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Il Piano Funk

Posted in Business is Business, Kulturkampf with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 15 ottobre 2014 by Sendivogius

MIMIC

«Le discussioni sulla struttura e sull’organizzazione dell’economia tedesca ed europea dopo la guerra, compresi gli effetti che la guerra avrà sull’economia mondiale, negli ultimi tempi stanno riempiendo le colonne della stampa tedesca e straniera, in misura crescente.
Tanto gli uomini d’affari che gli analisti stanno dando una particolare attenzione a questi problemi, mentre alcune idee e piani più o meno fantastici hanno causato una notevole confusione.
Anche il grande filosofo Hegel è stato tirato in ballo, come fonte di prova a sostegno di certe opinioni. Abbondano le frasi fatte di tutti i tipi, tra le quali la più abusata è che l’Europa deve diventare uno spazio economico più grande.
Qualunque sia la verità contenuta in questa affermazione, prima di tutto si deve ammettere che questa Grande Europa attualmente non esiste, che questa deve prima essere creata e che all’interno della sua area ci sono ancora molte frizioni.
In queste circostanze, sento il dovere di fare una affermazione chiara e obiettiva che condurrà la discussione fuori dal regno della fantasia e della speculazioni, verso il mondo della realtà e dei fatti.
[…] Mi limiterò dunque ad indicare semplicemente i mezzi che possono essere utilizzati per raggiungere il nostro obiettivo. Principalmente, la nuova economia europea deve crescere in modo organico.
[…] Il nuovo ordine economico in Europa si svilupperà al di fuori delle circostanze esistenti, in special modo finché esisteranno le condizioni naturali per una stretta cooperazione economica tra la Germania e gli altri paesi europei.
germania_europa[…] La questione del futuro assetto generale dell’Europa deve perciò rispondere a quanto segue: dopo la conclusione vittoriosa della guerra, applicheremo tali metodi nella politica economica, che ci hanno permesso di conseguire i nostri grandi successi economici prima della guerra e soprattutto in tempo di guerra, al contempo escludiamo di consentire ancora una volta l’azione di forze non controllate che hanno coinvolto l’economia tedesca in grandissime difficoltà.
Siamo convinti che i nostri metodi si riveleranno di gran utilità non solo per la grande economia tedesca, ma anche per tutte le economie europee che per loro natura si troveranno ad essere in stretti rapporti commerciali con la Germania.
Per quanto riguarda la questione inerente le basi di una nuova moneta, che è stata recentemente oggetto di un dibattito particolarmente vivace, dovrebbe essere detto quanto segue:
La valuta è sempre secondaria alla politica economica generale. Quando l’economia è malata non ci può essere una moneta stabile. In una sana economia europea, con una divisione razionale del lavoro tra le economie dei paesi europei, la domanda di valuta si risolverà da sé, perché sarà solo un problema tecnico di gestione monetaria. In ciò risiede la ragione per cui il marco tedesco avrà un ruolo dominante. L’enorme incremento della potenza del Grande Stato Tedesco, porterà inevitabilmente nella sua scia la stabilizzazione del marco.
L’area valutaria del marco, che sarà liberata dall’assorbimento del debito esterno non saldato e dalle pratiche del cambio monetario, deve essere incrementata.
Partendo dai metodi di negoziazione bilaterale già applicati ci sarà un ulteriore sviluppo in direzione di uno scambio commerciale multilaterale e dell’aggiustamento delle bilance commerciali dei singoli paesi, così che i singoli paesi possono impegnarsi in relazioni commerciali regolamentate tra di loro, tramite una compensazione tra importazioni ed esportazioni.
Naturalmente non ci saranno problemi ad abolire il controllo dei cambi e di compensazione obbligatoria tutto in una volta. Né costituisce un problema una certa quota di libero scambio in valuta estera contro una unione monetaria europea, ma il prossimo passo sarà quello di sviluppare una ulteriore tecnica di compensazione, in modo tale che i pagamenti possano essere attivati agevolmente tra i paesi collegati tramite il Clearing House.
The House Of Spikes by JonasDeRoA maggior ragione che i presupposti per un tale sviluppo esistono già per quasi tutti i paesi, adeguatamente predisposti per l’inclusione in un centro di compensazione (clearing) europeo, che abbia una qualche forma di controllo sugli scambi esteri.
I prerequisiti per un soddisfacente funzionamento del sistema di compensazione tra esportazioni ed importazioni risiede nel fatto che la disposizione dovrebbe prevedere tassi di cambio fissi per tutti i pagamenti, che i tassi dovrebbero rimanere stabili per un lungo periodo di tempo, e che gli importi assegnati per la compensazione devono sempre essere pagati immediatamente.
Il pagamento di trasferimenti scoperti, non garantiti dal clearing, pone un problema monetario interno ai singoli paesi. Il timore ovunque prevalente che possano esserci bilanci scoperti, tuttavia, sparirà; la ripresa economica generale, che dove essere messa al primo posto dopo la guerra, causerà un incremento della circolazione monetaria anche in quei paesi che finora hanno aderito ad una politica economica delle banche centrali, basata sul sistema aureo e le operazioni automatiche del gold-standard e, in secondo luogo, col dovuto controllo del governo sulla bilancia dei pagamenti, il problema dei saldi di compensazione scomparirà gradualmente.

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Il livello dei prezzi dovrà essere adeguato a quello della Germania. Ma una unione monetaria porterà a un graduale livellamento dello standard di vita, che anche per il futuro non sarà e non dovrà essere la stesso per tutti i paesi collegati al sistema di clearing europeo, poiché i presupposti economici e sociali per esso mancano, e sarebbe assurdo regolare l’economia europea su questa base nel prossimo futuro. In Europa, ogni paese dovrebbe sviluppare e ampliare le proprie forze economiche e ogni paese dovrebbe essere in grado di operare con qualsiasi altro, ma i principi ed i metodi che disciplinano questo commercio devono essere, generalmente parlando, gli stessi.
Questo ha il vantaggio che le misure di controllo economico e di vincolo sotto una valuta ed un sistema di pagamenti in comune possono essere ridotte in larga misura; perché questi controlli e regole dettagliate, proprie di un sistema burocratico che può ostacolare notevolmente le transazioni individuali, non sarà più necessario.

[…] Daremo una particolare importanza al commercio dei nostri prodotti industriali di alta qualità, in cambio di materie prime sui mercati mondiali. Ma qui è necessaria una premessa. Dobbiamo verificare se sussiste un approvvigionamento sufficiente nell’area economica europea di tutti quei beni che rendono quest’area economicamente indipendente da tutte le altre. Quindi dobbiamo garantire la sua libertà economica.

hands[…] In sintesi:

1. Attraverso la conclusione di accordi economici a lungo termine con i paesi europei, sarà possibile assegnare un posto per il mercato tedesco nella pianificazione della produzione di lungo periodo di questi paesi, che saranno considerati alla stregua di uno sbocco commerciale a salvaguardia delle esportazioni, per le merci tedesche sui mercati europei.

2. Attraverso la creazione di uno stabile sistema di cambio, dovrà essere garantito un sistema uniforme dei pagamenti per il proseguimento degli scambi commerciali tra i singoli paesi. Così facendo, ci collegheremo agli accordi di pagamento esistenti che saranno ampliati per includere un maggiore volume commerciale sulla base di tassi di cambio fissi.
Attraverso uno scambio di esperienze nel campo dell’industria e dell’agricoltura, l’incremento della produzione di generi alimentari e l’accaparramento di materie prime deve essere il nostro scopo, mentre in Europa deve essere portata a termine una divisione economica razionale del lavoro….

3. Tra le nazioni europee deve essere stimolato un forte senso di comunità economica, attraverso la collaborazione in tutte le sfere economiche e politiche (moneta, credito, produzione, commercio, etc.). Il consolidamento economico dei paesi europei dovrebbe migliorare la loro posizione negoziale nelle relazioni con gli altri soggetti economici in una economia globale.
Questa Europa unita non si sottometterà a termini politici ed economici, che siano dettati da un qualsiasi organismo extra-europeo.
Sarà il commercio sulla base dell’uguaglianza economica a determinarne in qualsiasi momento la consapevolezza del suo peso negli affari economici.

reichsmark[…] Alla Grande Germania deve essere assicurato il massimo della sicurezza economica e per il popolo tedesco il massimo consumo di beni per incrementare il livello di benessere della nazione. L’economia europea deve essere adattata per rispondere a questo obiettivo. Lo sviluppo procederà a tappe differenti per i diversi paesi

 Walther Funk
 “La riorganizzazione economica dell’Europa”
(25 Luglio 1940)

Walther FunkPer la cronaca, il previdente Walther Funk è stato editorialista ed analista finanziario, governatore della Banca Centrale tedesca (all’epoca si chiamava Reichsbank), plenipotenziario per la pianificazione economica (Wirtschaftsbeauftragter), ministro dell’Economia… e fervente nazista.
Il cosiddetto “Piano Funk” rientrava nell’ambito delle analisi previsionali di pianificazione economica, che costituivano parte organica dell’azione di governo dei funzionari delegati agli Affari economici, in un sistema sostanzialmente accentrato come il Reich nazionalsocialista. E non contiene niente di così eclatante: un po’ di keynesismo militare (mutuato da Hjalmar Schacht), molto bilateralismo commerciale su trattati separati e impostato sul primato delle esportazioni, a fronte di un’autosufficienza autarchica all’interno del sistema economico tedesco; ingenti trasferimenti di valuta pregiata a saldo della compensazione sugli scambi commerciali; superamento del gold-standard.
The Motivator - Nazi Super ScienceIl suo “Piano” è curioso, perché è il primo documento organico di politica ‘economica’ a parlare apertamente di “area economica europea” e mercato condiviso a livello continentale, introduzione di una moneta unica (che abbia a modello il marco) e tassi di cambio fissi (per favorire le esportazioni W.Funktedesche). Il Piano Funk è altresì interessante, perché la nuova area commerciale e valutaria è funzionale a garantire il saldo in attivo della bilancia commerciale della Germania, favorendone le esportazioni su scala continentale. Serve inoltre ad assicurare il primato dell’economia tedesca, che diventa il sistema drenante delle risorse europee, tramite la stipula e l’osservanza ferrea di trattati inderogabili, in virtù della nota flessibilità che contraddistingue i connazionali di Hegel.
C’è anche un abbozzo embrionale alla ben nota retorica dei “compiti a casa”, da svolgere con diligenza se si vuole sperare di ottenere qualche briciola in Commissione:

“Il consolidamento economico dei paesi europei dovrebbe migliorare la loro posizione negoziale nelle relazioni con gli altri soggetti economici in una economia globale.”

E si può notare come la politica egemonica di Berlino, depurata delle sue componenti razziali e militariste, non sia poi troppo diversa dagli obiettivi economici, coi quali sostanzialmente viene esplicata sullo scacchiere europeo, sempre più ridotto ad una macroarea valutaria a penetrazione commerciale tedesca, con ben poche contropartite per i suoi partner subordinati all’espiazione del Debito.

Leggendo il Piano Funk, c’è da chiedersi se ci fosse qualcosa di inconcepibilmente ‘giusto’ nel nazionalsocialismo, oppure troppi elementi profondamente sbagliati nella struttura dell’attuale “Unione Europea”, così come è stata finora concepita.

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GERMANIA FEROX

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Coat of Arms in German Afrika (1914)Nato quasi per caso, dietro una pressione particolarmente aggressiva di una intraprendente oligarchia di spregiudicati circoli mercantili, Deutsch OstAfrikaambienti ultranazionalisti, e conventicole integraliste, l’espansionismo coloniale dei tedeschi in Africa si sviluppa su due direttive, ad Est e ad Ovest, nella febbricitante acquisizione del maggior numero di territori possibili, prima della chiusura della Conferenza di Berlino, sulla spartizione delle terre africane (1894-1895). Se nell’Africa orientale la penetrazione germanica, si apre i propri spazi di azione ai danni del Sultanato di Zanzibar (e con la tolleranza britannica), estendendosi in modo omogeneo dalla costa ai grandi laghi dell’interno, sul versante opposto questa si ritaglia brandelli di territorio in ordine sparso e ovunque sia possibile, senza troppe sottigliezze o scrupoli.
Polizeitruppe Nella futura colonia del Kamerun, l’iperattivismo delle compagnie commerciali amburghesi (in particolare la società dei Fratelli Woermann), operative nel golfo di Guinea con traffici estesi dalla Liberia al Gabon fin dalla metà del XIX secolo, sfocia in una occupazione diretta del territorio africano a partire dal 1894. Insieme alla compagnia Jantzen & UfficialeThormählen, la Wolber & Brohm e GL Gaiser, la Woermann traffica in armi e liquori, con le popolazioni indigene, in cambio della raccolta di olio di palma. Al contempo, prende possesso di vaste piantagioni specializzate nella produzione di banane, tabacco e cotone, che fanno il paio con le ricche piantagioni di cacao e caffé che i commercianti tedeschi hanno rilevato dai danesi nel vicino Golfo del Benin, con base a Lomé e capitale dell’attuale stato del Togo.
DWAG - German West African Company Preoccupati delle continue dispute tra i regoli locali, perennemente in lotta tra di loro, i mercanti tedeschi, riuniti nella “Compagnia dell’Africa Occidentale tedesca” (Deutsch-Westafrikanische Gesellschaft), hanno bisogno di una amministrazione stabile che garantisca i loro affari, chiedendo l’instaurazione di speciali “aree di protezione” ad opera del governo germanico.

Polizeitruppe

TOGOLAND
Proposed Coat of Arms Togo - 1914Per consolidare la loro presenza nella regione, nel Febbraio del 1884, i tedeschi stipulano uno dei loro trattati di “eterna amicizia” con le popolazioni rivierasche intorno al porto di Aného, una vecchia stazione portoghese per il commercio degli schiavi. Per essere più convincenti, sequestrano i capi indigeni locali che prontamente accettano la “protezione” tedesca in cambio del rilascio.
Il 05/07/1884, con i cosiddetti Trattati di Togoville, l’esploratore e diplomatico Gustav Nachtigal, firma un accordo col re africano Mlapa III, estendendo la “protezione” dell’Impero germanico dalla Costa d’Oro britannica al Benin francese. In pratica, si tratta di una striscia ritagliata tra le colonie francesi del Dahomey e dell’Alto Volta ghanese, affondata nei lidi paludosi di quella che un tempo era conosciuta come “Costa degli schiavi” e proiettata verso l’interno dell’entroterra africano. Di fatto, con la nascita del “Protettorato Togoland” (Schutzgebiet Togo), si ha il riconoscimento della prima colonia tedesca in terra d’Africa, subito sancita dall’arrivo delle cannoniere della Kaiserliche Marine.

Deutsch-Kamerun

KAMERUN
Proposed Coat of Arms Cameroon - 1914Pochi giorni dopo (12/07/1884), la premiata ditta Jantzen & Thormählen, con l’intermediazione di Eduard Schmidt per conto della compagnia Woermann, stipula un ulteriore trattato di protezione con tali Akwa e Ndumbé Lobé Bell: re tribali delle terre dei Duala, che vivono lungo l’estuario dell’attuale fiume Wouri nel Golfo di Guinea. All’epoca, il fiume Wouri era conosciuto col nome datogli dai mercanti di schiavi portoghesi: Rio dos Camarões (fiume dei gamberi), deformato dai tedeschi in Kamerun e da lì il nome della colonia.
Estuario del fiume Wouri nel 1850Il furbo Lobé Bell, per il disturbo, si fa liquidare dai tedeschi la bellezza di 27.000 marchi in oro per la sua firma, sancendo il riconoscimento ed il rispetto di tutti i contratti di proprietà e cessione precedentemente stipulati dalle compagnie tedesche, con la cessione di 220.000 acri.
Dieci anni dopo dalla stipula del trattato, nel 1895, le acquisizioni tedesche avevano raggiunto un’estensione di quasi 500.000 km², ai quali vanno aggiunti gli altri 60.000 km² del Togoland.
Le foto dell’epoca ci restituiscono il ritratto di un soddisfatto Re Bell in tenuta da pagliaccio.

Re Bell nel 1881

Un ulteriore tentativo di creare un enclave commerciale tedesca in Nigeria (Mahinland), per intercessione di Gottlieb Leonhard Gaiser, dell’omonima casa commerciale di Amburgo, con tanto di contratto di compravendita il 29/01/1885, è destinato a rimanere frustrato.
Kamerun PolizeitruppeLa situazione relativamente tranquilla delle colonie del Togo e del Kamerun, gli indigeni pacifici e l’esiguo numero di coloni occidentali che non superavano le poche centinaia, insieme allo status giuridico di Gottlieb Leonhard Gaiser“protettorato”, non richiesero mai un’eccessiva presenza militare. Per questo le mansioni di sicurezza ordinaria ed ordine pubblico furono più che altro demandate ad uno speciale corpo di polizia militare con Kameruneffettivi indigeni, la Polizeitruppe, per un dispendio minimo in termini di risorse ed una amministrazione coloniale piuttosto efficiente che, almeno sul piano della formalità, agiva sulla sottoscrizione di un mandato contrattuale di natura assolutamente legale.

Flag of Deutsch Südwest Afrika

NAMIBIA
Proposed Coat of Arms Southwest Africa 1914Le cose cambiano (e in peggio!) nel caso dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest (Deutsch-Südwestafrika), corrispondente all’attuale Namibia.
A partire dall’Aprile 1883, Adolf Lüderitz, un furbo mercante di tabacco legato alle gilde mercantili di Brema, estorce una serie di contratti truffaldini ai danni degli oriundi boscimani (Owambo; Khoi; Nama; Herero), che i tedeschi chiamano dispregiativamente “Ottentotti” (balbuzienti), stanziati lungo la costa sud-occidentale della Namibia, quasi al confine con l’odierno Stato del Sudafrica.
Il termine ottentotto è invero di origine olandese ed è mutuato dai coloni boeri del vicino Kapland sudafricano.
NamibiaIl 01/05/1883, consigliato da alcuni missionari tedeschi, Lüderitz, insieme al suo compare Heinrich Vogelsang, acquista la baia di Angra Heinrich VogelsangPequeña, convinto che la regione sia ricca di giacimenti minerari, da un locale capo ottentotto al quale i due tedeschi conferiscono il pomposo nome tedesco di Giuseppe Federico II, investendolo di poteri regali che in realtà il capotribù non possiede. In cambio di 100 sterline in oro e 200 fucili, adolf luderitzLüderitz compra la baia ed il territorio circostante per una profondità di 5 miglia, al quale con somma modestia dà il nome di Lüderitz Land.
Molto probabilmente, Giuseppe Federico non era un re tribale, ma un kaptein di quelli che i boeri chiamavano evocativamente “Baasters” (bastardi): ovvero, mezzosangue di lingua afrikaans, nati dalle relazioni (non sempre consensuali) che i primi coloni olandesi e tedeschi della Colonia del Capo avevano intrattenuto con le donne locali dei Nama.

Basteers

Discriminati ed emarginati, intorno al 1870, la piccola comunità dei Baasters (circa 1.500 unità) si trasferirà progressivamente verso nord, oltre il fiume Orange in Namibia, fondando un suo stato indipendente: la “Libera Repubblica di Rehoboth”, con tanto di parlamento rappresentativo (Volkraad) regolarmente eletto ed una propria costituzione democratica (Vaderlike Wette).
Contadini Herero nel 1913Sempre nel Maggio del 1883, tanto per non perdere tempo, Heinrich Vogelsang, il giovane socio di Lüderitz, acquista altre 20 miglia di costa tra Angra Pequeña ed il fiume Orange. Nel contratto, i due furbacchioni omettono di specificare alle tribù Nama (che per l’appunto non sono dei selvaggi analfabeti), come la misurazione delle terre cedute non sia in miglia inglesi (come gli africani si aspettano), ma in “miglia prussiane”… ovvero: 7.532 metri contro i 1.852 metri del sistema di misura anglosassone.
Unsere_Schutztruppen_in_Afrika_Tafel_49Esattamente come Carl Peters andava facendo sul versante orientale german troopersdell’Africa tedesca, nel 1884 Lüderitz ottiene la ratifica dei trattati da parte del governo di Berlino, con l’annessione dei territori alla Germania insieme all’invio di truppe e governatori militari.
DAWG - deutsch-westafrikanische gesellschaft 1905 Quindi, nell’Aprile del 1885, anche Adolf Lüderitz fonda la sua nuova “Società coloniale per l’Africa tedesca del Sud-Ovest” (Deutsche Kolonialgesellschaft für Südwest-Afrika), per lo sfruttamento massiccio delle terre occupate. La DKGSWA, o più semplicemente DWAG, costituisce il tipico esempio di commistione trasversale tra potere politico, economico e finanziario, con la confluenza di importanti istituti di credito, gruppi industriali, e la partecipazione di esponenti del mondo politico.
DOAAd ogni modo, Lüderitz non avrà modo di godersi il frutto dei suoi sforzi, perché nel 1886 muore annegando nel fiume Orange durante una delle sue spedizioni.

Deutsch-Süd-West-Afrika

Un’amministrazione cristiana e moderna
Ernst Heinrich Göring Ad amministrare la nuova colonia dell’Africa del Sud-Ovest, dalla Germania viene inviato un commissario imperiale con poteri straordinari. Si tratta di Heinrich Ernst Göring, il padre del futuro feldmaresciallo del Terzo Reich. Nel corso del suo mandato (1890-1885), Göring senior si distingue sostanzialmente, per la sistematica espropriazione ed il massacro delle popolazioni locali, con l’instaurazione di una rigida separazione razziale e l’elaborazione delle prime forme di apartheid, sancite dal nuovo sistema giuridico introdotto il 17/04/1886.
Schutztruppe - Bundesarchiv_Bild Deutsch-OstafrikaGöring persiste nella fortunata pratica dei trattati truffa e come un moderno boss mafioso estorce contratti di “protezione” alle popolazioni indigene. Quindi si fa costruire una lussuosa residenza su un altura DSWA - zerstoerteWagenbauereisacra agli Herero, dove ha sede un loro antico cimitero. Per attirare nuovi investimenti da parte della DWAG, con l’afflusso di coloni e nuovi contingenti militari per rafforzare il suo potere personale, Göring vanta la presenza di straordinari filoni auriferi nella regione a nord della nuova capitale coloniale di Otjimbingwe. Pare che per essere più convincente, si sia messo a sparacchiare nelle grotte della zona con fucili caricati a polvere d’oro.
Deutsch-SüdwestafrikIl suo aiutante generale sul campo (Landeshauptmann), futuro Curt von Francoisgovernatore, è il capitano Curt von François, irrequieto discendente di un’antica famiglia ugonotta, che estenderà ulteriormente i confini della colonia ai danni delle popolazioni siminomadi dei Nama e degli Herero, contro i quali Südwest-Afrikaconcentra i suoi raid punitivi. Gli Herero sono pastori abituati a seguire la transumanza degli animali; non riconoscono diritti inalienabili di proprietà e considerano i corsi d’acqua bene comune. I coloni tedeschi dal canto loro requisiscono le mandrie che confinano nei terreni espropriati, vantano la proprietà esclusiva sui pozzi idrici, e imprigionano i pastori quando non gli sparano direttamente addosso.
Namibia 1900 - Insediamento HereroA fronte di un’immigrazione relativamente contenuta (meno di 3.000 unità), i tedeschi si distinguono per un colonialismo particolarmente rapace e vessatorio.
HereroNel 1896 esplode la prima rivolta dei Nama guidati dal loro capo Hendrik Witbooi, conosciuta come ribellione dei Khaua-Mbandjeru e repressa duramente dal maggiore Curt von François. Vengono requisiti senza indennizzo 12.000 capi di bestiame; i Nama del Kailkhauan vengono disarmati e costretti al lavoro coatto dopo essere stati internati in speciali campi di prigionia.
Proudly-Afrikan-Namibian-Bones-2Nel 1897 un’epidemia di peste bovina falcidia le mandrie degli Herero, che per sopravvivere sono costretti ad alienare gran parte dei loro territori, offrendosi come contadini delle nuove piantagioni e tenuti in uno stato di semi-schiavitù.
Erichsen_slave_labour_p._83_v2Al contempo, vengono deportate o disperse le comunità meticce dei Baastards afrikaneer, rinchiusi in “riserve”.
Theodor Gotthilf LeutweinIl nuovo governatore Theodor Gotthilf Leutwein (1894-1904) viene ferocemente criticato, per questa sua linea troppo morbida e così tanto accondiscendente nei confronti degli autoctoni.
LeutweinÈ interessante notare come una delle rappresentazioni preferite tra gli illustratori del colonialismo tedesco in Africa, il soggetto prediletto sia il ritratto di marziali orchestrine militari, riprodotte in tutte le salse possibili. Con ogni evidenza, insegnare la musica ai negri doveva essere considerato il massimo risultato di ogni civilizzazione possibile.

askari kapelle

ORCHESTRINA (Askarikapelle) - Bundesarchiv_Bild Deutsch-Ostafrika

La grande rivolta degli Herero
WATERBERG Battle - Le Petit Journal 21.02.1904 Il 1904 segna l’inizio della grande rivolta degli Herero del Damaraland, che coglie completamente di sorpresa i tedeschi, impegnati a reprimere l’ennesima ribellione ai confini meridionali della loro colonia. Il governatore Leutwein dispone infatti di forze limitate, costituite da meno di 3.000 uomini e così ripartite: quaranta ufficiali e 726 soldati divisi in quattro compagnie di cavalleggeri; una batteria di artiglieria campale; una riserva di 34 ufficiali e 730 soldati di fanteria, con un complemento ausiliario di 250 scout (in massima parte reclutato tra i Bastards), ai quali vanno aggiunti le forze di Marina ed i volontari reclutati tra i residenti tedeschi nella colonia.
Namibia 1904OMEG railway prior to 1915.Il 12/01/1904, gli Herero della regione di Okahandja, esasperati dalle requisizioni tedesche e gli espropri di terreno per la costruzione delle nuova ferrovia di Otavi che taglia in due il Damaraland, si ribellano sotto il comando di Samuel Maharero, che pure non aveva mancato di mantenere fino ad allora buone relazioni con l’amministrazione coloniale tedesca.
Leutwein-MahareroA scatenare l’esasperazione degli Herero è un certo tenente Ralph Zürn, comandante della guarnigione locale, sorpreso a saccheggiare i cimiteri indigeni alle ricerca di crani da asportare in un infame commercio. Da notare che gli Herero erano cristiani.
Samuel MahareroDi certo, Samuel Maharero, che aveva fama di poliglotta, era dotato di notevoli doti diplomatiche, poiché aveva saputo ricomporre brillantemente i dissidi e le faide che contrapponevano da sempre i Nama agli Herero, convincendoli a prendere parte attiva nella rivolta e sancendo l’alleanza col suo storico rivale WitboiHendrik Witbooi ed altri capi indigeni. Con questi aveva avuto modo di intrattenere una fruttuosa corrispondenza, pianificando nei dettagli la rivolta. Furbamente, aveva dato ordini precisi di non recare alcun danno alle missioni protestanti e di evitare ogni azione contro residenti inglesi o le comunità boere. Al contempo, proibisce tassativamente ogni violenza contro donne e bambini, o la popolazione non combattente.
Namibia (ferrovia)Con una forza sul campo di 8.000 uomini in armi, gli Herero attaccano e saccheggiano le fattorie isolate; spezzano i collegamenti ferroviari, distruggendo il ponte di Otona; quindi pongono d’assedio gli importanti centri coloniali di Okahandja e Windhoek.
BW_VrijKorpsatrailwaytruck_LAngeNegli attacchi, circa 150 coloni tedeschi cadono morti sul campo. E nonostante le accortezze prese da Maharero, restano uccisi anche tre donne e sette boeri.
Per le operazioni militari, Maharero si fa affiancare da un abile capo: Jakob MorengaJakobus Morenga, che da luogo ad una serie di brillanti operazioni di guerriglia, con attacchi mordi e fuggi contro i presidi delle schutztruppe coloniali. Per le sue tattiche di guerra, Morenga viene (esageratamente) soprannominato il “Napoleone nero”.
Con l’avvicendamento del governatore Leutwein, anche i Nama di Hendrik Witbooi entrano in guerra. Witbooi, Witbooi Hendriklegato da personale amicizia col commissario tedesco, non si sentiva più vincolato al rispetto del trattato di pace, impostogli durante la sanguinosa repressione del 1897. Nonostante i suoi 70 anni suonati, il vecchio capo Nama guida personalmente i suoi guerrieri in battaglia, salvo rimanere ucciso durante uno scontro a fuoco (29/10/1905) sui monti del Karas, durante l’agguato ad una colonna tedesca, per una ferita non curata.
Tuttavia, dopo i primi rovesci, la reazione dei tedeschi sarà brutale e spietata.

berfall auf marsch

Lothar von Trotha
L.v.Trotha a Pechino durante la rivolta dei Boxers Il 03/05/1904, Theodor Leutwein viene sostituito dal generale Lothar von Trotha, che si porta appresso un corpo di spedizione di quasi 15.000 soldati regolari. Lothar von Trotha è un militare di lungo corso: ha combattuto come ufficiale di carriera nelle guerre prussiane contro l’Austria e la Francia, inoltre è uno specialista in guerre coloniali. In tale ambito, si è fatto un nome per i suoi metodi spicci e spietati, usati per reprimere i Boxers nella ribellione cinese del 1900. Nelle colonie tedesche dell’Africa orientale si è distinto per la ferocia con cui ha schiacciato la rivolta dei WeHehe.

schutztruppen in combattimentoE su tale esperienza questa specie di proto-nazista basa la sua linea di azione…

“La mia intima conoscenza della gran parte delle tribù africane mi ha del tutto convinto che un Negro non rispetta i trattati ma solo la forza bruta.”

Lothar von Trotha (1) Lothar von Trotha applica subito la tattica già sperimentata con successo della terra bruciata e tecniche di terrorismo indiscriminato ai danni delle popolazioni non combattenti. Prima di scatenare la sua offensiva attraverso una preventiva azione strutturale di pulizia etnica, ordina alle popolazioni indigene di abbandonare il territorio ‘tedesco’ della Namibia, esprimendo quello che è il suo intimo convincimento:

“Io credo che una nazione come questa dovrebbe essere annientata, oppure, se ciò non è possibile con misure tattiche, dovrebbe essere espulsa dal paese […] La costante pressione delle nostre truppe dovrebbe aiutarci a stanare anche i gruppi più piccoli di questa nazione che si sono mossi nelle retrovie e distruggerli gradualmente.”

Trotha non mancherà di fare l’una e l’altra cosa…
MeharistiGiocando sulla velocità di spostamento e sui vantaggi di una guerra di movimento, il generale Von Trotha fa grande affidamento sulla mobilità ridersdelle sue truppe montate ed in particolare sulle unità mehariste delle sue efficienti truppe cammellate, per intercettare e distruggere i gruppi di Herero che si muovono assai lentamente, trascinandosi dietro mandrie e familiari, in modo da arrestarne le incursioni ma al contempo tagliando loro ogni via di fuga.
HererowarsIl 12/08/1904, sull’altipiano di Waterberg, sconfigge in una dura battaglia campale le forze congiunte dei Nama e degli Herero, senza tuttavia riuscire a strappare una vittoria definitiva.

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In compenso, i tedeschi si accaniscono sulla popolazione inerme che seguiva i guerrieri in battaglia, attendendo nelle retrovie, caricandoli a colpi di baionetta ed impiccando i superstiti.
ImpiccagioniUna degna (ennesima) lezione di civiltà da parte della razza superiore.
Schutztruppen riempiono le borracce Con una enorme manovra a tenaglia, i tedeschi cominciano a premere i ribelli verso il desolato deserto del Kalahari, procedendo al sistematico avvelenamento dei pozzi d’acqua, facendo invece presidiare quelli che servono al suo esercito, onde sfiancare il nemico per fame e per sete. Chiunque si arrende, viene impiccato sul posto con teutonico rigore.
Herero-ExecutionsQuindi si assicurano la linea dei rifornimenti, puntellando il territorio con presidi stabili a ridosso del deserto, lungo una linea di 150 miglia, stabilendo una fascia di protezione invalicabile.

Reiter der Schutztruppe beim Gewehrreinigen in Swakopmund Deutsch-Südwestafrika

Dalle loro postazioni di difesa, i tedeschi inviano pattuglie ricognizione e squadroni di cavalleria, onde intercettare e bloccare ogni movimento dei Nama e degli Herero.

pattuglia

Per sopperire al trasporto delle truppe di fanteria ed in special modo dell’artiglieria da campagna, si fa ampio ricorso alle ferrovie, con l’organizzazione di convogli militari.

treno artiiglieria

Soprattutto, per completare l’accerchiamento e la distruzione dei ribelli, il comando germanico elabora un piano di sterminio generalizzato. In qualità di Impiccagioni (1)comandante supremo, Lothar von Trotha dà ordine di distruggere tutti i raccolti, sterminare il bestiame, e passare immediatamente per le armi qualsiasi “negro” con cui si imbattono le sue truppe, senza particolari riguardi per sesso, età, o condizioni.
DSWA_Ausmarsch_der_Truppen_Outjo_Chiusi nella sacca desertica tra l’Omaheke ed il Kalahari, senza acqua né provviste, gli Herero vengono ulteriormente falcidiati dai raid delle pattuglie tedesche, le quali perlustrano le piste che conducono  ai pochi pozzi disponibili.
Staffetta meharistaNei dispacci che lo stato maggiore germanico in Namibia invia al Kaiser non si perde occasione di sottolineare come:

DSW Feldkompanie“l’arido deserto di Omaheke ha completato ciò che l’esercito tedesco ha cominciato: lo sterminio della nazione Herero”

Lothar von Trotha e il suo Stato Maggiore
Franz Georg von Glasenapp Il generale Franz Georg von Glasenapp, professionista di grande esperienza, che con Ludwig von Ludwig von EstorffEstorff, guida uno dei tre corpi d’armata nei quali il gen. Trotha ha suddiviso il suo esercito, verrà pubblicamente biasimato per aver impedito il totale sterminio degli Herero, permettendo agli ultimi superstiti di riparare in territorio britannico. Per questo Glasenapp fu destituito dal comando e provvisoriamente privato del grado.

Deutsch-Süd-Westafrika, Stab von Estorff

In tal modo, Maharero e Morenga riuscirono però a riparare in Botswana, dopo una allucinante traversata del deserto del Kalahari, con meno di mille superstiti, su un nucleo originale di circa 50.000 Herero al seguito, ponendosi sotto la protezione degli inglesi. Morenga, il sedicente Napoleone, morirà nel 1907 durante uno scontro a fuoco contro una pattuglia della polizia coloniale britannica.

Surviving Herero

SHARK ISLAND
Herero e Nama a Shark Island (Lieutenant von Durling) L’11/12/1904, su incarico del cancelliere Bernhard von Bülow che sollecita una “sistemazione temporanea” per gli Herero ed i Nama scampati allo sterminio e ancora presenti in Namibia, il generale von Trotha stabilisce la realizzazione di campi di concentramento (Konzentrationslager) in territorio africano. Parte delle tribù Nama vengono deportate in massa nelle paludi del Togoland e del Kameron, deve vengono affittati come manodopera schiava nelle piantagioni tedesche.
Gli Herero vengono invece rinchiusi in campi di prigioni allestiti lunga la costa nei pressi di Swakopmund, tra i quali si distingue l’allucinante campo realizzato sull’isola di Haifisch, meglio conosciuta come “Shark Island” (l’isola dello squalo), davanti la Baia di Lüderitz.
Namibia - Schiavi hereroTra il 1905 ed il 1907, Haifisch, raccoglie tutti i ribelli (circa 3.000) rastrellati per il territorio della Namibia tedesca. I prigionieri arrivano ad ondate, rastrellati da speciali unità chiamate Etappenkommando sotto la supervisione dei quali vengono avviati incatenati al lavoro coatto nelle miniere e nella costruzione delle ferrovie.

Namibia - Schiavi herero (1)

Per il trasporto dei prigionieri vengono utilizzati, con largo anticipo sui tempi, i vagoni bestiame dei treni merci. Quindi si provvede alla sistematica schedatura ed avvio al lavoro coatto dei prigionieri, che però ancora non vengono marchiati sul braccio. L’alimentazione consiste in un pugno di riso crudo. Nel campo, l’uso della frusta è la regola e non sono infrequenti i casi di stupro.
Schutztruppe della DSWAI tassi di mortalità tra gli internati raggiungono l’80%.
In anticipo sul famigerato Dottor Mengele, in questa sorta di Auschwitz Eugen Fischerafricana in miniatura, si distingue l’indefessa attività “scientifica” del dott. Eugen Fischer: il padre dell’eugenetica nazista e del quale (per l’appunto!) Joseph Mengele fu allievo zelante.
Fischer catalizza le sue ossessioni sulla definizione di razza mista, concentrandosi sui mulatti, per dimostrare a quali orribili degradazioni genetiche incorrerebbe la razza bianca, qualora dovesse mescolarsi con ceppi inferiori.
Ovviamente, la sua prescrizione è sterilizzazione per tutti.
Il risultato più evidente di queste degenarazione razziale sono per lui i Bastards Rehobothers, dei quali si affanna catalogare gradazioni di occhi e capelli. Al contempo, misura crani, braccia e ossa, profanando cimiteri ed esaminando cadaveri per cogliere ogni minima variazione.
Ericksen - Testa imbalsamata di un prigioniero di Shark Island Tuttavia, il campo di Shark Island è il suo personale parco giochi, con il suo immenso potenziale di cavie DOGANAumane da seviziare a piacimento. Qui Fischer può dedicarsi al proprio passatempo preferito: una raccolta di teste, scarnificate, imbalsamate, sezionate, per la sua personale collezione che invia alle varie università tedesche, con sommo giubilo dei teutonici accademici, tanto da diventare rettore dell’Università di Berlino.
Teste di prigionieri Nama - Collezione personale di FischerCavie umaneI sedicenti “esperimenti scientifici” condotti a Shark Island comprendevano altresì l’inoculazione di vari agenti patogeni, dal vaiolo alla tubercolina (malattie che peraltro già affligevano gli internati, senza bisogno di interventi esterni), per poterne esaminare effetti e resistenza sui negri, e dissezionare poi i cadaveri.
Shark Island Death CampNei campi di Swakopmund, nell’evocativa “Costa degli Scheletri” (Skeleton Coast), si distingue per la sua opera instancabile pure il Dottor Bofinger, anche lui molto occupato nella raccolta delle teste. E quando i prigionieri non muoiono di morte naturale, provvede lui stesso ad accelerarne la dipartita con una iniezione letale, onde poter procedere all’asporto dei crani.

Herero heads (2)

Bofinger rimuove personalmente le teste con chirurgica precisione, in almeno 17 casi. C’è anche il teschio di una bambina di un anno, alla quale il dottore ha rimosso il cervello per conservarlo in formaldeide. Si può dire che, in nome della frenologia, i tedeschi inaugurano una sorta di commercio, su scala industriale…
Namibian SkullsAlla rimozione dei tessuti provvedono le donne detenute nei campi, che erano costrette a bollire le teste mozzate (all’occorrenza dei loro stessi parenti), per poterne poi raschiare via la carne rimasta con cocci di bottiglia. I teschi così ripuliti venivano quindi imballati e spediti in Germania, mentre i cadaveri erano gettati in mare, ad ingrassare gli squali.

Imballaggio dei teschi

Secondo cifre approssimative, tra il 1904 del il 1907 si stima che i tedeschi abbiano eliminato qualcosa come il 75% degli Herero ed il 50% del popolo Nama: ovvero, circa 80.000 persone contro appena 1.749 tedeschi. Per l’esattezza: 676 soldati caduti in combattimento; 76 dispersi; 689 deceduti per ferite o malattia.

Schutztruppen

german-troops E bisogna dire che la maggior parte dei circa 19.000 soldati impegnati complessivamente per la repressione della rivolta erano in buona parte reclute provenienti dalla Germania. Dunque ancora bisognose di acclimatarsi alle non facili condizioni africane, per una campagna di guerra che in realtà fu meno cruenta ed impegnativa per i tedeschi di quanto non vogliano dare a credere le stampe agiografiche…
krieg2L’eliminazione di massa dei Nama e degli Herero si può a tutti gli effetti considerare il primo genocidio scientificamente pianificato ed attuato da una nazione moderna.
Herero chainedSe è vero come è vero, che il XX secolo è anche il secolo dei grandi eccidi di massa, due genocidi ad opera della medesima nazione sono decisamente troppi!
Ciò la dice lunga sul grande di proiezione empatica di un popolo e sulla capacità di rapportarsi con l’Altro. Ovviamente, la Germania di oggi è diversa da quella di inizio ‘900. Per capire il mutamento del suo approccio culturale ai problemi, basta infatti vedere come tratta il resto degli attuali partners europei.
Coloniali tedeschiIl 16 Agosto del 2004, a cento anni dallo sterminio, la Germania si è finalmente decisa a presentare scuse formali al governo della Namibia (fino ad allora si era limitata ad esprimere “rammarico”), assumendosi la piena responsabilità dei crimini, ma escludendo il pagamento di qualsiasi indennizzo, nonostante il saccheggio, la spoliazione, la deportazione e la riduzione in schiavitù delle popolazioni namibiane.
Del resto, i tedeschi sono inflessibili nell’esigere il pagamento dei debiti altrui, ma quando si tratta di pagare i propri serrano le tasche, oltreché i ranghi.
Deutsch-Südwestafrika, Herero-AufstandIl popolo della Namibia ha chiesto quantomeno la restituzione dei teschi Herero heads (1)dei propri antenati, in parte avvenuta solo nel 2011. A tutt’oggi, la blasonata Università di Friburgo ha recisamente rifiutato di privarsi della piacevole visione della propria  preziosa collezione.

  FINE (2/2)

ASKARI

 > prima parte: L’anima del commercio

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FINAL DESTINATION

Posted in Business is Business, Masters of Universe with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 23 novembre 2012 by Sendivogius

«Dopo un anno l’Italia è saldamente sulla via del cambiamento, di certo è un’Italia che adesso può guardare con più fiducia verso il suo futuro. Un futuro che sarà prospero se si continuerà sulla strada intrapresa, senza disperdere il lavoro che è stato compiuto fino ad oggi.»

 (Il Consiglio dei Ministri – Nov.2012)

Gli strabilianti risultati della terapia bocconiana li avevamo già ricapitolati QUI.
È ovvio che un ‘lavoro’ così ben fatto vada continuato, onde non disperdere effetti tanto straordinari…
Con un’economia reale stremata a condizioni post-belliche, senza alcuna prospettiva di “boom” se non il collasso di un intero tessuto sociale, in Italia siamo ormai alle verità di Fede. Il direttorio tecnocratico crede nei miracoli ed alla realtà dei fatti preferisce il culto delle visioni mistiche. Dall’alto del loro empireo accademico, lontani dalle anguste miserie dei comuni mortali, i professoroni preferiscono la libertà degli spazi siderali, dove l’aria rarefatta amplifica le allucinazioni nello stato comatoso di tunnel senza luci. E mentre i sacerdoti dell’Austerità per decreto trasformavano l’Italia in un immenso laboratorio accademico per i loro esperimenti sociali di teoria macroeconomica, ci hanno rifilato una riuscita serie di spauracchi costruiti ad hoc (la Grecia) e favolette di successo (secondo le quali avremmo vissuto al di sopra delle nostre possibilità), opportunamente amplificate dai media embedded dei potentati finanziari, interessati al grande piano di riorganizzazione post-democratica.
Bocciata nei fatti su tutti i parametri [QUI] l’Agenda Monti rimane la bibbia di riferimento per padroni e sindacati gialli, nella prosecuzione di un’esperienza che (per carità!) non va certo dissipata.
Principale (se non unico) risultato, è il contenimento dello spread sui titoli di Stato, ovvero il differenziale con i bund tedeschi, ad una media di 360 punti, che comunque (a fronte di una cura da cavallo) rimane elevato e non giustificabile. Più è alto il differenziale di riferimento, più aumenta l’importo degli interessi da pagare ai sottoscrittori dei titoli pubblici, emessi per il finanziamento delle spese correnti inerenti il funzionamento della macchina statale, incrementando di converso l’enorme debito pubblico che grava sul bilancio italiano.
Nella notte buia in cui tutte le vacche sono nere, ci si dimentica di dire però che nel 2007 lo spread era sotto i 50 punti e certo non costituiva un problema per l’incremento di un debito pregresso, in massima parte ereditato dalla finanza allegra degli anni ’80 [QUI!], e nell’ultimo decennio tenuto costantemente sotto controllo, senza incidere sulla tenuta economica e la stabilità finanziaria di un intero Paese, fino a quando non è improvvisamente diventato un problema…

Infatti, bisognava scegliere se continuare a finanziare la spesa corrente degli Stati a sostegno delle politiche sociali o drenare risorse pubbliche per colmare la voragine del Credito privato, dissanguato dalle speculazioni della finanza strutturata. Ovviamente, si è optato per la seconda scelta col beneplacito delle oligarchie liberiste della UE ed il sostegno incondizionato dei nipotini di Milton Friedman (diffidare sempre dei nani!), tanto non pareva loro vero di poter ridisegnare la geografia sociale dell’Europa a immagine e somiglianza del Cile di Pinochet. Non per niente gli emuli nostrani dei Chicago Boys sono tra i più fieri sostenitori del Montismo ad oltranza e rilascio rapido.
Tanto per dire, un affresco del fallimento delle politiche rigoriste di ispirazione neo-monetarista ce lo danno i prudentissimi rapporti dell’ISTAT: nota congrega sovversiva di anarco-insurrezionalisti. Per questo i report in questione vengono di solito snobbati dalla grande stampa moderata e benpensante, sempre così pensosa dei destini del Paese e soprattutto del ‘mercato’.
E dunque riscopriamoli insieme…

La Dittatura del Debito
 Nel Rapporto Annuale del 2010, prima della svolta tecnica, l’ISTAT esamina le cause della crescita del debito pubblico, nell’ambito della più generale crisi dell’euro (moneta nata male, strutturata peggio, ma la quale è vietato criticare) e soffermandosi sull’analisi del “saldo primario”, ovvero l’avanzo nei bilanci degli Stati. E viene calcolato al netto della spesa per interessi sui titoli emessi per il finanziamento corrente, che impropriamente chiamiamo “debito”.
Il saldo primario è una diretta conseguenza delle politiche fiscali adottate dai singoli Paesi e riflette le decisioni dei governi in materia economica e gestione di spesa.

«Il saldo primario, nella media dell’area è andato progressivamente deteriorandosi, passando da un avanzo del 2,3 per cento del Pil nel 2007 a disavanzi superiori al 3 per cento negli ultimi due anni.
Nel complesso del triennio 2008-2010, il saldo primario ha contribuito alla crescita del peso del debito sul Pil per 5,7 punti percentuali per l’insieme dell’UEM [Unione Monetaria Europea], ma per 47 punti percentuali in Irlanda, 20 punti in Grecia, 19 in Spagna, 14 in Portogallo e 10 punti in Francia. Solo in Finlandia, Italia e Germania ha offerto un contributo negativo, rispettivamente per 2,7, 1,7 e 1,5 punti percentuali. Nel 2010, il saldo primario è migliorato in tutti i paesi a esclusione di Irlanda, Paesi Bassi e Austria

Una situazione drammatica, ma non disperata. E soprattutto non tale da ingenerare il panico che ne è seguito. Le conseguenze (indirette) sul debito pubblico sono state esasperate in seguito all’esplosione della bolla speculativa statunitense, che ha travolto come un’onda lunga la finanza europea e in particolare le banche franco-tedesche sovresposte verso il sistema creditizio di Irlanda, Islanda e Grecia. L’Italia compariva perfino tra i paesi virtuosi!
Insomma, nulla che avesse a che fare con l’andamento sostanziale dell’economia reale. E niente che giustificasse l’imposizione delle politiche di austerity teutonica, calibrate dai tedeschi in modo da essere etero-indirizzate pro domo sua.

«Nel nostro Paese, la crescita del rapporto tra debito e Pil durante la crisi è stata determinata prevalentemente dalla spesa per interessi derivante dall’elevato livello di debito ereditato dal passato e dalla contrazione dell’attività economica.
La politica fiscale adottata dal Governo è risultata invece tra le più severe, con un ricorso molto limitato a interventi straordinari anticrisi rispetto agli altri paesi: l’Italia è, infatti, l’unica economia dell’Uem ad aver mantenuto in avanzo lungo tutto il triennio il saldo primario strutturale, calcolato depurando il saldo complessivo al netto della spesa per interessi dalla componente ciclica dovuta all’operare degli stabilizzatori automatici.
[…] Nel 2010, il saldo primario strutturale avrebbe, invece, continuato a segnare un ampio disavanzo in Irlanda (27,2 per cento del Pil), Spagna (6,2%), Francia (4,3%), Grecia (3,3%) e Paesi Bassi (3,2%).»

La mancanza di provvedimenti strutturali che hanno impedito di cogliere i vantaggi oggettivi (come avvenuto in Germania) che la moneta unica pure offriva, sono gli inconvenienti di aver posto alla conduzione dell’Italia un Pornocrate, molto più interessato alla “patonza” che non agli affari di Stato, funzionali più che altro agli introiti delle sue aziende di famiglia.
Ma, si sa, gli italiani amano da sempre gli “Uomini della Provvidenza”… vogliono essere condotti per mano al suono di pifferi magici, come i ciuchini nel Paese dei Balocchi.

Il Pasto Greco
La gestione del debito ellenico costituisce la più grande operazione congiunta di recupero crediti ai danni di una stato sovrano mai realizzata. In pratica, i governi conservatori di Germania e Francia, si sono comportati come la bassa manovalanza criminale, ingaggiata dagli usurai (le Banche d’affari private) per esigere i loro crediti a strozzo. La punizione collettiva del popolo greco (perché di questo si tratta), in nome degli Dei della Finanza, rimarrà un’onta indelebile a carico della UE e foriera di conseguenze sociopolitiche, ben peggiori di quanto una Merkel o le intelligenze artificiali del Governo Monti saranno mai in grado di elaborare.
L’Italia partecipa a pieno titolo nel salvataggio della piccola Grecia, che a sua volta deve sottostare alle condizioni capestro imposte dalla Germania. In poco tempo, un onere contenibile in ambito europeo si trasforma in una voragine senza fondo, sotto i morsi dell’intransigenza interessata di Berlino.
Ma, nella stampa teutonica e scandinava, lo sforzo italiano non viene tenuto in alcun conto ed anzi il Belpaese viene iscritto a forza nei Pigs del cosiddetto Club Med (non senza una punta di razzismo), descritto come un Paese indebitato coi creditori esteri (un falso clamoroso) e si acclara senza alcun riscontro la possibilità di un fantomatico rischio default.
Per uno strano capriccio del caso, l’economia italiana è la principale rivale della pompata locomotiva tedesca, con la quale gareggia in esportazioni e acquisizione di quote di mercato europeo. Le prescrizioni rigorista dilatate su scala continentale provvederanno presto a deprimere il potenziale concorrenziale. Ovviamente, gli interventi congiunti di Francoforte e Berlino e Bruxelles sono stati fatti esclusivamente per il nostro bene.
 Come al solito, per la buona riuscita delle trattative in ambito europeo, non aiutano le perfomances dell’Innominabile che quietamente, nella gaia incoscienza dei controllori, viene lasciato gozzovigliare al governo italiano, umiliando le istituzioni repubblicane e sputtanando il paese in mondovisione.

«Nel 2010 è stato erogato circa un quarto del finanziamento speciale concesso alla Grecia dai paesi dell’Uem (21 miliardi su un totale di 80), il cui onere è stato ripartito tra i paesi membri in proporzione alla loro partecipazione al capitale della BCE: per Italia, Francia e Germania, questo intervento ha determinato un aumento del peso del fabbisogno sul PIL di circa un quarto di punto percentuale; nel 2011 si può stimare un impatto pari a circa 4 decimi di punto per l’Italia e solo marginalmente inferiore in Germania e Francia. La quota di finanziamento a carico di ciascun paese può essere confrontata con un indicatore dei potenziali effetti d’impatto che si ripercuoterebbero sulle rispettive economie in conseguenza di un eventuale consolidamento del debito pubblico greco, costituito dal grado di esposizione dei sistemi bancari nazionali verso operatori pubblici e privati greci. Emerge che le quote di finanziamento del prestito alla Grecia garantite dai principali tre paesi (circa il 27 per cento dalla Germania, il 20 dalla Francia e il 18 dall’Italia) non sono proporzionali al rischio relativo, che è elevato in Francia (con quasi il 40 per cento dei titoli greci collocati presso banche europee), significativo in Germania (con il 25 per cento) e molto ridotto in Italia (con meno del 3 per cento). Gli interventi che hanno inciso direttamente sul debito senza influenzare il saldo di bilancio sono soprattutto l’aumento delle riserve di liquidità e l’acquisizione di attività finanziarie delle banche da parte dei Governi.»

L’Italia e le Banche
 Sicuramente si tratterà di una coincidenza fortuita, ma la guerra dello spread, cominciata con gli avvertimenti intimidatori delle agenzie del rating organizzato e proseguita con le armi di distruzione di massa della finanza speculativa, sembra quasi essere proporzionale alla mancata esposizione del bilancio italiano alle tempeste del credito bancario ed alla mancata emissione di garanzie pubbliche e coperture finanziarie nei confronti delle potenziali perdite del sistema bancario e le esposizioni alle fluttuazioni di mercato.
Nel corso del 2010 i principali governi europei, spaventati dalla crisi del credito privato, corrono a foraggiare gli istituti bancari con cospicue iniezioni di denaro pubblico, fornendo garanzie sui titoli emessi dalle banche in difficoltà finanziarie.

«Gli effetti correnti e potenziali sul debito pubblico dovuti all’adozione di misure straordinarie da parte dei Governi a sostegno del sistema bancario risultano, a fine 2010, eccezionalmente elevati in Irlanda (quasi il 150 per cento del Pil) e significativi in numerosi paesi (Grecia 27 per cento, Belgio 22, Germania 16, Spagna 8, Portogallo 6,8 e Francia 4,6 per cento). Per l’Italia il peso degli interventi attuati a sostegno del sistema finanziario è, invece, marginale (0,3 per cento).»

A dimostrazione forse di un sistema creditizio più sano rispetto agli omologhi europei.
Con lo smantellamento accelerato delle tutele sociali, la cancellazione dei diritti e delle ultime garanzie nell’ambito del lavoro, insieme all’esposizione dello Stato italiano nei confronti delle eventuali banche a rischio insolvenza, coincidono con uno stemperamento dello spread che tuttavia rimane troppo alto e che il Governo Monti si guarda bene dal pubblicizzare troppo tra i suoi successi (presunti). Non per niente, tra i primi atti del decreto Salva-Italia c’è la presa in carico da parte dello Stato delle passività bancarie, con la concessione di garanzie di copertura…

La morsa del Debito
 Il peso del debito pubblico costituisce una morsa incontenibile, che condiziona le politiche economiche ed i piani di crescita da almeno un ventennio. Tuttavia, a fronte di un sistema produttivo ed industriale fortemente sclerotizzato, e refrattario alle innovazioni come agli investimenti, un mercato del lavoro ingessato con divaricazioni sempre più inique nel riconoscimento dei diritti, la tenuta dell’economia italiana è sostenuta in massima parte dai consumi delle famiglie. È questo l’elemento primario, se non unico, che finora ha garantito spinta propulsiva al cosiddetto sistema-paese:

«Nel periodo 1992-2000 la crescita dell’economia italiana è stata sostenuta dai consumi delle famiglie, dagli investimenti e rafforzata da un contributo positivo della domanda estera netta; il contributo dei consumi collettivi, invece, è leggermente negativo, conseguenza di una dinamica restrittiva della spesa delle amministrazioni pubbliche fino al 1995 e di una sua crescita a ritmi molto contenuti dal 1996 in poi.
Nelle altre maggiori economie dell’Uem, costrette ad un processo di convergenza meno oneroso di quello italiano, invece, il sostegno della spesa pubblica, soprattutto nella fase recessiva, è stato positivo.»

Il godereccio ventennio berlusconiano, lungi dal risolvere i problemi li ha acuiti, e gli effetti si vedono…

«Nel periodo 2007-2011, la performance di crescita complessivamente negativa dell’Italia (-1,1 per cento in media d’anno) vede un contributo negativo di quasi tutte le componenti della domanda, in particolare degli investimenti, e un contributo nullo della spesa finale delle amministrazioni pubbliche. Tra gli altri principali partner, Francia e Germania conseguono una modesta crescita, complessivamente favorita dal sostegno della domanda privata e dei consumi collettivi, mentre nella media di periodo la domanda estera netta incide negativamente, principalmente a causa del pessimo risultato del 2009.»

L’equazione tra crescita ed equità è imprescindibile. In Italia si è costantemente proceduto in senso opposto.

L’Equità al tempo dei Tecnici
Nel 2011 abbiamo un nuovo “salvatore della patria”: ce lo chiede l’Europa; lo vuole la BCE; ce lo impone il Colle. E, come tutte le imposizioni dall’alto, si tratta di un’offerta che non si può rifiutare…
Nel solco di un processo di ristrutturazione a livello europeo, con la benedizione delle banche centrali e del Fondo Monetario, per il risanamento dei conti pubblici in nome dei sacri parametri, Mario Monti intraprende una cura fatta di lacrime, sangue e tagli. Il dolore è parte integrante della terapia e non prevede anestesia. Sostanzialmente si tratta di una vivisezione: se la cavia sopravvive alle asportazioni, si aprono per lui le aspettative di una non vita dalla lunga agonia.
Nel rapporto annuale del 2012, l’Istat non manca di osservare come:

«In Germania e in Francia il maggior contributo al risanamento è stato fornito dalle imposte dirette, con incrementi in valore assoluto rispettivamente dell’8,1 e del 10 per cento; nel Regno Unito, invece, il supporto più rilevante alle entrate è giunto dalla dinamica delle imposte indirette (in aumento del 6,4 per cento in termini nominali).»

Le imposte dirette si basano sulla tassazione progressiva del reddito e sulla repressione dell’evasione fiscale, in proporzione alla ricchezza patrimoniale detenuta ed alla propria capacità contributiva. Nei paesi dove più forte è il divario sociale e maggiore l’impronta liberista si prediligono le imposte indirette, che toccano solo marginalmente i grandi capitali ed i redditi più elevati.
In Italia, l’imposizione fiscale (e massimamente dopo l’avvento del Governo Monti) è basata quasi tutta sull’aumento delle imposte indirette, che spostano il peso del risanamento soprattutto a carico del reddito da lavoro dipendente e salariato:

«L’aumento di gettito è stato sostenuto esclusivamente dalla crescita delle imposte indirette (+2,0 per cento) realizzata attraverso interventi sull’Irap, l’introduzione della tassa di soggiorno, l’aumento di un punto dell’aliquota massima dell’Iva e aumenti delle imposte sugli olii minerali.
[…] In Italia si sono registrate diminuzioni dei redditi da lavoro dipendente (-1,2 per cento), delle prestazioni sociali in natura [forniture di beni e servizi alle famiglie n.d.r] (-2,2 per cento), dei trasferimenti di capitale (-8,8 per cento) e dei contributi alla produzione (-6,3 per cento).
[…] La dinamica negativa dei redditi da lavoro dipendente è stata determinata dalla contrazione dell’occupazione e dalla modesta flessione delle retribuzioni pro capite dovuta al congelamento dei rinnovi contrattuali. Il sensibile calo delle prestazioni sociali in denaro ha riflesso prevalentemente l’andamento di alcune componenti della spesa sanitaria (spesa per farmaci e spesa per la medicina di base) che, nel corso del 2010, avevano incorporato il costo dei rinnovi delle convenzioni dei medici di base.»

In pratica la gente risparmia sulle cure mediche, mentre migliaia di posti letto vengono tagliati e gli ospedali chiusi in nome del fiscal compact e dalla spending review che ne consegue. Il prossimo passo del Montismo è la privatizzazione della Sanità? Per crudele paradosso, mentre si pretende di inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione, si impone il fiscal compact che di fatto azzera ogni forma di spesa pubblica in Italia, si inaspriscono le politiche di rigore, mentre il debito pubblico esplode in concomitanza col crollo dell’economia e dell’occupazione.
Il caso è da manuale: si tratta del carrettiere che ammazzò il cavallo, convinto che per spronare l’animale a trainare il carro bastassero le sole frustate; aumentando al contempo il volume del carico, nella convinzione che per risparmiare sui costi di trasporto sarebbe bastato eliminare il foraggio e le cure per la bestia da soma.
Un anno dopo la cura Monti, questo è il risultato al settembre 2012, in merito alle prospettive per l’economia italiana, elaborate dall’Istat…
Per quanto riguarda l’Industria:

«Le contrazioni più marcate si rilevano nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-15,5%), nella fabbricazione di articoli in gomma, materie plastiche e altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-8,3%) e nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-7,6%).
Le variazioni negative più rilevanti dell’indice grezzo degli ordinativi hanno riguardato la metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-18,4%), la fabbricazione di macchinari e attrezzature n.c.a. (-17,3%) e l’industria del legno, carta e stampa (-13,1%).»

In merito all’industria automobilistica, Gli acquisti di autoveicoli sono crollati a -44,9%. Ma in questo ha contribuito molto la simpatia di Sergio Marchionne.
Stroncato il mercato interno, in nome del risanamento e riordino dei conti che assomiglia ormai ad una composizione della salma prima della tumulazione, i restauri tombali del Governo Monti stanno portando i loro benefici effetti anche nell’ambito del commercio estero. Le esportazioni, seppur in difficoltà, sono sempre state un settore di punta dell’economia italiana ed una voce importante nella strutturazione del PIL nazionale e che, al contrario delle aspettative, non sono state poi così beneficiate dall’introduzione dell’euro come si credeva in origine:

«L’adozione dell’euro ha determinato un impatto positivo, ma non di grande entità, sul commercio bilaterale dei paesi europei. Per alcuni paesi membri (Grecia, Finlandia e Portogallo) l’effetto della moneta unica europea sul commercio sarebbe stato negativo.
[…] Nel caso dell’Italia l’impatto positivo si sarebbe esplicitato attraverso la riduzione dei costi variabili del commercio internazionale, mentre la riduzione dei costi fissi non avrebbe avuto alcun ruolo. La stima differenziata dell’effetto “introduzione dell’euro” rispetto ai mercati di destinazione ha, tuttavia, mostrato un impatto positivo per gli scambi commerciali con i paesi “periferici”, verso i quali le imprese italiane avrebbero aumentato le esportazioni in termini sia di valore sia di varietà dei prodotti esportati. Al contrario, l’effetto sull’export verso i mercati “core” (tra cui la Germania, principale destinatario dell’export italiano) sarebbe stato negativo, indicando il prevalere di un effetto competitività penalizzante per i beni italiani.»

I flussi del commercio estero, scalzati progressivamente dai mercati interni della UE a tutto vantaggio della Germania, si sono concentrati verso i paesi emergenti e le nuove economie dell’Asia, insieme ai mercati tradizionali del made in Italy di qualità, conquistando importanti quote nei nuovi blocchi economici transcontinentali.
 Verso le nuove tigri asiatiche (e tigrotti in crescita) dell’ASEAN: Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania, Cambogia.
Verso i colossi dell’EDA: Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Malaysia
Oppure puntando sulle grandi potenzialità del continente latinoamericano, puntando ai mercati unificati del MERCOSUR e dell’ANDEAN.
E infatti,

“A settembre si rileva, rispetto al mese precedente [Agosto 2012], una flessione per entrambi i flussi commerciali, più intensa per l’import (-4,2%) che per l’export (-2,0%).
La diminuzione dell’export è di intensità analoga per entrambe le aree di sbocco: -2,1% per i mercati UE e -2,0% per quelli extra UE. In flessione sono soprattutto le vendite di beni strumentali (-4,5%) e di prodotti energetici (-2,3%), mentre i beni di consumo durevoli registrano un aumento dell’1%.
La flessione delle importazioni è rilevante sia dai paesi Ue (-4,4%) sia da quelli extra Ue (-3,9%). Particolarmente accentuata è la contrazione degli acquisti di beni strumentali (-9,7%).”

La flessione delle vendite riguarda tutti i potenziali partner commerciali, interessati alle nostre esportazioni:

Paesi EDA (-26%)
Giappone (-35%)
Cina (-18,8%)
India (-30,9%)
Paesi MERCOSUR (-13,7)
Germania (-10,3%)
Spagna (-12,8%)
Romania (-13,6%)

Aumentano invece i flussi commerciali con i Paesi dell’ASEAN (+22,9%); Paesi OPEC (+18,0%); Russia (+16,7%); USA (+19,4%).

A conti fatti, più che dinanzi ad un governo di risanatori ci troviamo di fronte ad una squadra di becchini. Epperò, dopo Monti c’è solo Monti… per l’estrema unzione?

Attulamente der Professor è ad uno dei soliti, inconcludenti, vertici brussellesi che tanto fanno sghignazzare mercati e investitori di borsa ad ogni puntata. Il copione è sempre lo stesso: Angelona Merkel si impunta come Hitler nell’assedio di Stalingrado senza cedere di un millimetro; il presidente francese cerca di rintuzzare l’intransigenza tedesca, confidando invano nella risicata sponda italica; Mario Monti, nicchia, bluffa, minaccia veti che non porrà mai… ma, finita la recita, prima si piega e poi si spezza. Per non fargli perdere la faccia, l’inflessibile Angelona concede qualche osso al suo fedele cagnolino da riporto e il giorno dopo sconfessa i risultati del vertice, inviando i suoi sabotatori di fiducia (Olanda e Scandinavia). È una tecnica nota ormai a tutti, tranne che ai giornaletti nostrani, i quali celebreranno il ritorno a casa del Professorone con titoloni roboanti sui nuovi “successi epocali”.

All’atto pratico, dopo aver stroncato ogni possibilità di ripresa, estendendo la cura ultra-rigorista all’intera Europa, i tecnocrati della UE e del Fondo Monetario Internazionale hanno rivisto al ribasso tutte le stime di crescita, ammettendo che forse qualcosa non sta funzionando… E dopo aver trasformato una crisi congiunturale, in una devastante recessione su scala continentale, senza che si prospettino reali prospettive di uscita, iniziano a profilarsi all’orizzonte concreti timori sulla tenuta sociale e democratica negli stessi Paesi coinvolti nella ‘cura’.
Se è vero che sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Ci troviamo di fronte ad un gruppo di cerusici ottocenteschi che, dinanzi all’aggravarsi della malattia, intensificano i salassi al paziente anemico, prescrivendo in aggiunta una serie di clisteri al malato rigorosamente tenuto a digiuno, pur di non rimettere in discussione le teorie del loro manuale scolastico. Evidentemente, è radicata la convinzione nietzschiana, secondo la quale ciò che non uccide fortifica.

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INDIANA (1)

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The Company

In totale naturalezza, Carl von Clausewitz affermava che la guerra fosse una naturale prosecuzione della politica. E tuttavia la famosa frase del generale prussiano è perfettamente sovrapponibile anche al mondo degli affari che, in tempi non lontani, ha interpretato l’espressione alla lettera, rimettendo la conquista di nuovi mercati alla canna dei fucili…
Più spesso si dimentica invece come la ‘guerra’ abbia costituito la condizione ideale dello stato minimo, meglio se di matrice liberale, che delega scelte e indirizzi all’iniziativa privata, limitandosi a tutelarne gli interessi economici nella compressione delle istanze sociali, in nome di quella ideologia economica (e politica) chiamata mercantilismo.
E se la “Società non esiste”, se lo ‘Stato’ è ridotto a mero guardiano dei diritti di proprietà, ne consegue che il fulcro di ogni potere risiede nella realtà economica, strutturata in holding company alimentate dai flussi del capitale finanziario.
In un siffatto contesto, la forma tipo è la corporation, nella quale lo Stato confluisce e si annulla in sostanziale identificazione. Peccato che una tecnostruttura economica, slegata dai principi di rappresentanza e funzionalità sociale, solitamente è immune dagli scrupoli e dalle ottemperanze costituzionali di un ordinamento democratico. E tutto si riduce ad una variabile dipendente dai rischi d’impresa. In tal senso, anche la guerra diventa un’opzione praticabile, ‘utile’ e finanche ‘giusta’, se presuppone un ritorno economico.
 Attualmente, è in corso una evoluzione o, se si preferisce, una regressione della visione sociale, attraverso una destrutturazione costante del pensiero politico. In quella rigidità emotiva da alienato anaffettivo, e che i media scambiano per “sobrietà”, il prof. Mario Monti è l’alfiere di una destrutturazione democratica in ambito continentale, che sotto il Pornocrate sarebbe stata impossibile. E da un potenziale narciso psicopatico siamo passati ad un sospetto sociopatico in paresi facciale. Il malcelato fastidio contro gli organismi rappresentativi, l’incredibile invettiva contro l’istituzione parlamentare (accolta in Italia con la più ovina accondiscendenza) sono i prodromi di una metamorfosi ben più profonda… È una forma mentis che, da verbo accademico, comincia a farsi carne e sostanza, grazie alla complicità e all’inerzia di una classe pseudo-politica in stato confusionale e prossima al completo disfacimento, in un condominio prigione dove la convivenza forzata sta per implodere nel caos.
In certo qual modo, la situazione odierna, con il costante declino di un sistema consolidato di garanzie, il protestarismo sterile, la perdita progressiva di ogni coscienza civile, ricorda un inquietante romanzo di James G. Ballard, il cui titolo originale è High Rise.
A livello storico, la prevalenza del potere economico sulla società, lo svuotamento dei poteri pubblici con la delega delle competenze, ricorda invece le grandi compagnie commerciali che a partire dal XVII si spartirono il mondo (frazionato in mercati), trasformando Stati e Governi in propri domini personali. A tutt’oggi, per longevità e onnipotenza, la storia della ‘Compagnia britannica delle Indie Orientali’ costituisce il caso unico di una società privata per capitali che volle farsi impero e per la bisogna si creò un esercito e si comprò un intero parlamento (inglese).

Un regno privato.
Costituita nell’ultimo giorno del 1600 su autorizzazione regia, la British East India Company (EIC), per quasi tre secoli, dominerà i mercati asiatici controllando le rotte commerciali dallo Stretto di Magellano al Capo di Buona Speranza, fino alla Malesia e la Cina. Assumerà il controllo diretto dei territori occupati, governando su milioni di individui. Eserciterà l’amministrazione della giustizia. Batterà moneta in proprio. Sarà la causa di rivoluzioni e guerre di indipendenza, dettando l’agenda di politica estera della Gran Bretagna.

Giunti in India attorno al 1608, gli agenti della Compagnia si aprono la strada con i cannoni delle loro navi, soprattutto ai danni dei portoghesi che dalla loro piazzaforte di Goa tentano di sbarrare invano la strada ai navigli inglesi. Quindi, con un’abile diplomazia e guerre vittoriose, la Compagnia toglie di mezzo i concorrenti europei: portoghesi, olandesi e francesi.
 Stabilito un primo presidio a Surat, sulla costa del Gujarat, la Compagnia si accorda con l’impero islamico dei Moghul, ottenendo una cospicua serie di privilegi in cambio di armi e aiuto militare. Soprattutto gli inviati della Compagnia riescono ad estendere la propria penetrazione commerciale anche nei territori del Bengala, a discapito degli interessi francesi, nonché a danno delle compagnie danesi e olandesi. Tramite una serie di trattative diplomatiche con la monarchia portoghese ed i sovrani Moghul, all’inizio del 1690 la Compagnia ha esteso il suo controllo anche a Bombay, Madras e Calcutta (Kolkata); cosa che le permette di intercettare il transito delle merci dal Mar Arabico al Golfo del Bengala.
 Per la difesa delle loro filiali e dei presidi commerciali, gli inglesi arruolano guardiani indigeni e mercenari occidentali (i brutali old toughs) che costituiranno il fulcro originario del Presidency Army della Compagnia, insieme ad una notevole flotta con armamento da battaglia, che i ‘presidenti’ della EIC non esitano ad usare a scopo intimidatorio e di rappresaglia, in vere e proprie campagne di guerra.
A tal proposito, a sottolineare come dietro a solidi principi di teoria economica si nascondano quasi sempre incredibili facce da culo, sarà il caso di ricordare sir Josiah Child. Direttore commerciale della EIC e tra i principali azionisti della Compagnia, Child è un pioniere nelle sviluppo della dottrina del libero scambio e delle moderne teorie monetarie. Sostiene la libera concorrenza, criticando aspramente l’intervento statale nell’economia e ogni forma di regolamentazione nella finanza. Peccato non si accorga che la ‘sua’ Compagnia agisca in regime di assoluto monopolio e possa godere di una serie di diritti esclusivi su concessione regia, che le assicurano un posizione dominante sul mercato soffocando ogni concorrenza.

 Insoddisfatto dei diritti commerciali concessi per decreto dall’imperatore Aurangzeb in Bengala, e dagli arbitri di alcuni governatori locali, sir Child scatenerà una vera e propria guerra (dal 1686 al 1690) contro i Moghul, mobilitando le truppe private della compagnia, inviando le navi della flotta a bombardare le città della costa bengalese e attaccando i convogli dei pellegrini diretti alla Mecca. In risposta, Child riceverà dall’esercito moghul una batosta umiliante; la revoca di molti dei diritti commerciali ottenuti; il pagamento di una pesantissima indennità di guerra; e soprattutto la pubblica umiliazione dei funzionari della Compagnia, costretti a prostrarsi ai piedi dell’imperatore e davanti a ghignanti dignitari francesi.
Aurangzeb, che si fa pomposamente chiamare “conquistatore del mondo”, è un fanatico integralista che dissanguerà il suo regno in una serie di guerre infinite contro le popolazioni pathan (i pashtun) dell’Afghanistan e i principi indù della confederazione Maratha. Feroce persecutore della comunità sikh, ne farà torturare e decapitare a migliaia.
Alla morte del feroce Aurangzeb nel 1707, l’Impero Moghul inizia un declino irreversibile, dilaniato da un continuo attrito di forze centrifughe che ne paralizzano l’azione in un’esistenza puramente formale. Nell’India frazionata in una miriade di feudi e piccoli regni, divisa in rissose confederazioni tra principati minori e in assenza di un governo centralizzato, indebolita dalle guerre tra regoli locali, dalle forti tasse che quasi ovunque opprimevano le popolazioni, dai governi incapaci e dal rallentamento nel commercio, l’espansione europea ha facile gioco. Perciò sarà assai facile per l’ambiziosa Compagnia delle Indie Orientali conquistarvi il predominio.

Il diritto delle genti.
 Per quanto riguarda i rapporti con le colonie francesi (e con l’omologa Compagnie française des Indes orientales), il territorio indiano diventa una sorta di prosecuzione asiatica delle guerre che in Europa oppongono le corone di Francia e Inghilterra, l’una contro l’altra armate: dapprima, nella “Guerra di Successione austriaca” (1741-1748) e poi nella “Guerra dei sette anni” (1756-1763).
Gli eserciti privati assicureranno alla Compagnia la supremazia nel controllo dell’India a discapito dei francesi, contro i quali combatteranno quasi ininterrottamente dal 1744 al 1763 (Guerre del Carnatico). Dovunque i francesi sostengono un principe indiano, gli inglesi riforniscono il suo rivale di armi, denaro, truppe e centri per l’addestramento militare. In questo modo, ne seguiva sempre una guerra locale e il vincitore rimaneva indebitato con i suoi sostenitori europei. In seguito, se non riusciva a soddisfare le richieste di diritti commerciali o fiscali, questi lo sostituivano con un governatore a loro scelta.
Le cose però non vanno sempre bene…
Nel 1756, gli agenti della Compagnia presenti a Calcutta, in previsione di un possibile attacco francese, iniziano ad ampliare e rinsaldare le difese di Fort William, costruito al tempo della guerra di Child contro i Moghul. Il principe Siraj ud-Daulah, giovanissimo nawab del Bengala che governa la città indiana, ordina l’immediata cessazione dei lavori non autorizzati, reputando le iniziative militari degli europei un’intollerabile interferenza al suo dominio. John Z. Holwell, che comanda la piccola guarnigione del forte, ignorerà completamente l’ordine del nawab indiano, che indignato assedia il forte con le sue truppe e costringe il presidio armato della EIC alla resa.

Siraj ud-Daulah, forse mal consigliato, fa rinchiudere tutti i prigionieri ed il personale occindentale presente in città dentro le famigerate prigioni del forte: una orrida fossa buia, conosciuta come “Black-Hole”. Non esistono misure certe sull’estensione della cella, né sul numero dei prigionieri rinchiusi. In proposito, circolano cifre assolutamente irrealistiche, con quasi 150 persone ammassate in circa 20 mq. Ad ogni modo, dopo neanche 24h di reclusione, a uscirne vivi furono solo in 23 su un numero di detenuti probabilmente vicino alle 64 unità.
Nel 1763 tutti i residenti britannici di Patna vengono giustiziati, per ordine del governatore moghul della città, Mir Qassim, che dopo essere stato estromesso dai commerci della Compagnia, pretendeva almeno il pagamento delle tasse dovute. Gli inglesi avevano pensato bene di introdurre clandestinamente carichi di armi in città, per armare una rivolta contro il governatore. Da qui la radicale soluzione al problema occidentale.
 Proprio questi “incidenti”, permetteranno alla Compagnia di consolidare il proprio dominio su tutto il Bengala ed estendere il proprio potere all’intero subcontinente indiano.
La conquista dell’India, ad opera di un esercito privato di dipendenti aziendali in armi, è in buona parte opera dei due generali-azionisti della compagnia, Hector Munro e Robert Clive: militari e manager a contratto per conto terzi. Entrambi contribuiranno ad organizzare e strutturare in maniera permanente l’esercito privato della EIC, perfettamente equipaggiato ed addestrato, che si rivelerà essere una formidabile macchina da guerra e di persuasione con migliaia di effettivi, arruolati tra gli indigeni (sepoy) ed europei di ogni nazione, regolarmente stipendiati dalla compagnia.
Robert Clive, con la vittoria alla Battaglia di Plassey (1757), ridurrà all’impotenza ogni velleità espansionistica dei non meno aggressivi francesi, alleati con i signorotti moghul del Bengala.
Hector Munro stroncherà l’ultima coalizione dei principi del Bengala alla Battaglia di Buxar (1764).


Ma a consolidare la supremazia britannica sui territori del Bengala, sarà la devastante carestia del 1770, sulla quale peraltro gli affaristi della EIC realizzarono enormi profitti, lucrando con i costi al rialzo sui generi alimentari di prima necessità.

Un’amministrazione equa.
 Sui metodi disciplinari e l’amministrazione della giustizia, gli ufficiali della EIC offrono subito un ottimo saggio sulla superiorità della civiltà occidentale, rispetto alla barbarie asiatica…
Tra le unità indigene (sepoy) di più antica formazione, inquadrate nell’esercito coloniale del Bengala, ci sono gli 820 fucilieri indiani del Lal Paltan, vestiti con la tipica giubba rossa (lal). Questa formazione costituirà il nucleo originario del futuro I° Bengal Native Infantry: i famosi fucilieri del Bengala. Arruolato nel 1757 dal maggiore-generale Robert Clive, è un reparto che si è fatto onore alla battaglia di Plassey.
Il 08/09/1764 nella località di Manji, i soldati bengalesi del Lal Paltan danno forse vita ad una delle prime rivendizioni salariali della storia militare moderna, chiedendo un aumento di paga attraverso l’attribuzione di una specie di bonus produttività (il batta). E nel farlo prendono in ostaggio i propri ufficiali, salvo ripensarci quasi subito. Il gen. Hector Munro spiccerà la faccenda a modo suo: fa afferrare una ventina di ammutinati, li lega alla bocca dei cannoni ed ordina ai suoi artiglieri di dar fuoco alle micce.


Questo originale metodo di esecuzione venne ampiamente impiegato durante la Grande Rivolta del 1857, quando nel maggio di quell’anno i sepoys dell’Armata del Bengala si rivoltarono contro i loro ufficiali europei.

«Il 12 Giugno [1857 n.d.r] a Peshawar, quaranta uomini sono stati processati, dichiarati colpevoli, e condannati ad essere giustiziati venendo dilaniati a cannonate. L’esecuzione è stata un terribile spettacolo. La truppa è stata schierata a formare i tre lati di un quadrato, al centro del quale sono state piazzate dieci batterie puntate verso l’esterno. In un silenzio mortale, è stata letta la sentenza del tribunale, e a conclusione della cerimonia, ad ogni cannone è stato legato un prigioniero con la schiena rivolta contro la bocca da fuoco e le braccia legate strettamente alle ruote del fusto.
Appena viene dato il segnale, la salva viene sparata. La scarica, come è ovvio, taglia il corpo in due; si possono vedere tronchi umani, teste, gambe e braccia volare via in un istante per tutte le direzioni. Siccome in questa occasione sono stati usati soltanto dieci cannoni, i resti umani sono stati rimossi per quattro volte. Dei quaranta condannati, tutti sono andati incontro al loro destino con fermezza, ad eccezione di due: al momento giusto, si sono lasciati scivolare a terra e le loro cervella sono state fatte schizzare via da una scarica di fucileria.
Un’altra esecuzione con modalità simili è avvenuta il 13 Giugno a Ferozepore, tutte le truppe disponibili ed i funzionari amministrativi sono convenuti per assistere alla scena. Alcuni degli ammutinati sono stati impiccati su delle forche erette durante la notte precedente e lasciati appesi. Gli ammutinanti sono stati portati nella piazza centrale, dove si è proceduto a leggere la sentenza della corte marziale.»

  Harper’s Weekly
  (15/02/1862)

Se però i condannati accettavano di diventare testimoni dell’accusa (Queen’s evidence), denunciando i nomi di presunti complici, potevano confidare nella benevolenza delle autorità, sperando in una dilazione di pena e vedersi commutata la condanna in impiccagione. È superfluo dire che in questo meccanismo, pur di sottrarsi al supplizio, i condannati snocciolavano nomi a caso coinvolgendo chiunque.


A Ferozepore, gli ammutinati che decisero di diventare delatori, una decina, furono sottratti all’ultimo momento dal gruppo dei condannati e costretti ad assistere alla sentenza capitale, coperti dagli insulti dei loro commilitoni prossimi all’esecuzione…

«Racconta un testimone oculare: “La scena e il fetore furono insopportabili. Mi sentii terribilmente sconvolto e potei notare che i numerosi spettatori indigeni erano terrorizzati; non solo tremavano come foglie, ma avevano assunto un colorito innaturale. Non fu presa alcuna precauzione per ripulire la bocca dei cannoni dai resti umani; la conseguenza fu che gli spettatori vennero pesantemente imbrattati dagli schizzi di frattaglie e un uomo in particolare rimase stordito da un braccio divelto che lo aveva colpito in pieno!»

Evidentemente, deve trattarsi dell’applicazione pratica delle massime del gen. Charles J. Napier, che pure non mancava di un certo spirito:

“La mente umana non è mai disposta meglio alla gratitudine e all’affetto, come quando è ammorbidita dalla paura”

C’è da dire che la grande rivolta indiana del 1857-1858 e l’estrema brutalità con la quale venne schiacciata, non portò fortuna alla Compagnia ed anzi ne decretò il declino, a partire dall’estromissione della EIC nel governo dei territori indiani che passarono sotto il controllo diretto della Corona britannica.

«La rivolta del ’57 durò diciotto mesi e causò un numero elevatissimo di vittime; la scintilla che l’aveva accesa era stata, ufficialmente, l’eccessiva ingerenza inglese nelle pratiche religiose locali, tra le quali bisogna ricordare c’era anche quella intollerabile per una mentalità occidentale che la vedova fosse bruciata viva sulla pira funebre accanto al cadavere del marito. Nell’anno e mezzo che ci volle per sedare la rivolta fu fondalmentale l’aiuto delle truppe del Punjab rimaste fedeli all’Inghilterra. La repressione fu molto sanguinosa e da allora i rapporti tra inglesi e indiani non furono più gli stessi. Il “grande ammutinamento” pose per sempre fine alla luna di miele che tale era stata fuor di metafora, considerando l’alto numero di matrimoni misti tra gli inglesi, che arrivavano quasi sempre senza famiglia, e che si legavano a donne indiane.»

  Peter Kelly
“L’Ultimo Impero”
  Panorama Mese (Ottobre 1982)

Diciamo anche che le cause della rivolta furono anche un po’ più complesse: oltre alle frizioni religiose e le discriminazioni, c’erano le requisizioni forzate, le confische arbitrarie di beni ed il sistema di espropriazioni alla base della famigerata dottrina dell’estinzione, che contemplava la decadenza dei diritti di proprietà (altrui). Con questa norma, una compagnia privata (nella fattispecie la EIC) poteva espropriare discrezionalmente l’aristocrazia indiana dei suoi possedimenti fondiari. Si aggiunga infine una tassazione sempre più spropositata e destinata a mantenere un esercito d’occupazione. Invece, a far crescere il malumore tra le truppe dei nativi, contribuì non poco (vera o falsa che fosse la diceria) l’uso del grasso d’origine animale (suino o bovino, che aveva il formidabile pregio di far incazzare tanto gli indù quanto i musulmani) usato per impermeabilizzare l’involucro chiuso (la ‘cartuccia’) con la carica di polvere da sparo, che per essere aperto andava strappato coi denti. Si aggiunga la distruzione dell’economia locale (l’industria del cotone), con la politica monopolistica perseguita dalla compagnia.


La tensione tra funzionari della compagnia e nativi montò velocemente, finché la rivolta esplose violentissima e si espanse come una fiammata.
A Cawnpore, nell’estate del 1857 si consuma uno dei fatti più gravi, quando un gruppo di residenti europei presi in ostaggio viene letteralmente macellato. D’altra parte, l’osceno massacro di Cawnpore verrà presto compensato dalle efferatezze dei soldati britannici. Dopo l’eccidio di Cawnpore, il ten. col. James Neill fa terra bruciata di tutti i villaggi che incontra sul suo passaggio trucidando la popolazione, col risultato di aumentare le adesioni nel numero dei ribelli. Uno degli attendenti del comandante Neill, il maggiore Renaud, ha un sistema infallibile per riconoscere gli insorti: l’espressione del viso. E per una questione di smorfie fa impiccare tutti i contadini che incrocia per la via, durante la sua marcia, col risultato che gli abitanti dei villaggi circostanti si danno alla fuga portando con sé tutte le provviste e lasciando la truppa a corto di rifornimenti.

Nella repressione vengono impiegati con successo i temibili gurkha nepalesi e le fedeli truppe dei Sikh. Ma nelle efferratezze si distinsero soprattutto i battaglioni europei e le unità di rinforzo inviate dalla Gran Bretagna. Né mancarono ufficiali che menarono pubblico vanto delle loro prodezze, inviando ai giornali inglesi dettagliate descrizioni delle loro atrocità o compiacendosi per quelle altrui. Vengono condotte rappresaglie indiscriminate contro la popolazione civile: monumenti, dimore patrizie, luoghi di culto… sono presi a cannonate per rappresaglia (una pratica che sarà riproposta anche in Cina). Le devastazioni raggiungeranno il culmine nel saccheggio di Dehli, dove la popolazione viene trucidata con cariche alla baionetta. Per ferocia e intraprendenza di saccheggiatore, si distingue il maggiore William Stephen Raikes Hodson, che diventerà famoso per il suo squadrone di cavalleria irregolare, gli Hodson’s Horse (o raiders), e la loro uniforme color kaki per meglio mimetizzarsi negli agguati.

Dopo la conquista di Dehli, l’antica capitale Moghul, il maggiore Hodson farà recapitare al vecchio sovrano la testa dei suoi figli, che ha ucciso personalmente e provveduto a far decapitare dopo la resa.

Tuttavia, nella prosa di alcuni storici britannici, tutto degrada dolcemente in una atmosfera quasi aulica, appena offuscata da qualche incomprensione…

 «Tutto era cominciato nella prima metà del XVII secolo. In quell’epoca gli Inglesi presenti in India erano soprattutto mercanti, ma c’era qualche soldato di ventura che poneva la sua capacità militare al servizio di qualche rajah, per garantirgli la vittoria nelle sue piccole guerre locali. In entrambi i casi, si trattasse cioè di mercanti o di soldati, questi inglesi erano dei professionisti che rimanevano in India fino a quando lo richiedeva il loro lavoro. Finito questo o trascorsi gli anni della vita in cui lo si poteva svolgere, rientravano in Inghilterra.
Questa rotazione ininterrotta, che si è mantenuta anche quando l’India è diventata un possesso della Corona, ha avuto due conseguenze principali: la prima è che in India non si è mai formato una vera classe di coloni residenti come invece è accaduto altrove (per esempio nelle colonie inglesi in Africa). La seconda è che questi mercanti e questi soldati, che rientravano in patria dopo venti o trenta anni di vita coloniale, hanno contribuito a trasformare il costume inglese quasi nella stessa misura in cui, con la loro presenza in quella colonia, avevano cambiato il costume indiano.
Per quasi un secolo e mezzo questo intricato rapporto ruotò attorno a un interesse commerciale prevalente, rappresentato dal cotone. Una fibra tessile a basso costo era allora in grado di modificare radicalmente le abitudini inglesi e, più in generale, europee. Quando si fu in grado di produrre e tessere cotone in abbondanza, ci si rese conto che la nuova fibra poteva sostituire la seta e il lino nella fabbricazione della biancheria e che, di conseguenza, la maggior parte delle persone avrebbe potuto cambiarsi con molta più frequenza di prima. Ai tempi del Re Sole e di Luigi XVI era stato necessario inventare complicati profumi, per poter sopravvivere ad una riunione di molte persone in un ambiente chiuso; l’arrivo del cotone rappresentava, anche da questo punto di vista, un’importante novità e anzi quasi una rivoluzione del costume.
Per la tessitura del cotone l’India disponeva di una fitta rete di piccoli laboratori artigiani, spesso a conduzione familiare. Purtroppo quei laboratori erano destinati a non durare molto. Quando in Inghilterra cominciò a svilupparsi quella che in seguito sarebbe stata definita “rivoluzione industriale”, gli imprenditori inglesi scoprirono in brevissimo tempo che era molto più conveniente importare il cotone dalle piantagioni degli Stati Uniti, dove il lavoro degli schiavi consentiva costi di partenza irrisori, tesserlo sui telai a vapore delle nascenti industrie del Lancashire e quindi spedire in India le pezze già tessute.
Nel giro di pochi anni l’India diventò così da esportatrice a importatrice di cotone. E questo rovesciamento della bilancia commerciale nel settore tessile soppiantò e distrusse la sua piccola industria cotoniera. Per dirla tutta, l’India si trasformò in un mercato monopolistico per i cotoni di fabbricazione inglese.
L’esempio del cotone mostra bene come per una quantità di anni il destino dell’India venne deciso non tanto dal Parlamento di Londra, quanto dalla Camera di Commercio di Manchester. Si può discutere a lungo se i mercanti siano peggiori o più oculati amministratori dei politici; quello che è certo è che i mercanti prediligono la stabilità amministrativa e la quiete politica. La conseguenza di questa predilezione fu che la Compagnia delle Indie cominciò ad arruolare sempre più apertamente un esercito, formato da milizie quasi interamente indiane, e con la forza di questo braccio armato, nonché di un controllo politico sempre più esteso, riuscì a far scomparire dall’India gli altri insediamenti coloniali: portoghesi, olandesi e francesi.
In definitiva, da Calcutta il dominio inglese si estese a tutto il subcontinente e nel 1849 anche l’ultima provincia, il Punjab, venne annessa al prezzo di considerevoli sacrifici; sia perché i guerrieri sikh erano fin da allora molto coraggiosi, sia perché potevano contare sulla consulenza di esperti artiglieri francesi, reduci della Grande Armée di Napoleone.»

 Peter Kelly
“L’Ultimo Impero”
 Panorama Mese (Ottobre 1982)

In realtà i consulenti d’artiglieria che offrirono i loro servigi ai vari principi indiani, in buona parte, non erano francesi, ma.. italiani! Tuttavia, la folla di personaggi incredibili e pittoreschi, ufficiali di ventura e avventurieri europei al servizio delle corti più esotiche, riserva sorprese davvero inaspettate e meriterà una trattazione a parte…

 Continua.

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SOCIETY

Posted in Business is Business, Masters of Universe with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 28 luglio 2012 by Sendivogius

Lo ‘Stato’ completamente disinteressato al benessere dei propri cittadini, che esplica i suoi poteri unicamente come detentore del monopolio della forza e come mero collettore d’imposte, per il finanziamento dei suoi strumenti repressivi, ha ragione d’essere?
Lo ‘Stato’ che non garantisce i servizi essenziali per l’emancipazione civile, e per la promozione sociale della propria cittadinanza, ha senso?
Cosa impedisce ad uno ‘Stato’, incentrato esclusivamente sull’interesse privato e sulla prevalenza del particolare economico, dall’agire come un’impresa in regime di monopolio, dove i cittadini sono ‘azionisti’ con diritti proporzionali alla quota capitale investita?
Soprattutto, nella cooptazione politica e finanziaria di elite tecnocratiche, cosa impedisce ad una società di capitali di farsi essa stessa ‘Stato’ e di sostituire l’amministrazione pubblica con una holding di servizi privati su concessione?
In una entità ‘societaria’ in cui la partecipazione democratica viene sostituita dalla partecipazione azionaria, frazionata nell’anonimato di pacchetti a responsabilità limitata, è chiaro che l’unico “scopo sociale” sia il profitto tramite la massimizzazione degli utili. In tale prospettiva, ogni attività è lecita se funzionale all’incremento dei ricavi…
Pertanto, se il ‘mercato’ è propizio, un’Impresa-Stato può trovare vantaggioso la tratta degli schiavi o il commercio della droga, curando la produzione e lo spaccio all’ingrosso delle sostanze stupefacenti, come fossero una remunerativa diversificazione delle proprie attività commerciali, giacché non deve rispondere ad altra logica se non a quella del profitto e all’incremento dei dividenti da distribuire ai propri azionisti, nell’ambito dell’unica “società” che riesce a concepire: la società di capitali a scopo di lucro.
In fondo è già accaduto; esistono precedenti illustri: ad esempio, le due Guerre dell’Oppio, in virtù del sacrosanto diritto di spacciare droga ai cinesi da parte della Compagnia delle Indie Orientali, in nome della libertà di commercio. Dimostrazione pratica di come per molte aziende il consumatore ideale sia un tossico.

La “Compagnia delle Indie” costituisce uno dei casi più eclatanti, in cui una società anonima per capitali si creò un esercito privato e fondò un Impero militare, appaltandolo alla Corona britannica per la difesa dei propri interessi commerciali.
E, del resto, proprio la storia inglese ci insegna che uno dei modi migliori per controllare uno Stato, dettandone le politiche (e le leggi), consiste nel gestirne il debito, con tutta la fantasia della finanza creativa…

«A cavallo del XVII e XVIII secolo, gli agenti di Borsa londinesi, noti come ‘jobbers’, si aggiravano nei malfamati caffé di Exchange Alley …in cerca di investitori sprovveduti ai quali vendere azioni di società fantasma. Società che fiorivano velocemente alimentate dalla speculazione, per poi fallire altrettanto rapidamente. Delle 93 società attive tra il 1690 e il 1695, nel 1698 ne rimanevano attive soltanto venti.
[…] Nel 1720 il Parlamento inglese, di fronte al proliferare di corporation truffaldine che infestavano Exchange Alley, aveva dichiarato l’istituzione illegale (seppure con alcune eccezioni). A indurlo all’azione fu il famigerato tracollo della South Sea Company.
Costituita nel 1710 per condurre traffici commerciali in esclusiva con le colonie spagnole del Sud America, ivi compreso il commercio degli schiavi, la South Sea Company nacque subito come un grande imbroglio. I suoi amministratori, tra gli esponenti più illustri della società politica dell’epoca, conoscevano ben poco del Sud America, avevano rapporti assai limitati con quel continente (a quanto risulta, il cugino di uno degli amministratori risiedeva a Buenos Aires), e dovevano per forza di cose essere a conoscenza che il re di Spagna non avrebbe concesso loro l’autorizzazione necessaria ad operare nelle colonie sudamericane. Come ammise uno degli amministratori: “A meno che gli Spagnoli non siano totalmente privi di buon senso… e decidano di abbandonare i propri commerci, gettando al vento l’unica fonte di guadagni rimasta loro al mondo e, in breve, ponendo le basi della loro rovina”, non si disferanno mai dell’esclusiva possibilità di commerciare con le loro colonie. Ciò nonostante, gli amministratori della South Sea Company promettevano ai potenziali investitori “profitti favolosi” e montagne d’oro e d’argento attraverso l’esportazione di comuni prodotti britannici come il formaggio del Cheshire, la ceralacca e i sottaceti. Gli investitori accorsero in massa per accaparrarsi le azioni della compagnia, che schizzarono incredibilmente verso l’alto, aumentando di ben sei volte il loro valore in un anno per poi crollare velocemente quando gli azionisti, resisi conto che il titolo era diventato cartastraccia, rivendettero tutto in preda al panico […] La South Sea Company fallì. Intere fortune si volatilizzarono, vite umane furono rovinate, uno degli amministratori della compagnia, John Blunt, venne colpito con arma da fuoco da un azionista incollerito, una folla tumultuosa assediò Westminster e il re dovette tornare precipitosamente a Londra dalla sua residenza di campagna per affrontare la crisi

  Joel Bakan
 “The Corporation
  Fandango Libri, 2004

Al principio del XVIII secolo, i vari Stati europei si ritrovano a dover gestire un gigantesco debito pubblico, ereditato da quasi un secolo di guerre su scala continentale. La trovata geniale dei governi dell’epoca risiede nella privatizzazione del debito, attraverso la costituzione di società anonime che ne rilevino la gestione, in cambio di una serie di agevolazioni e del monopolio dei commerci sui nuovi mercati coloniali, con diritti esclusivi di sfruttamento.
Nella fattispecie, nel 1719 il debito pubblico della Gran Bretagna ammontava ad oltre 50 milioni di sterline, 18 milioni dei quali ripartiti in tre grandi gruppi privati:
 3,5 milioni alla Banca d’Inghilterra;
 3,2 milioni alla Compagnia delle Indie Orientali;
 11,7 milioni alla South Sea Company.
In tale ottica, la ‘South Sea Company’, ovvero la Compagnia dei Mari del Sud, nasce con uno scopo preciso: ripagare i debiti della Corona britannica, convertiti in azioni della Compagnia. In cambio della sottoscrizione delle quote sociali, il Governo pagava agli azionisti un tasso fisso del 6%, garantendo alla Compagnia finanziamenti e fondi patrimoniali per dieci milioni di sterline, in cambio di una tariffa sui beni di importazione.
La South Sea Company nasce nel maggio del 1711 da un’idea dell’immaginifico ministro delle finanze, e conte di Oxford, Robert Harley, il quale aveva già provato a rifinanziare il debito dello Stato, attraverso l’istituzione della Lotteria nazionale, gestita in proprio dalla società finanziaria di John Blunt che sarebbe poi diventato uno dei principali amministratori della nuova compagnia.
La South Sea Company in realtà ha un mercato ed un raggio d’azione quasi inesistente: i suoi commerci si limitano ad un solo viaggio all’anno per un unico naviglio nelle colonie spagnole (le autorità iberiche ne boicottano in ogni modo l’attività) e fonda il grosso dei commerci sulla tratta degli schiavi africani (peraltro sub-appaltata a mercanti olandesi). Deve inoltre affrontare l’alta mortalità del ‘carico’. Peraltro, la South Sea Co. gestisce una quota minima dell’infame commercio, appannaggio quasi esclusivo della Royal African Company che monopolizza i traffici, garantendo la ‘fornitura’ annuale di 4.800 schiavi (secondo le clausole del Trattato di Utrecht del 1713) ai quali aggiunge la manodopera servile smerciata in Giamaica. Inoltre, possiede uffici commerciali in tutti i principali porti dell’America meridionale (Buenos Aires, Cartagena, Caracas), con basi all’Havana e Panama.  
Nata per vendere debiti camuffati da azioni al portatore, la Compagnia dei Mari del Sud ha un business puramente aleatorio. Ciò non impedisce però alla compagnia di piazzare in massa i suoi titoli a rendimenti sempre più vertiginosi, innescando una bolla speculativa gonfiata sul nulla che però attrae sempre più investitori. Tutti evidentemente molto entusiasti della solidità finanziaria della Compagnia ed i concreti riscontri nell’economia reale. Gli stessi dirigenti alimentano una speculazione costante sui titoli della Compagnia, fino all’inevitabile esplosione della bolla finanziaria che, insieme alla surreale “Bolla dei Tulipani” in Olanda, ed i crolli pressoché contemporanei delle Compagnie francesi, ingenereranno una delle prime e più gravi crisi economiche della storia europea.

Ma, a tutt’altra latitudine, non andrebbe nemmeno sottovalutata la proficua esperienza nipponica delle Zaibatsu

«In Giappone, dopo la Restaurazione Meiji del 1868, si sviluppò una forma di capitalismo finanziario che, a tutt’oggi influenza fortemente le società per azioni in questo paese. Paragonabili alle società finanziarie, si formarono delle gigantesche concentrazioni industriali, dette zaibatsu, che divennero la forma dominante nell’organizzazione industriale del settore capitalistico avanzato giapponese. Zaibatsu si può tradurre come “elite finanziaria”: si trattava di società finanziarie che possedevano fondi di investimento in diverse industrie, organizzate sotto il controllo di una famiglia per assicurare la cooperazione tra aziende con interessi potenzialmente divergenti.
[…] Nel novero delle società controllate da ogni zaibatsu, era sempre presente una banca, la quale forniva il capitale per tutto il gruppo. Al vertice della zaibatsu c’era una società finanziaria famigliare che possedeva tutto il capitale e che controllava un gruppo di imprese, nominandone i direttori ed i dirigenti

Larry Allen
Il Sistema finanziario globale (1750-2000)
Mondadori, 2002.

 Il termine zaibatsu, in sommi capi, è traducibile come “gruppo economico”, ma anche “cricca finanziaria”, ed indica una concentrazione di ricchezza gestita su base clanica: zai (ricchezza) e batsu (congrega familiare). Fedeli incarnazioni della società giapponese, le zaibatsu ne ricalcano la struttura verticale, fortemente gerarchizzata. Nati originariamente come gilde mercantili su base famigliare, sono gruppi fondati su di un ordinamento piramidale; strutturate in holding finanziarie, operano in ogni ambito commerciale e industriale. Hanno ramificazioni in tutti i settori dell’economia nazionale, tramite il controllo dei pacchetti azionari di maggioranza e con partecipazioni incrociate, da parte di un ristretto numero di clan familiari, coagulati attorno ad una famiglia dominante alla quale sono sottomessi da vincoli di fedeltà e vassallaggio. Si tratta di un retaggio feudale, che nella sua impostazione clanica presenta non poche analogie col sistema mafioso.
In cambio dello sviluppo economico e militare del Paese, alle zaibatsu vengono accordate esenzioni fiscali e agevolazioni commerciali. Col tempo, finiscono col cumulare in pochissime mani un potere enorme, costituendo un vero e proprio stato parallelo (e riconosciuto) all’interno dello Stato ufficiale. Ne condizionano le scelte economiche e ne determinano la stessa conduzione politica, prosperando con le commesse militari e lo sfruttamento selvaggio dei territori occupati in Corea ed in Cina. Il governo nipponico arriverà ad affidare alle zaibatsu la raccolta delle tasse, gli approvvigionamenti per l’Esercito, e l’intera gestione del commercio estero.

Durante gli anni ‘30, tramite le loro banche, arrivano a controllare l’intero sistema creditizio del Giappone. Sempre alle zaibatsu sono ricollegabili i sei maggiori istituti bancari del Paese. Attraverso le loro sussidiarie e le proprie fiduciarie, monopolizzano il risparmio privato (oltre il 70% dei depositi bancari a tasso fisso), grazie al quale possono gestire a proprio piacimento la leva finanziaria, rafforzando i vincoli di interdipendenza e la creazione di nuovi cartelli economici. Naturalmente, all’alba della Grande Depressione del 1929, approfittano della recessione economica con speculazioni ribassiste sul valore della moneta.
Alla fine del decennio, la quasi totalità dell’apparato industriale (e militare) del Giappone è sotto il dominio economico (e politico) di quattro potentati (le shidai zaibatsu): Mitsui, Mitsubishi, Sumitomo, Yasuda.
A queste, si affianca un secondo livello, che ricomprende altre mega-corporazioni chiamate shinko zaibatsu tra le quali vale la pena di ricordare: la Nissan; la Nakajima Hikoki, industria aeronautica che si divideva le commesse dell’aviazione militare insieme alla Mitsubishi; la Nomura, specializzata in servizi finanziari e consulting, è l’omonima banca d’affari che nel 2008 ha rilevato la Lehman Brothers dopo il fallimento;
Al principio degli anni ’40, le shidai zaibatsu hanno il controllo diretto di oltre il 30% dell’industria mineraria, chimica e metallurgica, il 60% degli scambi commerciali con l’estero, con partecipazioni consistenti nella flotta mercantile.

La più antica e la più potente è la Mitsui, con un impero commerciale che spazia dalla distribuzione alimentare all’industria manifatturiera, dalle compagnie assicurative alle società armatoriali, dalle assicurazioni navali contro gli incendi alla raffinazione del petrolio, dal commercio del cotone a quello del latte condensato, dalla macinazione del grano alla vendita di apparecchiature elettriche… con le sue società controllate arriverà, da sola, a detenere il 15% della ricchezza nazionale del Giappone.

Il gruppo Mitsui è gestito da 11 famiglie imparentate col fondatore originario della compagnia: Mitsui Takatoshi, un commerciante di tessuti che aveva integrato i proventi della vendita di kimono con la creazione di una catena di cambia-valute per la raccolta fiscale. Agli inizi del XX secolo, l’originario negozio della famiglia Mitsui si è trasformato in uno dei principali gruppi finanziari di tutto il Giappone, fondato su sei grandi società principali ed un corollario di sussidiarie: la Banca Mitsui (la prima banca nella storia giapponese); la Toshin depositi e gestione risparmi; la Fiduciaria Mitsui; la Assicurazioni Mitsui, specializzata in polizze sulla vita; la Mineraria Mitsui e la Mitsui Bassan. Quest’ultima è in pratica la holding del gruppo per il controllo delle imprese consociate: 46 imprese principali e 143 collegate.

Con la preveggenza che ne contraddistingue i dirigenti, la Mitsui decide di diversificare il business puntando su un’idea di successo… Tra le trovate più geniali, attraverso le sue sussidiare per la lavorazione tabacchi su territorio cinese, crea una produzione speciale per fumatori stranieri, sfruttando il nome di una popolare marca di sigarette giapponesi: “Golden Bat” (il pipistrello d’oro). La variante è destinata esclusivamente alla vendita estera (in prevalenza in Cina e Manciuria) e assolutamente vietata sul mercato giapponese. Nel filtro della sigarette viene infatti iniettata in gran segreto una piccola percentuale di oppio ed eroina, per aumentare la dipendenza nei consumatori e aumentare così i profitti. In pratica, la Mitsui ha anticipato la creazione del crack. Lo spaccio del nuovo prodotto viene interamente affidato ai militari nipponici, in cambio di lucrose provvigioni…

Insomma, tornando all’attualità presente, a volte si ha la sensazione di avere a che fare con dei pericolosi psicopatici, dall’indefessa coazione a delinquere. Se questi sono (e sono stati) gli “operatori del mercato” e gli “investitori”, ai quali stiamo rimettendo la valutazione dei nostri bilanci, le nostre politiche fiscali, il nostro futuro e finanche la nostra stessa sopravvivenza, c’è da chiedersi chi sia più folle.

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