Archivio per Ceto medio

L V I

Posted in A volte ritornano with tags , , , , , , , , , on 29 novembre 2018 by Sendivogius

«L’effetto è a valanga, il fascismo si diffonde con la progressione di un contagio. È gente nuova, gente ignota, gente che con Lui fino a un anno prima non avrebbe preso nemmeno un caffé, una folla di impiegati e bottegai che assisteva indifferente alla politica, né di destra né di sinistra, e nemmeno di centro, né rossi né neri, gente che si muove sempre e per sempre nella zona grigia.
[…] Che cosa meravigliosa il panico, questa levatrice della Storia! Proprio questo potrà essere il loro meraviglioso baratto: odio in cambio di paura. I nuovi fascisti sono tutta gente che fino a ieri tremava per la paura della rivoluzione socialista, gente che viveva di paura, mangiava paura, beveva paura. Uomini che frignavano nel sonno come bambini…. Adesso alla borsa valori dei pezzenti stanno scambiando il metallo pesante dell’angoscia con la valuta pregiata dell’odio mortale.
Dei piccolo-borghesi odiatori: di questa gente sarà formato il loro esercito. I ceti medi declassati a causa della speculazione del grande capitale, gli ufficialetti che non si rassegnano a perdere un comando per tornare alla mediocrità della vita quotidiana, i travet che più di ogni altra cosa si sentono insultati dalle scarpe nuove della figlia del contadino, i mezzadri che hanno comprato un pezzetto di terra e adesso sono pronti a uccidere pur di mantenerla; tutte brave persone prese dal panico, cadute in ansietà. Tutta gente scossa nella propria fibra più intima da un desiderio incontenibile di sottomissione a un uomo forte e, al tempo stesso, di dominio sugli inermi. Sono pronti a baciare le scarpe di qualsiasi nuovo padrone, purché venga dato anche a loro qualcuno da calpestare.
[…] Ma chi è davvero questa gente? Dov’erano rintanati fino a ieri? Non è possibile che sia stato lui a far nascere questa folla di pantofolai che all’improvviso impugnano il bastone. E nemmeno la guerra…. Il virus deve essere stato incubato in tempo di pace. Non può essere altrimenti. Nella guerra non sono rinati, la guerra li ha soltanto restituiti a se stessi, li ha fatti diventare ciò che già erano. Il fascismo, forse, non è l’ospite di questo virus che si propaga, ma l’ospitato

Antonio Scurati
“M il figlio del secolo”
Bompiani, 2018

Il Re della Giungla

Posted in A volte ritornano with tags , , , , , , , , , , , , , , , on 15 aprile 2014 by Sendivogius

Le avventure di Tarzan

Cercare di penetrare il pensiero di Grillo è come effettuare una rettoscopia a mani nude e pensare di riuscire a trarne qualcosa di buono. Perché solo un avanzo di fogna di tal fatta, per giunta applaudito dalla platea pagante delle sue scimmie urlatrici, poteva parafrasare le parole di Primo Levi e ridurre una tragedia umana e personale a strumento propagandistico. Completamente incapace di percepirne il senso, ne stravolge il messaggio, senza cogliere minimamente l’abnormità della manipolazione, funzionale alle sue squallide mitologie distopiche da psicopatico gravemente dissociato dalla realtà e, soprattutto, da ogni forma di decenza.

Nessuno è più pericoloso di un uomo privo di idee, il giorno che ne troverà una gli darà alla testa come il vino ad un astemio.”

  Gilbert Keith Chesterton
Eretici” (1905)

Tutto è stuprato e ricondotto all’appagamento del narcisismo ipertrofico del Deretano del MoVimento: il contenitore costruito a propria misura, del quale amplifica i peti alla stregua di un megafono, mentre stacca i biglietti e conta i soldi vendendo spettacoli per comizi.

Pertanto, escluso qualsiasi spessore di una qualche rilevanza ‘politica’, ogni categorizzazione patologica del personaggio e della sua canea al guinzaglio sarebbe superflua… Ci troviamo infatti dinanzi all’imbecille supremo, che trascende tutte le leggi della stupidità. È tesi, antitesi, e sintesi del cretino totale; un Fruttero ed un Lucentini non basterebbero per descrivere la prevalenza di un simile fenomeno da discarica, prima ancora che da baraccone.
Convinto com’è di essere il centro dell’universo, non si accorge di costituirne piuttosto un’escrescenza emorroidale, dimenticata nella più infima ed oscura periferia del cosmo.
Come altri istrioni prestati all’antipolitica prima di lui…

“..ha l’istinto del condottiero di ventura, la pregiudiziale che gli uomini devono seguire lui, il gusto per l’unanimità cortigiana. La sua politica verso i partiti ha la teatralità di tutti i deboli e ignora che i grandi statisti hanno sempre saputo dominare le differenze della realtà senza sopprimerle.
[…] Infatti per i nostri connazionali non i fatti contano ma l’enfasi di una dimostrazione ben riuscita in piazza e la voce grossa del fanatismo presuntuoso.

  Piero Gobetti
(30/10/1923)

braccino sempre teso Ovviamente, coerenza, linearità di pensiero e realismo critico, sono totalmente ininfluenti e tutto sommato inutili nel vuoto propositivo e nell’inconsistenza programmatica di una setta di perdigiorno reclutati nei bar (gente che ha superato il 30esimo anno con un c/v in bianco), laureati in fuffologia applicata o fuori corso da un paio di decadi, e dai quali provengono gli “attivisti” miracolati in parlamento con una ventina di voti on line ed auto-votati all’irrilevanza politica, che vegetano e strepitano nell’adorazione di “Beppe”. Come verità di fede, sono pronti a sostenere tutto ed il contrario di tutto, a seconda di come scroscia il Vate® la mattina sul Sacro Blog.
Il successo di una simile accozzaglia di contraddizioni senza senso è la dimostrazione provata di quanto Chesterton andava affermando sugli istinti dell’uomo comune…

“Non è che la gente che smette di credere alla politica non crede più a niente, crede a qualsiasi cosa”

In fondo, si tratta dei soliti avanzi di cetomediume arrabbiato, piccoli borghesi terrorizzati dalla prospettiva di sembrare poveri, ed i loro lagnosi rampolli dalle ambizioni frustrate ed il forcone di cartone…
Sono i degni eredi di quel popolo delle scimmie di cui già parlava Antonio Gramsci, in concomitanza con la crisi del parlamentarismo, e che andranno a gonfiare le fila del fascismo incipiente:

«La piccola borghesia si incrosta nell’istituto parlamentare: da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull’amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l’unico strumento di controllo e di opposizione agli arbitrii del potere amministrativo è l’azione diretta, è la pressione dall’esterno.
[…] Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti a una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti…. con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della giungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della giungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc., ecc. Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d’opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza.
[…] Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri

  Antonio Gramsci
“Il Popolo delle Scimmie”
(02/01/1921)

Perché, passano i secoli, ma la giungla è vasta e sempre piena di Tarzan brizzolati con le loro tribù di macachi ammaestrati.

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Il Cittadino che protesta

Posted in A volte ritornano with tags , , , , , , , , , on 4 giugno 2012 by Sendivogius

«Il cittadino impiegato […] compila i suoi ordini del giorno e li manda ai giornali…. ad ogni rovescio il cittadino scrive la sua protesta stizzosa ai giornali, e poi s’acquieta fino al nuovo rovescio e alla nuova epistola, oppure il cittadino propone di raccogliere “in un libro d’oro” [e che oggi verrebbe invece chiamato ‘libro nero’] il nome di quelle ditte e di quegli istituti che già hanno largheggiato in concessioni ai dipendenti [da sempre il giochino preferito degli italiani che amano far di conto di stipendi ed emolumenti altrui].
Il cittadino vuol mantenersi nella legalità. Egli è forse dei più colpiti nell’attuale stato di cose borghese, ma vuole mantenersi nella legalità. Pensate: l’impiegato ha uno stipendio fisso, accertato fino all’ultimo centesimo dall’agente delle tasse…. ad ogni nuovo aumento di tasse e rincaro in genere della vita, tutti i fornitori si riversano sui clienti e chi sta peggio di tutti è l’impiegato che non può rifarsi su nessuno, che non è organizzato per la lotta di classe ed è tutto quanto alla mercé dei suoi principali. Il padrone di casa, che vuol mantenere intatto il suo reddito, distribuisce la nuova tassa sugli inquilini; l’esercente sui suoi clienti, il parrucchiere sui suoi pazienti, il cinematografo, il trattore… Nessuno vuole che la nuova tassa rappresenti un suo sacrificio personale, e la fa pagare agli altri. La macchina dell’economia borghese funziona magnificamente: ogni nuova gravezza va a schiacciare il consumatore, il proletario, ma se questi è organizzato, può almeno in parte rifarsi anch’egli e premere perché gli sia aumentato il salario. L’impiegato, no: il suo stipendio è l’ultima ruoticina dell’ingranaggio, quella che non ha nessun’altra presa che viene mossa dal colossale congegno, ma sbatte inutilmente le sue palette all’aria e macina solo lettere ai giornali e libri d’oro per chi è un po’ misericordioso.
[…] Ma, dio bono, non si è proletari, si è gente per bene, non ci si vuol mescolare con la canaglia […] Il cittadino che protesta vuol conservarsi in carattere, e non vuol diventare il cittadino che si organizza. Meglio mandare epistole ai giornali e compilare “libri d’oro” con la fotografia e i titoli di benemerenza dei cuoricini teneri che si sono commossi alle disgrazie del povero travet. E che la ruoticina del loro striminzito stipendio continui pure a macinare aria e sospiri.»

  Antonio Gramsci – (17 aprile 1916)

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La Fine del Lavoro

Posted in Business is Business with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 27 ottobre 2011 by Sendivogius

Nel lontano 1994 un clown miliardario promise un milione di nuovi posti di lavoro, rilanciando la posta ad ogni elezione. È superfluo ricordare come nel Paese di Borgo-Citrullo lo spot sia stato un successo, mentre i disoccupati aumentavano e la qualità del lavoro peggiorava a livelli mai visti prima.
Oggi che la disoccupazione ha raggiunto il suo record storico, con milioni di senza lavoro e salari da fame per chi un’occupazione ancora ce l’ha, l’imbolsito Capo-comico, ridotto a parodia di sé stesso, annuncia trionfante:

PIÙ  LICENZIAMENTI  PER  TUTTI!

È la promessa ‘epocale’ di questa barzelletta ambulante, per l’intrattenimento di Bruxelles, che non fa più ridere e al massimo suscita i sorrisi sarcastici dei partner europei, evidentemente preoccupati dall’inquietante Mascherone sesso-dipendente, che ciondola travestito da Al Capone per i corridoi istituzionali delle sedi comunitarie.
Nella letterina di intenti presentata ai tecnocrati della UE, accompagnata da un forte abbraccio ai presidenti della Commissione e del Consiglio europeo che non toccherebbero il Pornonano manco con un bastone, tra promesse di efficientamento e privatizzazioni selvagge, calendarizzate in 8 mesi impossibili, spunta l’ennesima “riforma del mercato del lavoro”. Non manca poi lo smantellamento di quel poco di umanistico che ancora rimane nella scuola pubblica (la Cultura non si mangia), insieme all’irrinunciabile riforma della Giustizia, ed altri impiastri in una lettera scritta a più mani, dove sono evidenti le zampate dell’accoppiata Brunetta-Sacconi.
Le ultime riforme del lavoro sono state un fallimento totale. Nel rilancio dell’occupazione femminile, di maggior successo si sono rivelati invece gli inviti a sposare un milionario… Tuttavia, in assenza di più impegnative proposte di matrimonio, come sa bene la donna che è consapevole di sedere sulla propria fortuna e che ne faccia partecipe chi può concretarla (la brillante ‘metafora’ è di Piero Ostellino), al Milionario basta garantire una serie di prestazioni occasionali, opportunamente retribuite previo utilizzo finale.
L’attuale bozza dei cattivi propositi introduce inoltre i “licenziamenti facili”, a discrezione assoluta del ‘padrone’ (è ora di tornare a chiamarli col loro vero nome) e senza alcuna garanzia per il lavoratore sottoposto a perenne ricatto.
Come contropartita, si promettono generiche tutele per i lavoratori atipici, con l’introduzione di più stringenti condizioni nell’uso dei “contratti para-subordinati”.
In concreto, mentre le “misure addizionali” per contrastare le forme improprie di lavoro dei giovani sono ancora tutte da elaborare, confinate al limbo delle intenzioni aleatorie, a demolizione degli ultimi contratti di lavoro a tempo indeterminato è già pronto invece il famigerato Articolo 8 della normativa Sacconi, che spazza via ogni garanzia residua a livello contrattuale, rimandando a tempi incerti la ben più cogente riforma degli ammortizzatori sociali. È la filosofia stringente di chi è convinto che l’incremento dei licenziamenti favorisca l’occupazione, salvaguardando il reddito.
Naturalmente, i vari Draghi… Marcegaglia.. Cordero di Montezemolo… non hanno nulla da dire in merito a quell’ossimoro economico, che reputa gli over-35 troppo vecchi per essere assunti, i lavoratori 50enni dei pezzi obsoleti dei quali disfarsi quanto prima (licenziamento facile), mentre si innalza il tetto dell’età pensionabile pensando di prolungare la permanenza al lavoro fino ai 70 anni.
In Italia, il crollo occupazionale coincide in massima parte con una disoccupazione giovanile crescente, determinando una frattura ed una sperequazione generazionale, come mai si era verificato prima, attraverso una serie di anomalie sistemiche giunte a livelli insostenibili.
D’altra parte, le sedicenti politiche di sviluppo e di rilancio sono incentrate unicamente sulla “flessibilità del mercato del lavoro”, che nella prassi si traduce in una precarietà esasperata (ad vitam!) e stipendi al minimo, condita da licenziamenti facili, totale assenza di tutele per i neo-assunti e una progressiva erosione delle garanzie contrattuali per gli occupati di lungo corso.
Si potrebbe quasi dire che il Lavoratore (o quel che ne rimane), de-individualizzato e disarticolato, perde la sua “centralità” per diventare funzionale al Lavoro, parcellizzato e de-contrattalizzato, senza però alcuna reale contropartita e senza che vi siano riflessi di lungo periodo, sulla creazione di nuovi posti di lavoro degni di questo nome. In alternativa, resta il cumulo di lavoretti stagionali, rigorosamente al nero; “collaborazioni” e “progetti” farlocchi, per impieghi para-subordinati, magari travestiti da stage. Sono i fenomeni di vecchio e nuovo sfruttamento, che contraddistinguono un’intera generazione di poor workers risucchiata nei gorghi del “lavoro atipico”.
In questa parodia oscena del darwinismo sociale, dove a soccombere sono i poveri, i giovani, e quelli nati nella famiglia sbagliata, fuori dal giro e dalla raccomandazione giusta, non potevano mancare due protagonisti d’eccezione nella pletora di personaggi lombrosiani…
 Il primo è un ministro del Lavoro, e delle politiche sociali inglesizzate in welfare. Si tratta di un ex ‘socialista’, cattolico devoto convertito alla “sussidiarietà” (ovvero stornare risorse pubbliche verso le imprese gestite dall’integralismo temporale di CL), e tra i principali responsabili dell’attuale sfascio finanziario [QUI]. L’unico scopo di questo innesto craxiano nel corpo del berlusconismo sembra essere quello di smantellare l’intero diritto del lavoro, spezzare ogni residua unità sindacale, ed entrare a gamba tesa nelle vertenze contrattuali come dodicesimo giocatore travestito da arbitro.
 Il secondo è l’amministratore delegato di un’azienda automobilistica ormai decotta, assistita per quasi un secolo da commesse pubbliche e investimenti di Stato, ma oggi sommersa dai debiti e di fatto commissariata dalle banche creditrici. Parliamo di un’industria che non riesce più a produrre un modello decente in grado di competere sul mercato e reggere la concorrenza delle grandi case automobilistiche europee. Che ripropone da almeno venti anni gli stessi ibridi, col medesimo nome, varianti minime e qualche ritocco estetico: come un buon film (magari non eccelso), subissato da una raffica di sequel più o meno all’altezza.
Attualmente, le sorti del gruppo sono affidate al maglioncino dei due mondi, convinto che il rilancio dell’azienda risieda nell’ulteriore ribasso dei salari e nella cinesizzazione delle maestranze, con minacce, ultimatum, ricatti, potendo contare sul supporto di più sindacati gialli a fare da sponda… È l’omone dei pull-over che veste in serie, come nel guardaroba di Paolino Paperino, terribilmente simile ad un nero scarrafone dei motori, nel parco demolizioni della metalmeccanica italiana.
Le cosiddette “misure a sostegno dell’occupazione” del ministro Sacconi sembrano pensate e scritte apposta per Lui: il socialdemocratico chietino-canadese, con residenza svizzera, deciso ad abbattere il costo del lavoro, incrementando il numero di ore e le turnazioni di lavoro a salari ridotti.
Con uno stipendio annuo di 4.782.400 euro, costituisce un fulgido esempio di risparmio e sacrificio a fronte di strabilianti risultati di vendite e qualità dei prodotti.
È il tipico esemplare di un capitalismo assistito, che non investe un centesimo in innovazione e formazione, che sopravvive grazie alla domanda indotta di appalti pubblici e agevolazioni fiscali, che predica e invoca “sacrifici” e “scelte impopolari”, ma non è disposto a rinunciare a nulla e niente concedere. A partire dai famosi investimenti promessi per gli stabilimenti FIAT di Pomigliano e Mirafiori.
In tempo di crisi e recessioni in arrivo, con aziende in dismissione e lavoratori sul lastrico, il buon Marchionne si è assicurato per la sua sussistenza personale una retribuzione di 1037 volte superiore allo stipendio medio di un metalmeccanico Fiat in Italia. A questa vanno però aggiunte circa 20 milioni di azioni gratuite, stock grant e stock option, per un valore complessivo calcolato attorno ai 200 milioni di euro (fluttuazioni di mercato permettendo): la paga annuale di quasi 13.000 operai italiani della FIAT, giacché gli stipendi delle controparti polacche e brasiliane non arrivano a 600 euro.
Da notare che lo stabilimento principale di Torino ha circa 5.400 lavoratori. L’amministratore Marchionne percepisce da solo più del doppio di tutte le loro paghe e liquidazioni messe insieme; però parla di tagli dei costi senza vergogna di apparire osceno.
La letterina bruxellese, che tanto è piaciuta ai guardiani del Debito ed ai sacerdoti del neo-monetarismo globalizzato, è l’ultimo atto (ma non il definitivo) all’insegna dello smantellamento progressivo dell’idea stessa che possa esistere qualcosa di “sociale”, sacrificata sull’altare delle divinità del mercato e di un’austerità che taglia i servizi per pagare le banche d’affari.
Coincide con la fine delle ultime lotte sindacali, prima che le “associazioni dei lavoratori” si trasformassero in agenzie di collocamento, collettori di favore politico, e dispensatori di servizi per la terza età. È speculare al generale disimpegno sociale e disinteresse pubblico. Da questo punto di vista, il segno più evidente è il reflusso dei rigurgiti craxiani di parassitismo politico che tuttora governano il Paese, dopo averlo condotto al dissesto economico sull’onda lunga degli Anni ’80.
È l’incapacità di strutturare un dissenso, elaborato in nuove strategie, nell’ansia da conformismo di un corpo sociale che in massima parte non esprime “idee” ma “status”, nella frustrazione di una mancata accettazione e riconoscimento titoli. O, al suo estremo, tutto rigetta nella catarsi distruttiva di un nichilismo senza prospettive.

Nel primo caso, la “protesta” non ha alcun carattere propulsivo e galleggia nella medesima carenza propositiva. È destinata piuttosto a diventare lo specchio pubblico delle angosce di borghesi-piccoli-piccoli (o aspiranti tali) dalle ambizioni frustrate: reflussi di “ceto medio” in declino, in attesa di stabile collocazione, che scalciano (ma non troppo) per rivendicare il proprio posto al sole, in un sistema che non contestano (se non in minima parte) e dal quale si sentono momentaneamente esclusi, pur aspirando a farne parte e possibilmente scalarne le gerarchie, perpetrandone intatta la struttura.
È in fondo una diretta conseguenza di quella che, a suo modo, il sociologo Giuseppe De Rita ha definito “cetomedizzazione” [QUI], attraverso il livellamento progressivo delle coscienze e delle aspirazioni in nome dell’omologazione al ‘sistema’.
In quest’ottica, la variante italiana al movimento degli “Indignados” rischia di esaurirsi presto per assenza di reali prospettive di lungo corso, declinate a favore delle rivendicazioni minime degli indignati dell’ultima ora, aggregati alla protesta unicamente perché sospinti da una crisi che li relega ai margini senza che possano capacitarsi del perché. Ma bene attenti a rimuovere e sopprimere ogni forma di conflitto.
I prodromi erano già in embrione da tempo. Oggi ci limitiamo a raccoglierne i frutti nefasti. Ogni involuzione ha la sua data simbolica che ne decreta l’inizio. Il reflusso italiano comincia a Torino, il 14 Ottobre del 1980. E non è un caso che la ricorrenza sia praticamente passata sotto silenzio, scavalcata dall’ennesima fiducia alla pornocrazia berlusconiana e dall’effimera manifestazione di Sabato 15 Ottobre, vivacizzata dalla presenza del ben più vitale gruppo degli inkazzati (veri), dopo la quale le proposte degli Indignati hanno lasciato il passo ad un generico (quanto imbarazzante) elogio della delazione e della repressione poliziesca.
Per concludere, sarà il caso di riproporre, a dispetto di una vulgata agiografica che tanto successo ebbe a partire dalle colonne de La Repubblica, le pagine che Marco Revelli dedicò alla cosiddetta “marcia dei quarantamila”, prima della grande febbre del berlusconimo post-craxiano alla fiera dei nani, quando tutti si identificarono col padrone e credettero che bastasse disprezzare gli ultimi per sentirsi ricchi:

 […] Al Teatro Nuovo, dove il “Coordinamento dei capi e dei quadri intermedi” aveva convocato una manifestazione nazionale contro il blocco dei cancelli e l’inerzia delle autorità, succede un fatto inedito, e per tutti inatteso. Intorno alla sala, già stipata nei suoi duemila posti dai quadri più attivi di quel nuovo “movimento”, si raccoglie una folla numerosa e incerta. Riempie lentamente il piazzale antistante, trabocca sul corso e nelle vie adiacenti. Alcuni sono venuti per convinzione. Altri per bisogno, curiosità, paura. Sostano a lungo in attesa, poi con una qualche ritrosia si inquadrano, incominciano a muoversi, nasce un corteo.
Una massa grigia e pervasiva incomincia silenziosamente a dilagare verso le vie del centro, cancellando segni e ricordi delle mille rumorose manifestazioni operaie, ripristinando le regolari geometrie dell’ordine di fabbrica e della quiete sabauda. Non un colore rompe l’uniformità cromatica, solo i cartelli tutti uguali del Coordinamento: “Il lavoro si difende lavorando”, “Diritto al lavoro”. Non un grido, uno slogan, una voce che non sia quella metallica dell’altoparlante. Solo lo scalpiccio sordo dei piedi sul selciato e quel brusio basso che esce dalle folle in attesa, dagli assembramenti casuali.
Sono l’altra faccia della fabbrica, l’incarnazione del lavoro privo di soggettività ribelle, a tal punto identificato con l’organizzazione produttiva da divenirne parte integrante, da farne la fonte della propria identità ed esistenza. «Non siamo – proclama il loro leader, Luigi Arisio – il partito dei capi. Siamo il ben più grande partito della voglia di lavorare, di produrre, di competere con la concorrenza». Interrogato, il giorno dopo, sulla sensazione provata davanti ai picchetti che sbarrano i cancelli, uno di loro risponderà, con calma, senza rabbia né calore, con solo un lieve accento di disprezzo nella voce: «Una sensazione di grande pena nel vedere un impianto così perfezionato in tutte le sue parti, immobile per colpa di quella gente».
La lineare perfezione della tecnica e la rumorosa imperfezione degli uomini, la compatta efficienza della macchina e l’anarchica soggettività del lavoro vivo: ora sono lì, appunto, per dichiararne lo scandalo. Per rivendicare che la contraddizione sia sanata. Marciano, e strappano agli operai i luoghi tradizionali d’espressione: Piazza San Carlo, la Prefettura, Piazza del Municipio. In un’ora cancellano, con il loro silenzio, trentatre giorni di rumore operaio. Marciano, e con un semplice gesto conquistano il centro della scena: 15.000 dirà il telegiornale, 30.000 titolerà “La Stampa”, 40.000 sparerà infine “Repubblica”. E tali rimarranno, nella storia e nell’immaginario collettivo. Sono loro i “vincitori”: d’ora in poi incarneranno lo “spirito del mondo”. Rappresentano “la notizia”, il novum che un sistema dei media ormai annoiato dalla ripetitività operaia attende. La loro manifestazione è “nuova” sotto molti punti di vista. Nelle forme: non più scandita, come gli obsoleti cortei operai, dai tradizionali “cordoni” ma strutturata per centri concentrici secondo la catena gerarchica, con al centro il capo ufficio, il capo reparto, il capo officina, e intorno via via, i subalterni.
Nelle tecniche di comunicazione: la prima grande mobilitazione telematica, il cui strumento di convocazione principale è stato il telefono. Nuova soprattutto nei volti, nelle espressioni, nei “soggetti”. La prima grande mobilitazione di massa del “capitale”, uscito finalmente dalla sua dimensione di “oggetto” e trasformato, per una sorta di feticismo della merce alla rovescia, in “movimento”.
Cosa abbia permesso a quel pezzo di fabbrica di animarsi; cosa abbia portato a un effimero e recalcitrante protagonismo quello strato abituato solitamente a comandare e tacere, è difficile dirlo. All’origine deve aver pesato certamente l’esasperazione, dopo oltre un mese d’immobilità coatta e di assenza di salario.
Così come presente, e centrale, è stata senza dubbio, per un’ampia parte, la preoccupazione per la situazione di mercato dell’azienda. L’identificazione con le ragioni della proprietà e con le leggi ferree della competizione economica (molti di loro erano, effettivamente, come dirà Agnelli, «gente la cui unica gratificazione è il successo dell’azienda e la soddisfazione nel proprio lavoro»). L’intenzione, quindi, di denunciare alla città i gusti temuti; di comunicare il proprio senso di pericolo. Né deve essere stato estraneo a quella mobilitazione un certo “spirito di vendetta”; la voglia di rifarsi di dieci anni di umiliazioni e di sconfitte esistenziali. Ma un ruolo di rilievo deve averlo giocato anche, e forse soprattutto, la paura. Il timore non solo e non tanto della perdita del posto, del fallimento dell’impresa, quanto piuttosto del declassamento, della ricaduta nell’universo anonimo e seriale del lavoro manuale.
L’orrore, in sostanza, per una condizione operaia vissuta come regno dell’irrilevanza individuale e dell’invisibilità sociale, da cui erano usciti proprio in forza del loro ruolo di comando – dell’accesso al mondo di chi esiste perché dirige -, e in cui rischiavano di essere ricacciati da un processo di innovazione tecnologica e di riorganizzazione aziendale che andava erodendo le basi stesse del loro micropotere.
La maggior parte dei capi Fiat era stata formata per esercitare funzioni di comando sugli uomini. Scarsamente qualificata sul piano strettamente tecnico, ignorava quasi del tutto le nuove tecnologie. Di esse sapeva soltanto che avrebbero ridimensionato decisamente il “fattore umano” nel processo lavorativo, e che avrebbero assorbito molti di quei compiti di coordinamento e gestione della forza lavoro che fino ad allora avevano giustificato buona parte delle posizioni gerarchiche a livello di officina. Gli altri, i quadri intermedi burocratici, gli impiegati, intuivano che quello stesso processo tecnologico dal quale erano stati resi “esuberanti” decine di migliaia di operai, se applicato al lavoro d’ufficio, avrebbe aperto vuoti ben più devastanti. La mobilitazione contro i picchetti, la “piazza”, devono essere sembrate a molti un’occasione insperata per proporre e stringere con la direzione d’impresa un tacito patto. Per tentare di scambiare fedeltà contro sicurezza, sostegno politico all’operazione di selezione e bonifica della componente operaia contro la garanzia del mantenimento di uno status e di un ruolo gerarchico non più giustificati sul piano tecnico.
La frase bisbigliata al passaggio del corteo da un anziano saldatore delle Carrozzerie – “Questi non vogliono il diritto di lavorare, ma di farci lavorare” -, coglie lo spirito di quella “marcia” più di cento ricerche sociologiche.

  Marco Revelli
  “Lavorare in Fiat. Da Valletta ad Agnelli a Romiti.
  Garzanti, 1989.

Ci sarebbe da chiedersi quanti tra quei sedicenti “quarantamila” abbiano oggi figli e nipoti, impantanati nella palude di stage non retribuiti e di tirocini infiniti, retrocessi nelle pieghe più infime di una precarietà esistenziale e lavorativa senza sbocchi… E che ora s’indignano. Con 30 anni di ritardo!

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