Archivio per Alessandro De Angelis

Il Canto del Cigno

Posted in Muro del Pianto with tags , , , , , , , , , , , , , on 16 febbraio 2020 by Sendivogius

Il partito aziendale della Casaleggio Associati, sedicente “moVimento”, sta morendo… Finalmente!
Il vero problema è quanto ci mette a farlo.
Sarà una lunga e dolorosa (per loro) agonia; non il travaglio di un parto per dar vita ad una cosa nuova, ma lo strazio di un trapasso che tarda ad arrivare, nel prolungamento della recrudescenza terminale di un decesso annunciato e solo rimandato, attendendo improbabili risvegli.
Sarà una lunga notte, con un Paese nel frattempo tenuto in ostaggio da uno zombie putrescente che proprio non vuole morire, in attesa di sprigionare le sue tossine residuali dopo la grande infezione, per l’implosione dei gas fermentati all’interno di un corpo a-social in decomposizione: un ultimo ributtante schizzo di merda, umori fetidi, marciume purulento e frattaglie sparse, a vivacizzare il set horror per comparse stanche da vecchia politica post-populista.
Street TrashCe ne regaleranno ancora delle brutte, mentre i garruli messia del nulla a 5 stelle, discesi dalle loro auto blu, raschiano i rancori irranciditi, il revanchismo forcaiolo, ed il fanatismo settario, dal fondo del pentolone in cui apprendisti stregoni hanno cucinato a lungo l’immondo pastone, per bimbiminkia arrabbiati in cerca di identità.

Con le auto blu contro i vitalizi

Una gigantesca rimozione avvolge la piazza M5S, uno zoccolo duro rabbioso vuole urlare il suo “non siamo morti. “O-ne-stà o-ne-stà” come litania di un esorcismo, per fugare i demoni di una clamorosa crisi identitaria.

di  Alessandro De Angelis
(15/02/2020)

 «In piazza con le auto blu, per contestare i vitalizi degli altri. Qualcuno che, per non farsi vedere, si fa lasciare nelle vie accanto e arriva a piedi, col vestito che pare ritirato dalla stireria. Luigi Di Maio che, alla fine, attraversa tutta la folla per concedere selfie proprio come fa Matteo Salvini. Ci mette mezz’ora, ma all’angolo con piazza Venezia c’è la macchina che lo aspetta: blu. Simbolo di un potere diventato privilegio, quando si accomodano gli altri. Veicolo per la rivoluzione contro la Casta, quando trasporta le terga pentastellate. Che poi è la stessa logica dei vitalizi, oggetto di questa manifestazione: in verità sono stati già aboliti nel 2011, quando si è passati a un sistema “contributivo” come nel resto del mondo, ma in mancanza di altri argomenti adesso ci si scaglia contro i diritti acquisiti col precedente sistema, tanto riguardano gli altri.
Eccola, Piazza Santi Apostoli, diventata per un pomeriggio la piazza di Nostra Signora dell’Ipocrisia. Piazza piena, nulla a che vedere con le dimensioni di quelle di una volta, tipo San Giovanni e Circo Massimo, riempita non spontaneamente, ma con pullman da tutta Italia, come facevano gli odiati partiti di massa. Piazza del rigurgito identitario, “incazzata”, in un clima da ritorno alle origini. Piazza di uno zoccolo duro rabbioso che vuole urlare il suo “non siamo morti”. Poca musica, assordanti trombette da stadio, “o-ne-stà o-ne-stà”, come litania di un esorcismo per fugare i demoni di una clamorosa crisi identitaria. Pochi giovani, cartelli “non ci arrendiamo”, “no alle alleanze”. Fischi per Salvini, Renzi odiato più di lui, insofferenza per il PD, innominato Conte, l’animal spirit del popolo è “contro”: è la pulsione prepolitica ad aggrapparsi a irrinunciabili bandiere, col manicheismo di chi non vuole vedere ciò che è successo. È il “noi siamo noi”, né di destra né di sinistra, col paradosso che proprio il motivo della crisi diventa zavorra a cui aggrapparsi.
“Colpa degli altri”, sempre e comunque, se ciò che è giusto non è stato compreso dagli italiani. E ritorna la rabbia verso i giornalisti, alcuni in particolare come chi scrive, la collega di Repubblica o l’inviato delle Iene: “pennivendoli” che non scrivono la “verità”, perché così vogliono i loro padroni. Torna la sindrome del complotto, da parte delle televisioni che “oscurano il Movimento”, e poco importa che il servizio pubblico è ancora governato secondo la spartizione attuata dal Governo gialloverde. Anche questa è cultura dell’odio e dell’invidia sociale, per cui non esiste libertà di pensiero o lavoro intellettuale, ma solo privilegi di ben remunerati servi di opachi padroni.
In questa piazza di “resistenza”, che già ha lo spirito della ridotta identitaria, c’è un istinto prepolitico che non è un’idea di paese, e con esso l’illusione, anzi l’autoillusione, che si possa essere “contro” il Sistema una volta che si è diventati Sistema, senza cadere nella trappola di essere contro se stessi, sia pur a propria insaputa.
Guardateli i ministri e i sottosegretari che arrivano da una via laterale, tutti con l’abito blu e la camicia bianca, gli unici senza cravatta Di Maio e Bonafede, imborghesiti dalla Roma del potere che sa rivestire i barbari con le griffe dei padroni. Mentre i ragazzi delle scorte vigilano discreti. Indugiano compiaciuti nella selva di telecamere, ormai avvezzi a parlare senza dire, a giustificare e a giustificarsi in nome dell’imperituro “bene del paese”. Loro tutta questa rabbia non ce l’hanno più, ma hanno la necessità di mobilitare il popolo per arginare una crisi spaventosa. Non è vero che il potere logora chi non ce l’ha. Logora anche chi ce l’ha nella paura di perderlo. I ministri più filo Pd, da Patuanelli a D’Incà, vengono tenuti sotto il palco, Bonafede e Di Maio, in fondo, non forzano neanche più di tanto. Però sventolano con orgoglio le bandiere storiche, contro i vitalizi e a difesa dell’abolizione della prescrizione, il che consente di gonfiare il petto identitario, ma senza scuotere più di tanto il fragile equilibrio governativo.
Parliamoci chiaro: una gigantesca rimozione avvolge il tutto, affogata nella retorica del “siamo una forza che non si può abbattere” e del “si cambia passo dopo passo, dopo 50 anni di politica che ci ha distrutto”. La rimozione della sconfitta, delle scelte fatte e di quelle da fare, degli alleati passati e di quelli presenti, del Conte 1 e del Conte 2, e più in generale di Conte, rimasto pressoché innominato. E, come diceva Peppino, “ho detto tutto”.
A questa piazza e a questo palco, che non ha ancora digerito il “tradimento” di Salvini, si capisce che il nuovo quadro non piace, come non piace la politica delle alleanze. E questa “terza fase” del Movimento, aperta dopo le dimissioni di Di Maio, vissuto ancora come il Capo dal suo popolo a piazza Santi Apostoli, appare come il tentativo di congelare il travaglio, nell’evocazione del grande futuro alle spalle, sotto forma di battaglia contro i vitalizi. Il travaglio di una forza dentro la quale si è aperta una confusa dialettica tra destra e sinistra. Di Maio scravattato che richiama i principi fondamentali, sia pur ammaccato è il simbolo non di una “evoluzione”, ma dell’equivoco costitutivo che si ripropone, il non essere né di destra è di sinistra, che incrocia un sentimento popolare. Di quel popolo.
La piazza racconta questa “connessione sentimentale” conl’ex capo del Movimento. Chi è rimasto si aggrappa all’identità, ai miti della sua non lunga storia, alle sue bandiere. Il Governo viene dopo, non scalda, è vissuto come uno stato di necessità più che come l’incubatore di una prospettiva. Il “noi” c’era, gli “altri” neanche nominati

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Letture del tempo presente (IV)

Posted in A volte ritornano, Kulturkampf with tags , , , , , , , , , on 15 dicembre 2019 by Sendivogius

La voglia dell’uomo forte

Le minacce di crisi sugli spiccioli e la repentina salita al Colle di Conte sono l’ennesima fotografia di un governo fermo in un paese fermo. Si spiega così il Censis: la crisi di sistema genera l’uomo forte e non viceversa.

  di Alessandro De Angelis
  (06/12/2019)

«Non c’è da scomodare la Repubblica di Weimar, per spiegare il rapporto del Censis, con “l’attesa messianica dell’uomo forte”, che sgorga dalle viscere della società italiana.  
[...] La parola che domina il rapporto annuale del Censis è “incertezza” (l’anno scorso era “cattiveria”, l’anno prima “rancore”), determinata dalle mutate condizioni sociali, dall’ansia di dovercela fare da soli, indeboliti i canali tradizionali di protezione, dalla sfiducia verso partiti e politica. Incertezza è la parola chiave per raccontare la politica italiana in questa fase. La giornata di oggi è paradigmatica, con una lite su quattro spicci fino al punto di evocare il voto, la drammatizzazione di una salita al Colle, uno dei protagonisti, stavolta Renzi, come ieri poteva essere Di Maio che annuncia il proseguo del ballo per il prossimo anno “ne vedremo delle belle”, dopo aver una giornata in cui ha portato al parossismo la strumentalità della sua azione, perché non si è mai visto che, per piantare una bandierina, si minaccia la crisi sulla plastic tax.
Tutto questo è la cronaca di una palude, di governo fermo, in un paese fermo o se preferite di un paese senza governo. Il governo è incapace di decidere dalla prescrizione al Mes, dall’autonomia all’Ilva ad Alitalia, in una dinamica litigiosa in cui nessuno ha la forza, la leadership e il coraggio di assumere una iniziativa e, ognuno, nella sua debolezza riesce solo a minacciare. Anche il voto, come se fosse uno sparo a salve, proprio sapendo che nessuno ha convenienza ad andarci. Questo accade in un paese la cui drammatica crisi è attestata dai quotidiani dati sull’economia reale, l’ultimo di ieri di Federmeccanica che attesta il 3,12 in meno di produzione industriale.
Ecco, nascono da qui, da questo intreccio sistemico, le pulsioni di cui parla il Censis, senza scomodare Weimar o il ’29. È la crisi di sistema che produce il desiderio di uomo, non l’uomo forte che produce la crisi di sistema. Non è l’iniziativa politica di Salvini che sta terremotando il quadro, anche perché a ben vedere questa iniziativa non c’è. Al netto del tasso di propaganda quotidiana siamo di fronte a un’opposizione che non alimenta il conflitto sociale, mostrando in definitiva di non avere fretta di tornare al governo, in una situazione così delicata: enormi grane sul tavolo, come Ilva e Alitalia, casse vuote, soprattutto in relazione alle promesse del “meno tasse per tutti”, un rapporto difficile con l’Europa. In fondo a Salvini va bene così e sceglierà, senza fretta, il momento propizio per andare al voto: gli bastano 15 senatori dei cinque stelle che già ha e il gioco è fatto.
 E allora, Salvini o non Salvini, il punto è altro. Magari il governo andrà avanti nell’incastro perfetto di debolezze e minacce e non ci sarà la “crisi di governo”, ma sta saltando il paese. È in atto una crisi più profonda anche perché non è governato. La democrazia entra in crisi proprio se non è capace di decidere, a maggior ragione in una società così frenetica e presentista. Ecco il pericoloso desiderio di semplificazione dei processi di decisione, per cui, se si va avanti così, il paese si affiderà a chi chiederà pieni poteri, sia esso Salvini o un altro, in un’Italia, come il resto del mondo, dominato dalla precarietà e dalla paura. E chi ha paura non è avvezzo ad affidarsi alla processualità e alla delega, figuriamoci a chi, dopo novanta giorni, non ha ancora affidato le deleghe ai sottosegretari, ovvero non è nel pieno della sua operatività, neanche formale

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