell’immenso patrimonio storico-artistico di cui disponiamo”

MERCANTI D’ARTE
 Da quando Bondi scalda la poltrona al ministero, il suo governo ha già tagliato nel solo comparto culturale la bellezza di un miliardo e 200 milioni spalmati in tre anni, col solito decreto-legge di turno in un parlamento oramai ridotto al silenzio. Per l’esattezza, si tratta del DL 112/08 di cui avevamo già accennato in passato [QUI].
In compenso, in ossequio al nuovo corso mercantilista, l’ex manager McDonald’s Italia, attualmente pure  nel CdA della Mondadori,  Mario Resca [QUI] viene nominato “Direttore Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale”. Con esperienze pregresse nell’industria zuccheriera e nella gestione dei casinò, Resca non ha mai messo piede in un museo prima. In soldoni, la sua ricetta consiste nel rilancio delle attività di marketing e di merchandising, con campagne pubblicitarie e, soprattutto, la concessione in appalto dei servizi di accoglienza ai privati con l’affidamento separato dei servizi aggiuntivi a società di gestione.
In pratica, i comparti più redditizi vengono presi in concessione dal privato, mentre i settori in perdita vengono accollati al pubblico.
Tuttavia, l’aspetto più interessante dell’intero piano di rilancio, elaborato da Resca e dal ministero, consiste nell’affidare la conduzione dei nuovi poli museali a “commissari, che consentano di accorpare in un’unica figura competenze diverse, e le fondazioni, in grado di coinvolgere privati ed enti locali, responsabilizzandoli nei confronti delle realtà del loro territorio” (27/11/09).
Infatti, proprio nel caso degli scavi pompeiani, con una serie di ordinanze della Protezione Civile di Bertolaso (a partire dalla n.3692 dell’11/07/2008) viene disposto il Commissariamento dell’area archeologica di Pompei, con la nomina del prefetto in pensione Renato Profili, quale primo Commissario straordinario. Con una nuova Ordinanza (la n.3742), il 18/02/09 all’ex prefetto subentra il dott. Marcello Fiori del quale avevamo già parlato QUI
 Fiori (dirigente in aspettativa all’ACEA di Roma) è un sottoprodotto rutelliano, però in pianta stabile nella rete di Gianni Letta e tra i favoriti di Guido Bertolaso alla “sua” Protezione civile.
In dettaglio, il budget stanziato per la gestione commissariale ammonta a 79 milioni di euro.
 Al prefetto Profili vengono affidati 40 milioni di euro: il 90% viene speso per restauri e messa in sicurezza del complesso monumentale con progetti redatti dalla Soprintendenza archeologica di Pompei, guidata dal prof. Guzzo.
 Al commissario Fiori vengono assegnati gli altri 39 milioni. In realtà, il commissario dispone ‘soltanto’ di 21 milioni di euro perché i 18 milioni a carico della Regione Campania, di fatto, non sono mai stati erogati. Dell’intera cifra, solo il 25% vengono spesi in restauri, mentre il grosso rientra nelle spese di gestione e nelle “iniziative mediatiche” di valorizzazione manageriale.
La gestione dei fondi, sotto la delega commissariale di Marcello Fiori, è diventata oggetto di un esposto alla Procura di Napoli (20/07/2010), da parte del sindacalista Gianfranco Cerasoli, segretario generale della UIL per i Beni e le Attività culturali:

«Per quanto riguarda le attività poste in essere dal Commissario delegato Marcello Fiori la scrivente organizzazione sindacale a più riprese ha richiesto informazioni in merito all’elenco dei lavori, forniture e servizi affidati con i relativi sistemi e procedure di assegnazione nonché di conoscere il numero e l’elenco dei nominativi dello staff, le specifiche competenze possedute da ciascuno ed i compensi percepiti. A tali richieste non abbiamo mai ricevuto risposte.»

 Soprattutto, l’esposto sindacale si sofferma sui discutibili lavori di restauro e di sistemazione inerente l’anfiteatro di Pompei, affidata alla CACCAVO S.r.l, società di costruzioni di Pontecagnano, per un importo di quasi 6 milioni di euro….
Sulla vicenda, il Corriere della Sera pubblica un articolo (il 25/05/10) destinato a fare scandalo, tanto da diventare oggetto di interrogazione parlamentare al ministro Bondi.

Come e gestiti da chi, questi cantieri, non è dato saperlo. Perlomeno ci hanno provato a chiederlo i dirigenti sindacali, senza successo. Gianfranco Cerasoli della Uil ha inutilmente inviato lettere e lettere al commissario Fiori per avere lumi sull’elenco dei lavori, delle forniture, delle consulenze, dei servizi, contestando i ribassi delle gare per l’aggiudicamento dei lavori che per le rovine di Pompei sono arrivati anche al 40%. «Non spetta a Cerasoli farmi queste domande», ha così risposto ieri il commissario Fiori, seccato. E altrettanto seccata è stata la risposta di Cerasoli: «Fiori è semplicemente obbligato contrattualmente a dare le risposte nella logica della trasparenza». Fiori si è dichiarato «comunque disponibile a far vedere quello che serve, l’elenco di tutti i lavori e di tutte le procedure adottate». E sarebbe interessante vederle le procedure.
Soprattutto capire quali sono stati i criteri adottati nel ripristino dei disastrati scavi di Pompei, visto che alla fine di febbraio è stato lo stesso direttore degli scavi di Pompei, Antonio Varone, a scrivere un’accorata lettera al commissario Fiori. Segnalava Varone a Fiori «un notevole numero di edifici di Pompei antica che versano in condizioni di degrado statico», ma anche pregandolo «per l’incolumità del pubblico di provvedere alle identificazioni di murature ed immediato pericolo di dissesto statico». Quei problemi statici sono ancora lì. In compenso ora le strade a ridosso di Porta Stabia, lungo la via delle tombe pullulano di allegri cartelli colorati «Friendly Pompei», c’è scritto a segnalare un percorso di visita agli scavi realizzato con colate di cemento lungo la strada archeologica: adesso non si vedono più le lastre antiche. Ma si vedono i grandi cartelloni che segnalano la possibilità di visitare i meravigliosi cantieri della Casa dei Casti Amanti, sistemati con bob kart e betoniere, a dispetto della promessa di fare soltanto scavi a mano. Comunque sarebbe stato bello fare una visita in questi cantieri tanto celebrati. Ieri, chissà perché, erano assolutamente inaccessibili. Chiusi al pubblico.

 Alessandra Arachi
 Corriere della Sera 25/05/10
 [articolo integrale: QUI]

La difesa dell’ex commissario Marcello Fiori, supportato dal ministro Bondi, assume contorni surreali…

«Il progetto di Restauro del Teatro è stato elaborato e approvato dall’ex Soprintendente di Napoli e Pompei,  Pietro Giovanni Guzzo, e dal Consiglio d’Amministrazione in data 21/10/2003 con delibera n.1226»

E quindi si lascia supporre che l’intera responsabilità dei lavori sarebbe a carico della Soprintendenza, salvo poi specificare:

«Venne disposta, d’intesa con la soprintendenza [che però può solo protocollare gli atti commissariali senza metterli in discussione n.d.r], la redazione di un progetto di opere complementari, riguardanti prevalentemente gli allestimenti scenici e di servizio, atte a conferire al teatro Grande un’effettiva funzionalità per manifestazioni artistiche.
L’integrazione del progetto, unitamente all’accordo con la fondazione teatro di San Carlo di Napoli [teatro che però è sotto commissariamento pure lui n.d.r.] e altre istituzioni locali campane per l’organizzazione di manifestazioni permanenti di altissimo livello culturale ed artistico da tenersi presso il teatro Grande di Pompei, a partire dalla stagione estiva 2010, venne inserita nel piano degli interventi presentato dal commissario delegato ed approvato dalla commissione generale di indirizzo e coordinamento [cioé nella “struttura di missione” a nomina dipartimentale n.d.r]»

Da notare che tra le eccelse personalità, altamente competenti, della cosiddetta “commissione generale di indirizzo” fanno parte: il ragionier Giovanni Mirra, un funzionario del consorzio di gestione e manutenzione degli impianti di depurazione dei liquami; il vice-comandante della Polizia Municipale del Comune di Pompei; nonché il geometra Nicola Mercurio, sul quale torneremo fra breve….

EVENTI SPECIALI
 Tra i vari beneficiati della gestione Fiori c’è anche la “Comunicare organizzando” di Alessandro Nicosia, inserita stabilmente nel circuito delle commesse della Protezione civile, e che per la realizzazione della mostra Pompei e il Vesuvio – Scienza, conoscenza ed esperienza, in collaborazione con la Presidenza del Consiglio dei Ministri e col Dipartimento della Protezione Civile, ha percepito un finanziamento di 394.100 euro.
La Srl che da tempo gestisce (bene) gli spazi espositivi del complesso del Vittoriano a Roma, è attiva altresì nell’ambito delle pubblicazioni specialistiche, nell’organizzazione di mostre ed “eventi speciali”. Nella sua mission si può leggere:

Il patrimonio artistico e storico del nostro paese rappresenta un insieme di testimonianze irripetibili e di beni inestimabili di cui tutti devono usufruire.
Questa dimensione di fruizione collettiva è senz’altro un dato straordinario.
Il privato può supportare il pubblico non solo con interventi tecnici e strumentali, ma favorendo la fruizione di massa del bene culturale, nella ricerca quindi di una sua dimensione collettiva. Le finalità del rapporto pubblico-privato sono quindi assai ampie, e, in parte, ancora da esplorare, abbandonando logiche di tipo protezionistico, superando rapporti di tipo dialettico, e promuovendo utili sinergie fra le istituzioni, il mercato e le aziende.
L’interesse principale del Paese, infatti, non è solo quello di proteggere e salvaguardare al meglio il proprio patrimonio artistico e storico ma di attirare risorse umane e finanziarie per la valorizzazione di una creatività e di una immagine globale.
In questa filosofia si rispecchia l’attività di Comunicare Organizzando.
In ogni suo intervento, nella creazione e/o nella realizzazione di grandi mostre, conventions, iniziative di comunicazione integrata così come negli eventi di mediazione o di promozione di nuovi rapporti tra pubblico e privato.
È questa la ricchezza di competenze che Comunicare Organizzando può offrire oggi alla luce della sua lunga esperienza nel settore.

Senza nulla eccepire sulla serietà professionale della società, in questa sinergia ideale tra pubblico e privato, con un fatturato superiore ai cinque milioni di euro annui, la “Comunicare organizzando” dal Pubblico attinge copiosamente, avendo ricevuto tra il 2004 ed il 2008 circa 5,3 milioni di euro (1.950.000 euro solo nel 2006) dalla ARCUS.
La ARCUS è quello straordinario carrozzone politico, invischiato nei finanziamenti occulti a Propaganda Fide e nello scandalo-case che ha coinvolto pure il solito Bertolaso. Della ARCUS e delle vicende ad essa correlate ci siamo occupati in dettaglio QUI e vi consigliamo vivamente la lettura. A suo tempo, la ARCUS è stata oggetto di una focosa interpellanza parlamentare del leghista Massimo Garavaglia (07/06/07), ma poi la maggioranza è cambiata e allora il problema non si è più posto.

I BONDI BOYS
Come si è visto, nonostante le ristrettezze economiche, a volerli cercare i soldi si trovano… Il problema è come vengono spesi!
Secondo la lungimirante visione culturale del pacioso Bondi, “solo professionisti con capacità manageriali possono gestire a dovere, soprattutto negli appalti”.
Se l’inquietante ministro fosse meno occupato a riverire il proprio sire, forse ricorderebbe che:

«La gestione del nostro patrimonio culturale, con buona probabilità il più ricco del mondo, è stata affidata dal Governo Berlusconi ad un manager bocconiano collezionista di poltrone ed incarichi: Mario Resca.
Mario Resca prima di diventare il supermanager dei Beni Culturali era presidente e amministratore delegato di McDonald’s Italia. La sua nomina fu contestata da un raffinato storico e critico d’arte, Salvatore Settis, preside della Normale di Pisa, che si dimise al grido “una cosa sono i panini, un’altra la cultura”, mentre il consiglio superiore che presiedeva si autosospese. Ma tutto ciò non smosse il prode Sandro Bondi tanto che lui, che si professa uomo di cultura, tra la ragion di Stato e la Cultura, scelse la linea Berlusconi.
 Mario Resca ha chiesto sinora numerose consulenze. A beneficiarne sono state le solite società, non più di una decina che forniscono, a cifre astronomiche, la loro partnership e i loro consigli. I Beni Culturali si sono rivolti sinora principalmente a Roland Berger, Price Waterhouse Coopers e Boston Consulting Group.
Mario Resca ha ingaggiato anche altri tre nuovi consulenti, da aggiungere ai tanti già in organico: Claudio Strinati, Paolo Peluffo e Giuliano Urbani.
Claudio Strinati è stato soprintendente al Polo Museale romano; Giuliano Urbani è stato ministro dei Beni Culturali nel precedente governo Berlusconi; Paolo Peluffo è stato il responsabile stampa al Quirinale con Carlo Azeglio Ciampi Presidente e consigliere della Corte dei Conti.
Questa attenzione alla Corte dei Conti, che ha il compito di vigilare l’amministrazione del denaro dei contribuenti, sembra essere una vera vocazione; in organico al ministero c’è infatti anche, con uno stipendio da circa 140mila euro, Marina Giuseppone, figlia di un altro magistrato della Corte dei Conti. Ma non finisce qui.
Il Capo di Gabinetto del ministero, Salvatore Nastasi, è anche lui figlio di un giudice della magistratura contabile, Enrica Laterza. E via via una pletora di altri consiglieri, consulenti ed esperti tra i quali si possono scorgere Angelo Lorenzo Crespi e Raffaele Iannuzzi, pupilli rispettivamente di Marcello Dell’Utri e Gianni Baget Bozzo [defunto n.d.r], per arrivare all’archeologa Elena Francesca Ghedini, sorella di Nicolò Ghedini.
Ma non c’è solo la destra. La nuova holding creatasi dalla fusione tra Cinecittà e Istituto Luce è terra di conquista del centrosinistra. Il fratello di Piero Marrazzo ha avuto una consulenza per esempio, e la nuova holding è gestita da Alessandro Nicosia, amico di Rutelli e marito della cugina di Bettini [Maria Cristina Bettini n.d.r]: omone ombra di Veltroni e uomo che conta nel Pd. Consulenze su consulenze, società che “figliano” altre società per controllare questa mostra, quell’evento, quel sito archeologico e così via.
Dimenticavo la longa manus del ‘cardinale’ Gianni Letta.
Salvo Nastasi non è solo figlio di un giudice, è anche fidanzato con la figlia di Gianni Minoli, ex direttore Rai. La fidanzata è anche nipote del potente Ettore Bernabei.
Salvo Nastasi fu lanciato da Gianni Letta. Dopo ciò che è venuto fuori intorno alla Protezione Civile la prossima linea degli sprechi scandalosi potrebbe riguardare l’amministrazione e la gestione del nostro bellissimo patrimonio culturale.»

 Massimo Bencivenga  
 [fonte originale: QUI]

In questo groviglio di parentele e ginepraio di familismi allargati, l’elemento più evidente è la sfacciata predominanza di un nepotismo bipartisan e di nomine clientelari, che molto devono avere a che fare con la millantata meritocrazia berlusconiana…
I risultati di questa lungimirante visione imprenditoriale, che mercifica il nostro patrimonio artistico alla stregua di un qualsiasi prodotto capitalizzabile e di largo consumo, sono evidenti:

Se avessi la certezza di avere responsabilità in quanto accaduto mi dimetterei. Ma rivendico invece il grande lavoro fatto

 Sandro Bondi
 (07/11/2010)

In virtù di un così straordinario contributo, il ministro Bondi si è quindi augurato che una simile vicenda “non alimenti polemiche sterili e strumentali” (!!).
Di sterile c’è soltanto l’inutilità di un cortigiano in tutta la sua evidente perniciosità strumentale!

In merito agli interventi realizzati dalla gestione commissariale, il 25/02/2010 Antonio Varrone, Direttore degli scavi di Pompei, lamenta sconsolato:

“…come un notevole numero degli edifici di Pompei antica versino in condizioni di degrado statico dovuto alle malte stanche che li cementano e alle intemperie che ne sfaldano ancora di più la coesione, come frequenti rilevazioni hanno potuto appurare.
Si ravvisa la necessità di provvedere, a breve, per l’incolumità del pubblico e per la salvaguardia stessa del bene archeologico, all’identificazione di murature ad immediato pericolo di dissesto statico, onde procedere all’eliminazione dei pericoli richiamati, anche in relazione alla criticità della stagione”.

 (25/02/2010)

Occhio alle date!
Nel Maggio 2010 una nuova denuncia; Antonio Irlando, per conto dell’Osservatorio Patrimonio culturale, scrive al ministro Bondi, sempre a proposito dei lavori di restauro all’interno degli scavi di Pompei:

 Egregio Signor Ministro,
Proviamo grande difficoltà e profonda amarezza nel denunziarle quanto incredibilmente abbiamo verificato e documentato negli scavi di Pompei durante una visita seguita a diverse segnalazioni pervenute all’Osservatorio Patrimonio Culturale.
Sono in corso nell’area archeologica lavori definiti nella tabella di cantiere, “Restauro e sistemazione per spettacoli del complesso dei teatri in Pompei scavi”, che hanno sin qui comportato evidenti stravolgimenti dello stato originario dei monumenti e dei luoghi archeologici, con gravi danni al loro stato di conservazione.
L’evidenza della gravità degli interventi è facilmente e banalmente dimostrabile attraverso una rapida ricognizione dell’attuale consistenza del teatro, in particolare della cavea, che, rispetto ad una qualsiasi foto o disegno di diversi momenti della vita degli scavi, risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura.
L’intervento sul teatro è un vero e proprio inconcepibile scempio compiuto all’interno del monumento archeologico tra i più significativi al mondo.
Quanto maldestramente compiuto non può definirsi restauro (come indicato nella descrizione dei lavori) e nemmeno ricostruzione, a voler essere generosi verso le esigenze della fruizione, ma costruzione ex novo dell’intera gradinata, di cui è stata sempre ed unicamente documentata la sola presenza, ancora visibile in loco, di un tratto in pietra di colore chiaro che gli ottimi archeologi della Soprintendenza di Napoli e Pompei, ben conoscono.
Gli interventi compiuti sono in evidente contrasto con i principi internazionali sulla conservazione del patrimonio storico artistico e con le norme che regolano e tutelano il patrimonio archeologico italiano.
Altri interventi sul teatro e sull’area della “Caserma dei Gladiatori” hanno riguardato opere murarie particolarmente invasive, non classificabili tra le categorie del restauro conservativo. Sono evidenti, portandosi semplicemente nelle aree limitrofe al cantiere, alcuni spregiudicati interventi che sinteticamente descriviamo:
a) realizzazione di forature di muri per l’attraversamento di larghi tubi porta cavi;
b) scavi di trincee, ampie e profonde, a ridosso di murature strutturali e all’interno di ambienti del teatro romano, per la posa di svariati e particolarmente lunghi tubi e di numerosi ed ampi pozzetti di transito, il tutto ancorato, in area archeologica, con gettate di cemento necessarie  per infrastrutturare il teatro antico come se fosse un teatro costruito ex novo;
c) realizzazione di un palco invadente e sovradimensionato rispetto allo spazio antico esistente, che travalica e sovrasta l’antica scena, occupandone prepotentemente anche l’emiciclo anteriore, rendendo impossibile la fruizione del teatro antico da parte delle migliaia di visitatori che quotidianamente visitano Pompei;
d) posa in opera di ampi ed invasivi tralicci tecnici;
e) Realizzazione di ampie e spesse platee di cemento, armate con reti metalliche elettrosaldate, tipiche di interventi di edilizia civile, lungo i lati del portico perimetrale, al di sotto delle quali sono stati posati numerosi cavidotti, affioranti a distanze prestabilite, dove , al momento del sopralluogo a distanza, erano in corso perforazioni del massetto cementizio con l’ausilio di martelli pneumatici, proprio a ridosso delle fragili murature antiche;
f) Realizzazione di numerosi locali prefabbricati, ancorati a basi di cemento,  collocati nel perimetro degli antichi locali che si aprivano lungo il quadriportico, compromettendone la fruizione diurna del pubblico;
g) Realizzazione di moderni locali bagno, ricavati dalla trasformazione di ambienti archeologici. Gli scarichi dei nuovi bagni sono recapitati in un’area retrostante, interessata dalla presenza di ambienti archeologici, dove sono stati eseguiti due profondi scavi con l’ausilio di una pala meccanica, dove si ritiene che verranno allocati pozzi neri, di cui sono visibili su un lato del cantiere grandi anelli cementizi.
Ala luce di quanto segnalato Le chiediamo un immediato intervento per scongiurare ulteriori devastazioni e accertare le eventuali responsabilità dei danni causati al patrimonio culturale della Nazione. Si chiede altresì il ripristino dello stato originario dei luoghi e il conseguente restauro conservativo, necessario perché le esigenze legittime della valorizzazione degli scavi non prevarichino i fondamentali interventi di tutela e conservazione degli scavi di Pompei.

L’entità dello scempio è tale da lasciare esterrefatti. La qualità degli interventi indirizzati unicamente alle prospettive di cassa e di utilizzo potenziale nella più gretta ottica di mercificazione:

Ci si comporta, in quella zona, come si farebbe in qualunque area di ristrutturazione. Insomma, in quel luogo si lavora, si ristruttura e si agisce con l’unico obiettivo di trasformare velocemente gli scavi in un business. Non siamo contrari al fatto di rilanciare l’area archeologica, anche in termini turistici e commerciali, ma ciò non può essere fatto a scapito della tutela di quei beni.
(…) Da quando gli scavi di Pompei sono stati commissariati, sembrano saltati tutti i meccanismi di normale procedimento: non si capisce bene chi ha il diritto di entrare e di uscire dagli scavi e chi deve dare conto di che cosa.”

(Giugno 2010)
Luisa Bossa (PD)
Ex sindaco di Ercolano

Alle preoccupate rimostranze, che gli ultimi crolli dimostrano quanto siano giustificate, l’imperturbabile ministro Bondi rassicura:

«Credo necessario, inoltre, sottolineare che il responsabile unico del procedimento e il direttore dei lavori sono, rispettivamente, un archeologo e un tecnico della Soprintendenza, a loro volta affiancati da un direttore operativo e da un ispettore di cantiere, anch’essi interni all’amministrazione dei beni culturali.»

Nella fattispecie, è lecito temere che il buon Bondi stia alludendo al geometra Nicola Mercurio.
Mercurio fa parte di quelle straordinarie professionalità che affiancano il commissario Fiori nella struttura emergenziale di intervento. Nato il 12 dicembre 1973 a Sant’Antonio Abate, dove è capogruppo consiliare del locale PdL, nonché “imprenditore nel settore del commercio”… più prosaicamente, è titolare della cartolibreria del paese… è un galoppino politico che si arrabatta come meglio può.
 Secondo l’agiografia ufficiale, “coerente con le sue idee di cattolico liberal-democratico, è politicamente un self-made man”; all’atto pratico sembra abbia lavorato come collaboratore e (secondo i più malevoli) come autista di Nicola Cosentino. Soprattutto, è coniugato con Filomena Mercuzio, accomandataria per la campagna elettorale alle regionali di Luciana Scalzi, caposegreteria di Denis Verdini.
A chi gli chiede di cosa si occupi esattamente all’interno dello staff commissariale risponde:

«Diciamo che seguo i lavori sui cantieri, mi occupo di rapporti con i sindacati, insomma tutto quello che il dottor Fiori mi chiede di fare, io faccio»

Tuttavia per le consulenze tecniche, circa gli interventi di restauro, Marcello Fiori ha potuto consultarsi anche con un’altro enfant prodige. Parliamo del dott. Salvatore Nastasi (classe 1973), barese trapiantato a Roma, funzionario amministrativo e capogabinetto del ministro Bondi. In qualità di responsabile della direzione generale per la gestione spettacoli, è specializzato nella conduzione commissariale degli enti teatrali. Già subcommissario di Angelo Balducci per la ricostruzione del Teatro Petruzzelli di Bari

“Egli stesso è stato commissario al Maggio Fiorentino e al teatro San Carlo di Napoli, dove ai lavori di restauro ha partecipato Pierfrancesco Gagliardi, quello che sghignazzava con suo cognato Francesco Piscicelli la notte del terremoto all`Aquila. Dipendente del ministero al settimo livello, questo Nastasi stava per diventare direttore generale senza concorso, per decreto, con un emendamento ad personam del senatore Antonio D’Alì.”

 Alberto Statera
 La Repubblica
 (27/02/2010) 

Salvo Nastasi è però anche commissario straordinario del Teatro S.Carlo di Napoli e dunque gestisce gli interventi strutturali sul restauro del teatro romano di Pompei, in rappresentanza della Fondazione S.Carlo.

E qualcuno ancora si meraviglia…

* * * * * * * * *

§ Articoli collegati:

Gli Schifosi
(sulla banda Balducci-Anemone)

L’Uomo con la tuta
(Bertolaso e la Protezione civile)

 Gli Amici degli Amici
(ARCUS ed i finanziamenti impropri di Propaganda Fide)

 La tela del ragno
(la ragnatela sotterranea di affari e clientele di Gianni Letta)

La Cura
(La cultura a destra)

Decreti e Grimori
(Accenni sul DL 112)

Homepage

LA TELA DEL RAGNO

Posted in Business is Business with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 8 marzo 2010 by Sendivogius

Ci sono autori che, confinati tra i polverosi scaffali delle biblioteche accademiche, andrebbero invece riscoperti e divulgati con pubbliche letture. Profetici quanto e più di Nostradamus, senza doversi inventare astruse quartine, sono sicuramente meno ermetici nelle loro previsioni e, soprattutto, ci azzeccano!
 È il caso di
Charles Wright Mills, un prof. texano (1916-1962) che indirizzò i suoi studi sui meccanismi che determinano la stratificazione sociale, soffermandosi in particolare sulle trasformazioni della struttura di classe, a superamento della vecchia concezione marxista.
L’opera di Mills è interessante per diversi motivi…
In primo luogo perché focalizza l’attenzione sull’emergente classe media di lavoratori dipendenti dei quali studia la psicologia sociale ed i valori di riferimento, sottolineandone l’individualismo conformista e l’intrinseca incapacità di porre azioni politiche organizzate.
In secondo luogo perché analizza la concentrazione elitaria del potere su base gerarchica, in riferimento agli intrecci economici e politici delle società capitalistiche. E facendo il verso ai teorici dell’oligarchia (Michels, con gli italiani Mosca e Pareto) arriva alla conclusione che “l’appartenenza al vertice del potere deriva da posizioni istituzionali che vengono occupate, con una continua osmosi fra gerarchie, da un gruppo ristretto per il quale esse diventano una sorta di bene ereditario”.

I gruppi di potere così strutturati si suddividono per sfere di interessi il controllo dell’apparato statale; di quello militare, che si regge sulle commesse pubbliche; e delle società da capitale, sempre più avviate a ritagliarsi un ruolo autonomo e correlato come potere a sé stante.
Requisiti fondamentali per la tenuta del gruppo (o delle ‘cricche’) sono una forte coesione interna, meglio se spalmata su base familiare, dettata dalla comune estrazione sociale e da un sistema di idee condivise.
Le elite, per loro stessa natura, tendono a riprodursi, attraverso una rete di relazioni personali, volte alla conservazione del potere acquisito, sulle basi privilegiate proprie del sistema oligarchico. Godono delle rendite di posizione, ma di proprio rischiano pochissimo. Inutile dire che l’oligarchia sta alla democrazia, come la merda sta alla cioccolata.

L’Italia è tutta un club. Un immenso Rotary. Il vero potere è nella corporazione. Nella rete. Per avere successo, o semplicemente garantirti un futuro certo, devi iscriverti.
(…) L’immobilismo è la chiave che permette alle lobby di beneficiare in eterno delle loro prerogative indiscusse. Così l’imperativo diventa: non cambiare, ancorarsi al passato e trasmetterlo alle nuove generazioni di eletti.
(…) La mediocrità si organizza in reti per due ragioni essenziali. In primo luogo da solo nessuno è mediocre: la mediocrità emerge se è possibile un confronto e se c’è competizione. Almeno in potenza. In secondo luogo le reti rafforzano e si nutrono della mediocrità rendendola ‘absoluta’, sciolta da tutto quello che non rientra nel suo mondo di riferimento, avulsa da chi non ne condivide le regole.
(…) Quando le reti lavorano per modificare la società, lo fanno soprattutto per adattarla alle proprie esigenze.

 Antonello Caporale
Mediocri
BCD – Milano 2008

In un paese curtense come l’Italia, consacrato all’immobilismo sociale ed al perseguimento del proprio particulare, l’origine primigenia del “potere” risiede in un semplice, ma fondamentale, principio di casualità: nascere nella famiglia ‘giusta’. Ogni sforzo futuro sarà la preservazione parassitaria di quanto ereditato per diritto di casta e la sua trasmissione ereditaria. A ciò si aggiunge un’oculata politica di alleanze, e la creazione di una rete interattiva di protezioni, coltivando le amicizie utili nel gruppo dei pari. Per questo esistono i Circoli privati e Club esclusivi (la massoneria è solo una loro proiezione esotica), i Cenacoli editoriali, e soprattutto la Curia pontificia. La captatio benevolentiae di qualche monsignore, ben inserito all’interno delle gerarchie vaticane, è fondamentale in una società clientelare che, dietro i paraventi della devozione religiosa, ammassa i denari sottratti a Cesare. Con i crediti giusti, pochi uomini di talento che rispondano ai requisiti della “Triple C” e che sappiano muovere con perizia i singoli pezzi possono gestire a piacimento il gioco.

IL CARDINAL VICARIO
 Colui che ha fatto della compenetrazione oligarchica un’arte, curando l’interazione armonica dei singoli segmenti, è sicuramente Gianni Letta: il raffinato maestro del cerimoniale di corte, il gran ciambellano degli occulti concistori tra politica e affari, il furbo cultore delle relazioni informali.
Perfetto erede del potere democristiano di fede dorotea, Letta è il Magister Officiorum dell’imperium berlusconiano. All’ombra dell’Imperatore, ha saputo costruirsi la sua personale rete di potere parallelo, che gestisce tramite i canali vischiosi della diplomazia sotterranea. In questo, Gianni Letta assomiglia molto a quegli spregiudicati cardinali dall’intelligenza sulfurea, che gestivano il regno per conto del Re Sole nella Francia dell’ancien regime. Del periodo l’affettato sottosegretario abruzzese (è nato ad Avezzano nel 1935) sembra conservare il gusto per le ciprie e le acconciature scolpite, che conferiscono al personaggio quell’aspetto plastificato da museo delle cere. Dunque falso.
Ma l’intrigante Visir del Sultano è anche l’architetto dell’eccezione permanente, strutturata nel ricorso esasperato alle “ordinanze” immediatamente esecutive e sottratte ad ogni vaglio preventivo di costituzionalità. Prodotto naturale di questi moderni decretalia regi  sono  i commissari straordinari: i nuovi Federali nel regime delle emergenze che, con un accorpamento di poteri senza eguali, esautorano gli equilibri del controllo democratico, in nome dell’urgenza per decreto. Fedele sacerdote della teologia del ‘fare’, Letta ha consolidato la sua influenza tramite un sistema capillare di proconsolati: collettori di affari e centraline di collegamento che trasformano le istituzioni in protettorati personali.

IL PRANZO È SERVITO
 Anfitrione d’eccezione, Gianni Letta ha reso la buona tavola molto più di un momento conviviale… Il luogo ideale dove il ragno tesse i fili impercettibili della sua tela… Come negli antichi banchetti, l’aristocratico sottosegretario ha trasformato la mensa domestica in naturale prosecuzione della politica e occasione per accordi trasversali. Famose sono le cene romane di casa Letta. Famosissima la cena del giugno 1997 che imbrigliò nel cosiddetto “patto della crostataMassimo D’Alema: lo stratega fallito delle guerre perdute.
Ma il culto per i piaceri della cucina è anche, e soprattutto, una lucrosa tradizione di famiglia…
Condurre un’impresa commerciale non è mai cosa facile. Certo, se puoi contare su appalti blindati e canali privilegiati, il lavoro sarà molto più semplice… Di sicuro, ne sanno qualcosa alla Relais le Jardin: il giardino nel cuore del ragno, per vecchie abitudini che non cambiano.
Relais le Jardin, azienda specializzata nel catering di lusso, è la fortunata creatura della famiglia Ottaviani. Esponenti del generone romano, già proprietari dell’hotel Byron al quartiere Parioli, gli Ottaviani hanno consolidato parte delle loro fortune nel mercato della ristorazione. A dirigere l’attività della Relais sono i rampolli del casato, Stefano e Roberto, ma ai fondamentali rapporti istituzionali provvede la consorte di Stefano Ottaviani, ovverosia Marina Letta e quindi, per interposta persona, l’onnipotente papà Gianni. Non è un caso che il catering di famiglia si sia aggiudicato le più ricche commesse pubbliche degli ultimi 10 anni, dai vertici internazionali ai ‘Grandi Eventi’ confezionati su misura per le necessità della ditta.
Alla Relais è stata affidata la cura delle mense, per rifocillare gli augusti convenuti agli inconcludenti (ma costosissimi) summit diplomatici, che riempiono l’album fotografico del Sultano.
Nell’ordine:
Il sanguinoso G-8 di Genova  (2001).
Il pacchianissimo vertice NATO a Pratica di Mare (2002), dove Re Silvio illustrava agli ospiti le gesta di Romolo e Remolo. Per l’occasione, la Relais incassò 414.000 euro.
La Conferenza intergovernativa di Roma (2003), per la firma dei Trattati europei.
I vari congressi tenuti durante il semestre di presidenza italiana della UE.
Il G-8 2009 nella caserma di Coppito (AQ), il più costoso ed inutile della storia, per il quale la Relais le jardin ha intascato dalla Protezione Civile di Bertolaso, la modica cifra di un milione e 65 mila euro.
Ad ogni buon conto, gli affari sono strettamente legati alle entrature del premuroso papà Gianni, tanto da poter dire che dove c’è Letta c’è Relais le jardin.
Promotore delle Olimpiadi a Roma per il 2016 (un’altra ghiotta cuccagna per speculatori e palazzinari di ogni risma), reggente per il consiglio d’amministazione dei Mondiali di nuoto di Roma 2009 durante i quali molto si è data da fare la cricca Anemone-Balducci (15 impianti privati su 17 sotto sequestro per abusi), Gianni Letta è l’uomo dei grandi Circoli sportivi della Capitale: vere confraternite per la cogestione sotterranea del potere.

GOLDEN CLUB
 Tra le sue molte iscrizioni, Letta è socio del Circolo Canottieri Aniene. Si direbbe in ottima compagnia, visto che tra gli illustri tesserati ci sono: Vittorio Silvestri, revisore alla Corte dei Conti; Gianni Petrucci, eterno presidente del CONI; i costruttori della famiglia Toti e soprattutto Francesco Gaetano Caltagirone, suocero di Casini ed editore de Il Messaggero. Caltagirone, con partecipazioni azionarie all’ACEA (sarà lui a beneficiare della privatizzazione dell’acqua a Roma), dopo aver scaricato l’accoppiata Veltroni-Bettini che pure l’avevano ingrassato fin quasi a scoppiare, è diventato il grande sponsor del sindaco Alemanno. Ma nel circolo si possono incontrare anche Giulio Andreotti; Cesare Romiti e Luca Cordero di Montezemolo; Angelo Rizzoli e Carlo Toto; Gianni Alemanno e Andrea Ronchi. E fino a poco tempo fa, pure Marrazzo.
Presidente del Circolo Aniene è Giovanni Malagò, altro grande esponente del potere trasversale, al quale il buon Gianni è legato da antica amicizia.
Ebbene, per conto del CONI, la Relais gestisce il Bar del Tennis al Foro Italico.
Per conto della FNI (Federazione Italiana Nuoto) si è aggiudicata l’appalto per le forniture ai Mondiali di nuoto (Giugno 2009).
Per il Comune di Roma sotto la podestà di Alemanno, la Relais provvede ai pasti in Campidoglio e organizza i servizi del cerimoniale del Comune. Fornisce i servizi di catering e caffetteria ai Musei Capitolini (canone annuo: 80.000 euro). Rifornisce la Fiera di Roma, le Scuderie del Quirinale. È presente nei servizi all’Ippodromo delle Capannelle, e non manca nella ristorazione della tribuna d’onore dello stadio Olimpico. Ma provvede a gestire anche i 6 bar dell’Auditorium di Roma nel cui CdA, guarda caso, siede Gianni Letta.

I ricavi della società gestita dal genero di Letta in pochi anni hanno superato i 20 milioni di euro l’anno. Tutti sanno che i proprietari sono gli Ottaviani, ma le quote societarie oggi sono in mano alla Immobiliare Villa Miani 90, dal nome del palazzo di via Trionfale che ospita congressi dei politici di ogni schieramento. Impossibile sapere di chi è la società: si finisce in un dedalo di sigle anonime del Lussemburgo e di altri paradisi fiscali come Tortola e le Bahamas.”

 ‘No Letta No Party’
di Emiliano Fittipaldo
 L’Espresso – 26 febbraio 2010

Ispiratore e promotore delle ordinanze che trasformano la Protezione civile in un network di commissari proconsolari alle sue dirette dipendenze, Gianni Letta ha costruito attraverso la formula dei “Grandi Eventi” una ragnatela dalle mille opportunità. Testa di cuoio di questo progressivo scardinamento democratico, è il suo plenipotenziario alla Protezione Civile: Guido Bertolaso, “il Batman arrogante e litigioso dei cataclismi” (Massimo Falcioni), avviato verso l’empireo degli onnipotenti.

CHERCEZ LA FEMME
 La pioggia di miliardi che si è riversata nelle casse della nuova Protezione civile, sciolta da ogni controllo preventivo e con totale libertà di spesa, è una greppia troppo ghiotta, per starci lontano. Tuttavia, ci sono persone con le quali il felpato Letta evita accuratamente ogni contrasto, perseguendo le rodate vie della cooptazione condivisa, in vista dei comuni interessi. È il caso di Umberto Vattani, l’inamovibile presidente dell’ICE.
[Di Vattani & Family abbiamo già parlato QUI.]
Le fortune della Relais le jardin sono infatti strettamente correlate con la Triumph di Maria Criscuolo, general contractor negli eventi organizzati dalla Protezione civile. Insieme, le due aziende hanno creato il consorzio NEXXI e monopolizzano la quasi totalità dei servizi catering, legati ai meeting di Stato.
La Criscuolo, 48 anni, ex interprete dell’ambasciatore USA in Vaticano, insieme a Vattani ha gestito l’accoglienza al G-8 di Genova. Un’esperienza imprenditoriale che per l’intraprendente ambasciatore col pallino per gli affari si risolse in un crack colossale. Sulle gesta di Vattani potete leggere QUI e anche se purtroppo l’articolo originale non è più disponibile, qualcosa si può comunque recuperare…

«Le toghe rosse sono sempre in agguato. E, visto che Silvio Berlusconi è un osso duro, se la prendono con un pover’uomo come l’Ambasciatore Umberto Vattani che, dopo una carriera brillante e prestigiosa all’ombra di consolati e ambasciate, è ora alla guida dell’ICE, l’ente che sviluppa e promuove i rapporti economici e commerciali italiani con l’estero e l’Italia nel mondo. Vattani è un italiano vero: generoso, elegante, simpatico. Un infaticabile servitore dello Stato. Ai tempi del governo di centrosinistra, contribuì con grande fatica ad evitare che l’Italia avesse la grave seccatura di divenire membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E durante il governo Berlusconi si prodigò in ogni modo per non informare l’allora ministro Frattini dell’uccisione di Quattrocchi in Iraq, mandandolo in diretta allo sbaraglio a “Porta a Porta” a negare il fatto mentre le agenzie di stampa avevano già battuta la notizia. Insomma, un uomo senza pari, anche se con molti dispari. Forse è per l’invidia degli uomini cattivi di cui è pieno il mondo che su quest’uomo tutto di un pezzo ogni tanto sono piovute accuse tanto ingiuste quanto infamanti. Una volta un tale insinuò in Parlamento che all’epoca del G8 di Genova, Vattani, gestore dell’evento, affidò ad un semisconosciuto armatore greco-genovese, Georges Poulides, l’appalto per le navi che ospitarono 7 degli 8 grandi della terra, per un costo per lo stato di 6 miliardi e mezzo di vecchie lire, e casualmente subito dopo fondò assieme a lui una Fondazione (la “Fondazione festival”) per l’organizzazione di eventi mondani e di crociere di lusso. Purtroppo l’iniziativa naufragò miseramente con un crack da 800 milioni di euro, 300 lavoratori licenziati, 260 imprese non pagate per le forniture, una ventina di banche con crediti non saldati, migliaia di turisti che ancora chiedono (sfrontati!) il rimborso degli anticipi versati. Tutte calunnie, naturalmente. Ma le calunnie sono come le ciliegie: una tira l’altra. E così, ecco il nostro povero ambasciatore coinvolto in un’inchiesta della procura di Potenza su una cordata di imprenditori associati nell’iniziativa E-noi, con la quale si voleva commercializzare il gas tunisino in Italia. Nel corso delle indagini, violando la sacrosanta privacy di tanti onesti cittadini, furono disposte numerose intercettazioni che nominavano Umberto Vattani, allora segretario generale della Farnesina, riguardo presunti favori e relativi compensi. Umberto Vattani naturalmente non conosceva nessuno di questi signori, anche se li incontrò – ovviamente per puro caso – il 20 febbraio 2003 all’Harry’s Bar di Via Veneto. Dando credito a queste calunnie infamanti quel pazzo comunista del Pm Woodcock aveva chiesto addirittura l’arresto del povero ambasciatore-martire. Per fortuna, il giudice per le indagini preliminari respinse la richiesta di arresto e passò tutto l’incartamento nelle nebbie della procura di Roma. Fu proprio durante l’indagine sul gas tunisino che i finanzieri del Gico ebbero l’autorizzazione di intercettare le conversazioni telefoniche del nostro povero ambasciatore. Una indegna intrusione nella privacy di quest’uomo retto e tutto di un pezzo. Questi ficcanaso registrarono qualche piccola, breve e insignificante telefonatina. Precisamente 264 telefonate per una durata complessiva di 52 ore e 26 minuti, con un costo di circa 25 mila euro, fatte da Umberto Vattani, sempre come Segretario generale del Ministero degli Esteri verso gli uffici di Bruxelles. Il nostro ambasciatore aveva lavorato in quegli uffici, e ne serbava un ricordo meraviglioso. Per questo telefonava “a spese dello Stato più volte e a qualunque ora, anche di sera tardi e nei giorni festivi” ad una gentile signora che lavorava in quell’ufficio: per ricordare con lei i bei tempi andati. Purtroppo le donne italiane sono belle, ben odoranti e benvestite, ma non sempre gradiscono le offerte dei cavalieri. La signora non cedeva, e Vattani continuava a telefonare. E quegli insensibili dei sostituti procuratori Angelo Antonio Racanelli e Giuseppe De Falco ne chiesero il rinvio a giudizio: perché “l’alto funzionario della Farnesina avrebbe abusato della relazione d’ufficio per compiere le telefonate per motivi libidinosi e quindi biasimevoli“. La signora, sentita dai magistrati in istruttoria, si rivelò effettivamente un po’ infastidita dalla continue chiamate dell’ambasciatore. Ma si sa come siamo noi italiani: l’uomo è cacciatore e ha il diritto di chiedere. Quindi, il GUP decise di archiviare l’accusa per molestie. Che per discolparsi disse “da una semplice lettura delle conversazioni risulta la mancanza di qualsiasi costrizione e il tono assolutamente scherzoso delle telefonate stesse”. Le telefonate c’erano, ma erano un innocente scherzetto. E poi, come dice un vecchio detto, Ambasciator non porta pene! Il GUP però non archiviò le accuse per peculato e rinviò a giudizio il povero Vattani: perché le sue telefonatine l’Ambasciatore avrebbe almeno dovuto farle a sue spese. La storia non finì qui. Gianfranco Fini, allora ministro degli esteri, saputo del coinvolgimento dell’alto funzionario in questa vicenda, e anche se era sicuro della buona fede di Vattani, decise a malincuore di prendere i “provvedimenti del caso“. Impietosito dal fatto che si trattava pur sempre di un bravo ed onesto padre di famiglia (i bravi italiani tengono sempre famiglia), e soprattutto pensando che dalle escort all’export la differenza non è poi molta, il “provvedimento del caso” fu la decisione di nominare l’ambasciatore rinviato a giudizio per peculato alla presidenza dell’Istituto per il Commercio Estero. Il nostro povero ambasciatore come tutti gli innocenti, in questi anni ha cercato di difendersi dalle false accuse costruite ad arte contro di lui dalle toghe rosse. Ha dimostrato, ad esempio, che è normale che i diplomatici all’estero facciano un po’ di confusione con l’imputazione delle spese, e che comunque lui, con grande rettitudine, le aveva rimborsate. Solo che – forse per la troppa ansia di dimostrare la sua innocenza – portò in procura la documentazione dell’avvenuto pagamento di 11.650 euro per telefonate che nulla centravano con il caso in questione. Mettendo nei guai anche un altro povero innocente, il capo contabile della sede diplomatica di Bruxelles, Bernardo Salaparuta, incriminato a sua volta per falso e favoreggiamento nei confronti di Vattani perché secondo la procura “i tempi dei pagamenti non corrispondevano, erano stati fatti quando già le indagini erano partite”. Una coincidenza, naturalmente, ma i magistrati comunisti non ci hanno voluto credere. Vattani comunque, incurante del processo e con la coscienza limpida di chi nulla deve temere, ha continuato a portare l’immagine dell’Italia nel mondo: un plurindagato, in attesa di giudizio, guascone e cacciatore di belle donne. Insomma, un perfetto italiano degli anni 2000. Nel frattempo ha lavorato alacremente sulla vicenda dell’Expo 2015 e, da bravo italiano che si rispetti, ha avuto l’immensa soddisfazione dell’importante incarico assegnato ad un ragazzo di nome Mario Andrea Vattani, uno che chiama l’ambasciatore Umberto Papy, e che Gianni Alemanno ha nominato, per la modica cifra di 488 mila euro annui, Consigliere Diplomatico per le relazioni internazionali del Sindaco di Roma


La TRIUMPH è una srl che organizza eventi a livello internazionale ed è attiva sul mercato dal 1986, quando la società si occupava della ristorazione nei convegni di medicina per poi specializzarsi in comunicazione promozionale e grandi eventi. Ciò vuol dire che la Criscuolo, che si definisce “imprenditore di prima generazione”, ha avviato la sua attività poco più che ventenne. Lei stessa la racconta così:

Ho iniziato 21 anni fa nel mondo dell’organizzazione degli eventi e della comunicazione, oggi presiedo un gruppo che è presente in Italia, in Belgio e in Cina, che si occupa di comunicazione intesa come comunicazione integrata, nel senso che all’interno del gruppo ci sono una serie di realtà aziendali che vanno dal mondo dell’organizzazione congressuale, al mondo della comunicazione intesa come comunicazione di prodotto, a tutta quanta l’organizzazione di eventi istituzionali, quelli che magari si vedono in televisione, quali il G8, il vertice della NATO, il semestre di presidenza. Fino ad una compagnia di viaggi che fa prevalentemente incentivazione, dunque nella realtà è una incentive house per aziende e a un quarto settore, assolutamente importante, che oggi è anche molto di moda, che è quello della promozione integrata tra la promozione di prodotto e la produzione territoriale, quello che noi diciamo oggi ‘promuovere il made in Italy’, che sarebbero più realtà insieme.”

  (23 agosto 2007)

E che è prerogativa di Umberto Vattani (aggiungiamo noi). Con un centinaio di dipendenti la società fattura circa 28 milioni di euro all’anno. Una parte davvero cospicua dei guadagni arriva però con le commesse della Protezione civile, tant’è che al famoso vertice a Pratica di Mare (27/05/2002), la Triumph si porta a casa la bellezza di 7 milioni 45 mila euro soltanto per le attività connesse all’organizzazione, gli allestimenti, la ristorazione, le fotocopiatrici, gli interpreti. E ne rigira 414.000 alla RLJ degli Ottaviani. Nel recente G-8 de L’Aquila, pare che le due società si siano ritagliate un milione a testa. Naturalmente, tutti gli appalti avvengono per assegnazione diretta e senza gara.
Soprattutto, il Gruppo Triumph naviga nell’orbita della Compagnia delle Opere, braccio economico di Comunione e Liberazione. E proprio i favori a CL sono costati a Letta, nel novembre 2008, una denuncia per turbativa d’asta e truffa aggravata, in merito alla fornitura di pasti ai centri di prima accoglienza per gli immigrati richiedenti asilo.

Il Caso FIORI
 Tra i protege di Letta e Bertolaso c’è sicuramente Marcello Fiori, 50 anni, attualmente dirigente presso la Presidenza del Consiglio. Le fortune di Fiori conoscono una svolta per grazia ricevuta, in concomitanza col Giubileo del 2000. Successivamente, approda nei munifici uffici della Protezione a guida Bertolaso, fino a diventare responsabile dell’Ufficio Emergenze.
Nel febbraio 2009 (ordinanza n. 3742) Bertolaso lo fa nominare “Commissario delegato per la realizzazione di interventi urgenti e necessari per il superamento di grave pericolo in atto nell’area archeologica di Pompei”. La carica prevede deroghe amplissime al codice degli appalti e dei regolamenti urbanistici, con un portafoglio già stanziato di 40 milioni di euro. Sono tutti soldi sottratti al ministero dei Beni Culturali ed alle Sovrintendenze archeologiche. Ma gli obiettivi sono fumosi e privi di indirizzo, a parte caldeggiare l’ingresso dei privati nella gestione del patrimonio culturale nazionale. E in tale prospettiva, l’iniziativa può essere riconducibile ad un più ampio programma di privatizzazione, che non riconosce ai beni artistici nessun valore se non quello d’uso.
Il 30/07/09 i poteri del Proconsole vengono ulteriormente ampliati con l’ordinanza 3795 che esautora di ogni funzione le Sovrintendenze di Pompei e di Napoli, “per il superamento della situazione di emergenza” che (opportunamente) continua a restare indefinita. Per questo, dopo più di un anno e svariati milioni già spesi, viene istituita una ‘Commissione d’indirizzo’ dalla quale vengono escluse le sovrintendenze!
È una sorta di esperimento in progressione, che continua tutt’ora: militarizzazione del territorio, discontinuità democratica, prosciugamento delle prerogative degli enti territoriali, eccezione normativa.
Marcello Fiori è il tipico esponente di quella rete trasversale, che troppo spesso incrocia il cammino del Cicoria e degli ex Margheriti

Fiori ha una laurea in lettere e nessuna esperienza con alluvioni e terremoti. Un passato di portavoce dell’Acea, l’Azienda elettrica di Roma, nel 2007 è segretario generale del ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni.
Il suo nome appare il 22 marzo 1999 in una lettera di raccomandazione firmata da Francesco Rutelli, di cui allora è vice capo di gabinetto. Il sindaco-commissario per il Giubileo chiede al segretario generale della presidenza del Consiglio, Paolo De Ioanna, di affidare a Fiori l’incarico «di coordinare le attività nell’azione di lotta al degrado ambientale, ai fini della salvaguardia del decoro nella città di Roma». Sospinto da Rutelli e Bertolaso, farà strada. Fino ai rifiuti di Napoli. Prima però Fiori diventa responsabile dell’ufficio emergenze della Protezione civile. La notte del 26 dicembre 2004 la sala operativa di via Vitorchiano lo sveglia per avvertirlo del fortissimo terremoto registrato dai sismografi di tutto il mondo e del successivo maremoto. Dove? In Indonesia, rispondono dalla sala operativa. Va bene, buona notte.
Qualche ora dopo Gianni Letta, chiamato dal ministero degli Esteri, butta giù dal letto Bertolaso che ancora non sa nulla. La regola prevede che sia il capodipartimento ad informare il governo. Questa volta succede il contrario. Ci sono migliaia di turisti italiani ed europei di cui non si hanno più notizie. Bertolaso vuole fare tutto da solo. Gestisce i soccorsi e i 16 milioni e 156 mila euro raccolti dagli italiani con l’idea degli sms. Snobba perfino il ministro degli Esteri. Il capo della Protezione civile fa decollare due Canadair del servizio antincendio, Can 23 e Can 24. Sono aerei inadatti alle operazioni di lungo raggio. Non superano i 365 chilometri orari di velocità e le 6 ore di autonomia. Quanto tempo impiegano per arrivare in Sri Lanka lo racconta una scheda sul sito della presidenza del Consiglio: «Partiti dall’Italia il 31 dicembre e arrivati a destinazione dopo quattro giorni di volo». L’aereo è progettato per scaricare acqua. Non ha spazio per trasportare materiali. Così a ogni missione vengono recapitate soltanto 6 tende. Alla fine i piloti accumulano 452 ore di volo di cui 59 ore per distribuire soltanto 250 tende. Al costo di esercizio di un Canadair: 14 mila euro l’ora. Guido Bertolaso non parla mai più del dovuto. Quando davanti al consiglio comunale della Maddalena un rappresentante del Pdl critica i metodi di affidamento degli appalti, lui lo interrompe: «Lei è pregato di misurare le parole… Io posso anche fare direttamente degli esposti alle autorità competenti, per le affermazioni ingiuriose nei confronti di un rappresentante del governo. Sia ben chiaro»

 Protezione Civile Super S.p.A.
 Fabrizio Gatti
 L’Espresso, n. 52 del 29 dicembre 2009

Il demenziale utilizzo dei Canadair in trasvolata continentale, non è una boutade legata alla tragicità comica del caso, perché l’impiego dei CL-145 costituisce un aspetto importante nel business dei protetti di Letta e un capitolo di spesa fondamentale nei bilanci della Protezione Civile, ridotta a braccio armato di questo  nuovo potere oligarchico.
È un argomento del quale torneremo ad  occuparci  quanto prima…

 Continua.

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