Archivio per Carlo Clericetti
Letture del tempo presente (III)
Posted in Kulturkampf with tags "Patria e Costituzione", Carlo Clericetti, Costume, Cultura, Destra, Europa, Italia, Liberthalia, Patria, Politica, Sinistra, Società, Sovranismo, Stefano Fassina, UE on 28 ottobre 2018 by Sendivogiusdi Carlo Clericetti
Ciò detto, il concetto di “Patria” non è il più appropriato a rappresentare questa linea. Lo usarono i partigiani, è vero, ma in quella fase serviva qualcosa attorno a cui potessero raccogliersi visioni politiche molto diverse, unite dall’obiettivo della lotta al fascismo e della conquista della democrazia, in un paese occupato militarmente da eserciti stranieri; e non c’era ancora la Costituzione che ha fissato i valori della nostra convivenza civile. E al patriottismo di Togliatti non era certo estranea la necessità di affermare che il suo partito, accusato di prendere ordini dall’Unione sovietica, aveva prima di tutto a cuore il bene del paese. In tutto il periodo successivo il termine è stato usato soprattutto dalla destra, e questo lo ha certamente connotato ed è una cosa che può respingere una parte di potenziali elettori progressisti. Ma non è per questo che lo ritengo sbagliato come identificativo di una iniziativa di sinistra. “Patria”, come “nazione”, rimanda a un’identità che non si basa su una scelta razionale, ma sull’essere nati in un certo posto e sulla presunzione che ciò implichi una determinata cultura distinta dalle altre. Che cosa c’entra questo con una scelta politica di sinistra? Chi è di sinistra si sente più vicino all’italiano Matteo Salvini o al francese Jean-Luc Mélenchon? All’italiano Silvio Berlusconi o alla tedesca Sahra Wagenknecht?
SBADIGLI
Posted in Kulturkampf, Masters of Universe with tags Carlo Clericetti, Contratti di lavoro, Decreto Dignità, Governo Conte, Inps, Lavoro, Liberthalia, Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Media, PD, Politica, Roberto Saviano, Tito Boeri on 22 luglio 2018 by SendivogiusA 30 giorni dall’insediamento dell’esecutivo Conte, in concomitanza con l’anniversario, volevamo celebrare degnamente il primo mese di vita del Governo del Nulla…
Ma poi ci siamo resi conto che non c’era molto da dire di interessante, al di là degli strilletti isterici di un’opposizione inconsistente, tra La Repubblica (ridotta in buona parte militante ad organo ufficioso di stampa del partito bestemmia) che conta le pulci fuorché in casa propria, cercando scandali che non arrivano e all’occorrenza creandoli in pompate campagne giornalistiche…
Il PD (perché la merda non muore mai) che deposita emendamenti, contro l’aumento dei sussidi per i licenziamenti senza giusta causa…
Le pretese surreali di una Ong spagnola che denuncia la Guardia Costiera italiana, per non presidiare le acque territoriali libiche, e per ripicca se ne va a Palma di Maiorca (un’altra mezza dozzina di sbarchi con consegna a domicilio e possiamo solo immaginare l’entusiasmo degli spagnoli!), pensando di farci chissà quale dispetto…
La stucchevole polemica a distanza tra Saviano e Salvini (che francamente hanno rotto i coglioni tutte e due!), con l’aggravante di far sembrare quasi simpatico l’odioso bullo di Pontida…
La crociata idiota per ottenere le dimissioni di un Tito Boeri dall’INPS, inopportunamente trasformato a martire di regime: una cosa di pessimo gusto (che proprio non si fa per bon-ton istituzionale), come sparare cifre alla cazzo dall’alto del suo seggiolone previdenziale, scodellando dossier tutt’altro che inoppugnabili, su calcolo probabilistico che si vorrebbero scientifici per inferenza statistica, nell’alveo delle ipotesi possibili. E per questo incontestabile per principio di infallibilità del bocconiano organico alla politica, in una sorta di disfida a tre…
La caccia famelica ad ogni poltrona disponibile, dove piazzare scherani e famigli (e questo fa molto democristiano più ancora che regime)…
Infine, ci siamo imbattuti ancora una volta nella lettura dell’ottimo, come sempre, Carlo Clericetti. E per questo confinato praticamente ai titoli di coda. Così abbiamo deciso di proporvelo senza altri filtri, perché le sue analisi non hanno bisogno di altre considerazioni:
Polemica surreale su 8.000 posti ipotetici
Il “Decreto dignità” ridurrà l’occupazione, dice il presidente dell’Inps Tito Boeri, contestarlo è “nagazionismo economico”. Ma quel numero deriva da stime arbitrarie e oltretutto, anche se fosse vero, è una variazione insignificante rispetto al numero di chi lavora. Le modifiche del decreto sono minime, la sua importanza è solo quella di interrompere l’aumento della flessibilizzazione che dura da 21 anni.
«Uno scontro politico in cui qualcuno dei protagonisti – in particolare il presidente dell’Inps Tito Boeri – sbandiera la “scientificità” di previsioni che hanno il valore di tutte le previsioni, ossia sono ipotesi che, come si è visto infinite volte, spesso non si verificano. Ma ciò che rende surreale la polemica è il motivo – apparente – su cui si polemizza, ossia il fatto che il “Decreto dignità” provocherebbe una riduzione di 8.000 occupati. Ottomila? Sui circa 23 milioni e mezzo di occupati significa lo 0,03%, una cosa – anche ammettendo che si realizzi – del tutto insignificante. L’ultimo comunicato Istat relativo al maggio scorso ci dice per esempio che, in quel solo mese, c’è stata una variazione di 114.000 occupati, più di 14 volte tanto. E’ come se un marito accusasse la moglie di mandare in rovina la famiglia perché ha dato una mancia di 10 centesimi a un lavavetri.
Ma cominciamo dallo strumento usato, il decreto. Che non è corretto, perché manca il requisito di “urgenza” che ne sarebbe il presupposto. In questo modo Luigi Di Maio prosegue nella pessima consuetudine dei governi precedenti, che anch’essi hanno ampiamente abusato di questo strumento, che espropria in parte il Parlamento della sua funzione legislativa.
In secondo luogo, il merito del provvedimento. Che di “rivoluzionario” ha una cosa soltanto: è il primo, da 21 anni a questa parte (cioè dal famoso “pacchetto Treu” del 1997), che non si proponga di flessibilizzare ulteriormente l’impiego del lavoro, ma di reintrodurre invece qualche piccolo – piccolissimo – elemento contro la precarietà. Più degli effetti concreti – che saranno, in una direzione o nell’altra, inevitabilmente modesti – conta la “direzione” del provvedimento, che è un primo segnale, tutto da verificare, di inversione di tendenza.
E proprio questo è il vero oggetto della polemica che si è scatenata, che per il caso specifico sarebbe del tutto sproporzionata. Questi non vorranno mica tornare indietro? Smontare le belle “riforme strutturali” varate dai governi da Monti a Renzi? Altolà! Disastro, disastro! Già con questo decreto si perderanno ben ottomila posti! E la competitività? E i mercati? E lo spread?
La Confindustria naturalmente strepita che di posti di lavoro se ne perderanno molti di più. E Di Maio ha gioco facile a ricordare le catastrofiche previsioni in caso di vittoria del “no” al referendum sulle riforme istituzionali che il suo ufficio studi aveva diffuso poco prima della consultazione. Il “no” ha vinto e l’economia è andata addirittura meglio di prima, a riprova che certe “previsioni” sono solo un modo di fare (pessima) politica con altri mezzi.
Boeri, che è uno dei portabandiera delle teorie abbracciate dalla finta sinistra della“terza via”, non si è lasciato sfuggire l’occasione di affermare che questa strada porta a una diminuzione dell’occupazione. Ma per arrivare a quel numero si devono fare stime e ipotesi, ed entrambe hanno un ampio margine di arbitrarietà. Altre stime e ipotesi sarebbero legittime, e darebbero risultati diversi. Parlare, come ha fatto lui, di “negazionismo economico”, come se ci si rifiutasse di prendere atto di una verità assodata, è solo un segno di confusione epistemologica.
Stendiamo poi un velo pietoso su chi prende sul serio, o persino avvalora come ipotesi, una perdita di posti di 8.000 l’anno per dieci anni. E’ vero che nella relazione tecnica c’è una tabellina con questi numeri, ma presuppone condizioni invariate. In altre parole, il mondo dovrebbe fermarsi come accade in qualche favola, non dovrebbe cambiare nulla non solo nella nostra politica economica, ma anche nell’economia globale. Si tratta di un esercizio formale, non di una previsione.
In questa commedia degli errori c’è un altro aspetto di una certa rilevanza. E’ ben possibile che nelle strutture tecniche dello Stato ci sia chi “rema contro”. E’ accaduto in passato, accadrà anche in futuro. Ma chi ha responsabilità politiche, a maggior ragione se di governo, non può gettare discredito su queste strutture – dalla Ragioneria generale all’Inps, in un recente passato la Banca d’Italia – perché in questo modo mina la credibilità del paese. Se sorgono problemi si affrontano con la massima riservatezza, non con dichiarazioni avventate o con frasi ad effetto su qualche social network, che magari si è costretti a rimangiarsi qualche ora dopo a danno anche della propria credibilità. Sarebbe bene cominciare a capire alla svelta che differenza c’è fra la trasparenza e l’incoscienza.»Carlo Clericetti
(19/07/2018)
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La Crisi
Posted in Kulturkampf with tags 5Stelle, Carlo Clericetti, condono fiscale, Economia, flat tax, Italia, Lega, M5S, Migranti, Politica on 12 luglio 2018 by Sendivogius«Trentacinque euro per ogni migrante – quello che si spende in Italia – fanno 12.775 euro l’anno, 1.065 al mese. Magari non tutti sanno che di quei 35 euro al migrante ne vanno solo 2,5, mentre il resto serve per vitto, alloggio e spese generali. Ma in Italia ci sono 3 milioni di disoccupati ufficiali e più che altrettanti che non rientrano nella definizione: quanto spende lo Stato per loro? Zero. E quanti sono quelli che, pur lavorando, a quei mille euro al mese non ci arrivano, o sono in pensione e prendono una cifra più bassa? Di milioni dobbiamo aggiungerne parecchi. Ed ecco apparecchiata l’arma di distrazione di massa, l’antichissimo espediente che basta cercare un nemico “al di fuori”. Lo slogan è azzeccatissimo: “Prima gli italiani”. Gli ultimi diventano penultimi, e vengono schierati in guerra contro i nuovi ultimi. Che sottraggono risorse, che rubano il lavoro o con la loro concorrenza fanno abbassare ancora proprio i salari più miseri. E’ colpa loro se i penultimi stanno male.
Che cosa ci ricorda? Ma sì, per esempio la contrapposizione tra lavoratori “supergarantiti” e precari. Non è equo, non è giusto! E allora che si fa? Si rendono precari tutti. Adesso sì che c’è l’equità! O l’altra bella trovata degli “anziani contro giovani”: stiamo indebitando i nostri figli, tagliare, tagliare! Una volta – ma era il secolo scorso: roba vecchia, sorpassata – c’era chi diceva che il conflitto era un altro, ricchi contro poveri (l’odine dei due sostantivi non è casuale). Chi diceva una cosa del genere veniva comunemente definito “di sinistra”. Poi quelli che stavano nei partiti di sinistra hanno cominciato a non dirlo più, e qualche tempo dopo si è diffusa la tesi che “destra e sinistra sono concetti sorpassati”. Tesi inesatta: la destra non è affatto sorpassata, ha vinto su tutta la linea; la sinistra non è affatto sorpassata, è stata abbandonata.
Ed ecco quindi che quelli che cercano un lavoro e non lo trovano, quelli che hanno persino rinunciato a cercarlo, quelli che qualche straccio di lavoro ce l’hanno ma sono poveri lo stesso, tutti quelli che invece di sperare in un futuro migliore lo guardano con spavento, a chi si rivolgono? A chi gli dice che se lo meritano avranno successo, aggiungendo così alle difficoltà pratiche l’idea che se non te la cavi bene è colpa tua? Difficile, e infatti non è accaduto. Si rivolgono a chi gli indica un responsabile della loro situazione: “Toglierò a loro – cosa? quanto? – per dare a voi”.
E così i penultimi, invece di arrabbiarsi con chi fa politiche che presuppongono un certo numero di disoccupati, non provvede a chi è in difficoltà, privatizza i servizi essenziali perché così si possa guadagnare anche su quello di cui nessuno può fare a meno, vota chi se la prende con gli ultimi, ma non ha nessuna intenzione di cambiare quelle politiche. E infatti già annuncia condoni fiscali (quello delle cartelle fino a 100.000 euro è solo il primo passo) che serviranno a finanziare la flat tax, cioè un tipo di tassazione che ai poveracci non dà nessun vantaggio, ai benestanti dà qualcosa e ai ricchi da molto a moltissimo. Non c’è più la destra? Non fateci ridere (molto amaramente).
E d’altronde, che scelta ha avuto? Poteva votare quelli che “i ristoranti sono pieni” o quelli che “abbiamo portato l’Italia fuori dalla crisi”? No grazie, li abbiamo già provati. L’unica alternativa era votare chi prometteva almeno qualcosa di concreto, un reddito a chi non ce l’ha. E così è andata. Chi ha votato per la guerra agli ultimi è stato imbrogliato, ma sembra che ancora non se ne accorga. Chi ha votato per avere un minimo di reddito ancora non si sa: ma anche se glielo daranno, e il come e il quanto è tutto da vedere, bisognerà valutare che cosa toglieranno, a loro e anche agli altri, per trovare le risorse necessarie. Solo dopo si capirà se ci hanno guadagnato davvero. Però una previsione si può fare. Visto che la coalizione di governo è con quelli dei condoni e della flat tax, il bilancio finale non potrà che essere negativo. Forse riceveranno il loro reddito, ma avranno meno sanità, meno scuola e università, servizi più cari, non solo per loro, ma anche per tutti gli altri. I quattro soldi ai penultimi andranno a carico soprattutto dei terzultimi, quella classe media che in questo modo viene spinta sempre più in basso, più lontana da quella tranquillità economica che riguarda un numero sempre più piccolo di persone.
Queste ultime sono quelle che hanno votato per i partiti “di sistema”, Pd e Forza Italia, ormai indistinguibili dal punto di vista del modello sociale che propongono, più o meno esplicitamente. Un copione che si è ripetuto in tutta Europa, dove i partiti ex socialdemocratici, che all’inizio del secolo erano al governo quasi dappertutto, sono stati ridotti ai minimi storici, quando non addirittura spazzati via.
Questi partiti hanno aggiunto, ai danni delle loro politiche, un danno forse persino più grave, un danno culturale: hanno screditato il concetto di “sinistra”, tanto che ora la maggior parte degli elettori non ne vuol più sentir parlare. Così, per ribellarsi alle politiche di destra che li hanno portati a questo punto, votano chiunque riesca a sembrare alternativo. Altro che populismo, è disperazione. Ci vorrà ancora un po’ perché la prova dei fatti – quella che ha bocciato i “partiti di sistema” – chiarisca che la Lega e i suoi alleati non sono un’alternativa, ma l’esasperazione di quelle politiche. E che i 5Stelle, privi di qualsiasi ancoraggio culturale che proponga un qualche modello coerente di società, mostrino l’inadeguatezza delle loro confuse proposte. Ad oggi è davvero difficile immaginare dove ci porterà questa situazione.»
Carlo Clericetti
“La guerra agli ultimi
che imbroglia i penultimi”
(23/06/2018)
Sit tibi terra levis
Posted in Kulturkampf with tags Carlo Clericetti, Debito, Economia, Europa, Germania, Grecia, Liberthalia, Paolo Gentiloni, Troika, UE on 24 giugno 2018 by SendivogiusUn cappio al collo sarebbe stato più appropriato, visto che la Grecia rimarrà strozzata al nodo (scorsoio) del debito presumibilmente fino al 2060, per ripagare degli interessi passivi quei creditori (UE, BCE, FMI) che tanto generosamente l’hanno ‘salvata’, mettendogli dentro casa la Troika e declassando il paese al rango di colonia, in un mostruoso esperimento di ingegneria sociale, tra propedeutica neo-liberista e pedagogia del castigo a scopo intimidatorio contro terzi, nell’annichilimento dimostrativo di un’intera nazione attraverso l’umiliazione collettiva di un popolo.
Tuttora, la “cura” speciale riservata alla Grecia costituisce il più clamoroso fallimento della cosiddetta Unione europea (a sua vergogna perenne), la quale più ancora che matrigna si è comportata come un Saturno che divora i propri figli. Una cura al cianuro che è costata alla popolazione ellenica peggio di una guerra perduta, ma che almeno ha salvato le banche francesi e tedesche: le quali peraltro hanno potuto lucrare appetitose plusvalenze. E questo grazie anche al generoso contributo italiano con ritorno zero, salvo doverci pure sorbire le lezioncine di morale da parte di un Macron o una Merkel (!).
«Quando è esplosa la crisi della Grecia l’esposizione delle banche italiane verso quel paese ammontava a circa 1,9 miliardi. Oggi l’esposizione dello Stato italiano verso Atene è di 40 miliardi. […] La crisi Greca è stata gestita in modo da trasferire i crediti delle grandi banche soprattutto tedesce e francesi dai loro bilanci a quelli degli Stati, tutti gli altri Stati dell’Eurozona.
I cittadini tedeschi sono convinti che, come contribuenti, sia stato loro accollato il peso del salvataggio dei Greci pigri e corrotti. In realtà sono stati chiamati a salvare le loro banche che avevano incautamente ecceduto con i prestiti. Ma almeno erano le loro banche: che cosa dovrebbero dire i cittadini italiani, che sono stati pesantemente coinvolti nonostante che i prestiti delle nostre banche alla Grecia fossero poca cosa?
Ecco dunque il capolavoro tedesco: distribuire a tutti gli altri europei i problemi delle loro banche (e di quelle francesi) pretendendo poi che il disastro che ne è derivato sia colpa di tutti gli altri tranne che loro. E riuscendo a far passare l’idea che la successiva crisi dei debiti pubblici non sia stata provocata dalla gestione del problema greco – dissennata da un punto di vista generale, ma perfettamente funzionale ai loro interessi – ma dal fatto che gli altri paesi dovevano fare “i compiti a casa”.»Carlo Clericetti
(02/10/2015)
In quanto alla “scommessa con l’Europa” (e la salvezza che da questa ne sarebbe derivata), sarà il caso di riportare qualche piccolo dettaglio, giusto per rendere l’idea di quanto sia stata ‘vincente’ la scommessa (o, per meglio dire, la capitolazione su resa incondizionata) della Grecia con la commissione europea, nella sua personale (di)partita con la morte. Perché anche ammesso che la cura sia riuscita, dopo otto anni di supplizio su sperimentazione terapeutica, è ovvio che il paziente sia deceduto (ma i conti adesso sono in ordine!)…
In otto anni di “austerità espansiva”, la Grecia ha perso un terzo del proprio PIL con una contrazione del 27% (crollando dai 214 miliardi del 2010, ai 174 miliardi di euro del 2017). La Sanità pubblica è stata smantellata, insieme ad ogni altro diritto sociale o tutela salariale, a partire dai contratti collettivi di lavoro che sono stati azzerati, con la totale liberalizzazione ed il dimezzamento del salario minimo, insieme alla revisione (ovviamente in senso restrittivo) del diritto di riunione e di sciopero. La francese Christine Lagarde (FMI) l’ha definito un incremento della “competitività”. Cosa che non ha impedito alla Grecia, così ligia ai diktat della Troika, di bruciare circa un milione di posti di lavoro (in un paese che ha poco più di dieci milioni di abitanti). Attualmente, la disoccupazione si aggira attorno al 21,6% ma raggiunge punte del 52% e oltre nella popolazione giovanile al di sotto dei 25 anni.
Sono stati falcidiati stipendi e pensioni, con tagli che vanno dal 37% nel settore pubblico (alleggerito con più di 250.000 licenziamenti che non hanno risparmiato nemmeno le università), e fino al 50% in quello privato. Il potere d’acquisto di una famiglia media è crollato del 28,5%. Mezzo milione di greci, soprattutto i più giovani, ha abbandonato il Paese.
È stato privatizzato tutto quello che poteva essere svenduto a prezzo di saldo: scali navali, ferrovie, autostrade, aeroporti, industrie manifatturiere, aziende elettriche, compagnie del gas e le reti di distribuzione idrica, miniere, impianti termali, ippodromi, persino camping e oasi turistiche (!), insieme a tutti i principali asset pubblici e strategici del Paese. Cosa che però non ha frenato la crescita del debito pubblico, il quale in rapporto al PIL ha raggiunto la soglia del 178%.
Secondo le statistiche dell’OCSE, il 22% dei greci versa in “gravi condizioni di deprivazione materiale”. La maggior parte della popolazione ha difficoltà ad accedere alle cure mediche e garantirsi i servizi primari; più di 400.000 nuclei familiari sono rimasti senza reddito, mentre negli ospedali scarseggiano farmaci oncologici, insulina, e persino gli antibiotici.
Il 13% della popolazione non ha ricevuto cure o trattamenti sanitari.
Il 15,4% della popolazione non ha accesso ad alcun trattamento odontoiatrico o preventivo.
Il 4,3% della popolazione non ha usufruito di servizi di salute mentale.
L’11,2% non è riuscito ad acquistare i medicinali prescritti dai dottori.
Il 40% dei bambini greci vive al di sotto della soglia di povertà (il 10% è a rischio denutrizione). Negli anni peggiori della crisi, la mortalità infantile è salita, di quasi il 50%, principalmente a causa dei decessi di bambini di età inferiore a un anno, tanto che il tasso di mortalità infantile è salito dal 2,65% nel 2008 al 3,75% nel 2014. Al contempo, il declino delle nascite ha comportato un crollo demografico pari a -22,1%.
La percentuale di bambini nati sotto peso (inferiore ai 2,5 kg) è aumentata nel periodo compreso tra il 2008 e il 2010 del 19%.
Sono aumentati i casi di persone affette da disturbi mentali, soprattutto dalla depressione. L’aumento è stato il seguente: si è passati dal 3,3% del 2008 al 6,8% del 2009, all’8,2% nel 2011 e poi al 12,3% nel 2013. Nel 2014, il 4,7% della popolazione sopra i 15 anni ha dichiarato di soffrire di depressione, contro il 2,6% del 2009.
Evidentemente, una simile catastrofe umanitaria non è mai stata considerata abbastanza grave (o mediaticamente spendibile), da suscitare la mobilitazione della moltitudine di ONG tedesche che affollano il Golfo della Sirte coi loro navigli.
Se tutto va bene, ci vorranno un paio di generazioni prima che i greci possano tornare ai livelli pre-crisi. La Germania però è riuscita a guadagnare dal “salvataggio della Grecia” qualcosina come 2,9 miliardi di euro dai tassi di interesse sul debito da rifondere.
Francamente, a fronte di simili risultati, non si capisce cosa mai abbia da giubilare l’ex premier Paolo Gentiloni quando si parla di Grecia e di Europa (lo specchio di una disfatta, rivenduta come successo), dal fondo delle macerie di ciò che resta di Piddinia, specie dopo la rottamazione renziana che ha condotto il centrosinistra sull’orlo dell’estinzione. Giusto a proposito di solidarietà europee e insorgenza dei nuovi nazionalismi.
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THE SWEET SPIRIT OF CAPITALISM
Posted in Business is Business, Masters of Universe with tags Albrecht Ritschl, Angela Merkel, Austerità, Carlo Clericetti, CERP, CESIFIN, Conferenza di Londra 1953, Debito, Economia, Euro, Europa, Eurostat, Franklin Delano Roosevelt, Germania, Italia, IVA, La Repubblica, Liberthalia, Marilena Palazzo, Matthias Hartwig, Moneta, Parametri di Maastricht, Pareggio di Bilancio, Pil, Rigore, Spagna, Stato, UE, Welfare on 21 giugno 2012 by Sendivogius
«Supponiamo che la casa del mio vicino prenda fuoco e che io abbia un tubo innaffiatoio lungo quattro o cinquecento piedi e anche più. Se il mio vicino può prendere il mio tubo e collegarlo al proprio idrante, potrei aiutarlo a spegnere l’incendio… E non sto certo a dirgli prima: “Vicino, il mio tubo da giardino costa 15 dollari; pagami 15 dollari per averlo”… Io non li voglio i 15 dollari! Rivoglio il mio tubo indietro una volta che l’incendio è spento.»
Franklin Delano Roosevelt
(17/12/1940)
Tra gli economisti di matrice classica che furbescamente considerano l’euro (e le sue debolezze) come un insperato grimaldello con cui scardinare il public welfare in Europa, ed i sacerdoti del monetarismo più estremo, che guardano i ‘mercati’ alla stregua di una divinità trascendente alla quale prostrarsi deferenti, offendo sacrifici (meglio se umani) sull’altare di una turbo-finanza senza regole, prospera lieta in vaporosi fumi la nutrita processione di candide vestali dell’Austerità, che declamano il nuovo Wirtschaftswunder della Germania virtuosa e della ritrovata Austria Felix, finalmente riunite nel mitico modello tedesco contrapposto alle frivole cicale latine e all’appestato greco. E, per l’appunto, seppur abilmente costruito, di un mito si tratta…
LA REGOLA DEL RIGORE
Per prassi consolidata, i rigorosi parametri per il contenimento del debito sono inflessibili e contemplano misure draconiane, ma solo quando vengono applicati agli ‘altri’. Diventano improvvisamente iperflessibili, aggirabili o semplicemente violabili, senza timore di incorrere in sanzione alcuna, quando invece vengono applicati ai ‘Grandi’: i virtuosi dei conti in ordine, i custodi del rigore più estremo… che dettano l’agenda all’intero continente, incassando utili e benefici, ma senza distribuire i dividendi agli altri azionisti i quali, più che condividere, subiscono oneri e rigori della moneta unica. Ciò che vale per la Grecia, e Italia… Irlanda… Spagna… Portogallo… Francia… Con ogni evidenza non vale però per la Germania.
Per dire, i rigidissimi “Parametri di Maastricht”, fortissimamente voluti dal Paese di Goethe, sono stati da questo sistematicamente violati ogni qualvolta la loro applicazione non era più conveniente. C’è da aggiungere che, se tali parametri fossero stati in vigore e applicati alla lettera ai tempi della riunificazione tedesca, questa non sarebbe mai stata possibile. E forse, col senno di poi, non sarebbe stato affatto un male.
I VIRTUOSI DEI CONTI IN ORDINE
Si obietterà: ma la Germania ha i conti in ordine, grazie ad una gestione oculata delle finanze pubbliche e alla trasparenza del bilancio statale… FALSO!
La Germania non disdegna, se la circostanza lo richiede, di ricorrere agli artifici contabili della finanza creativa, senza farsi troppi scrupoli. E del resto non sarebbe nemmeno la prima volta nel corso della sua storia recente. Insomma, la Germania si comporta ne più ne meno di quanto non facciano altri paesi dalla reputazione ben più spregiudicata. In fondo, si tratta di consuetudini universalmente praticate, unanimemente risapute, e ampiamente tollerate fintanto che garantiscono un ritorno anche agli investitori. Perciò non lasciatevi ingannare dal cipiglio severo del crucco da esportazione che vi guarda dall’alto in basso, reputandosi il prediletto dal Signore.
In dettaglio, nel 2011 la Germania è stata richiamata dalla Corte di Giustizia europea, in Lussemburgo, per l’applicazione di un’aliquota ridotta (7%) sulla riscossione dell’IVA (la Mehrwertsteuer) e ritenuta illegittima perché in contrasto con le regole europee sulla concorrenza. Ma già nel 2010 la Corte di Giustizia UE aveva in corso contenziosi giuridici aperti in materia fiscale, su versamenti ed esenzioni IVA, con la Repubblica Federale tedesca.
..Epperò la Germania ha un debito pubblico molto basso… VERO; o forse no..!
In base ai rapporti statistici di Eurostat 2011, il debito della Germania in effetti è contenuto intorno al 81,2% sul PIL e viene dato in potenziale ribasso. Si tratta di un buon risultato (non ottimo) rispetto al 120% del debito italiano, che comunque è in grandissima parte un’eredità craxiana degli anni ’80, quando l’infame triade Brunetta-Tremonti-Sacconi forniva le sue competenze (oggi come allora) al Tesoro [QUI].
E comunque, in termini monetari, il debito tedesco è più alto di quello italiano: 2.088 miliardi di euro contro 1.897 miliardi dell’Italia. Quello francese è dato all’86% con 1717 miliardi di debito. Tanto per dire, il debito della famigerata Grecia è stimato a 355 miliardi.
Soprattutto, ad inizio 2011, prima che la Spagna venisse travolta dall’esplosione della bolla immobiliare, e dalle prescrizione rigoriste teutoniche che hanno gettato il paese iberico nella depressione economica con lo spread oltre i 500 punti, c’è da rivelare che il debito pubblico della Spagna (66%) era tra i più bassi della UE.
Nel computo del debito pubblico, ed in particolare di quello tedesco, si è soliti distinguere tra:
1. “debito esplicito” (obbligazioni e buoni del Tesoro emessi per rifinanziare la spesa dello Stato);
2. “debito implicito” (Stipendi pubblici, Pensioni, Sanità, politiche sociali e spesa assistenziale);
Secondo gli economisti convertiti al miracolo teutonico, nel computo del debito di uno Stato, va considerato unicamente il “debito esplicito”, ovvero gli interessi da pagare sull’emissione di titoli pubblici; e non il “debito implicito”, con le sue spese assistenziali e previdenziali, nelle quali si accumula il grosso del passivo di bilancio.
L’affascinante disamina si può leggere sull’International Business Times del dicembre 2011, in risposta ad uno dei soliti articoli farlocchi pubblicati dall’immancabile “Libero”:
«Uno studio del CERP (Centre for research on pension and welfare policies), ad opera di Beltrametti – Della Valle, due economisti dell’Università di Genova, intende analizzare proprio questo tema: è opportuno considerare la spesa assistenziale e pensionistica presente e futura, alla stregua del debito e degli interessi su di esso pagati?
Beltrametti e Della Valle concludono che, mentre la spesa pensionistica e assistenziale non sono un “bene di mercato”, i buoni del tesoro e quindi il debito pubblico “esplicito” sono oggetto del giudizio degli investitori, ed è su questo giudizio che si basano le oscillazioni dei rendimenti che lo stato deve pagare per ottenere capitali in prestito.
Le dimensioni di un sistema previdenziale/assistenziale, dunque, non possono essere computate nel calcolo del debito pubblico totale perchè non pesano allo stesso modo sul mercato del debito, bensì costituiscono un fattore interno ad ogni singola economia, che si riflette sul prelievo che lo Stato deve attuare sul settore privato per ripagare i trattamenti pensionistici e la spesa assistenziale.»
Tutto estremamente interessante. Peccato che questa indulgente distinzione venga applicata unicamente nel caso della Germania, in qualità di fortunata eccezione, mentre in tutto il resto d’Europa la sommatoria si pratica eccome. Altrimenti non si spiegherebbero le cure “lacrime e sangue” tutte incentrate sui tagli alla spesa pubblica e previdenziale e sanitaria.
IL BISCOTTO DI BILANCIO
(ovvero come ti pareggio i conti)
Cambiate le variabili di calcolo, il risultato sarà sempre quello giusto… La chimera del “pareggio di bilancio” da raggiungere in tempi impossibili è il perno della politica economica tedesca: si impone alla UE e, come al solito, non si applica a se stessi se non barando sui saldi.
La disamina del prof. Matthias Hartwig, del Max Planck Institut di Heidelberg, è abbastanza illuminante:
«Nonostante il generale apprezzamento a cui va incontro il “modello tedesco” di costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (da intendersi qui in senso stretto, al contrario dell’Italia), le criticità non sono poche. Innanzitutto le ragioni che hanno condotto alla riforma costituzionale del 2009 sono varie: contenere la forte crescita del debito tedesco, registratasi dal 1949 al 2009; costituzionalizzare i parametri di Maastricht, sistematicamente violati dalla Germania dal 2002; limitare la possibilità di accendere crediti. Un altro problema prima del 2009, peraltro solo parzialmente risolto oggi, riguarda la mancanza di un controllo giurisdizionale effettivo. Il Tribunale costituzionale federale tedesco si è sempre astenuto dal decidere su questioni di politica fiscale, nonostante fossero stati presentati ricorsi in via principale da parte dei Länder. Peraltro, quando il Tribunale costituzionale federale giungeva a decidere su un ricorso mediamente passavano alcuni anni: la Corte scontava infatti un grande arretrato. Successivamente, con una decisione del 2007, che poi è stata interpretata come un avallo alla successiva riforma costituzionale del 2009, il Tribunale costituzionale federale ha assunto un orientamento più restrittivo quanto al suo intervento sulla sostenibilità della finanza pubblica.
Nel 2009, il nuovo articolo 115, comma 2 GG, introduce l’obbligo di pareggio senza ricorso a crediti. Previsione, quest’ultima, che però vale solo per i Länder e non anche per lo Stato, che quindi è senz’altro più libero dei Länder di derogare ai vincoli all’indebitamento (un indebitamento strutturale dello 0,35% è ammissibile per lo Stato). Inoltre i bilanci delle municipalità non sono sottoposti al vincolo costituzionale del pareggio di bilancio, innescando in questi anni una dinamica incrementale della spesa.
Il nodo ancora aperto, come si accennava, riguarda proprio il controllo di queste norme introdotte nel 2009. La strada che pare più facilmente percorribile è quella dell’accesso in via principale al Tribunale costituzionale. Dall’altra parte, però, se nel 2007 il giudice costituzionale era sembrato disposto a procedere ad un vaglio più rigoroso sulle norme riguardanti le entrate e le spese, cionondimeno in quella occasione la reticenza del Tribunale costituzionale federale in materia ha avuto modo di manifestarsi su un fronte decisamente contiguo. Infatti, nella già richiamata sentenza del 2007 il Tribunale ha comunque negato la sua competenza a decidere sul rispetto del principio del pareggio di bilancio. Pertanto, modificato il parametro costituzionale, nulla sembra cambiato. Il bilancio federale non è mai stato dichiarato incostituzionale dalla Corte; in senso diverso si è proceduto a livello dei Länder: i Tribunali costituzionali di tre Länder hanno ritenuto i bilanci statali incostituzionali.»
Matthias Hartwig – “La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio in Germania”
Intervento al convegno organizzato dalla Fondazione CESIFIN su “Crisi economica e trasformazioni della dimensione giuridica” – Firenze, 15/05/2012.
GLI EUROPEI VOGLIONO VIVERE SULLE SPALLE DELLA GERMANIA
È la più furba (e la più infame) delle favolette interessate, messe appositamente in circolazione…
«LA GERMANIA usa l’Europa per i propri fini, non viceversa. La dimostrazione è quanto accaduto alla Grecia. All’inizio della crisi greca sarebbe bastato dare 140 miliardi a quel paese per evitare il contagio che da Atene sta impoverendo tutta Europa. Ma l’ostinazione della Merkel è nel fatto che le banche tedesche erano esposte verso la Grecia per 400 miliardi. Se la Grecia avesse imboccato un regolare risanamento i crediti tedeschi si sarebbero allungati nel tempo. E così la Germania ha cercato di salvare le sue banche facendo pagare i propri errori a tutti i partners europei.
LO STESSO DISCORSO vale per gli Eurobond che, va ricordato, sono stati invocati ben prima dell’esplodere di questa terribile fase due della crisi dall’allora ministro dell’economia italiano Giulio Tremonti. Tutti sanno che l’Europa per fronteggiare la crisi, ma soprattutto per rilanciare il ciclo economico avrebbe bisogno (anche) di queste tre mosse: far diventare la Bce un istituto di emissione e prestatore di ultima istanza, emettere Eurobond in modo da omogeneizzare in un unico titolo i debiti sovrani degli Stati membri, svalutare parzialmente l’Euro immettendo liquidità nel sistema.»Marilena Palazzo
(23/05/2012)
Ci sarebbe da aggiungere che le banche tedesche, lungi dall’essere solide, dopo la farsa degli stress-test che hanno spostato i problemi del credito alla detenzione dei titoli pubblici, sono tra le più indebitate ed esposte al contagio dei titoli tossici, detenendo nello stomaco migliaia di derivati spazzatura.
«Se infatti l’economia ripartisse gli investitori avrebbero meno interesse a finanziare il debito e più a sostenere la produzione. E questo sarebbe un danno per la Germania. Primo perché la Germania sta guadagnando sul suo debito. Il Bund tedesco a dieci anni viene remunerato sotto il tasso di inflazione a dispetto peraltro dei fondamentali dell’economia tedesca.
LA GERMANIA può così ricapitalizzare le sue banche che sono intossicate molto di più delle altre da titoli spazzatura consentendo una sorta di riciclaggio del denaro. E inoltre deprimendo le economie dei suoi competitor e in particolare dell’Italia che è il secondo Paese europeo esportatore la Germania si assicura i mercati. Non a caso la Germania sta vivendo un periodo di euforia economica. Nel primo trimestre di quest’anno il Pil tedesco fa più 1,2% quello italiano fa il meno 0,8. Ma è un’euforia pericolosa.
LA MERKEL sa perfettamente che l’export tedesco dipende per il 60% dall’Europa. Se l’Europa si ferma rischia, appena i partners del Vecchio Continente ripiglieranno fiato, di vedersi sorpassare dalle altre economie. Per questo la Merkel ha bisogno di tempo, per iniziare a importare di più dai Paesi extra Ue a prezzi più bassi e sganciarsi dalla dipendenza economica europea.
[…] QUINDI la Germania ha tutto l’ interesse a frenare queste economie, a finanziare il suo debito a tassi di guadagno, a non creare un’unità economica dell’Europa ma solo a una unità fiscale che imbavaglia le altre economie.»Marilena Palazzo
(23/05/2012)
In pratica la Germania sta rastrellando i capitali in fuga dagli altri paesi europei, in seguito alla crisi del sistema creditizio, indotta anche dalle politiche di ricapitalizzazione bancaria richieste da Francoforte, e soprattutto dall’implosione dei debiti sovrani generata dalla speculazione finanziaria e dalle politiche recessive imposte dalla Merkel e la Bundesbank al resto dei partners europei.
In questo modo la Germania sta rifinanziando il proprio debito pubblico a costo zero, ma a scapito del resto della UE, drenando capitali per lo sviluppo dei paesi che più avrebbero bisogno di rilanciare gli investimenti, bloccati però in nome del “fiscal compact” (che impedisce ogni spesa pubblica fuori bilancio). Un’altra trovata teutonica. Al contempo, boicotta o lascia cadere ogni piano di rilancio economico, concentrando tutte le sue politiche nell’imposizione del rigore fiscale e rifiutandosi di ripartire gli oneri. Di fatto è una politica volta a distruggere i potenziali rivali commerciali. Questa, sotto la maschera del rigorismo, assomiglia molto ad una forma di neo-colonialismo.
«Eppure la Germania non può chiamarsi fuori, affermando che spetta ad ogni paese risolvere i problemi che esso stesso si è creato. Non può – non potrebbe, non dovrebbe – perché la moneta unica, se comporta vantaggi, comporta anche oneri. E la Germania dei primi ha usufruito e usufruisce.
La Germania è stata certamente la “prima della classe”. Dopo l’introduzione dell’euro ha ristrutturato la sua industria (lì, al contrario che da noi, i capitalisti investono); con le riforme a più riprese della commissione Hartz ha ridotto le spese del welfare; soprattutto, ha imposto la moderazione salariale, tenendo per molti anni il tasso di disoccupazione sopra la media europea. In questo modo ha messo a segno forti guadagni di competitività, collocandosi così nel Gotha dei grandi esportatori mondiali, insieme alla Cina e addirittura davanti al Giappone. Attenzione, però: l’aumento del suo export è avvenuto soprattutto all’interno dell’area euro, mentre al di fuori ha addirittura perso qualche posizione. Ha cioè sfruttato la sua virtù a scapito dei paesi meno capaci di seguire un analogo sentiero di aumento della competitività.
Ha potuto farlo, però, anche perché c’era l’euro. In passato – e noi italiani lo sappiamo bene – i paesi che perdevano competitività erano costretti, ad un certo punto, a svalutare la loro moneta. Il che, per il paese interessato, non era certo una soluzione ottimale, perché anche quella ha dei costi, ma da una parte impediva l’avvitamento dell’economia, dall’altra riequilibrava gli scambi con l’estero. In altre parole, in uno scenario del genere, la Germania non sarebbe riuscita a mantenere quell’alto livello di esportazioni verso i paesi dell’area.
C’è un altro aspetto almeno altrettanto importante. E’ stata appena diffusa la notizia che la Germania ha collocato 4,5 miliardi di titoli a due anni al fantastico tasso di rendimento dello 0,07%. Fantastico, perché significa che il rendimento reale è negativo, essendo l’inflazione intorno al 3%. In altre parole, gli investitori pagano la Germania perché custodisca i loro soldi, come se affittassero una cassetta di sicurezza. Pagano anche per i titoli a lungo termine, visto che i Bund decennali viaggiano a circa l’1,5%.
Perché accade questo? Perché in una situazione di grande incertezza, come quella attuale, il denaro cerca porti sicuri, e la Germania indubbiamente lo è. Logico quindi che attiri capitali.
Ma se non ci fosse l’euro questo provocherebbe un apprezzamento della valuta, con ovvie conseguenze negative sull’andamento delle esportazioni. Invece c’è l’euro, la stessa moneta che hanno anche gli altri paesi europei in difficoltà, che quindi ne tirano al ribasso la quotazione. E dunque la Germania può beneficiare di un afflusso di capitali – con cui si finanzia a costo sottozero – senza doverne subire contraccolpi.»Carlo Clericetti
Repubblica.it – 23/05/2012
È chiaro anche che l’economia tedesca non può espandersi all’infinito, come è evidente che il suo punto di forza è fondato soprattutto sulle esportazioni, che ormai si concentrano quasi tutte in Europa, potendo contare su una moneta unica, sull’assenza di tassi di cambio e di dazi doganali, sulla libera circolazione delle merci ed una normativa condivisa.
«L’Europa è, per la nazione della signora Merkel, una specie di Pozzo di San Patrizio, da cui trae buona parte della sua ricchezza odierna. Basti pensare che il 75,7 per cento del surplus commerciale del 2011, pari a 158 miliardi di euro, proviene dalla Ue. A questo vantaggio derivante dal mercato unico, si aggiunge quello che proviene dalla moneta unica. Non bisogna infatti dimenticare che l’introduzione della moneta unica non è stata solo il frutto di un innamoramento collettivo verso un nuovo traguardo del processo di integrazione europea, né una semplice logica conseguenza del mercato unico, bensì anche uno strumento di convenienza economica per il commercio intracomunitario. Il vantaggio economico derivante dalla moneta unica è presto quantificabile. Le aziende che esportavano verso gli altri paesi comunitari oggi parte dell’Eurozona, anche in assenza di dogane, affrontavano due tipi di costo, derivanti dalla presenza di valute diverse. Un primo costo consisteva nella commissione di cambio, che gli operatori economici, al pari delle persone che si recano all’estero per vacanza o affari, devono pagare alle banche per trasformare la valuta estera nella propria moneta. Questo costo è in genere non inferiore al 2-3% del valore della transazione. Vi è poi un ulteriore costo, che è dovuto alla copertura dei rischi di cambio, ossia al rischio che il tasso di cambio esistente al momento della sottoscrizione del contratto di vendita, risulti poi diverso da quello in vigore al momento del pagamento, possibilità esistente anche nel precedente sistema dello Sme (Sistema Monetario Europeo), in cui le oscillazioni previste potevano raggiungere la soglia massima del 4,5% (+/-2,25% rispetto all’Ecu). In sostanza, il rischio di cambio poteva costituire un costo pari a 2-3 punti percentuali del valore dell’esportazione. In altre parole, l’introduzione dell’euro ha consentito di risparmiare almeno il 5% sul valore degli scambi intracomunitari tra i paesi dell’Uem (Unione economica e monetaria). Nel caso della Germania, applicando quel 5% ai 3.645 miliardi di euro di prodotti venduti negli altri 16 paesi dell’Eurozona negli ultimi 10 anni, si ottiene il non trascurabile importo di 182 miliardi di euro, che costituisce poco meno di quanto la Germania ha dato (211 miliardi) al fondo salva stati (Efsf). In sostanza, la Germania si è impegnata (senza però spendere) per un importo di poco inferiore al risparmio effettivo già ottenuto dalle sue imprese grazie all’euro. Un vantaggio che si aggiunge a quello derivante dall’avanzo commerciale, dovuto all’esistenza di un mercato unico.»
Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace
“Berlino conta i dividendi dell’euro 1300 miliardi di surplus in dieci anni”
Affari e Finanza (18/06/2012)
Si tratta di una situazione ideale che, ovviamente, non è destinata ad essere eterna.
I TEDESCHI PAGANO SEMPRE I LORO DEBITI
Da ciò scaturirebbe l’intransigenza e l’inflessibile severità dimostrata nei confronti dei greci e dei paesi UE in difficoltà con la quadratura dei conti pubblici.
Peccato che proprio i rigorosi tedeschi siano usciti dai loro momenti di maggior difficoltà economica NON pagando mai i propri debiti…
Nel corso della sua storia recente, l’Austria (quella che ci viene a fare i conti in tasca) ha dichiarato bancarotta per ben 6 volte, impiegando anni a rifondere parzialmente il default:
Anno 1802
Anno 1868
Anno 1914
Anno 1932
Anno 1938
Anno 1940
La virtuosa Germania è andata in bancarotta per motivi bellici (aveva attaccato e invaso mezza Europa) nel 1932 e nel 1939.
Superfluo dire che la Germania non ha mai estinto il debito, glissando sulle riparazioni, e spalmando i pagamenti (poi sospesi) su scala pluridecennale.
Con la Conferenza di Londra del 1953 fu deciso che il debito tedesco della prima metà del ventesimo secolo avrebbe goduto di straordinarie agevolazioni che si risolsero, in realtà, nella sostanziale cancellazione.
«Il London debt agreement del 1953 divise l’esposizione tedesca globale in due capitoli. Il primo precisava che il debito accumulato fino al 1933 andava pagato subito, ma a condizioni di straordinario vantaggio, con interessi così bassi da determinare uno sconto che alcuni hanno fissato nella metà, circa, del totale dovuto. Il secondo, quello su debito e riparazione dei danni dell’epoca nazista e della guerra, era messo in correlazione con la riunificazione tedesca»
Albrecht Ritschl, tedesco, docente di storia dell’economia alla London School of Economics
All’epoca, ad opporsi agli accordi di Londra furono propri i greci, appena affrancatisi dalla brutale occupazione nazista…
«Gli Usa non volevano commettere gli stessi errori emersi dopo il primo conflitto e per questo imposero ad Atene di abbassare la voce. La Grecia non era favorevole e cercò di opporsi alle condizioni del London debt agreement. Prevalse la tesi americana e dei maggiori alleati che non volevano zavorrare Berlino con un debito asfissiante. Quanto? Secondo calcoli approssimativi un anno di Pil, ovvero 90 miliardi di marchi nazisti del 1944. Il cambio alla valuta di oggi è impossibile. Per questo si potrebbe parlare di un debito semplicemente pari a un anno di Pil». Oggi siamo a circa 3.600 miliardi di dollari (nominale).
Non è a oggi che si deve guardare, ma al 1990 (all’epoca era 1.500 miliardi di dollari), quando il debito, invece, di essere saldato con l’atto di riunificazione in ottemperanza agli accordi di Londra, sparì del tutto. “Atene contestò un’altra volta quell’intesa – ricorda Ritschl – ma il passaggio giuridico era inoppugnabile. Nei documenti finali sulla riunificazione delle due Germanie non si fa alcun riferimento agli impegni del London agreement e tanto basta per considerare nullo il debito pregresso”. Una dimenticanza, piuttosto costosa se fosse una dimenticanza che, ovviamente, non fu. Il cancelliere Helmut Kohl lo disse chiaramente: una richiesta del genere non era sostenibile dalle casse di Berlino e ribadì, in cambio, il forte impegno economico tedesco nello sviluppo del progetto europeo»Leonardo Maisano
“Il Sole 24 Ore” – 03/04/2012
Nell’Accordo sui debiti germanici, concluso il 23/02/1953 a Londra, si può leggere:
“I Governi degli Stati Uniti d’America, del Belgio, del Canada, di Ceylon, della Danimarca, della Spagna, della Repubblica Francese, del Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, della Grecia, dell’Iran, dell’Irlanda, dell’Italia, del Liechtenstein, del Lussemburgo, della Norvegia, del Pakistan, della Svezia, della Svizzera, dell’Unione Sudafricana e della Jugoslavia, da una parte animati dal desiderio di rimuovere gli ostacoli che impediscono di stabilire relazioni economiche normali tra la Repubblica federale di Germania e gli altri paesi e di contribuire in tal modo allo sviluppo di una comunità prospera di nazioni; considerando che da circa vent’anni i pagamenti relativi ai debiti esterni germanici non sono in generale più stati eseguiti conformemente alle stipulazioni dei contratti; che dal 1939 al 1945 lo stato di guerra ha impedito qualsiasi pagamento a conto di un gran numero di questi debiti; che dal 1945 siffatti pagamenti sono stati in generale sospesi e che la Repubblica federale di Germania desidera mettere fine a questa situazione: considerando che gli Stati Uniti d’America, la Francia e il Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord hanno prestato alla Germania, dopo l’8 maggio 1945, un’assistenza economica che ha notevolmente contribuito alla ricostruzione dell’economica germanica, favorendo una ripresa dei pagamenti a conto dei debiti esterni germanici […] detta Commissione ha comunicato ai rappresentanti del Governo della Repubblica federale di Germania che i Governi degli Stati Uniti d’America, della Repubblica Francese e del Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord erano disposti a consentire notevoli concessioni circa la priorità dei loro crediti concernenti l’assistenza economica del dopoguerra rispetto a tutti gli altri crediti verso la Germania e i suoi cittadini nonchè l’importo totale di tali crediti, alla condizione che fossero regolati in modo equo e soddisfacente i debiti esterni d’anteguerra della Germania.”
Oggi, in virtù della generosa lungimiranza di allora, veniamo ripagati con la favoletta rigorista da raccontare, alla luce di algidi neon, mentre un pupazzo meccanico si accinge ad asportare pezzi carne viva da offrire al dio dei mercati, prescrivendo i compitini da fare al riottoso donatore legato sulla tavola operatoria. È ovvio che l’aspetto punitivo serva ad insegnare il valore della sopravvivenza attraverso la sofferenza, secondo una riedizione estrema dell’etica protestante nello spirito del capitalismo.
A tal proposito, l’insufflata seriale di NEIN! che Angelona Merkel continua ad inzaccherare di fila, ad ogni proposta o tentativo di porre un argine all’avanzata della spirale recessiva, ricordano la parodia di altri ‘bastardi’ più o meno senza gloria…
Con le economie europee strettamente interconnesse attraverso il sistema della moneta unica, non esistono paesi immuni al contagio della crisi. Ma questo i tedeschi fanno finta di non saperlo, trincerati come sono nel loro ricostituito Reich che prospera sulle disgrazie altrui, esternalizzando i danni collaterali della ritrovata supremazia tedesca, ripetendo il mantra della “stabilità di bilancio”. E quella che si è rivelata una circostanza favorita da una serie di condizioni fortunate è diventata una condizione ideale da imporre al resto della UE in tempi strettissimi, tali (come sta avvenendo) da stroncare ogni economia in difficoltà. C’è da chiedersi se la cosa non sia intenzionale…
MERKEL UNITED
Posted in A volte ritornano, Masters of Universe with tags Adolf Hitler, Angela Merkel, Carlo Clericetti, Europa, Francois Hollande, Germania, Grecia, Helmut Kohl, Italia, Joachim Fest, Karl Otto Pohl, Liberthalia, Mario Monti, Politica, Repubblica di Weimar, Rigore, SPD, Storia, UE on 17 giugno 2012 by Sendivogius“Non vivere bonum est, sed bene vivere”
Seneca (epistula 70,4)
Troppo a lungo rimasto in orbita nell’Iperuranio delle idee assolute, il Super-Mario di finanza e di governo prepara l’ennesimo pacchetto-capestro da presentare al prossimo vertice europeo con la vacua speranza di riuscire ad ammansire i ‘mercati’ e, soprattutto, ad ammorbidire il rigor teutonicus di Angelona Merkel, nell’illusione che l’inflessibile cancelliera elemosini al suo fedele cagnolino italico da riporto chissà quali concessioni…
Nel menù di prossima presentazione, in un imbarazzante dilettantismo [QUI], sono comprese una serie di misure raffazzonate il cui finanziamento consiste in un piano svendite di dubbia costituzionalità (il Governo non può disporre a piacimento dei beni di Regioni e Comuni), oltre ad un premio fedeltà per la premiata ditta Casini-Caltagirone, con una pioggia di miliardi per i Signori del mattone, opportunamente esentati (come le fondazioni bancarie) dal pagamento dell’IMU. Ma il piatto forte dell’indigeribile ricettario Monti-Fornero è una controriforma del lavoro, che qualora fosse esportata in Germania provocherebbe un’insurrezione popolare…
«Il 22 giugno, quando Angela Merkel verrà a Roma, lui e Hollande le ricordino che lei è una tedesca dell’est, e che la Germania ci ha messo più di 10 anni e di 2 miliardi di euro (al confronto, quelli dati finora alla Grecia sono spiccioli) per riportare l’est, e non ancora del tutto, a un livello comparabile con il resto del paese. Le ricordi che Helmut Kohl cambiò il marco dell’est 1 a 1, facendo infuriare la Bundesbank il cui presidente subito dopo si dimise. Ma Kohl era uno statista e aveva una visione politica, mentre Karl Otto Pohl ragionava solo da tecnico. Kohl non ha detto ai tedeschi dell’est “adesso riducete i voltri salari della metà, poi vi aiuteremo”, come Merkel e i suoi sodali stanno facendo con i paesi in difficoltà. Le ricordi, Monti, che i greci, i portoghesi, gli spagnoli, sono europei, proprio come i tedeschi dell’est. O siamo ormai ridotti a considerare l’Europa solo come un grande mercato? La convinca, soprattutto, che sta trascinando tutti verso un disastro, che al minimo sarà una lunghissima depressione, ma che potrebbe avere anche conseguenze imprevedibili e drammatiche.»
Carlo Clericetti
(07/06/2012)
In attesa di conoscere in dettaglio quale supplizio ci verrà riservato per l’esecuzione della sentenza, ci si crogiola nell’illusione di addivenire ad un compromesso, tramite le armi spuntate di una contrattazione a latere, con la Germania dell’indisponibile Merkel, la cui miopia politica è pari soltanto alla sua intransigenza mutuata da un inflessibile rigorismo d’ispirazione protestante.
È singolare in tal senso che tutte le speranze per il risollevamento della Grecia (ed il suo “inquadramento” all’ortodossia) siano riposte nel partito conservatore, Neo-Democratia, che ha precipitato il paese ellenico nel caos, falsificandone i bilanci e saccheggiandone le casse, per poi far cadere l’ultimo esecutivo (socialista) con un’opposizione serrata ai piani di rientro dal debito promossi dalla UE. Evidentemente, l’approccio al problema greco è assai poco ‘tecnico’ e molto più ‘politico’ (ideologico) di quanto non si voglia ammettere…
E in una riedizione sempre più evidente della “Depressione del 1929”, insieme alle inquietanti analogie con la Crisi di Weimar, forse è il caso di prestare maggiore attenzione di quanto non si sia fatto finora alla Weltanschauung germanica per comprendere meglio con chi in realtà si ha a che fare… Una prassi consigliabile soprattutto agli esangui progressisti dell’Europa meridionale, che si illudono di trovare una sponda nei socialdemocratici di un Paese, avvezzo alle ‘grosse koalition’ dove le differenze politiche e programmatiche diluiscono fino a scomparire.
Sensibili ai richiami storici del periodo che più di ogni altro si avvicina alle miserie del tempo presente, sarà il caso di riportare le considerazioni che proprio un tedesco, lo storico Joachim Fest, nella sua monumentale opera dedicata alla biografia di Adolf Hitler, dedicò alla “consequenzialità tedesca” con la sua aspirazione politica apolitica, attraverso un’insanabile “perdita di realtà”, che più di ogni altro spiegano la potenziale psicologia di un popolo e della sua Cancelliera…
«Dalla durezza nei propri confronti derivava la giustificazione della durezza nei confronti altri, e la capacità, letteralmente pretesa, di camminare sui cadaveri era preceduta dal sacrificio del proprio io […] nella cui compiaciuta brutalità è sempre all’opera un travolgente risentimento sociale, intellettuale o umano, che per quanto debolmente aspira alla comprensione.
L’aspirazione morale era integrata e sovrastata dalla convinzione di essere portatori di una particolare missione: dal sentimento cioè di essere implicati in uno scontro di dimensioni apocalittiche, di obbedire ad una “legge superiore”, di essere gli agenti di una idea, di rispondere insomma alle immagini ed alle parole d’ordine di una coscienza propriamente metafisica.
[…] La deficienza in fatto di comprensione umana…. null’altro era se non l’espressione di tale perdita di realtà. Era questo l’elemento davvero inequivocabile, caratteristicamente tedesco…. ed è lecito ritenere che da esso parta più di un filo che si prolunga bene addentro al passato tedesco.
[…] Dalla sua posizione geografica centrale, al popolo tedesco già precocemente erano venuti gli stati d’animo di chi si sente accerchiato, di chi è sempre sul chi vive, che avevano trovato una terribile conferma nella Guerra dei Trent’anni, allorché il paese si era trovato ad essere trasformato in un deserto solo scarsamente abitato. Il retaggio più gravido di quel conflitto fu la traumatica sensazione dell’essere abbandonati al proprio destino, nonché una profonda paura per tutti gli stati di caos, che per generazioni e generazioni sono state mantenute e sfruttate dai ceti dominanti indigeni e stranieri. La pace, che era considerata il primo dovere del cittadino, era considerata in pari tempo anche la prima richiesta posta dal cittadino alle autorità. Queste si sentivano chiamate a tener lontani dal paese paura e disastro, e l’ideologia della classe dominante protestante ha portato acqua a questa visione delle cose. […] Le categorie, così irresistibilmente suggestive per la coscienza tedesca, dell’ordine, della disciplina e del rigore nei propri stessi confronti…. traggono origine da siffatte, indimenticabili, esperienze storiche…. che visibilmente evocava(no) il radicato istinto di difesa contro situazioni di caos.
[La Germania…] ha disseminato ovunque rocciosi ammassi di pensieri con le quali le epoche future hanno potuto erigere i propri edifici. Il radicalismo intellettuale della Germania era senza pari, ed era questa caratteristica a conferire allo spirito tedesco grandezza e una tipica intrepidità. Ma per quanto attiene alla realtà, esso era poco più dell’incapacità ad atteggiamenti pragmatici, in cui pensiero e vita apparissero conciliati e la ragione divenisse ragionevole. Era cosa di cui poco si curava lo spirito tedesco che era, nella vera accezione del termine, asociale e in sostanza non è mai stato né a destra né a sinistra, bensì soprattutto in celebrata contraddizione alla vita: incondizionato e concentrato in se stesso, sempre nell’atteggiamento “non posso altrimenti”, con la sua pressoché apolitica “tendenza agli abissi intellettuali” (Thomas Mann), stando ai cui margini, più che scorgere la banale realtà umana, si vedevano precipitare eoni e procelle universali; e, per quanto riguardava la vita, questa era rimessa all’aiuto divino.
[…] Il disprezzo per la realtà corrispondeva ad una disistima sempre più marcata per la politica…. e a tutt’oggi il pensiero politico in Germania ha conservato alcunché di quelle solenni tonalità grazie alla quale esso si sa, sia moralmente che intellettualmente, al di sopra della realtà comune. Sottesa a questo atteggiamento, allora e in seguito, v’è stata l’aspirazione ad un ideale di “politica apolitica”, che rifletteva la debolezza frutto di un’impotenza politica perdurante immutata. A parte una piccola minoranza, costantemente costretta, l’opinione pubblica in Germania non ha avuto rapporti con la politica, e non di rado anzi ne ha ricavato confusione e imbarazzo: la politica è rimasta sempre una faccenda di difficile comprensione, cui ci si obbligava a credere e, secondo un’opinione diffusa, un motivo di estraniazione da sé.
[…] È uno stato d’animo che ha trovato il proprio culmine spirituale, fitto di contorte confessioni nelle “Considerazioni di un impolitico” di Thomas Mann pubblicate nel 1918, le quali si ergevano a difesa della fratellanza tedesca…. alla tradizionale aspirazione della politica apolitica.»
Jaochim Fest
“HITLER. Una biografia” [Pag.543 e ss]
Garzanti Libri – Milano 2005
Non sembrerebbe che sia cambiato poi molto…
Il bionico prof. Monti avrà bisogno molto più di una buona dose di fortuna e dovrà portare in pegno agli appetiti rigoristi della Merkel ben più della proverbiale libbra di carne… la nostra!
(36) Cazzata o Stronzata?
Posted in Zì Baldone with tags Banche, Carlo Clericetti, Debito, Democrazia, Europa, Finanza, Liberthalia, Mario Draghi, Mario Monti, Mercati, OCSE, Tecnocrazia, UE, Wall Street Journal, WSJ on 27 febbraio 2012 by Sendivogius“Classifica FEBBRAIO 2012”
“Ce lo chiede l’Europa..!”
Di tutte le stronzate (o cazzate), l’allocuzione europeista trascende i periodi temporali e non invecchia mai. È l’oncia di vasellina, a prova di scadenza, che solitamente accompagna ogni manovra tecnica o sperimentale che sia, nell’ormai consueto stupro dei corpi sociali.
Fino a prova contraria, “l’Europa” è un continente. Solitamente, “l’Europa” non scrive lettere ai governi; non verga diktat strategici da eseguire seduta stante e senza obiezioni. E, d’altra parte, in Europa non esistono organismi rappresentativi (e democratici) con un potere coercitivo vincolante nei confronti dei popoli sovrani. Certo non dispone di una simile autorità il Parlamento europeo e neppure la Commissione, in quanto sommatoria di una serie di interessi nazionali, dove gli Stati più forti (leggi Germania) fanno la differenza.
Sarebbe più esatto dire che a chiedere maggiori “sacrifici” con la solita incetta di tagli al finanziamento delle politiche sociali, regressione dei diritti, e privatizzazioni selvagge, secondo una ricetta monetarista tutta politica (e vecchia di almeno 30 anni), sono innanzitutto i banchieri, ansiosi di recuperate i crediti erogati ai tempi allegri della finanza derivata, e i “mercati internazionali”… ovvero la pletora di fondi d’investimento insieme ai grandi trust del capitale finanziario, che la crisi attuale hanno generato e fomentato con le loro speculazioni, in nome della deregulation. Evidentemente, tutti convinti che la “modernità” risieda nel ritorno alle condizioni sociali di primo ‘900 e il conflitto consequenziale a simili sperequazioni vada contenuto attraverso un inasprimento del controllo repressivo.
Le lettere dall’Europa, generalmente, vengono scritte sotto dettatura da una ristretta oligarchia di tecno-burocrati a stipendio pubblico ed incarichi in società private, incuranti dei conflitti di interessi che la tacita commistione genera. Può capitare poi che questi stessi “tecnici” vengano investiti di responsabilità governative e applichino le stesse prescrizioni da loro stessi formulate in altra sede, come se si trattasse di figure distinte, giustificando l’imprescindibilità della cura col fatidico “ce lo chiede l’Europa”, nell’assoluta identità di mandante ed esecutore delle “manovre tecniche”.
È interessante notare che quando gli istituti di credito vedevano rifondere dagli Stati i loro debiti di bilancio con miliardi di euro pubblici, provvedendo immediatamente ad aumentare i bonus di quei manager che li avevano condotti sull’orlo del fallimento, nessuno dei Soloni della finanza ebbe niente da eccepire sullo sperpero di risorse pubbliche e sull’erogazione a fondo perduto di soldi in uscita che avrebbero gravato sui saldi dei bilanci statali, incrementando il famigerato deficit sul PIL.
In questa prospettiva è ineffabile il tandem dei due Mario Bros, targati Goldman Sachs, che si passano la staffetta tra loro. Come funzionari europei scrivono di comun concerto la famosa letterina al governo fallimentare di B. con un vero e proprio programma politico, spacciato però per tecnico. Da mittenti del programma, si sostituiscono al destinatario, provvedendo alla sua messa in pratica. Vanno in pellegrinaggio a Wall Street e nella City di Londra, come moderni Mosé sul Sinai, e scolpiscono le loro personali “tavole della legge”. Il giorno dopo il principale organo stampa che alle borse anglosassoni fa capo, l’ultrareazionario WSJ, certifica il decalogo stilato per procura dalla coppia Monti-Draghi a nome del Dio Mercato. Tornati alle rispettive poltrone, BCE e Consiglio dei Ministri, i due tecnocrati possono dire: “Visto? Ce lo chiedono l’Europa e i mercati”. In realtà, si limitano a ripetere quanto opportunamente suggerito dai due in trasferta.
Ultima specialità della premiata ditta brussellese è il recente rapporto dell’OCSE, specializzata nel sostenere una tesi ed il suo esatto contrario a seconda della convenienza delle circostanze…
Tecnostrutture all’attacco
di CARLO CLERICETTI
(24 febbraio 2012)
«Un pesante uno-due. Prima Mario Draghi, che nell’intervista al Wall Street Journal dichiara morto il modello sociale europeo. Subito dopo l’Ocse, con un rapporto in cui il capitolo sull’Italia sembra scritto sotto dettatura (di Mario Monti?) e ci prescrive privatizzazioni e meno tutele sui contratti di lavoro standard. Il pressing delle tecnostrutture per orientare le scelte politiche si fa sempre più intenso, ma purtroppo batte sempre sugli stessi tasti, mentre appare assai più distratto su altri argomenti che pure meriterebbero qualche attenzione. È forse il caso di ricordare ogni tanto che la crisi che dura ormai da quattro anni e di cui non si intravvede ancora la fine non è stata provocata né dal modello sociale europeo, né dalla proprietà pubblica o privata delle imprese di servizi e tanto meno dalla presunta rigidità dei contratti di lavoro. La crisi è stata provocata da un sistema finanziario globale del tutto fuori controllo, che ha tuttora bisogno di tassi sottozero per non bloccarsi – ossia dell’aiuto degli Stati – e che ciò nonostante nella maggior parte dei casi macini profitti che si traducono in compensi stellari per un pugno di manager. Intanto le Borse sono tornate sui massimi di inizio crisi: ma non dovevano riflettere l’andamento dell’economia reale? Ma allora l’economia reale sta andando benissimo e non ce ne siamo accorti? E quella ventina di milioni di posti di lavoro (nella sola area Ocse) che mancano all’appello rispetto al periodo pre-crisi?
Dal governatore della Bce ci si aspetterebbe che parlasse, più che di modelli sociali, di regole per la finanza. Lo stesso Draghi, nella sua veste di presidente del Financial Stability Board, ne ha proposte varie che restano tutt’ora lettera morta. Non sarebbe il caso che insistesse su quelle? Non dovrebbe, ad ogni sua uscita pubblica, ricordare che molti dei fattori che hanno provocato la crisi, e che sono stati individuati anche da quell’organismo da lui presieduto, sono ancora com’erano nel 2007? I commercialisti italiani (e, si suppone, anche quelli di altri paesi) ricevono pubblicità dai paradisi fiscali in cui si specifica che “per quanto possibile, si agisce in modo legale” e questo fatto non viene ritenuto rilevante dall’OCSE e dalla BCE?
L’Ocse, poi, quando parla di flessibilità del lavoro dovrebbe fare molta attenzione. C’è chi ricorda che nell’ormai lontano 1994 l’organizzazione pubblicò un ponderoso rapporto di quasi 500 pagine, il Jobs Study, che sarà la base delle concezioni – anche attuali – di come governare il mercato del lavoro. I punti essenziali erano che le politiche macroeconomiche non servono per aumentare l’occupazione, che si debbano eliminare protezioni contro i licenziamenti, che la contrattazione dev’essere strutturata in modo da consentire la flessibilità dei salari verso il basso. Ma qualche anno dopo la congiuntura favorevole generò un forte aumento dell’occupazione: tra il ’97 e il 2001 in Europa si crearono oltre 10 milioni di nuovi posti.
Così, nel rapporto sulle prospettive dell’occupazione del 1999 la prospettiva cambia radicalmente. In generale, vi si dice, i paesi europei hanno mantenuto lo stesso livello di protezione del lavoro, anzi “la quasi totalità dei paesi ha imposto vincoli aggiuntivi alle imprese nei casi di licenziamenti collettivi (…) I confronti internazionali suggeriscono che il livello di protezione dell’occupazione ha effetti scarsi se non nulli sui livelli di disoccupazione globale, mentre può averne piuttosto sulla sua composizione demografica (…) Le analisi statistiche, basate sulle regressioni, confermano che la protezione dell’occupazione può avere un effetto positivo sul tasso di occupazione dei lavoratori più anziani, senza comportare effetti negativi sugli altri gruppi“.
Oggi l’Ocse sembra aver dimenticato quella sua analisi, per tornare indietro a quella del ’94. È successo qualcosa che ha fatto cambiare nuovamente idea? Sembra vero il contrario. Come si sa, oggi il solo paese che può vantare una disoccupazione inferiore (seppur di poco) ai livelli pre-crisi è la Germania, campione del modello sociale europeo, mentre gli Usa, campioni della massima flessibilità di lavoro e salari, ne sopportano ancora un tasso quasi doppio rispetto al 2007.
Queste esternazioni, dunque, si potrebbero definire “le ricette separate dai fatti”. Peccato che poi i fatti continuino a chiedere il conto, un conto molto salato.»